Antonio Montanari
Viva la squola.


1. «Barricati» dietro una cattedra
Ricordi scolastici (dolci ed amari) di quarant'anni fa

Ho cominciato ad insegnare a pieno titolo (ovvero con la laurea appena conseguita) proprio quarant'anni fa. Avevo già fatto due anni prima un'esperienza da docente, quando frequentavo la facoltà di Magistero di Bologna, sostituendo un'insegnante di Lettere trasferita nelle classi differenziali delle Medie, la cui sede era nelle storica residenza della famiglia Sartoni poi demolita per far posto al palazzetto dello sport, vicino allo stadio comunale.
C'era stata la riforma della Media unica, con un incremento considerevole di cattedre, mentre il personale disponibile con il titolo legale richiesto non era sufficiente a ricoprirle tutte. Al Magistero bolognese (nato nel 1955) giungevano offerte direttamente dai Provveditori che pregavano gli studenti di accettare anche le sedi più disagiate, in cambio di uno stipendio modesto che però era più dignitoso di quello d'un tempo, grazie al miracolo compiuto qualche anno prima da Amintore Fanfani. Da capo del governo egli non dimenticò di essere uomo di quella scuola da fame che c'era allora, e provvide a decretare un aumento consistente delle buste-paga del corpo insegnante. E pensare che noi studenti proprio in quegli anni cantavamo alla festa delle matricole una canzoncina nei suoi confronti che diceva: «Io son Fanfani, figlio di Biancaneve e dei Sette Nani», giocando sull'allusione al Biancofiore di democristiana memoria.

Poeti moderni?
Che scandalo
Quella supplenza del 1964 da studente fra studenti (con la preside che m'intimò: «Lei dica che è laureato, altrimenti non la rispettano»), cominciò a gennaio e terminò con l'anno scolastico. L'orario di cattedra prevedeva una prima classe della nuova Media ed un'altra del vecchio Avviamento professionale che concludeva la sua storia.
Due episodi mi sono rimasti impressi di quell'esperienza. Per spiegare il contesto storico-culturale di alcune poesie francesi dell'Ottocento, portai da casa il materiale illustrativo ed un registratore con cui ascoltare musica di Debussy. La sperimentazione didattica non fu gradita. La musica infastidì la preside che entrò in aula per chiedermi di abbassare il volume, e che in sede di scrutinio finale disse con malcelata amarezza: «Oggi fanno studiare anche la poesia moderna».
Il secondo episodio riguarda una vicenda che pur essendo grottesca e di nessun momento, creò uno scompiglio terribile. Una ragazzina della «mia» prima fece scivolare nel corridoio fra le mani di un coetaneo un bigliettino. La bidella si sentì autorizzata a sequestrarlo ed a consegnarlo alla preside, non tanto in nome delle leggi in vigore quanto per il rispetto delle consuetudini trionfanti che talora possono diventare norme da rispettare ad ogni costo, senza curarsi nemmeno del senso del ridicolo.

Il messaggio
sequestrato
La preside convocò la bambina, telefonò al padre segnalando la gravità dell'episodio, soprattutto in relazione al contenuto considerato pericolosamente lesivo della dignità istituzionale. Nel foglietto al centro dell'indagine (che avrebbe dovuto concludersi con un più che sacrosanto provvedimento di punizione, secondo la preside), si leggeva: «Se domenica mi vuoi baciare vieni al cinema di San Nicolò».
Il padre della fanciulla mi telefonò tra il preoccupato e l'irridente, sentendosi poi sollevato da una mia risata di commento. L'episodio finì in nulla quando dichiarai alla preside che giudicavo il fatto del tutto innocente e quindi da non colpire con una sanzione disciplinare. La preside s'arrese. Ed immagino che intimamente pensasse come le nuove leve di insegnanti fossero peggiori dei loro allievi. E che quindi non avrebbero potuto svolgere nessuna funzione educativa nell'Italia di domani. Come la signora ebbe modo di far intravedere agli scrutini di fine anno con un lungo monologo minaccioso al pari del cielo che scorgevamo alle sue spalle. Man mano che s'avvicinava il temporale, le sue parole diventavano sempre più nervose.
Fortuna volle che la riunione terminasse prima dello scatenarsi di una specie di diluvio universale. Feci in tempo ad arrivare a casa in bici. Cominciò a piovere a dirotto ed a tirare un vento dal mare che entrava in casa attraverso le doppie finestre spegnendo la candela resasi necessaria per l'interruzione dell'energia elettrica. Era una scena surreale per chi l'aveva immaginata ascoltando la ramanzina sulla vita di scuola, sugli obblighi educativi, e su altre cose che venivano fuori da un amarcord in cui mancava soltanto il tocco finale del salto del cerchio infuocato e del saluto al duce.

Beatles, Kruscev
ma anche Vietnam
Il 1964 è l'anno dei Beatles (altro che Debussy), ma anche della destituzione di Kruscev, della morte di Palmiro Togliatti e di Nehru, della visita di Paolo VI in Terrasanta, dell'elezione di Giuseppe Saragat a capo dello Stato al posto di Antonio Segni dimessosi per malattia, e delle prime rivolte studentesche nel campus dell'Università della California a Berkeley contro la guerra in Vietnam (iniziata nel 1962). Negli Usa mandavano a combattere gli studenti che avevano i libretti più bassi, mentre aumentava il malessere sociale denunciato da inchieste ufficiali: oltre il 40 per cento della popolazione viveva al di sotto della «soglia di povertà» e contemporaneamente crescevano le spese militari dello Stato. Nell'agosto del 1964 in risposta ad un attacco nordvietnamita ad unità navali americane nel golfo del Tonchino, il presidente Lyndon Johnson inizia il bombardamento di obiettivi militari nel Vietnam del Nord.
In Italia ci s'accorge in massa del problema due anni dopo, appunto nel 1966 con una canzonetta di Gianni Morandi: «C'era un ragazzo che come me amava i Beatles / e i Rolling Stone, girava il mondo ma poi finì / a far la guerra nel Vietnam... nel suo paese non tornerà / adesso è morto nel Vietnam...». Nella primavera del 1966 la questione più seria all'ordine del giorno nelle scuole è il caso della «Zanzara», giornale scolastico del liceo Parini di Milano. Il numero distribuito per san Valentino, raccoglie le opinioni di nove studentesse su vari temi (famiglia, morale, religione e sesso). Rifiutano, tra l'altro, l'autoritarismo dei genitori ed il «controllo dello Stato e della società sui problemi del singolo». Si preannuncia il «Sessantotto».

