LA (IN)SANITA' DELLA BINDI

di Eros Capostagno

L'ultimo atto compiuto dall'ex Ministro della Sanità, Rosy Bindi, prima di essere sbattuta fuori, è stato quello di obbligare i medici ospedalieri ad effettuare le visite private (a pagamento) all'interno della struttura ospedaliera invece che in studi privati esterni, oppure a dimettersi dagli ospedali.

Ovviamente la maggior parte dei medici specialisti è stata costretta a sottomettersi, non essendo concepibile la rinuncia al bagaglio professionale che solo la pratica ospedaliera può dare, se non per coloro ormai giunti alle soglie della pensione.

A prima vista questa riforma non ci aveva particolarmente allarmato, dal momento che, almeno in apparenza, ben poco sarebbe cambiato. Per il paziente infatti, il costo della prestazione rimane invariato, mentre il medico, invece di sobbarcarsi il costo di uno studio privato e delle relative apparecchiature, versa una percentuale sulle visite all'ospedale stesso, sostanzialmente senza rimetterci nulla.

Ci sembrava una grande riforma di principio, che non cambiava nulla nella pratica, insomma. Oltretutto siamo abituati all'Olanda, dove non esistono studi specialistici privati, tutte le visite avvengono in ospedale e non vi è differenza alcuna tra visite "a pagamento" e visite a carico del sistema sanitario nazionale. Prenotazioni, ambulatori, medici, il sistema è unico ed indifferenziato. Sistema più socialista che liberale, potremmo obiettare, ma comunque efficiente e pienamente decoroso, con ospedali dotati di appositi padiglioni ambulatoriali per ogni reparto.

L'unico problema, in questo sistema, è costituito dalle spesso lunghe liste di attesa, non aggirabili col ricorso alle visite private a pagamento, come avviene di norma in Italia. Ragion per cui quando siamo in Italia, ne approfittiamo per sottoporci ad eventuali visite specialistiche (a pagamento).

Ecco perché, in occasione delle recenti vacanze estive in Italia, abbiamo avuto modo di sperimentare sulla nostra pelle gli effetti della riforma Bindi, nel corso di una visita specialistica. La visita si è svolta nel tardo pomeriggio presso l'Ospedale Civile di una cittadina di provincia di cui apprezziamo da molti anni sia l'efficienza che il buon livello del personale e delle attrezzature.

Siamo dunque rimasti un po' perplessi nello scoprire che la visita avrebbe avuto luogo in una stanza-ambulatorio posta nella corsia del reparto ospedaliero competente, in mezzo alle stanze dei degenti. La scoperta non è stata agevole in verità, perché in assenza di qualsiasi segretaria del medico o di sportello "accettazione", o anche di un semplice cartello indicatore, abbiamo dovuto cercare lungo tutta la corsia qualcuno che indossasse un camice bianco (o verde) per far sapere che avevamo un appuntamento e chiedere indicazioni sul da farsi.

Il "da farsi" è molto semplice: "Aspetti qui, ché cerco il dottore!". Ed il dottore in effetti poco dopo arriva e ci conduce nella stanza-ambulatorio, facendoci osservare con un certo imbarazzo che non è vero che non c'è nessuna indicazione: sulla porta della stanza c'è ben scritto "ambulatorio". Certo è scritto a mano con un pennarello, sul montante superiore del telaio della porta, facilmente visibile ad un Watusso di due metri, un po' meno al nostro metro-e-sessantasei, ma... "Sa, dobbiamo arrangiarci come possiamo!".

La visita si svolge normalmente, e tutto sarebbe risolto se un banale contrattempo non impedisse di svolgere un semplice esame finale. Nessun problema, tuttavia: "Venga dopodomanimattina alle 10.30 e faremo l'esame senza altre formalità", ci rassicura il medico. E qui comincia il dramma.

