il Rimino n. 66. Aprile 2001
Memorie riminesi personali e pubbliche.
Archivio 2016

Memorie riminesi.
Ricordi tra personale e pubblico
Capitolo 9. Cento e uno modi...


Ci sono cento ed uno modi per rendersi antipatici al prossimo. Le righe che scrivo in questo nono capitolo sono collegate a quanto ho raccontato nei due precedenti, relativi alle mie ‘trasferte’ savignanesi.
A proposito, l’8 aprile scorso non sono andato a parlare a Savignano, alla Giornata Amaduzziana, com’era previsto dal calendario della manifestazione, perché è inutile presentarsi dove non si è graditi.
Mi sono giustificato con questa “Lettera agli amici”:

"Gentili e cortesi amici: prof. Giulia Cantarutti, dott. Isabella Amaduzzi, dott. Stefano Decarolis. Per l'inatteso spostamento di data di un mio importante impegno di studio, precedentemente assunto e previsto per marzo, dovrò assentarmi da Rimini a cavallo dell'8 aprile. Non potrò quindi partecipare alla Giornata Amaduzziana ed avere l'onore di essere in loro compagnia con la mia relazione (che può leggersi in sunto a questo indirizzo: http://digilander.iol.it/monari/amaduzzi.compiti.html).
Sempre nel mio sito ho inserito un'altra pagina relativa alla nascita dell'Accademia dei Filopatridi: http://digilander.iol.it/monari/adagiati.html.
Prego la prof. Cantarutti, nella sua veste di componente del Comitato Scientifico del Centro Studi Amaduzziani, di comunicare questo mio messaggio al pubblico che interverrà, unitamente al senso del mio personale dispiacere per l'imprevisto impegno nella data dell'8 aprile. Con il più distinto ossequio e sentito ringraziamento. Antonio Montanari Rimini, 31 marzo 2001".

Non ho saputo nulla su che cosa, di me, sia stato detto coram populo o nel segreto di qualche sfogo irato, che non può essere mancato. Posso immaginarlo. Non perché abbia molta fantasia, ma perché ho un certo uso di mondo, e come suol dirsi, conosco i miei polli.
L’episodio savignanese lo commento in due forme.
La prima, facendo ironicamente ricorso alla famosa scenetta di Totò (il principe De Curtis Antonio, ect.), in cui raccontava degli schiaffoni presi da un tale che continuamente, prima di colpirlo, lo chiamava con il nome di Pasquale. Interrogato da Mina su che cosa egli, Totò, facesse o rispondesse al picchiatore, l’illustre comico spiegava di aver taciuto: "Tanto a me che m’importa, mica mi chiamo Pasquale".
Invece io avverto di chiamarmi Pasquale e che non amo lasciarmi prendere a schiaffi per più di due o tre volte di seguito. Il giudizio degli altri m’interessa, ma m’interessa più salvaguardare la mia dignità personale.
Non ho ritenuto opportuno, lecito e giusto continuare a permettere a qualcuno di prendersi gioco di me, soltanto perché è un potente (clan politico-culturali…), trama nell’ombra e spadroneggia.
La seconda forma del mio commento, è più seria. (Ma apro una parentesi dottrinale, teorica, che farebbe la delizia di un frate inquisitore per mandare al rogo un comico qualsiasi. Dove sta il confine fra serietà e facezia? Quel Totò della scenetta di Pasquale, è molto più drammatico del comportamento austero di molti finti gentiluomini che invece sono involontari e, ahinoi, inesperti buffoni.)
Allora, seriamente dico, che io nella vita le rogne, nella maggior parte dei casi me le sono andate a cercare, soltanto per non essere buffone, rispettare la legge, farla rispettare agli altri, comportarmi dignitosamente come mi hanno educato in casa.

