il Rimino 2018

Luigi Pasquini. Polemiche antiquate.

"Luigi Pasquini. Un cronista del pennello" è un volume recensito da Paolo Zaghini su www.chiamamicitta.it. Nel libro incontriamo una serie di attacchi a questo pittore e scrittore riminese, nato il 13 febbraio 1897 e scomparso il 20 marzo 1977.

Un esempio. Il critico e storico dell'arte Pier Giorgio Pasini sostiene: "A me continuerà a rimanere difficile perdonarti non tanto le tue innocue vedute grandangolari e traballanti delle piazze riminesi e le pascoliane vedute di paesaggio, quanto il buon senso paternalistico con cui hai condizionato per anni l'opinione pubblica locale, le continue denigrazioni di ogni forma d'arte moderna, le banalità e i luoghi comuni con cui hai contribuito a modellare una mentalità collettiva priva di problematiche culturali e di ogni slancio di ricerca".

Altre opinioni.
Oriana Maroni: "Esponente principe della cultura riminese negli anni del Ventennio, Pasquini si 'inserisce' nel fascismo più per la via del 'sentire' che dell'adesione ideologica. E la romagnolità, il ruralismo, il tradizionalismo, ne sono i principali veicoli".
E poi Liliano Faenza: "Crollato il vecchio mondo nel sangue della guerra civile, Pasquini torna a essere il cronista e il cantore delle cose del luogo, il pittore e pubblicista di provincia inserito però in una sua rete non locale, e in corrispondenza con giornalisti e scrittori nazionali".

Prosegue Paolo Zaghini: "La sua contrapposizione al nuovo sul fronte dell'arte e delle lettere, si accompagna a quello politico, in particolare contro gran parte delle scelte dell'amministrazione comunale riminese volte ad ammodernare una città che stava profondamente cambiando. In anni di duro scontro politico, di contrapposizione totale fra gli schieramenti, Pasquini sulle 'barricate' c'era sempre.
E con lui ci sono i nomi della borghesia cittadina e dei suoi aedi, tutti fermamente uniti dalla nostalgia per il passato, scrittori e artisti: Nevio Matteini, Giulio Cesare Mengozzi, Flavio Lombardini, Oreste Cavallari, Carlo Alberto Balducci, Luigi Arduini, Edoardo Pazzini, Guido Ricciotti, Armido Della Bartola e naturalmente lui, Luigi Pasquini. Tutti trovarono i quei decenni ampi spazi per le loro polemiche, artistiche e politiche, sulle pagine de Il Resto del Carlino.
Ma Pasquini fu anche "amato". Giulio Cesare Mengozzi sulla rivista La Piè nel 1977, in occasione della morte, così lo ricorda: "Un pezzo d'accidente alto due metri, granatiere di Sardegna, nato nel più turbolento dei sobborghi riminesi, quello di San Giuliano, uno di quelli che ridendo e scherzando non lasciano più la preda. Letteratura, arte, folklore, musica nutrirono il suo spirito, e il carteggio con i maggiori esponenti della cultura contemporanea furono il più sentito degli interessi del suo intelletto e del suo cuore"."

Paolo Zaghini ha ragione quando conclude: bisogna "dedicare attenzione e studio ad una città, Rimini, che negli anni '50, '60 e '70 seppe trasformarsi e vincere la sua scommessa: risorgere dalle macerie della guerra e diventare la capitale del turismo italiano ed europeo".


1950, Miss Europa al Gran Hotel

1957, bikini multato


Ha ragione perché è una cosa che io ho fatto anche collegandomi soprattutto all'attività di mio padre Valfredo in campo turistico. La materia la conosco molto bene, per via diretta. Un solo esempio: quando nacque la Sagra Malatestiana al Tempio (da cui è stata poi scacciata di recente), il Comune era contrario, la considerava una cosa per anime pie e pretini anemici.
Nel ripartire dopo i disastri della guerra che avevano raso al suolo la città intera, l’industria turistica offriva un momento di intenso valore culturale con cui s’inseriva il nome di Rimini tra i grandi appuntamenti musicali del tempo.
Allora si era fortemente coscienti, da parte dell'Azienda di Soggiorno, che accanto al mare Rimini dovesse valorizzare anche la sua storia ed i suoi monumenti, come il Tempio che ospitò la Sagra, e che tutto il mondo della cultura ammira ancor oggi come la più sublime testimonianza italiana degli ideali umanistici.

Nel 1992 osservavo nel mio Tama 457 sul "Ponte": "Quando nacque una celebre sagra musicale riminese nel 1950, ad organizzarla furono certe persone di cui non trovo assolutamente traccia in un prezioso volume ad essa dedicato. Il libro è venuto alla luce con contributi (intellettuali e no) molto cospiscui. Era logico, quindi, attendersi che esso rispettasse la storia, dando a Cesare il dovuto. Invece così non è stato.
La colpa non è di nessuno, tranne che del clima che ci caratterizza. Siamo come ai tempi in cui «tutto» era di Popov".