Il processo
alla «Zanzara»
Per molti studenti in quegli anni la cattedra rappresenta l'autoritarismo del predominio borghese. Per molti insegnanti, è la trincea da cui difendere la dignità di un'istituzione pubblica. Un po' dopo le frange più rumorose degli allievi e degli stessi insegnanti invocheranno l'abolizione fisica della cattedra, quale barriera al dialogo educativo.
Alla «Zanzara», ha osservato Diletta D'Amelio nella sua tesi di laurea in Scienze politiche (2003), collabora tra 1962 e 1966 Walter Tobagi, al ginnasio «prima solo occasionalmente, quindi, dal liceo, come redattore fisso, e infine come capo-redattore». Tobagi, divenuto giornalista al «Corriere della Sera», sarà ucciso la mattina del 28 maggio 1980 da un gruppo armato guidato da Marco Barbone.
Dall'articolo del giornale studentesco milanese nasce uno scandalo di portata nazionale che finisce in tribunale. Due documenti del tempo. Scriveva Miriam Mafai: «Il preside del Parini e i tre studenti sono rinviati a giudizio per il 30 marzo. Il 23, per la prima volta nel dopoguerra, migliaia di studenti scendono in piazza in segno di protesta. Gli imputati, difesi da alcuni tra i più noti avvocati italiani (Giacomo Delitala, Giandomenico Pisapia, Alberto Dall'Ora) verranno assolti, stabilendo quindi il principio che anche sui giornali scolastici è lecito discutere di sesso». Camilla Cederna osservava sul processo: «Da una parte il presidente Luigi Bianchi d'Espinosa, rappresentante l'indirizzo più moderno della magistratura ed estremamente sensibile allo spirito della Costituzione, e dall'altra il pubblico ministero Oscar Lanzi, definitosi da sé il rappresentante di un'era superata, appassionato parlatore e grande attore involontario».

Discussione
al Serpieri
Anche Rimini discute del caso. In quella primavera stavo svolgendo una supplenza di Filosofia al liceo scientifico Serpieri. Un gruppo di studenti m'interpella per una conversazione pomeridiana autogestita (l'aggettivo non era ancora entrato nel lessico studentesco). Ci vado volentieri, discutiamo a lungo con libertà ed amicizia. Poi alla fine, uno dei ragazzi della mia terza classe mi ferma: «Lei ieri ci ha dato un'interpretazione luterana di sant'Agostino». Mi mostra il quaderno degli appunti. Gli spiego che la frase tra virgolette non era un mio commento ma un testo dello stesso filosofo d'Ippona. Il giovanotto si giustifica: ha ricevuto l'imbeccata dell'appunto sugli appunti del sottoscritto da un mio collega di corso.
Qualche mese dopo sulla vicenda della «Zanzara» esce un libro di Guido Nozzoli e Pier Maria Paoletti. Vi si osserva che essa era «l'espressione di due Italie separate da un confine che risulta invalicabile». Sul quale c'erano le nostre cattedre. Del libro si legge oggi nel sito ufficiale del «Parini» che esso racconta «la cronaca esatta, fedele, di una vicenda esemplare del costume e della vita sociale italiana».


2. 1963, la rivoluzione della Media unica
Era l'anno della «Pacem in terris» di Giovanni XXIII

Fu una vera rivoluzione culturale la nascita della nuova scuola Media unica istituita nel gennaio 1963. L'obbligo scolastico fu portato al quattordicesimo anno d'età, e scomparve il doppio binario dopo le Elementari con la Media che poi conduceva agli istituti superiori di tipo liceale, e l'Avviamento che instradava alle Professionali. Le quali ebbero un ruolo importante di seria preparazione tecnica per tanti giovani, e di procacciamento di un qualificato posto di lavoro. Alla base della riforma della nuova Media c'era il progetto di rendere eguali nei punti di partenza tutti gli studenti che uscivano dal ciclo delle Elementari.

L'anno precedente
il Vaticano II
Prima del 1963 per accedere alla Media occorreva superare un doppio esame: quello di licenza elementare, e quello di ammissione. La nuova legge modificava tradizioni e costumi. Provocò accese reazioni. Era giudicata troppo progressista. Si temeva che i grandi numeri degli allievi potessero inquinare la sete di sapere dei migliori. In realtà si eliminava il primo segno di una selezione sociale che cominciava troppo presto, al termine della quinta elementare, quando secondo i programmi l'allievo doveva essere in grado di leggere, scrivere e far di conto.
La nuova Media nasceva come una specie di utopia politica prima che culturale, in un momento storico del tutto particolare. Nel 1962 il congresso nazionale democristiano di Napoli approva la linea politica del Centro-sinistra. Si inaugura il concilio ecumenico Vaticano II. Fanfani diventa capo del governo, con l'appoggio esterno del Psi. Si nazionalizza l'energia elettrica con l'Enel. Nel 1963 papa Giovanni XXIII poco prima di morire pubblica la «Pacem in terris». A Fanfani dopo il governo monocolore democristiano "balneare" (tanto per far passare l'estate) di Giovanni Leone, subentra Aldo Moro: è il primo quadripartito organico di Centro-sinistra con Dc, Psi, Psdi e Pri.

Nuova legge,
vecchia scuola
I programmi avevano ambizioni forse eccessive. Per chi era da molto tempo nella professione, apparivano pieni di troppe pretese di cambiamento. Il tran-tran era stato bandito, si voleva una cultura di base per tutti con una generosità di propositi a cui non corrispondeva altrettanta abbondanza di mezzi. Polemiche e discussioni accompagnarono la nascita della Media unica. Bisognava registrare nuovamente gli orologi mentali.
Ero svergognatamente avvantaggiato, non soltanto perché al primo anno di lavoro, ma anche perché provenivo dal corso di Pedagogia dove i nostri docenti ci avevano preparato alle originali tematiche culturali ed educative della nuova scuola. Il guaio era che, considerato pivellino perché al debutto, non mi era possibile proporre qualcosa nelle discussioni tra colleghi, dove vigeva il doppio principio di autorità e di anzianità. A gestire con ironici sorrisi di compatimento i cambiamenti voluti dalla legge, furono persone che avevano ricevuto la loro formazione dall'università del periodo fascista. Erano mentalmente impreparate a credere nei diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, ed incapaci di ritenere che la scuola fosse qualcos'altro che costrizione ed obbedienza.

Al Magistero
bolognese
Il mio docente di Pedagogia era stato Giovanni Maria Bertin. Furono anni di grandi maestri al Magistero. C'erano Ezio Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia medievale e moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della Filosofia, al mio terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi sùbito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a Luciano Anceschi, Sociologia ad Achille Ardigò (che aveva un assistente terribilmente dongiovanni). Enzo Melandri tenne le lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia teoretica, trattando di Logica simbolica, subentrando ad un collega che la carità di patria cancella dal ricordo. Con Rossi presi la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste culturali del primo Novecento, avendo come contro-relatore Raimondi, il quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella rivista «il Mulino», dedicato ad un libro di Luigi Barzini junior, «Gli italiani». (Ne «Il Giorno» del 18 gennaio 1966 Alberto Arbasino raccontava della scuola di critica letteraria bolognese al Magistero guidata da Raimondi. Il quale degli allievi diceva: sono «attratti dal metodo 'scientifico' in quanto contrario sia alla pedanteria scolastica sia allo sfarfallamento sentimentale che perde di vista il testo».)
Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale). Noi delle Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale, in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li confrontavamo con quelli dei due Licei cittadini. La nostra era una preparazione in genere modesta, tutta centrata su di un apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità, anche per colpa dell'indisciplina delle classi. Alla quale doveva far fronte il preside Ermenegildo Prosperi, latinista autorevole (e temibile in certe interrogazioni impreviste, quando sostituiva insegnanti assenti).