In questi ultimi giorni, ho ripensato alla mia esperienza umana, ed ho trovato che inconsciamente ho assunto dei modelli di azione non soltanto in quanto mio padre e mia madre mi hanno sempre severamente insegnato, ma anche in particolari discorsi che, giovinetto, ascoltavo da mio zio Guido Nozzoli, del quale mi scopro di aver ereditato alcuni tratti psico-politici che rifiutano la diplomazia per amore (disinteressato, e spesso autolesionista) della verità.
Questo ovviamente non interessa a nessuno, ma dato che ho il maledetto vizio di scrivere, le posso o no dire queste cose, soprattutto nell’appartato mondo internettiano?
A scuola, ad esempio, ho dovuto scontrarmi per difendere diritti miei ed altrui. Ho già scritto nel cap. 2 di queste Memorie: "... appena ricevuta la nomina a Forlì presso il Valturio, vado alla scuola, dove mi dicono che non c'era la cattedra, e che sarei dovuto andare a Morciano, sede distaccata. Morale, la mia cattedra era stata nascosta per darla ad un'anziana collega non abilitata!".
Aggiungo che, quando l’istituto fu sdoppiato, venni estromesso dalla sede di Rimini ed avviato a quella di Santarcangelo, in base ad una graduatoria interna, nella quale una collega aveva ottenuto punti a suo vantaggio (e quindi a mio danno) facendo figurare handicappato un figlio che aveva soltanto un lieve difetto di pronuncia (una esse un poco sibilante).
Accettai il verdetto, comunicando al vicepreside che il mattino dopo mi sarei recato alla nuova sede di Santarcangelo, non prima di essere però passato alla Procura della Repubblica di Rimini, dove avrei denunciato la Presidenza della Scuola, la collega ed il medico che le aveva fornito una certificazione falsa per il figlio.
Mi fecero rimanere a Rimini, ritirando (prima del suono della campanella delle ore 13), tutta la graduatoria falsa che era stata compilata.
Altre volte dovetti intervenire per tutelare gli interessi collettivi di noi docenti, per l’assegnazione delle cattedre all’interno dell’Istituto, che riuscii ad ottenere che fosse pubblica e non fatta con segreti maneggi nelle stanze della Presidenza.
Mi acquistai (abusivamente) la qualifica di "sindacalista" che in quegli anni ’70-’80 significava per i superiori (termine in uso anche nelle carceri, che individua i secondini), essere una specie di rivoluzionario. Il concetto di diritti individuali non era stato ancora mentalmente digerito e metabolizzato, si parlava soltanto dei doveri. (E di note di qualifica, dove si giudicava anche la condotta privata dell’insegnante, in una specie di rapporto di Polizia al ministero.)
Davanti a tutto questo scenario della mia carriera di "provocatore", come mi ha chiamato un certo professore per aver io scritto che esistevano, contrariamente a quanto Egli sosteneva, degli scritti inediti del Bertòla (che poi ha ricopiato da un mio saggio, senza citarmi), davanti a tutto ciò (dicevo), le storielle che mi hanno fatto a Savignano mi fanno ridere.
Rientrerò in Accademia soltanto dopo che avrò ricevuto delle scuse ufficiali. (Cioè, mai). Non ho fretta. Ho solamente una dignità da difendere. Della quale non importa nulla a nessuno. A molti interessa però il degrado verso cui l’Accademia si è avviata.
Antonio Montanari
(13.4.2001)

Sergio Zavoli candidato al Senato, a Rimini.
Come alcuni riminesi anziani ricordano il famoso giornalista nel 1944.

Capitolo XIV. Tra ieri ed oggi, de I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino.
"Salvò quei giorni di ragazzo […] con franco pudore": Sergio Zavoli ricorda il 25 luglio ’43 vissuto da suo padre che con "una dignità doverosa" fa sparire nell’orto, in una fossa profonda quasi un metro, "le apparenze" del credo fascista, "giacca, pantaloni, camicia, cravatta, cinturone, mostrine e stivali". Nei mesi successivi "quando qualcosa di ridotto al minimo, di irrimediabile e violento tenterà di riprodurre quel potere sconfessato, sarà come se nulla del falò riacceso potesse più riguardarlo. E ciò che del regime venne dopo restò al di fuori della sua storia e si svolse senza di lui, persino contro".

Come furono i "giorni di ragazzo" di Sergio Zavoli poco più che ventenne, al tempo in cui il falò si riaccese? Quando all’inizio del ’43 Gino Pagliarani e Guido Nozzoli erano finiti in carcere, si istruirono "dei processi agli amici di Gino. Si voleva stabilire chi stava con Gino, chi ci stava tiepidamente, chi invece con convinzione: o, peggio, chi non ci stava affatto; o, peggio ancora, chi non ne voleva sapere neanche un po’. E nascevano delle sentenze inappellabili che scavavano degli abissi, oppure cementavano delle solidarietà che durano ancora da allora. Ecco quindi profilarsi la presa di coscienza di ciò che stava avvenendo: e fu grazie ai miei due amici", Gino e Guido. Questo dichiara il 23 gennaio 1983 Sergio Zavoli alla tavola rotonda intitolata Autobiografia di una generazione.

Nel 1994 Gino Pagliarani interviene su Chiamami Città a proposito di una polemica avuta nel ’48 con "l’amico -si fa per dire- Sergio", e rispolverata da Manlio Masini. Al termine della lettera, a proposito dell’orazione commemorativa tenuta da Zavoli ai funerali di Federico Fellini, Pagliarani scrive: "Mi dicono che […] incantò la folla. Non mi stupisce. Conosce e pratica virtuosamente l’arte della retorica (fin dai temi del liceo che puntualmente mi leggeva). Gli riconosco -nonostante qualche bidone- anche la volontà e il merito di aver riparato con molte delle sue iniziative televisive certi trascorsi giovanili non di antifascista".