In altra occasione (1985) avevo scritto:
"La grande stagione della Sagra è stata invece negli anni '50, quando approdava in città Arturo Benedetti Michelangeli, con la spider rossa e l'impermeabile bianco indossato nelle umide serate di settembre.
Rimini davanti a quei mostri sacri del concertismo internazionale, non faceva una grinza. Andavano in delirio pochi appassionati, mentre i soliti intenditori da caffè sghignazzavano, un pò perché la musica per loro era soltanto quella delle balere e dei dancing; ed un pò perché la manifestazione si svolgeva nel Tempio, simbolo del clericalismo e del perbenismo borghese. Era l'Italia chiassosa e piadaiola di Peppone e don Camillo, rudemente divisa, di qua le processioni e di là i cortei. Era il dopoguerra, dominato dalla speranza che non mancasse il pane sulle tavole. La cultura era un fatto limitato a pochi, nella scuola e nella vita di ogni giorno. Alla Biblioteca Gambalunga, i tavoli di lettura erano divisi, da una parte gli uomini, dall'altra le donne: e sarà così sino agli anni '60 avanzati. Rimpiangendo quegli anni, si fa la solita musica di chi teme i tempi nuovi, con annessi e connessi.
Al caffè, allora, la Sagra era vista dagli intenditori come un dopolavoro per anime pie e pretini anemici".

Si veda al proposito questa pagina del 2004:
Carlo Alberto Cappelli e Rimini. [il Rimino 2004]
Sul turismo riminese:
Marina Centro. Il turismo riminese (1930-1959) e mio padre Valfredo Montanari.

In una mia pagina web del 24/12/2007 ricordavo Luigi Pasquini come "una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani" aspiranti giornalisti del 1960. Ecco quella pagina del 2007.

E poi c'erano i padri nobili del giornalismo riminese che frequentavano la nostra redazione. O che collaboravano allo stesso «Carlino». Giulio Cesare Mengozzi, antico amico della mia famiglia, sostituiva Montemaggi durante le sue ferie. Luigi Pasquini, una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani. Ai quali Flavio Lombardini offrì di collaborare alle sue iniziative editoriali.
C'era poi la simpatica e discreta presenza di Davide Minghini, il fotoreporter, l'unico che aveva un'auto con cui andare sul luogo di fatti e fattacci. Arrivò ad un certo punto Marian Urbani, il cui marito gestiva l'agenzia di pubblicità del «Carlino». Si mise a fare la simpatica imitazione di Elsa Maxvell, la cronista delle dive americane. Dove c'era mondanità c'era Marian che le ragazze in carne corteggiavano per avere appoggi in qualche concorso di bellezza....
C'era poi un collega giovane come me, che era figlio di un poliziotto, e che andava in commissariato a rubare le foto degli arrestati dalle scrivanie dei colleghi di suo padre. E noi le dovevamo restituire...
C'era una bellissima ragazza, Nicoletta, che da allora non ho più rivisto a Rimini. Ricordo una simpatica serata che Gianni ed io trascorremmo con lei ed una sua amica inglese al concorso ippico di Marina centro. Cercavamo di insegnare alla giovane d'Oltremanica tutte le espressioni più strane del parlare corrente italiano, al limite di quello che il perbenismo di allora poteva considerare turpiloquio. Ma la frase più ardita era semplicemente: «Ma va a magnà er sapone».

Chiamami Città è sempre stato un foglio vivace.
Riandiamo al 1994 quando Gino Pagliarani interviene su Chiamami Città a proposito di una polemica avuta nel '48 con "l'amico -si fa per dire- Sergio". Al termine della lettera, a proposito dell'orazione commemorativa tenuta da Zavoli ai funerali di Federico Fellini, Pagliarani scrive: "Mi dicono che […] incantò la folla. Non mi stupisce. Conosce e pratica virtuosamente l'arte della retorica (fin dai temi del liceo che puntualmente mi leggeva). Gli riconosco -nonostante qualche bidone- anche la volontà e il merito di aver riparato con molte delle sue iniziative televisive certi trascorsi giovanili non di antifascista".
Il fatto curioso è che qualcuno incolpa me per aver citato Gino Pagliarani per le cose che lui ha spolverato nel passato di Sergio Zavoli.
Io allora scrivevo:
Qualcuno ricorda Zavoli in compagnia di Tacchi, al tempo del "falò riacceso". Ha scritto Elio Ferrari: "A Rimini chi non lo vedeva in divisa e con il mitra a tracolla (teste Stelio Urbinati) pure alla colonia Montalti?", sede del fascio repubblichino.
Amici di Zavoli spiegano che egli fu "costretto" a finire tra le file di Salò. Aggiunge Ferrari che Zavoli "è stato tranquillo, facendo l'avanguardista, il soldato nella Repubblica sociale, libero di andare dove voleva".
"Libero" anche di trovarsi a Coriano nell'aprile '44, come rammentarono in quel paese quando, in anni ormai lontani, giunse una troupe della Rai per un'inchiesta televisiva sul fascismo diretta da Zavoli. Gli operatori non furono però guidati dallo stesso Zavoli, ma da un giornalista della sede Rai di Bologna. Nell'aprile '44 a Coriano avvenne la cattura di due "disertori", Libero Pedrelli e Vittorio Giovagnoli, poi affidati al tribunale tedesco che li fece fucilare il 18 maggio ad Ancona.
Finito il secondo conflitto mondiale, Zavoli organizza con amici comunisti un "giornale parlato" diffuso per altoparlante nel centro di Rimini.

Antonio Montanari



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