Due maestri
riminesi
Ho avuto due ottimi docenti di Lettere in terza ed in quarta magistrale: Eraldo Campagna e Gianfranco Micheli. Campagna ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi nel corso delle lezioni, fin troppo particolareggiate e quasi sfarzosamente barocche nelle spiegazioni della «Divina Commedia». L'altra faccia della sua medaglia, era il disinteresse verso la Storia che lo portava a darci cattivi consigli come quelli di saltare nel libro di testo certi argomenti fondamentali. Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di Italiano, ritenendo che tutto lo studio dovesse ridursi al mondo delle Lettere. A Campagna debbo la scoperta di Francesco De Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse verso questo tipo di studi (benché non avessi allora nessuna intenzione di proseguirli).
Micheli era un parlatore elegante, sapeva con raffinatezza tessere trame originali fra gli argomenti trattati, aprendo nuove prospettive e suscitando curiosità. Per le sue doti poté proseguire proficuamente il lavoro di Campagna e prepararci con dignità alla prova dell'esame di Stato, dove io svolsi il tema sulle «Poesie scritte col lapis» di Marino Moretti, autore assente nel libro di testo e nel nostro programma.
L'approdo alle lezioni di Bertin fu una specie di trauma. Avevamo studiato soltanto Filosofia e niente Pedagogia con Gianna Di Caro, paziente e preparata ma legata ad un sistema idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che la portava a leggere la successione dei pensatori come un perfezionamento inevitabile delle idee. Gianna Di Caro era subentrata in terza ad un insegnante laureatosi in età da pensione. Costui appariva estremamente assorto nell'introdurci ai segreti della Filosofia, che forse amava ma che non sapeva farci amare. Anzitutto era poco dialettico, o meglio decisamente schematico, e sempre irridente nei confronti di autori che considerava non all'altezza delle sue interpretazioni. Un mezzo sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo discorrere. Sembrava che il riflesso del suo luminoso intelletto dovesse proiettarsi sulle pareti dell'edificio squallido di piazzetta Teatini, sede poi dichiarata pericolante.

La «scoperta
dell'America»
La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della contestazione) non aveva nessuno strumento autonomo per giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa soddisfazione. Arrivare al Magistero bolognese con tutti quei Maestri era davvero la «scoperta dell'America», di un mondo nuovo e diverso di fare Cultura. Il ruolo avuto da Bertin (1912-2002) nella mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel vivere giornaliero. La sua formula della «visione problematica della realtà» precisa un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certamente utile. Essa suggerisce di evitare ogni soggettivismo che può fuorviare e portare ad accettare il pregiudizio. Essa dimostra che non dobbiamo consolidare una visione della vita soltanto egoistica. E che non dobbiamo rifiutare il principio secondo cui ci sono anche gli altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» conclude poi ad una concezione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta nella «soppressione della contraddizione». Riassumo il pensiero di Bertin con queste sue parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico» («Educazione alla ragione», 1973). L'atteggiamento problematico è un abito mentale da accettare in ogni momento della vita intellettuale e pratica. Il nostro dovere è di non sottrarci dall'assumere responsabilità di fronte all'analisi degli atti di pensiero e delle azioni concrete, ricordandoci che essi debbono corrispondere ad un disegno morale.


3. La pedagogia pratica dell'«asino vivo»...
... meglio del «dottore morto», secondo nonna Lucia

Finita la terza Media nel 1956, ero stato molto indeciso sulla scelta della scuola da frequentare. Mio padre avrebbe gradito che m'avviassi ad un corso liceale. Lo compresi tanto tempo dopo. La mia incertezza nasceva dalle notizie che giravano sui percorsi ad ostacoli rappresentati da Scientifico e Classico. Lo Scientifico lo scartai a priori, in considerazione della mia incompatibilità con la Matematica. Del Classico si diceva che rendeva impossibile la vita a persone normali come me, con professoresse terribili, lezioni concluse con l'assegnazione di interminabili versioni di latino, e soprattutto lo studio del Greco che sigillava ogni spauracchio.
Avevo conoscenti e parenti che dicevano d'esser stati costretti a scappare come Garibaldi verso il rifugio di San Marino dal «Giulio Cesare» riminese. Vi troneggiava il preside Arduino Olivieri, austero e solenne come un monumento vivente alla Cultura, e futuro mito felliniano nella rivisitazione di «Amarcord».

«Dove vai?»
«Non lo so»
Dopo aver concluso l'esame di terza Media, un pomeriggio mio padre ed io incontriamo il maestro Antonio Di Jorio (1890-1981), insegnante di Musica, direttore della banda «Città di Rimini» (per la quale mise fuori di tasca propria molti soldi, come mi raccontò sua figlia Pasquina) ed anche antico direttore delle Magistrali di Forlimpopoli, paese d'origine di mio padre. Di Jorio mi chiede: «Ed allora dove vai?». Con la sicurezza di chi ha già la risposta in tasca gli dico: «Non lo so». Di Jorio mi guarda mostrando un affetto paterno che gli derivava da una lunga consuetudine con la mia famiglia, e taglia la testa al toro: «Fai come zio, vai alle Magistrali». Mio zio Guido (classe 1918), fratello di mia madre, aveva frequentato l'Istituto Valfredo Carducci di Forlimpopoli proprio al tempo in cui lo aveva guidato il maestro Di Jorio. Il quale sapeva pure che lì molto tempo prima aveva studiato anche mio padre (classe 1901) beccandosi un tre in Musica da riparare a settembre perché terribilmente stonato nel «canto corale». A nulla gli era valso il nove in Italiano con il prof. Federico Ravagli (1889-1968), lo scrittore amico di Dino Campana.

La nonna Ida
maestra rurale
Mio padre si chiamava Valfredo perché era stato tenuto a battesimo da Valfredo Carducci, il fratello di Giosue il poeta. Valfredo Carducci è ancor oggi ricordato tra l'altro per aver affibbiato ad un allievo della scuola il soprannome di «matto di Predappio». Si trattava di Benito Mussolini che nel 1901, presentando domanda per una supplenza a Legnano, si definiva «licenziato d'onore dalla Regia Scuola Normale di Forlimpopoli». Nello stesso paese mia nonna paterna Ida Zaccarini era stata maestra rurale. Dunque, esisteva una specie di condizionamento biologico (dimenticavo: un fratello di mio padre fu direttore didattico a Ravenna e poi ispettore a Bologna), a guidarmi verso le Magistrali. Per correttezza debbo aggiungere che una discreta dose di viltà nello sfidare gli ostacoli, mi convinse (o costrinse) nella scelta.
Quali attenuanti al mio comportamento, invoco due massime che avevo sempre sentito propagandare caldamente in casa. Nonna Lucia (classe 1881) non si preoccupava troppo del mio rendimento scolastico, anteponendo ad ogni valutazione di esso un principio che per lei doveva essere una di quelle frasi da inculcare in ogni mente giovanile come regola da mettere in pratica prima di tutto e contro tutto: «E' meglio un asino vivo di un dottore morto». Nelle giornate più propizie elencava una serie variopinta di persone rimaste vittime sotto l'aspetto psichico di un eccessivo attaccamento allo studio. Come madre lei aveva però costretto sempre mio zio a passare lunghi pomeriggi nella sua camera chino (in apparenza) sui libri, impedendogli di uscire di casa. Lui aveva risolto il problema della reclusione evadendo dalla soffitta, sulla quale la nonna non poteva esercitare un diretto controllo. Fu così che in ogni giornata di tempo buono, tutto l'isolato attorno a palazzo Lettimi dove abitavano e dove sono nato, era oggetto delle perlustrazioni che lo zio compiva camminando sui tetti.