Qualcuno ricorda Zavoli in compagnia di Tacchi, al tempo del "falò riacceso". Ha scritto Elio Ferrari: "A Rimini chi non lo vedeva in divisa e con il mitra a tracolla (teste Stelio Urbinati) pure alla colonia Montalti?", sede del fascio repubblichino.

Amici di Zavoli spiegano che egli fu "costretto" a finire tra le file di Salò. Aggiunge Ferrari che Zavoli "è stato tranquillo, facendo l’avanguardista, il soldato nella Repubblica sociale, libero di andare dove voleva".
"Libero" anche di trovarsi a Coriano nell’aprile ’44, come rammentarono in quel paese quando, in anni ormai lontani, giunse una troupe della Rai per un’inchiesta televisiva sul fascismo diretta da Zavoli. Gli operatori non furono però guidati dallo stesso Zavoli, ma da un giornalista della sede Rai di Bologna. Nell’aprile ’44 a Coriano avvenne la cattura di due "disertori", Libero Pedrelli e Vittorio Giovagnoli, poi affidati al tribunale tedesco che li fece fucilare il 18 maggio ad Ancona.

Finito il secondo conflitto mondiale, Zavoli organizza con amici comunisti un "giornale parlato" diffuso per altoparlante nel centro di Rimini. Ad una trasmissione è invitato anche Alberto Marvelli che però non si reca all’appuntamento. Marvelli, nato in una famiglia che era stata colpita dalla politica della dittatura (suo padre Alfredo era stato licenziato senza liquidazione, per non aver voluto aderire al fascismo, dal quale lo teneva lontano la sua coscienza di cristiano democratico), durante l’invasione nazista era entrato nella organizzazione tedesca Todt che lavorava alle fortificazioni costiere, non per collaborare con i tedeschi, ma per "tentare di impedire la deportazione di tanti giovani, tentare di salvare molte vite e cercare di fare in modo che i tedeschi non attuassero il loro piano di demolizione totale delle ville sul mare, per far posto a fortificazioni antisbarco", come ha scritto il suo biografo ufficiale mons. Fausto Lanfranchi. Nel dopoguerra Marvelli fu fedele alle istanze di cristiano democratico che rifiutava ogni dittatura, sia nera che rossa.

La sua mancata partecipazione all’appuntamento radiofonico con Zavoli fu probabilmente dettata da motivi politici. Il clima della città di allora è ben descritto in un documento del Cln del 5 marzo ’45 (firmato da Cesare Bianchini futuro primo sindaco comunista di Rimini, e pubblicato nel ’97 da Valerio Lessi), nel quale si legge: "Gli uomini come l’ing. Marvelli sono quelli che hanno portato l’Italia alle attuali condizioni e saranno quelli che la rovineranno ancora di più".

Il 21 marzo ’46 la dc cittadina preannuncia al Cln le dimissioni di Marvelli dall’incarico di assessore per gli alloggi al Comune di Rimini.

Nel ’96 Zavoli ha parlato a Rimini di Alberto Marvelli. Ripensando alla "grande tragedia della guerra", ha detto: "Siamo stati davvero la comunione dei Santi perché eravamo la società del dolore".

In molti dopo il 25 luglio seppellirono le apparenze del loro passato fascista. Avevano creduto in Mussolini, rifiutarono l’appoggio ai repubblichini. Ci fu chi si chiuse nel silenzio della delusione. Altri sbarcarono su opposte sponde, non sappiamo se per convinzione o convenienza. Qualcuno cercò di accreditarsi come antico nemico del regime senza averne titolo.

Ancora oggi sono vive le polemiche. Al di là dei riferimenti alle singole persone, certe notizie servono a ricostruire un momento storico. Flavio Lombardini ha ricordato un episodio capitatogli il 6 agosto ’45. Viene avvicinato da "un gruppo di giovani appena in età della ragione" che vogliono conoscere quale ruolo abbia avuto con il suo insegnamento di Educazione fisica nelle "scuole fasciste": "Mi rifiuto di rispondere perché non ho niente da giustificare". Lombardini sta per essere picchiato dal più giovane del gruppo, un ragazzo sui diciassette anni, che ha al collo un fazzoletto rosso.

In soccorso di Lombardini giunge "un ‘vecchio camerata’ che occupa un posto di rilievo nel Comitato di Liberazione", il comunista Arnaldo Zangheri.

I giorni dell'ira. Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino
Antonio Montanari

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