Viva la squola. (5)
Romolo Comandini, grande maestro di vita
In prima Media pianse leggendo le storie di guerra

Quando vedo passare la mattina i bambini che vanno alla scuola elementare curvi sotto uno zaino per nulla proporzionato al loro fisico, mi assale un atroce dubbio: la Cultura è fatta consistere oggi in una massa di oggetti che rischiano di schiacciare il portatore? Vorrei sapere tanto quale serie infinita di cose e di libri debbono insaccare in quello strumento di tortura che quarant’anni fa era tipico dei militari di leva che incontravi nelle stazioni ferroviarie in attesa del treno accelerato il quale (nonostante il nome) era il più lento di tutti, ma pure era l’unico sul quale i soldati erano autorizzati a salire per compiere a passo di lumaca viaggi lunghissimi. Con i quali si accorciavano però le distanze fra le regioni d’Italia e si affratellavano ogni giorno i ragazzi del Sud con quelli settentrionali. Non ancora aspiranti secessionisti.

Dalla cartella
alla cinghia
Allora i militari avevano l’obbligo d’indossare la divisa, ed erano sorvegliati dalla ronda di tre colleghi che percorrevano le strade della città ed entravano anche nei cinema. Poi la divisa è stata gettata alle ortiche, i soldati non erano più tali, ma «borghesi» qualsiasi, più liberi, ma anche meno controllabili sotto il profilo dell’ordine pubblico. I loro pesantissimi zaini scomparsi dalle immagini ferroviarie, oggi li incontriamo nelle ore d’ingresso e d’uscita dalle scuole elementari. Madri, padri, nonni o zie debbono a volte sostituirsi alla povera creatura che sarebbe incapace di reggerne il peso.
La mia generazione era stata abituata alle elementari di oltre mezzo secolo fa a recarsi a scuola con la cartella. In quell’immediato dopoguerra, averne una di pelle era lusso impossibile ai comuni mortali. C’erano i primi esemplari di una materia nuova, che chiamavano plastica, più abbordabile, e distinta dalla comune borsa di fibra, una parola che oggi conosciamo con un altro significato. Nel mondo delle fibre ottiche e vegetali soltanto noi vecchi (ed i dizionari: ma si usano ancora?) sappiamo che la fibra era un cartone pressato (ed impregnato in un bagno speciale: cloruro di zinco) usato in valigeria per confezionare le cartelle rigidamente squadrate. Su Internet nel sito del «Museo della Civiltà e del Lavoro in Polesine», si legge che «la cartella doveva durare il più possibile nella carriera scolastica altrimenti, se si rompeva, i genitori del bambino gli costruivano una cartella di legno, molto più pesante».
Negli anni successivi, quando eravamo diventati più grandi, la cartella scomparve quasi del tutto (alla metà degli anni Cinquanta) sostituita dalla cinghia di stoffa (negli anni successivi quando già insegnavo divenne di elastico), che era il massimo dell’indipendenza rispetto alle regole della scuola: infatti essa non poteva raccogliere che qualche smilzo volume oltre a due o tre magri quaderni messi assieme più per darsi l’aria di studiare che testimoniare l’effettivo svolgimento dei compiti a casa.

Severità
umana
Per mia sfortuna sono sempre stato dotato di una cartella. Prima alle Elementari perché essa ci dava la dignità di essere trattati come piccoli adulti. Poi perché alle Medie gli insegnanti pretendevano che a scuola andassimo armati di tutto punto: libri dizionari quaderni matite penne… In prima Media (1953-54) quel grande educatore che fu il professor Romolo Comandini, impose l’obbligo di avere anche il diario su cui segnare i compiti da svolgere e le lezioni da imparare, con la punizione prevista per gli inadempienti di un quattro nella materia in cui il fatto si fosse verificato e accertato. Alle Medie Panzini avevamo ancora quei vecchi banchi nei quali la cartella si nascondeva in un ripiano posto sotto il piano di lavoro, e che era grande come tutto il banco.
Era facile che qualcosa anziché avviarsi nella cartella si perdesse nel buio di quel nascondiglio ove finivano anche le merende e le cicche americane appiccicate temporaneamente nei momenti meno adatti al loro uso. Mi capitò una volta di non ritrovare più il diario dentro la cartella, e con gesto eroico, giudicato folle dai compagni di classe, dissi a Comandini che lo avevo lasciato a casa. Dove appena rientrato lo cercai attentamente senza rinvenirlo. Mi fiondai di nuovo a scuola ed a tastoni lo trovai nascosto nella parte più profonda del diabolico ripiano del banco, come riferii la mattina seguente all’insegnante. Il quale vista la mia auto-denuncia non se l’era sentita di punirmi con il quattro previsto dalle sue stesse disposizioni.