Alle 10.30 del mattino infatti, come in tutti gli ospedali, il Primario ed i suoi assistenti effettuano la quotidiana visita dei degenti del reparto, ragion per cui la porta vetrata del reparto viene chiusa dopo aver fatto uscire tutti i parenti dei malati, e non viene aperta nemmeno suonando il campanello. In realtà anche riuscire a suonare il campanello è impresa quanto mai ardua, visto che i suddetti parenti rimangono tutti accalcati davanti alla porta, nella speranza di riuscire furbescamente ad entrare non appena si apra la porta per il passaggio di qualche infermiera.

Inutile dire che il nostro tentativo di suonare il campanello e di entrare, viene interpretato dalla folla come il tentativo di "un furbo che cerca di essere più furbo degli altri", con il nascere quindi di quelle situazioni incresciose che ognuno può facilmente immaginare.

Riusciti comunque a varcare la soglia, l'equivoco continua e veniamo ripetutamente apostrofati con aria schifata da gente in camice bianco (o verde) di passaggio, che ci scambia per i furbi di cui sopra: "Vi ho già detto di aspettare fuori!". Naturalmente facciamo finta di niente.

A differenza della sera precedente, ove il reparto era ormai calmo, l'effettuazione della nostra visita si rivela estremamente difficoltosa, prima perché il personale è indaffarato e dimentica di avvisare il medico della nostra presenza, poi perché il medico stesso è impegnato col Primario nel giro del reparto, poi ancora perché il medico ci prega di avere pazienza trattandosi "di una mattinata d'inferno...", poi ancora perché l'apparecchiatura per l'esame è occupata per la normale routine ospedaliera.

Arriviamo così a mezzogiorno e siamo ancora in piedi, avendo cortesemente ceduto la nostra sedia nella corsia (ce ne sono solamente quattro) ad una persona anziana. In quest'ora e mezzo di attesa abbiamo assistito a di tutto un po', compreso un via vai di operai intenti a sostituire un frigorifero!

A mezzogiorno poi, quando il "nostro momento" sembra finalmente giungere, la comica finale. Capita infatti la cosiddetta "urgenza": dal Pronto Soccorso arriva un poveraccio in barella, spinto velocemente verso la sala operatoria, inseguito da Primario, infermieri e medici. Tra questi anche "il nostro", che si eclissa di nuovo scusandosi: "Scusate, ma c'è un'urgenza!".

Inutile nascondere che un certo malumore si diffonde tra la gente in attesa. Noi riusciamo a tenercelo dentro, qualcun altro non ce la fa e viene apostrofato con disprezzo da un'infermiera: "Vorrei vedere se ci fosse lei su quella barella!". Osservazione degna della migliore Rosy Bindi, alla quale sarebbe inutile chiedere se, nella sua riforma avesse previsto e regolato questa commistione perversa di funzioni, luoghi e tempi tra pubblico e privato.

Poco prima dell'una il nostro medico si rende finalmente disponibile e, scusandosi ancora perché "Questa mattina è un inferno!", ci conduce in una saletta-ambulatorio ove è già presente un altro medico con un altro paziente. Nessun imbarazzo: "Se non le dispiace, così non perdiamo altro tempo...". Inizia così il nostro esame, avendo come unica protezione della privacy nostra e dell'altro paziente un minuscolo paravento (alla faccia del Garante).

Abbiamo detto "inizia", perché in effetti l'esame sarà condotto da un'infermiera, visto che il medico viene quasi subito riassorbito dalle sue attività ospedaliere (per inciso, l'esame non era certamente complicato ma, insomma, noi avevamo pagato uno specialista per effettuarlo!).

Fine della cronaca, vera, rigorosamente vera. E ribadiamo che si tratta di un buon ospedale, che ha tutta la nostra considerazione, e che è di livello sicuramente superiore alla media. Inutile cercare di immaginare come possano andare le cose in strutture sotto la media.

Ora, fatta salva l'amabilità personale e la competenza professionale del medico, dopo questa esperienza abbiamo cercato di fare un bilancio di questa ennesima riforma all'italiana, almeno per tentare di capirne le motivazioni.