Il passo
e la gamba
L'altra massima filosofica che risuonava tra le mura domestiche, era quella pronunciata da mia madre con una convinzione quasi religiosa: «Non si deve fare il passo più lungo della gamba». Come regola di vita, essa può essere facilmente smentita dal folto repertorio deducibile dalle biografie di personaggi che partiti dal nulla hanno raggiunto fama, successo e soldi. Essa rispecchiava una mentalità piccolo-borghese che s'accontentava di quello che c'era, non desiderava l'impossibile, e dettava una norma di comportamento la quale nasceva pure da una profonda moralità: non compiere azioni cattive per raggiungere risultati altrimenti impossibili. Occorre rammentare che la nostra generazione doveva subire anche la cantilena continua della guerra che aveva distrutto tutto, per cui ogni piccola conquista era inevitabilmente considerata un grande traguardo. Non possiamo guardare oggi a quelle antiche pagine grigie e grame con gli occhi dei posteri che hanno facile accesso ad ogni oggetto di consumo con poca spesa (rispetto ad allora).
Fatto sta, dunque, che mi iscrissi alle Magistrali, conseguendo nel primo anno un risultato pressoché disastroso. Confermato nella mia antipatia verso la Matematica, fui rimandato ad ottobre, come si diceva dimenticando che gli esami di seconda sessione si svolgevano a settembre. Pagavo pegno per la lettura sottobanco della «Gazzetta dello Sport» in quelle noiosissime ore trascorse in un silenzio surreale che aveva come unica alternativa un ben più compromettente sonnellino. Dopo quell'estate trascorsa chino sui libri, smisi di leggere i quotidiani sportivi. Ma la Matematica non fu sola. Dovetti riparare non so perché in Francese, nonostante una discreta pronuncia (insolita in città, dove l'influsso dialettale è deleterio), grazie alla capacità linguistica di mio padre il quale parlava correntemente anche il Tedesco (che però non m'insegnò mai).

«Piove» sul tema
e son bocciato
Non c'è due senza tre: nell'ultimo trimestre mi rovinai (o per meglio dire, mi fu rovinata) la più che sufficiente media in Italiano. Nel compito in classe conclusivo scelsi il titolo che diceva semplicemente: «Quando piove». Ispirandomi al proverbiale svolgimento del Pierino delle barzellette, che dovendo trattare di «Quando passa il treno» condensò i suoi pensieri in un laconico: «Mi sposto», mi sarei forse salvato se avessi scritto soltanto: «Apro l'ombrello». Invece mi dedicai con aperta vena confidenziale a spiegare quanto fosse «bello» andare in bicicletta sotto l'acqua. Apriti cielo, fu proprio il caso di dire nel fatidico giorno della pubblica correzione dei compiti quando ognuno di noi veniva messo alla berlina se di sesso maschile, od elogiato se apparteneva alla eletta schiera delle femmine che chissà perché sapevano fare tutto, e se anche non capivano granché trovavano in genere completa comprensione da parte delle insegnanti, e anche da parte degli insegnanti (maschi) nei casi rari e particolari in cui alla capacità subentrassero esclusivamente simpatia o bellezza.
Pure in seconda ripassai a settembre per Italiano perché la nuova professoressa non gradiva le mie spiegazioni letterarie. Trascorsi l'estate ad esercitarmi con un amico di mio padre, il prof. Nevio Matteini, noto scrittore e studioso di storia riminese. Alla lettura della prima prova scritta che mi aveva assegnata (i suoi titoli erano chiaramente liceali, ovvero non facili), ebbi la soddisfazione di sentirmi dire: «Ma lei sa scrivere». Le cose filarono lisce in terza e quarta, soprattutto in Italiano.
In terza il prof. Campagna s'accorse che c'erano allievi bravi allo scritto ma che poi facevano scena muta all'orale. Ideò un tranello, un compito in classe all'improvviso in cui i furbi vennero scoperti. (Uno di loro era molto organizzato. Per lo scritto di Latino portava a scuola pagine e pagine di versioni già tradotte. Una volta si smascherò da solo non essendosi accorto che il testo datoci dalla insegnante era più breve di quello che ricopiò lui.) Avevamo il turno pomeridiano. Con la terza che andava al mattino, e quello stesso giorno aveva affrontato pure essa il compito in classe, il prof. Campagna s'era vantato del tranello preparato. Qualche compagno di lotta e di sventura ci avvertì del progetto punitivo e soprattutto dei temi assegnati, che sarebbero stati gli stessi anche per noi. In pochi minuti chi sapeva qualcosa di letteratura poté documentarsi su argomenti di una pignoleria terrificante, e fare ottima figura con grande soddisfazione anche del docente.

Coro solenne
in Comune
All'esame di maturità come si dice oggi (allora era d'«abilitazione magistrale») si portavano tutte le materie, compresa Musica e canto corale, dove avevamo avuto per un certo periodo come insegnante il maestro Di Jorio, dopo la scomparsa della gentile Mariolina Tosi che anziché della sua materia trattava con garbo di morale e Religione. Di Jorio ci rallegrava eseguendo al pianoforte canzoni classiche o moderne. Di Storia della Musica non sapevamo nulla. All'esame mi chiesero di parlare di un compositore. Dissi di Verdi: sui muri il suo cognome significò «Vittorio Emanuele Re d'Italia».
Per il centenario del 1859 il Comune organizzò una cerimonia all'Arengo con tanto di coro delle Magistrali diretto da Di Jorio. Alle prove mi cacciò bruscamente perché steccavo (...come mio padre). Mi recuperarono per reggere la bandiera. Finito il concerto, al rinfresco in una sala di palazzo Garampi le nostre ragazze in un baleno versarono nelle capaci tasche dei grembiuli neri tutti i cioccolatini del buffet.


4. Per le antiche scale delle nostre scuole
Valturio, obbligo di cravatta, divieto di mangiar panini

La sede delle Magistrali di piazzetta Teatini era la più indegna di tutte le scuole cittadine. Eravamo stati abituati ad un vivere spartano fin dalle Elementari nel Borgo San Giovanni. In prima classe mancava addirittura la ringhiera alla scala. In quarta misero la serratura alla porta perché era stata acquistata una radio mediante la raccolta dei fondi tra noi studenti. In quinta andammo alla De Amicis che sembrava una scuola di lusso. Maestoso l'edificio, controllato da una direttrice che fulminava al solo guardarti. In prima Media frequentammo il bel palazzo di via Brighenti, ma la nostra aula era nel cortile in fondo al corridoio, una specie di dependance ridotta all'osso. Per la seconda e la terza fummo ospitati nel palazzo Buonadrata che allora aveva il cortile (dove adesso si trova una banca). Per entrare nelle aule dovevamo transitare lungo un ballatoio che s'affacciava sullo stesso cortile.
La sede di piazzetta Teatini fu dichiarata inagibile dopo la visita di controllo da parte di un tecnico comunale che si mise a saltare sui pavimenti, facendoli ondeggiare in maniera non so se comica o spaventosa. Gli altri tre anni li trascorremmo in via Tempio Malatestiano, a palazzo Visconti divenuto successivamente sede del Museo comunale e quindi passato alla Biblioteca nei piani superiori dove noi avevamo le nostre aule, finalmente pulite ed ariose.