Figlio di
operai
L’episodio mi convinse che la sincerità è premiata dalla persone oneste come era Comandini, uomo ancora giovane il quale però aveva alle spalle la dura esperienza della guerra e del campo di concentramento. Era nato a Roncofreddo nel 1915 (quindi non aveva ancora 40 anni) in una famiglia operaia poi emigrata in Francia. Era stato allevato da una prozia, negli anni del Ginnasio inviato al collegio della Consolata a Torino. Aveva proseguito gli studi nei seminari di Pennabilli e Fano, ed aveva frequentato l’Istituto magistrale Valfredo Carducci di Forlimpopoli diplomandosi nel 1936. Cinque anni dopo si laureò al Magistero di Firenze. Partì per la guerra. In Jugoslavia fu fatto prigioniero e deportato in Germania dal 1943 al 1945. Cominciò ad insegnare alle Elementari, passò alle Medie inferiori e superiori. Alle Panzini cittadine fu dal 1949 al 1957. Sino al 1966 insegnò Lettere al Tecnico Roberto Valturio di Rimini. Infine divenne preside a Cento ed a Forlì. Scomparve nel 1971, mentre stava per conseguire la libera docenza in Storia della Chiesa, materia in cui condusse studi di grande importanza, come ebbe a sottolineare il prof. Augusto Campana in una conferenza commemorativa tenuta a Sant'Agata Feltria: dove «appariva un paesaggio grigio ed uniforme, oggi per merito suo si incomincia a vedere una scena varia e viva».

Primavera
del 1954
L’indelebile ricordo dell’esempio educativo di Romolo Comandini l’ho testimoniato chiudendo nel 1989 il mio primo lavoro editoriale, «Rimini ieri 1943-1946» con queste parole: «Prima Media. Salutammo il nostro insegnante, Romolo Comandini, regalandogli un libro, le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”. Il professore lo aprì e ne lesse alcune pagine, piangendo. Era la primavera del 1954. Per la prima volta scoprimmo il vero volto della Storia, con atrocità e tragedie».
Negli anni successivi ogni nostro incontro era una sua grande testimonianza d’affetto nei confronti dell’antico alunno che conservava verso di lui una particolare devozione intellettuale. Comandini ci insegnò non tanto alcune materie, quanto un metodo di lavoro che fu prezioso negli anni successivi, e non soltanto come studenti ma pure per la vita ed il lavoro.
Il destino volle che la mia prima supplenza appena conseguita la laurea avvenisse nella primavera del 1966 al Valturio del preside Remigio Pian che aveva come suo vice proprio Romolo Comandini. Sembrava quasi che un cerchio si chiudesse. Era come se una pista tracciata da lui nel punto di partenza, arrivasse al traguardo ancora con chi più di ogni altro aveva contribuito a fornire i fondamentali strumenti operativi necessari per organizzare lo studio e quindi anche l’insegnamento.
A molti anni di distanza, accadde che frequentassi per motivi di studio la Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, nella quale erano confluiti nel frattempo libri, documenti ed appunti di Comandini: 5.000 volumi, 130 cartelle contenenti migliaia di carte, ed una ventina di manoscritti. Era allora bibliotecario dei Filopatridi il dottor Luigi Ughi che ne aveva promosso un primo lavoro di sistemazione e di schedatura. Lo stesso dottor Ughi, amico fraterno del professore, volle che io lo commemorassi in una conferenza alla stessa Accademia, il 24 ottobre 1993 alla presenza della vedova e del figlio.
Comandini seppe farsi amare da tutti. Più delle mie parole conta la testimonianza del professor Carlo Alberto Balducci: egli ebbe un temperamento «incapace, non dico di risentimenti e di odii, ma nemmeno di antipatie e di estraniazioni».

Carlo Alberto
Balducci
Nell’anno scolastico 1968-69 Balducci mi accolse affettuosamente come giovane collega alle Magistrali, rette da un galantuomo come il prof. Giorgio Magnani di Bologna. Erano giorni inquieti. Magnani non si destreggiò come usa nei pavidi. Governò saldamente con rispetto verso tutti e soprattutto per far rispettare da tutti la legalità. In un collegio dei docenti, in cui ci furono accese discussioni sulla vita scolastica e su quella che allora di chiamava la contestazione, si sentì sommessa ma ferma la voce di Balducci: «Anche a noi non piace questa società». Era una frase che, lo confesso, allora mi passò via veloce, nel clima incandescente di quei momenti. Ma essa mi è tornata spesso alla mente, negli anni successivi, sempre legata all'immagine del prof. Balducci. E sempre quelle parole mi hanno fatto riflettere, perché dentro portavano il segno non di un ribellismo giovanilistico, allora tanto di moda, ma di una consapevolezza religiosa e storica di quanto chiede l'umanità nella difficile (o impossibile?) ricerca della giustizia terrena.
Egli aveva un atteggiamento di mitezza e di modestia, non voleva mai metterti a disagio, anche quando la sua autorevolezza culturale avrebbe potuto incutere timore, almeno a noi di una generazione abituata al rispetto dei più anziani e dei più degni. Era stato preside del Serpieri, passò al Classico, succedendo ad Arduino Olivieri. Poi, preferì tornare all'insegnamento, che forse riteneva più consono al suo spirito di educatore. E di cristiano che cercava di vivere con umiltà il Vangelo.

(5 – continua)

Alla puntata n. 1
Alla puntata n. 2
Alla puntata n. 3
Alla puntata n. 4

Antonio Montanari


1197/2006