Per il medico, come abbiamo detto in apertura, non cambia praticamente nulla dal punto di vista economico. Cambia dal punto di vista umano in quanto egli si vede costretto a scusarsi ripetutamente con i suoi clienti per le carenze logistiche e organizzative, di cui non ha alcuna responsabilità e su cui soprattutto non ha alcun controllo.

Per l'Ospedale, si tratta di ricavare una percentuale sulle visite private effettuate, ma non crediamo che questi introiti supplementari permettano di ridurre in maniera sensibile i deficit cronici delle USL mal gestite. Inoltre, per le aziende ospedaliere più serie ed organizzate, si tratterà di dover approntare prima o poi strutture che consentano un esercizio della libera professione in maniera più decorosa di quella che vi abbiamo raccontato, ma non è detto che ciò sia realizzabile dovunque e in tempi ragionevoli.

Per il paziente, povero o ricco che sia, la spesa resta assolutamente identica. Con la differenza che, prima della riforma, con quella spesa egli poteva disporre di un ambiente riservato, di una segretaria-assistente per gli appuntamenti e le pratiche amministrative, e di attese (in salette decorose) limitate all'eventuale protrarsi della visita precedente. Ora, per quella medesima spesa, avviene quanto vi abbiamo raccontato.

Nessuna parte in causa sembra dunque ricavare vantaggi dalla riforma Bindi, piuttosto il contrario: l'efficienza ed il decoro si abbassano sensibilmente. E allora, a quali motivazioni superiori bisognerà risalire?

Tenuto conto delle ben note deprecabili condizioni logistiche (e spesso purtroppo anche igieniche) in cui versa buona parte degli ospedali italiani, ci chiediamo quale spirito perverso possa immaginare di gravare queste stesse strutture con ulteriori carichi amministrativi e organizzativi, senza portarle al collasso e senza degradare ulteriormente la qualità del servizio offerto al paziente (indipendentemente dal fatto che questi paghi personalmente quel servizio o attraverso il sistema sanitario nazionale).

Saremo anche strabici, ma non riusciamo a vedere altro che la solita micidiale accoppiata di pura e semplice incapacità, improvvisazione e superficialità da un lato, e furore ideologico dall'altro. Furore ideologico di stampo cattocomunista che porta a vedere come fumo negli occhi tutto ciò che, pur lontanamente, risuoni di "libero", o di "privato" o semplicemente di "comodo" , di "moderno", di "benessere", in nome di un pauperismo straccione in cui tutti, ad eccezione naturalmente della nomenklatura, dovrebbero rimanere immersi, ed in cui un mal riposto odio di classe mira a distruggere le situazioni di vita "migliori", piuttosto che cercare di innalzare al medesimo livello quelle "peggiori".

La Bindi è stata buttata fuori dai suoi stessi Compagni, e ce ne rallegriamo, ma l'incapacità, l'improvvisazione ed il pauperismo straccione restano il marchio DOC di questi Governi, capaci di sfornare leggi e decreti che, dietro all'enunciato sulla Gazzetta Ufficiale, presentano il vuoto assoluto, visto che nessuno si cura di approntare le relative procedure esecutive o valutare le conseguenze applicative pratiche.

Pensate all'ultimo decreto legge (addirittura un decreto-legge!) che impone ai locali pubblici e agli uffici di modificare immediatamente le strutture architettoniche per creare spazi speciali riservati ai fumatori, o al decreto sul decoder unico per la TV digitale, inapplicabile perché avulso dalla realtà attuale del mercato. O ancora, allo strapotere di qualche Pinco-Pallino di verde che impedisce l'ammodernamento di strade pericolose ed intasate, di ferrovie obsolete, di centrali elettriche, o che impedisce la ricerca scientifica, ..., per non parlare dell'incoraggiamento all'immigrazione e alla criminalità, senza che alcuno si curi delle conseguenze.

Abbiamo ragione di pensare che anche gli Italiani finora incerti abbiano finalmente capito che non c'è alternativa: questa gente va buttata fuori al più presto. E senza tanti complimenti!

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