Al Valturio
con la cravatta
Nel palazzo Gambalunga aveva sede l'istituto Roberto Valturio per ragionieri e geometri presieduto dal prof. Remigio Pian, un personaggio nella vita cittadina al pari di Arduino Olivieri, con la differenza che non è mai finito in un film di Fellini ma ha ricevuto gloria soltanto negli amarcord personali degli studenti ed in quello collettivo della città.
La decisione più memorabile da lui presa, a detta di tutti gli studenti che lo hanno avuto come preside, è diventata un dato ormai classico nella storia pubblica riminese: e riguarda l'obbligo imposto agli allievi d'indossare la cravatta per essere accettati a scuola. Il controllo era suo personale. Il suo ufficio s'affacciava sullo scalone di palazzo Gambalunga. Il preside s'affacciava sull'ufficio e poteva dominare la situazione con la calma fermezza che contraddistingueva ogni sua azione.
Gentiluomo d'antico stampo, di formazione mitteleuropea, portamento naturalmente austero, si esprimeva con abiti solamente scuri quasi da cerimonia. Amante della perfezione e della disciplina, era l'antitesi dell'irruenza giovanile dei suoi studenti. Molti dei quali avrebbero poi rimproverato a quella regola della cravatta obbligatoria, un contenuto classista che essa non aveva per volontà del preside. Ma che finiva inconsapevolmente per essere considerata espressione di una insensibilità verso le condizioni delle famiglie degli alunni, le quali facevano fatica a mettere assieme i soldi per comprare i libri di testo. Figurarsi se riuscivano a pensare anche alle spese ritenute superflue come per quell'ornamento da giorno di festa.

Borghesi
e proletari
In questo contesto la cravatta imposta nel Valturio dal suo preside è stata in molte rivisitazioni del passato un capo d'accusa verso una società borghese che voleva perpetuare i propri riti, continuando ad escludere dalla propria cerchia ben protetta i figli dei proletari. Credo onestamente che Remigio Pian non avesse queste intenzioni, ma che esse potessero essergli attribuite con assoluta tranquillità in maniera retrospettiva appunto nei successivi momenti particolarmente accesi della «contestazione» politica. Quando gli alunni erano già cresciuti e Pian era in pensione, e si guardava al passato con un giudizio inevitabilmente severo e necessariamente provocatorio.
La «disciplina» era una specie di «summa theologica» che ogni preside aveva l'obbligo di imporre per legge, interpretare a suo piacimento e condensare materialmente in disposizioni che ne fossero la realizzazione più adatta secondo il suo modo di vedere. Qualche anno dopo avremmo sentito parlare di presidi che si facevano dare del tu dagli studenti, come nei nostri giorni i superiori usavano con noi che rispondevamo con il lei d'ordinanza, molto meglio del cameratesco voi d'anteguerra.
Il rispetto della «disciplina» imposta si traduceva per gli studenti nel timore d'un basso voto di condotta che poteva anche costare la bocciatura in tutte le materie. Per le autorità scolastiche la «disciplina» era una specie di mito da perpetuare, un misto di preparazione alla vita militare e di regolamento che abituasse pure a quella civile. Fu così che molte persone correttamente fedeli alla loro immagine di Stato o di Società finirono per essere testimonianze di un'archeologia sociale che potremmo definire anche politica.

Un completo
di jeans
Quando frequentavo nella primavera del 1960 la quarta magistrale, comperai nel mitico negozio dei fratelli Sarti che ne furono i primi importatori, un completo di tela di jeans, giacca e calzoni, che feci debuttare in un tranquillo pomeriggio a scuola. Il preside mi vide all'ingresso, mi tenne d'occhio, e durante la ricreazione venne ad accertarsi della mia tenuta nel corridoio vicino alla nostra aula. Impassibile, mi fece un giro attorno guardando con attenzione (soltanto curiosità e nessuno scandalo, immagino) alla stoffa che indossavo. Racconto l'episodio per spiegare che bastava poco per essere messi sotto osservazione e passare per «gioventù bruciata» come si diceva allora ripetendo il titolo di un celebre film del 1955 con James Dean.
Il rispetto della «disciplina» poteva produrre anche decisioni che poi avrebbero arricchito il repertorio degli aneddoti più citati nello stesso Valturio, dove ho insegnato successivamente per tanti anni. Una volta fu imposto il divieto di fumare per un raggio di 400 metri dal corridoio centrale dell'istituto di palazzo Gambalunga. In tal modo finiva sotto la giurisdizione scolastica del Valturio non soltanto la vicina piazza Ferrari ma persino lo stesso Ospedale civile che si trovava nella sede dell'attuale Museo della Città (ex-convento dei Padri Gesuiti). Ovviamente non c'erano preoccupazioni di tipo sanitario sull'uso ed abuso del tabacco, ma esisteva soltanto la necessità di evitare che qualche sconsiderato scavezzacollo potesse gettare la cenere della sigaretta sul pavimento della scuola che doveva restare immacolato e brillare in ogni attimo della giornata. Ed a tal fine fu preso anche un secondo provvedimento che proibiva agli studenti di mangiare panini nei corridoi. Secondo racconti postumi più o meno fantasiosi, si sarebbe affermato in una circolare fatta girare per le classi, che l'operazione dell'addentare e del masticare una qualsiasi merenda avrebbe provocato la caduta di briciole che avrebbero finito con lo sporcare il «sacro suolo della Scuola».

