HITLEROSEVIC

di Tito Livio

Che molti personaggi e sistemi si rendano responsabili di delitti orrendi e di crimini "contro l'umanità", è un dato di fatto. Che solo alcuni di questi diventino, nell'inconscio collettivo, il simbolo del male assoluto, dipende da fattori aggiuntivi, quali elementi emotivi, psicologici, geografici, e soprattutto dalla pubblicistica ad essi relativa.

Hitler ed il nazismo, oggettivamente responsabili di crimini contro l'umanità, sono assurti a questo ruolo simbolico, in virtù di una pubblicistica talmente ampia da oscurare qualsiasi possibilità, per altri "concorrenti", di ambire al medesimo macabro simbolo presso la pubblica opinione.

E' quindi comprensibile che in questi giorni L'Espresso sia uscito in copertina con la foto di Milosevic ribattezzato a caratteri cubitali "Hitlerosevic".

In effetti, per l'opinione pubblica dell'Europa del 2000, i crimini efferati di cui Milosevic si sta rendendo responsabile contro le popolazioni inermi del suo stesso Paese, risultano talmente rivoltanti da far immediatamente associare l'immagine del dittatore serbo a quella del simbolo del "male assoluto": l'impatto psicologico di questa copertina sul potenziale lettore della rivista è certamente assicurato.

Ci piacerebbe però, da parte di una pubblicistica seria, un'analisi dei comportamenti di Milosevic che andasse oltre un superficiale accostamento emotivo. Certo, l'assolutismo, la ferocia, la protervia, la diabolica determinazione, la sfida al resto del mondo, sono caratteri comuni ai due personaggi ma, da soli, essi non basterebbero a differenziarli da tanti altri personaggi nefasti di questo secolo.

In effetti, a ben guardare oltre l'aspetto emotivo e simbolico, similitudini tra il tiranno serbo ed il dittatore nazista ce ne sono poche. Non parliamo naturalmente dei numeri. Se fosse per quelli, le qualche decine di migliaia di vittime (ci si perdoni l'apparente cinismo) trucidate nei Balcani non reggerebbero il confronto con le sei milioni di vittime dell'Olocausto. Le quali, a loro volta, non sarebbero bastate a far conferire al loro carnefice il titolo di "male assoluto", se confrontate con i 32.000.000 (trentadue milioni) di vittime di Stalin, che viene invece ancora oggi guardato quasi con bonaria simpatia.

Non è nemmeno possibile parlare di similitudine sul piano razziale. Al delirio sulla necessità di eliminare la presunta "razza" ebrea, quale fonte di inquinamento della superiore "razza ariana", non ci sembra corrispondere nei Balcani alcuna elucubrazione di carattere genetico o razziale. Tutto qui gira intorno alla questione etnica, al problema della convivenza tra le diverse etnie presenti nella regione balcanica.

Ed anche sulla questione etnica, accostamenti col nazismo sembrano alquanto forzati. Se il nazismo procedeva ad una politica di espansione e di annessione di regioni limitrofe, col pretesto di riunire in un'unica patria gli ariani di lingua tedesca, ci sembra che Milosevic persegua esattamente l'opposto, una sorta di (piccola) Grande Serbia, omogenea al suo interno ed in qualche misura chiusa su se stessa, per realizzare la quale deporta e annienta popolazioni di etnia differente.

Strategie, metodi e (purtroppo) risultati, che sono invece perfettamente in linea con la storia del comunismo di questo secolo, sotto ogni latitudine, e di cui Milosevic sembra un ennesimo, sopravvissuto, interprete.

Abbiamo ricordato i 32 milioni di vittime dell'epoca staliniana: di esse, la maggior parte fu costituita da inermi popolazioni civili, reputate restie ad accettare i nuovi dogmi bolscevichi, ed il cui annientamento fu quasi sempre lucidamente programmato, con la fame, le deportazioni nei gulag, le delocalizzazioni, lo sterminio delle élites. A chi sopravviveva, non restava comunque che la perdita completa della propria identità: quanto appunto sta accadendo in questi giorni nel Kosovo.

Tanto per citare un esempio, nel 1932 le autorità bolsceviche decretarono lo sterminio per fame dei contadini dei kolkhoz del Kazakhistan, dell'Ucraina, del Caucaso del Nord ed altre zone: dopo aver ordinato la requisizione di tutte le riserve alimentari, Stalin e Molotov firmarono il 27 gennaio 1933 l'ordine alle autorità locali ed alla polizia segreta, di impedire ai suddetti contadini affamati, di abbandonare i loro villaggi.