Il bidello
lavativo
Non posso garantire che l'aggettivo «sacro» apparisse veramente nel testo della circolare. Ma posso immaginare che essa nascesse dalle lamentele dei bidelli, uno dei quali era ancora in servizio «ai miei tempi», quando si dimostrava il personaggio più lavativo di questo mondo, avendo a fastidio anche le cose più semplici, come la richiesta di carta igienica per i gabinetti. Garantisco di persona della veridicità dell'episodio (avvenuto nella succursale di via Gallina alla Colonnella nei primi anni Settanta). Uno studente in evidente stato di bisogno corporale, chiede al bidello con una certa premura quanto necessario ad adempiere alle sue necessità fisiologiche. Il bidello anziché soddisfare la richiesta, risponde con una domanda che cercava di appurare che cosa il giovane dovesse fare con la carta igienica. Essa arrivò molto probabilmente in ritardo grazie all'arguzia inquisitoriale del bidello.
Il quale riandando ai suoi tempi, che erano appunto quelli della circolare anti-briciole, mi raccontava che stava tutta la mattina con uno straccio in mano ed appena il preside s'affacciava nella quotidiana ispezione ai piani, lui si metteva a fingere di pulire i muri del corridoio. In apparenza dunque risultava una lucidatura quotidiana di tutte le superfici verticali. In sostanza in un intero anno scolastico, la polvere veniva rimossa dai muri soltanto d'estate con un rito del tutto particolare con strumenti eccezionali: un secchio d'acqua e numerosi stracci bagnati ripetutamente in esso e manovrati con idonei manici di legno conservati nell'apposito magazzino sorvegliato dai funzionari della Provincia.
Quando ci ho insegnato io, molte cose erano cambiate. Ad esempio, nei muri dei gabinetti degli alunni c'erano murales pieni di oscenità. Non si sfottevano più i compagni come accadeva quando eravamo stati studenti noi. Gli oggetti della satira più spietata erano gli stessi insegnanti con frasi spesso irripetibili ma che talora colpivano magnificamente nel segno, come constatavo durante amichevoli sopralluoghi estivi guidato dagli stessi bidelli che si divertivano da matti ad invitarmi a leggerle. Non so se mai a nessuno sia venuto in mente di raccogliere quelle scritte in un'antologia segreta. Mi pento sinceramente di non averlo fatto. Racconterebbero la rivoluzione culturale della scuola italiana con l'evidenza stessa degli slogan pubblicitari che ascoltiamo ogni giorno. Di una collega che s'adoprava continuamente in tutti i modi per favorire e proteggere i suoi allievi, sperando così di realizzare il suo estremismo politico da «lotta-continua», si leggeva che esercitava a favore dei poveri la cosiddetta più antica professione del mondo. Altro che briciole da non gettare per terra nei corridoi.


5. Romolo Comandini, grande maestro di vita
In prima Media pianse leggendo le storie di guerra

Quando vedo passare la mattina i bambini che vanno alla scuola elementare curvi sotto uno zaino per nulla proporzionato al loro fisico, mi assale un atroce dubbio: la Cultura è fatta consistere oggi in una massa di oggetti che rischiano di schiacciare il portatore? Vorrei sapere tanto quale serie infinita di cose e di libri debbono insaccare in quello strumento di tortura che quarant’anni fa era tipico dei militari di leva che incontravi nelle stazioni ferroviarie in attesa del treno accelerato il quale (nonostante il nome) era il più lento di tutti, ma pure era l’unico sul quale i soldati erano autorizzati a salire per compiere a passo di lumaca viaggi lunghissimi. Con i quali si accorciavano però le distanze fra le regioni d’Italia e si affratellavano ogni giorno i ragazzi del Sud con quelli settentrionali. Non ancora aspiranti secessionisti.

Dalla cartella
alla cinghia
Allora i militari avevano l’obbligo d’indossare la divisa, ed erano sorvegliati dalla ronda di tre colleghi che percorrevano le strade della città ed entravano anche nei cinema. Poi la divisa è stata gettata alle ortiche, i soldati non erano più tali, ma «borghesi» qualsiasi, più liberi, ma anche meno controllabili sotto il profilo dell’ordine pubblico. I loro pesantissimi zaini scomparsi dalle immagini ferroviarie, oggi li incontriamo nelle ore d’ingresso e d’uscita dalle scuole elementari. Madri, padri, nonni o zie debbono a volte sostituirsi alla povera creatura che sarebbe incapace di reggerne il peso.
La mia generazione era stata abituata alle elementari di oltre mezzo secolo fa a recarsi a scuola con la cartella. In quell’immediato dopoguerra, averne una di pelle era lusso impossibile ai comuni mortali. C’erano i primi esemplari di una materia nuova, che chiamavano plastica, più abbordabile, e distinta dalla comune borsa di fibra, una parola che oggi conosciamo con un altro significato. Nel mondo delle fibre ottiche e vegetali soltanto noi vecchi (ed i dizionari: ma si usano ancora?) sappiamo che la fibra era un cartone pressato (ed impregnato in un bagno speciale: cloruro di zinco) usato in valigeria per confezionare le cartelle rigidamente squadrate. Su Internet nel sito del «Museo della Civiltà e del Lavoro in Polesine», si legge che «la cartella doveva durare il più possibile nella carriera scolastica altrimenti, se si rompeva, i genitori del bambino gli costruivano una cartella di legno, molto più pesante».
Negli anni successivi, quando eravamo diventati più grandi, la cartella scomparve quasi del tutto (alla metà degli anni Cinquanta) sostituita dalla cinghia di stoffa (negli anni successivi quando già insegnavo divenne di elastico), che era il massimo dell’indipendenza rispetto alle regole della scuola: infatti essa non poteva raccogliere che qualche smilzo volume oltre a due o tre magri quaderni messi assieme più per darsi l’aria di studiare che testimoniare l’effettivo svolgimento dei compiti a casa.

Severità
umana
Per mia sfortuna sono sempre stato dotato di una cartella. Prima alle Elementari perché essa ci dava la dignità di essere trattati come piccoli adulti. Poi perché alle Medie gli insegnanti pretendevano che a scuola andassimo armati di tutto punto: libri dizionari quaderni matite penne… In prima Media (1953-54) quel grande educatore che fu il professor Romolo Comandini, impose l’obbligo di avere anche il diario su cui segnare i compiti da svolgere e le lezioni da imparare, con la punizione prevista per gli inadempienti di un quattro nella materia in cui il fatto si fosse verificato e accertato. Alle Medie Panzini avevamo ancora quei vecchi banchi nei quali la cartella si nascondeva in un ripiano posto sotto il piano di lavoro, e che era grande come tutto il banco.
Era facile che qualcosa anziché avviarsi nella cartella si perdesse nel buio di quel nascondiglio ove finivano anche le merende e le cicche americane appiccicate temporaneamente nei momenti meno adatti al loro uso. Mi capitò una volta di non ritrovare più il diario dentro la cartella, e con gesto eroico, giudicato folle dai compagni di classe, dissi a Comandini che lo avevo lasciato a casa. Dove appena rientrato lo cercai attentamente senza rinvenirlo. Mi fiondai di nuovo a scuola ed a tastoni lo trovai nascosto nella parte più profonda del diabolico ripiano del banco, come riferii la mattina seguente all’insegnante. Il quale vista la mia auto-denuncia non se l’era sentita di punirmi con il quattro previsto dalle sue stesse disposizioni.

Figlio di
operai
L’episodio mi convinse che la sincerità è premiata dalla persone oneste come era Comandini, uomo ancora giovane il quale però aveva alle spalle la dura esperienza della guerra e del campo di concentramento. Era nato a Roncofreddo nel 1915 (quindi non aveva ancora 40 anni) in una famiglia operaia poi emigrata in Francia. Era stato allevato da una prozia, negli anni del Ginnasio inviato al collegio della Consolata a Torino. Aveva proseguito gli studi nei seminari di Pennabilli e Fano, ed aveva frequentato l’Istituto magistrale Valfredo Carducci di Forlimpopoli diplomandosi nel 1936. Cinque anni dopo si laureò al Magistero di Firenze. Partì per la guerra. In Jugoslavia fu fatto prigioniero e deportato in Germania dal 1943 al 1945. Cominciò ad insegnare alle Elementari, passò alle Medie inferiori e superiori. Alle Panzini cittadine fu dal 1949 al 1957. Sino al 1966 insegnò Lettere al Tecnico Roberto Valturio di Rimini. Infine divenne preside a Cento ed a Forlì. Scomparve nel 1971, mentre stava per conseguire la libera docenza in Storia della Chiesa, materia in cui condusse studi di grande importanza, come ebbe a sottolineare il prof. Augusto Campana in una conferenza commemorativa tenuta a Sant'Agata Feltria: dove «appariva un paesaggio grigio ed uniforme, oggi per merito suo si incomincia a vedere una scena varia e viva».

Primavera
del 1954
L’indelebile ricordo dell’esempio educativo di Romolo Comandini l’ho testimoniato chiudendo nel 1989 il mio primo lavoro editoriale, «Rimini ieri 1943-1946» con queste parole: «Prima Media. Salutammo il nostro insegnante, Romolo Comandini, regalandogli un libro, le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”. Il professore lo aprì e ne lesse alcune pagine, piangendo. Era la primavera del 1954. Per la prima volta scoprimmo il vero volto della Storia, con atrocità e tragedie».
Negli anni successivi ogni nostro incontro era una sua grande testimonianza d’affetto nei confronti dell’antico alunno che conservava verso di lui una particolare devozione intellettuale. Comandini ci insegnò non tanto alcune materie, quanto un metodo di lavoro che fu prezioso negli anni successivi, e non soltanto come studenti ma pure per la vita ed il lavoro.
Il destino volle che la mia prima supplenza appena conseguita la laurea avvenisse nella primavera del 1966 al Valturio del preside Remigio Pian che aveva come suo vice proprio Romolo Comandini. Sembrava quasi che un cerchio si chiudesse. Era come se una pista tracciata da lui nel punto di partenza, arrivasse al traguardo ancora con chi più di ogni altro aveva contribuito a fornire i fondamentali strumenti operativi necessari per organizzare lo studio e quindi anche l’insegnamento.
A molti anni di distanza, accadde che frequentassi per motivi di studio la Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, nella quale erano confluiti nel frattempo libri, documenti ed appunti di Comandini: 5.000 volumi, 130 cartelle contenenti migliaia di carte, ed una ventina di manoscritti. Era allora bibliotecario dei Filopatridi il dottor Luigi Ughi che ne aveva promosso un primo lavoro di sistemazione e di schedatura. Lo stesso dottor Ughi, amico fraterno del professore, volle che io lo commemorassi in una conferenza alla stessa Accademia, il 24 ottobre 1993 alla presenza della vedova e del figlio.
Comandini seppe farsi amare da tutti. Più delle mie parole conta la testimonianza del professor Carlo Alberto Balducci: egli ebbe un temperamento «incapace, non dico di risentimenti e di odii, ma nemmeno di antipatie e di estraniazioni».

Carlo Alberto
Balducci
Nell’anno scolastico 1968-69 Balducci mi accolse affettuosamente come giovane collega alle Magistrali, rette da un galantuomo come il prof. Giorgio Magnani di Bologna. Erano giorni inquieti. Magnani non si destreggiò come usa nei pavidi. Governò saldamente con rispetto verso tutti e soprattutto per far rispettare da tutti la legalità. In un collegio dei docenti, in cui ci furono accese discussioni sulla vita scolastica e su quella che allora di chiamava la contestazione, si sentì sommessa ma ferma la voce di Balducci: «Anche a noi non piace questa società». Era una frase che, lo confesso, allora mi passò via veloce, nel clima incandescente di quei momenti. Ma essa mi è tornata spesso alla mente, negli anni successivi, sempre legata all'immagine del prof. Balducci. E sempre quelle parole mi hanno fatto riflettere, perché dentro portavano il segno non di un ribellismo giovanilistico, allora tanto di moda, ma di una consapevolezza religiosa e storica di quanto chiede l'umanità nella difficile (o impossibile?) ricerca della giustizia terrena.
Egli aveva un atteggiamento di mitezza e di modestia, non voleva mai metterti a disagio, anche quando la sua autorevolezza culturale avrebbe potuto incutere timore, almeno a noi di una generazione abituata al rispetto dei più anziani e dei più degni. Era stato preside del Serpieri, passò al Classico, succedendo ad Arduino Olivieri. Poi, preferì tornare all'insegnamento, che forse riteneva più consono al suo spirito di educatore. E di cristiano che cercava di vivere con umiltà il Vangelo.


Appendice.
Scuola. Il dramma incompreso dei reduci, una cinghia per cravatta

I personali ricordi di scuola che ho esposto su queste colonne, hanno coinvolto numerosi lettori. I quali si sono messi in contatto con il sottoscritto, per raccontare altre cose sul «Valturio », aggiungere particolari e soprattutto aprire finestre nuove rispetto al mio discorso. Hanno pure esposto fatti legati a momenti molto più drammatici degli anni Sessanta su cui ho scritto.
Ho ascoltato il resoconto di un ritorno dalla guerra, di una famiglia da mantenere, di un impegno di lavoro da soddisfare quotidianamente, e di un'interrogazione per l'esame in cui era in gioco il diploma necessario a quel lavoro, e quindi a quella famiglia, ed alla sua sopravvivenza per riassumere tutto in una sola parola.
La magnanimità del docente fa realizzare una cortina di filo spinato rispetto all'esaminato, tende un tranello di inaudita eleganza. Si chiede al giovane quale opera avesse scritto l'amico napoletano del Leopardi. Nessuna risposta. Nessuna promozione. Segue un anno di frequenza obbligatoria. Come il lavoro che manteneva la famiglia di quel reduce di guerra.
Confesso: so chi è stato Antonio Ranieri (di lui si tratta), ma non ho mai appreso che cosa avesse scritto, non ce lo hanno mai chiesto nei durissimi interrogatori a cui Mario Saccenti, assistente di Ezio Raimondi al Magistero di Bologna, ci sottoponeva con un sorrisino perfido fatto di richieste mnemoniche, senza preoccupazione alcuna sul fatto che avessimo o no digerito quanto studiato. Saccenti (un nome, un destino) conosceva a memoria il manuale di Letteratura italiana del Sapegno. Pretendeva che noi gli esponessimo pari pari la nostra sapienza (ovvero tutto il Sapegno) per confermare la sua. Nessuno scarto era concesso nel discorso, altrimenti lui ci rimetteva sul binario «giusto» ordinandoci: «Ricominci dal principio». Ovvero dal fatto che il tal poeta era nato, lì, là o lassù. Anno Domini... etc.
Fortunatamente si poteva respirare e ragionare quando era il momento di passare «sotto» Raimondi per il corso istituzionale, ovvero per la parte fondamentale dell'esame. Che dava soddisfazione a chi se la meritava usando non soltanto i neuroni (spero siano loro) della memoria, ma anche un poco di capacità intellettiva (naturale e non gasata… come quella dei Saccenti di nome e di fatto).
Che cosa scrisse Antonio Ranieri? Per questo esistono le enciclopedie, non la cultura. Quindi lasciamo tutto nella nebbia della mia personale ignoranza che per fortuna non deve più fare i conti con quella altrui, essendo non più tempo d'esami scolastici (gli altri non finiscono mai...).
E poi, da un messaggio giuntomi via Internet, salta fuori il vezzo se non il vizio (stessa scuola, stesso immediato dopoguerra) di spiegare per un mese, e poi d’interrogare. Una sola domanda, o la va o la spacca.
Infine, la storia della cravatta obbligatoria al «Valturio» del preside Remigio Pian. Una madre risolse il problema con il buon senso delle donne e la costrizione della miseria. Disse al figlio di legarsi al collo la cintura dei calzoni. Soluzione pratica per situazione drammatica. Mancavano i soldi per il pane, figurarci se c'erano quelli per la cravatta.