Come riportarono le autorità consolari italiane di Kharkov, ogni notte si raccoglievano almeno 250 cadaveri di persone morte di fame e di tifo, la maggior parte delle quali amputate del fegato, trasformato in una sorta di paté e venduto, da parte dei sopravvissuti. Quanto ai moribondi che si trovavano in città, essi venivano ammassati in vagoni merci e trasportati in treno verso la campagna, a 50-60 Km dalla città, per essere abbandonati in attesa della morte, o essere scaricati direttamente in fosse comuni. Il risultato, solo per la zona di Kharkov, fu di 100.000 decessi nel solo mese di giugno 1933.

Si potrebbero ricordare, quale altro piccolo esempio, anche le deportazioni susseguenti all'introduzione del "passaporto" nelle città, sempre nel 1933, che consentirono alle autorità di rastrellare a Mosca e Leningrado tra il giugno e il luglio ben 18.000 persone, di cui 12.000 perirono nel giro di un solo mese, una volta trasportati sull'isola-gulag di Nazino. Si potrebbe parlare delle deportazioni dei Ceceni, Azeri e delle altre varie etnie dell'URSS, ma fermiamoci qui.

Non vorremmo nemmeno ricordare la Cambogia di Pol Pot, tra il 1975 ed il 1979, per l'orrore che essa evoca. L'evacuazione forzata delle città (tra il 46% ed il 54% della popolazione urbana) e le purghe susseguenti causarono un totale di 2.500.000/3.000.000 di morti. Solo tra maggio e dicembre 1978, nella provincia dell'Est, ritenuta poco fedele perché contigua al nemico Vietnam, furono massacrate tra le 100.000 e le 250.000 persone, su un totale di 1,7 milioni di abitanti...

Il campionario completo degli orrori legati alle deportazioni di intere etnie o gruppi sociali, o al tentativo di annientarli, come voluto e perseguito con lucida freddezza dai vari satrapi del comunismo mondiale, può essere trovato nelle varie edizioni del "Libro Nero del Comunismo" (S. Courtois et al. - 1997).

E parlando della Yugoslavia, non si può non ricordare quanto avvenne alla fine della seconda guerra mondiale, quando furono espulse circa 100.000 persone di lontana etnia tedesca, seguite poi dagli italiani dell'Istria, per non contare quelle direttamente infoibate dalle milizie titine e dai loro sostenitori.

Occorre aggiungere che, dopo il consolidamento del suo potere, Tito intraprese poi un'opera di delocalizzazione forzata di intere etnie, allo scopo di creare quel melting pot che, nelle sue intenzioni, avrebbe dovuto fonderle tutte in un unico popolo "yugoslavo". Purtroppo, il disegno titino è naufragato con la sua morte, ed assistiamo ora nient'altro che alla "indietro tutta" operata da Milosevic: la Serbia ai Serbi e fuori tutte le altre etnie, fuori naturalmente dai territori che Milosevic, a torto o a ragione, reclama per sé. Donde le guerre intestine e le repressioni degli ultimi anni con Sloveni, Croati, Bosniaci, musulmani ecc.

"Hitlerosevic" dunque, se vogliamo identificare il dittatore serbo con l'espressione del male. Purché questo non serva per mascherare ipocritamente la sua vera natura, che discende direttamente dalla tradizione del dispotismo imperialista del comunismo di questo secolo. Dispotismo che, come abbiamo visto, arriva a sacrificare al furore ideologico interi gruppi etnici e sociali, all'interno del proprio stesso sistema, nel più totale disprezzo della vita umana. E con quel cinismo di cui ha dato prova in diretta televisiva il Ministro degli Esteri yugoslavo nella trasmissione "Porta a Porta" di Bruno Vespa del 9 aprile u.s.

Forse, l'appellativo di "Stalinosevic" calzerebbe meglio di quello scelto dall'Espresso.

Comunque, qualunque sia l'appellativo prescelto, ciò che fà raccapriccio è che nel Governo italiano siedano dei suoi sostenitori, che vorrebbero nascondersi dietro la maschera del pacifismo a senso unico, senza peraltro volerne indicare la via.

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