Noi bravi scolari di una volta


Noi bravi scolari di una volta..., m'è venuto da pensare ricordando un vecchio insegnante universitario, Achille Ardigò, appena scomparso. Docente di Sociologia alla Facoltà di Magistero (primi anni Sessanta), Ardigò non mi ha lasciato memorie particolari.
Un po' incolore nelle lezioni, moderatamente cortese negli esami, la sua materia allora andava di moda, ma a me non interessava in maniera particolare. Insomma un esame come un altro, se non fosse che di tutte le sue lezioni e di tutte le letture annesse, a mezzo secolo di distanza è sopravvissuto (per mia colpa) ben poco.

Un primo ricordo. In una pagina di un suo testo Ardigò studiava la dislocazione dei vari gruppi di sensali in piazza Maggiore nelle giornate di mercato. Ne parlai una volta con un rappresentante editoriale bolognese che si mise a ridere, dicendomi nel suo dialetto: "Eh, ci voleva Ardigò per scoprire una cosa che sappiamo tutti...".

L'assistente di Ardigò, il dottor Paolo Guidicini, era un giovane elegante e cordiale, anche troppo con le nostre ragazze se ci accompagnavano nel suo studio quando dovevamo "prendere l'esercitazione". Si trattava di una ricerca da portare all'esame, e da svolgere sul campo. "Ah, lei è di Rimini, allora vada al tal centro professionale, e faccia questo lavoro...".
M'inventai tutto, dai nomi e cognomi degli intervistati, alle statistiche relative alle loro risposte al questionario affidatomi da Guidicini. Dopo qualche anno, ho trovato quelle statistiche pubblicate in un bel volume scientifico.

Gli assistenti non sempre erano simpatici come Guidicini. Quello di Italiano era un pignolo dalla vice stridula, Mario Saccenti (di cognome e di fatto). Apriva l'esame con una domanda di letteratura. A me chiese di parlare del Tasso (era il mio primo esame universitario in assoluto, un gesto da kamikaze a detta degli amici di corso più anziani).

Risposi partendo dall'importanza del Tasso nella storia della letteratura italiana, argomento contenuto nell'ultimo paragrafo del capitolo del volume di Natalino Sapegno. Saccenti m'interruppe obbligandomi a ripartire "dall'inizio", ovvero dalla nascita del Tasso, quindi dal primo paragrafo del testo di Sapegno...
La seconda domanda riguardava la "Commedia". Apriva a caso il libro, puntava l'indice sulla pagina. Eravamo all'Inferno, mi chiese la lista dei dannati che precedevano quel determinato personaggio.
Gettai l'occhio sulle note. Con un sospiro di sollievo, feci il mio bravo elenco. Saccenti con il ghigno perfido che teneva stampato fisso sul volto per terrorizzarci, e con quella vocina stridula, emise la sentenza terrificante: "No. Quelli vengono dopo".

Scrisse la sua brava noticina che consegnò al prof. Ezio Raimondi, il cattedratico della materia, con cui passai a chiudere l'esame, trattando del corso monografico diviso in due parti. La prima riguardava la "Vita" dell'Alfieri. La seconda, un testo allora appena tradotto dal Mulino, il celebre ed indigesto "Wellek e Warren" dal nome degli autori (titolo: "Teoria della letteratura"). Un libro per laureati, non certo adatto a noi ragazzotti di provincia che avevamo fatto le Magistrali con molto affanno.

Comunque Raimondi, dopo che ho risposto alla sua prima domanda, si rivolge a Saccenti, scorrendo la noticina che gli aveva passato con l'esito dell'interrogazione fatta a mio danno...: "Marione", gli grida, "ma questo giovane è preparato". Non potei prendere più di 25/30 per colpa del sadismo di Marione.

Un assistente di Latino ignorava che "nulla sapeva delle nostre cose" equivale a "non sapeva nulla...". Per cui segnava errore nello scritto, adducendo spiegazioni folli. Alla fine nella discussione che ebbi fuori esame con lui, dovette ammettere che tutte le cose che aveva segnato come errori invece andavano bene.
Per Storia medievale e moderna, cattedra della grande e temuta Gina Fasoli (che interrogava durante le lezioni tenute nell'emiciclo di Anatomia..., ma molto corretta e cordiale agli esami), c'era come assistente Paolo Prodi, oggi famoso docente a livello europeo. L'ho rivisto qualche anno fa alla presentazione di un volume sui Malatesti, ma non me la sono sentita d'andarlo a salutare.

Apparteneva alla categoria dei Saccenti, quelli che vedevano l'esaminando con l'occhio del cacciatore che imbraccia un fucile carico. Nella nostra elementare classificazione, dividevamo gli insegnanti in buoni o carogne. Eravamo molto rozzi ed incivili, noi. Forse lo erano anche quelli che al di là della cattedra credevano che la cultura fosse la memorizzazione di una sequenza di date, e non la capacità di elaborazione della materia. L'assistente di Pedagogia, Mario Gattullo, un giovane meridionale intelligente e saldo nella sua preparazione (e purtroppo scomparso prematuramente per un incidente stradale), aveva il chiodo fisso della Docimologia. Ovvero la misurazione scientifica della preparazione degli studenti di ogni tipo ed ordine di scuola.

Anche per Pedagogia era obbligatoria un'esercitazione decretata da Gattullo. La svolsi per tre mesi in una classe elementare. Divisa in due gruppi. Il primo, esercitato di continuo, alla fine avrebbe dovuto dimostrare maggiore preparazione del secondo lasciato a riposo.

Per una di quelle situazioni che si verificano nella realtà in contrasto con i presupposti dottrinari per non dire dogmatici, accadde tutto il contrario. Il gruppo sempre esercitato alla fine ebbe risultati peggiori del gruppo inoperoso. Il che fece andare su tutte le furie il dottor Gattullo che, non ligio alla filosofia del pragmatismo statunitense che c'insegnava in teoria, se ne uscì con una sentenza irremovibile: "E' impossibile".

Con questa premessa ed esperienza, accettai il lavoro da svolgere per l'esame di Sociologia, facendo pure ricorso ad una pregiudiziale metodologica degna del miglior empirismo nordamericano: "Questa volta vi frego io".
M'inventai tutto, come ho detto. Quella volta feci centro. E' proprio vero, noi ragazzi di una volta eravamo proprio dei bravi scolari.
[Pagina, apparsa sul mio blog della Stampa il 13 Settembre 2008.]
Antonio Montanari



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