Da un Documento della
Sinistra internazionalista antistalinista:
“Una volta un valentuomo si immaginò
che gli uomini annegassero nell’acqua soltanto perché
ossessionati dal pensiero della gravità. Se si fossero tolti di
mente questa idea, dimostrando per esempio che era un’idea
superstiziosa, un’idea religiosa, si sarebbero liberati dal
pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté
l’illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni
statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo
valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco”.
Così scriveva Marx nell’Ideologia tedesca1, prendendo in
giro l’idealismo che si diffondeva in Germania all’approssimarsi
degli eventi rivoluzionari borghesi del 1848 – eventi di cui la
borghesia stessa aveva grande terrore, perché mettevano in moto
un proletariato giovane e combattivo.
A più di un secolo e mezzo, il medesimo terrore abita (e
debilita) la mente dei filosofi (?) controrivoluzionari d’oggi,
allarmati dalla crisi economica in atto in quanto potenzialmente
foriera di eventi rivoluzionari.
Parliamo qui del molto noto (nei circoli intellettuali e di
finta sinistra) Serge Latouche, “teorico della decrescita”, e
della sua lectio magistralis dal titolo “L’invenzione
dell’economia e la decrescita”2.
Quando i filosofi filosofano
Niente di nuovo, a ben vedere. In ogni crisi economica che
sconvolge anche le sovrastrutture ideologiche, c’è sempre più di
un filosofo ossessionato dalla ricchezza, dall’avidità e… dal
Pil pro-capite – dal fatto cioè che esso non misura… la
felicità, il vero benessere, “i quali non possono essere
quantizzati sotto forma di beni e servizi commerciali e affini,
prodotti e consumati” (ma guarda!).
La proposta di Latouche è invece di “concepire e costruire
una società di ‘abbondanza frugale’ e una nuova forma di
felicità”.
Insomma, un nuovo francescanesimo: e vi sembra poco?
In realtà, la materia sul piatto
risulta alquanto miserella: roba vecchia rimasta ad
ammuffire in qualche magazzino di libreria (o nel retrobottega
cerebrale di qualche “nuovo vecchio filosofo”), che non ha
nemmeno la dignità di una Filosofia della miseria del signor
Proudhon (quello stesso contro cui Marx diresse la propria
efficace risposta, tagliente e ironica nello stesso tempo, in
Miseria della filosofia)3.
C’immaginiamo la scena della lectio
magistralis.
A bocca spalancata, si accalcano gli
adepti francescani del cenacolo frugale, aspettando che
parli l’oracolo: nessuna meraviglia se fra questi troveremo
anche una bella fetta di piccola borghesia di sinistra, di
variopinto pretume, oltre che di grassa borghesia industriale,
molto interessata a proporre… le ricette crudiste ai propri
operai – in fin dei conti, se c’è la crisi, che… si mangi di
meno!
Il demagogo, nemico del consumismo
(ma soprattutto del comunismo), non potrà che esprimersi in
pompa… magna.
Udite un po’:
“è necessario decostruire l’ideologia
della felicità quantitativa della modernità; in altre parole,
per ‘decolonizzare l’immaginario’ del Pil pro capite, dobbiamo
capire come si è radicato”.
Un’operazione, come si comprende, tutta
all’insegna di una “rivoluzione culturale”, che meriterebbe una
sonora pernacchia da parte di qualche operaio disoccupato e
incazzato: ma per fortuna, gli operai non frequentano simili
festini letterari, abituati come sono a una “frugalità” che
rasenta la fame, anche quando sono occupati.
Il nostro scopo è smascherare questi
consiglieri fraudolenti, questi maîtres à penser che in
un’epoca di crisi infestano il terreno della lotta di classe,
ostacolandola mentre tenta (molto faticosamente, dopo
ottant’anni di controrivoluzione) di aprirsi la strada con la
violenza rivoluzionaria: l’unica strada possibile e necessaria
nel mare della palude interclassista.
Infatti, c’è di tutto, in giro, in
una società parassitaria in stato d’incipiente catastrofe: chi
domanda un surplus di consumi in epoca di sovrapproduzione4, chi
sostiene che è tempo di responsabilità collettiva e nazionale,
chi chiede riconversioni produttive pro domo sua, chi propone
riforme di struttura di cui lo Stato si dovrebbe fare
decisamente carico e garante (soprattutto nei confronti di…
banche e aziende), chi parla di emergenza morale, ecc. ecc….
Ma la violenza di classe, orientata
all’abbattimento di questo marcio sistema e alla presa del
potere, per carità: mai!
Su tutto regnino, sotto scorta e imperio
della legge, l’Ordine sociale e la sua deliziosa consorte, la
pace dei cimiteri!
Nelle alate parole di Latouche, non si
tratta nemmeno lontanamente di ciò che abbiamo definito5
“dittatura sui consumi”, che il potere proletario immediatamente
imporrà sulla società (in poche parole: chi non lavora non
mangia!).
Si tratta al contrario di come…
sottonutrire oggi i proletari, troppo abituati, a parere del
nostro dotto, a un regime di “felicità quantitativa”.
Non dice questo?
Allora, dovremmo pensare che sia
ossessionato, non dall’idea della gravità come i filosofi
“rivoluzionari” del XIX secolo di cui parlava Marx, ma dall’idea
del Pil pro capite: liberiamoci del Pil, decolonizziamo il
nostro immaginario dal suo influsso, decostruiamo l’ideologia
dell’avere, e riacquisteremo così la felicità, quella vera!
La natura borghese del prof. Latouche
non si ferma all’enunciazione e alla propaganda: va in fondo
all’analisi.
Tira fuori dalla memoria niente di meno
che Saint-Just, la Dichiarazione di indipendenza degli Stati
Uniti del 1776 e l’innesto dell’idea di felicità nel cuore della
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Ma… dov’è andato a finire quell’ideale
dell’illuminismo?
Pare proprio che la felicità si sia
sporcata le vesti e la faccia nei bassifondi della realtà, dove
nemmeno un lume più la rischiara.
Il Pil è colpevole di misurare il “ben
avere statistico”: “la stima della somma dei beni e dei servizi
è calcolata al lordo, ossia senza tener conto della perdita del
patrimonio naturale e artificiale necessario alla sua
produzione”, pontifica Latouche.
Anche noi torneremmo volentieri indietro
nel tempo, ma solo per strappare dal sonno eterno quei
politici-filosofi utopisti che, nei primi anni del XIX secolo,
aprirono involontariamente la strada al comunismo scientifico:
ma che distanza abissale tra questi e le giuggiolate di un
Latouche!
Tra i lumi del passato rivoluzionario
borghese, il nostro fa aleggiare anche lo spettro di Robert
Malthus, il grasso pretonzolo rappresentante dei ceti parassiti,
il quale, discutendo amabilmente con l’economista Jean Baptiste
Say, si chiede se la conversazione non debba essere considerata
un’attività produttiva.
Ovviamente, fra pari scansafatiche la
conversazione fa bene: ma poi, viene loro il dubbio che la
soluzione di considerare produttivi il cantare, il conversare,
l’accedere alle passioni, non possa portare all’autodistruzione
dell’economia come campo specifico.
Ahimè!
A questo punto la conversazione giunge
alla conclusione naturale: la vera felicità è quella del consumo
(non da parte degli operai, donne e uomini, che se potessero
avere insieme la pancia piena e la conversazione assicurata dopo
pranzo non metterebbero più piede in fabbrica)!
Se la felicità è inerente dunque al
consumo, perché non imporre un nome nuovo al Pil? Il nome più
azzeccato sarebbe il Fil (Felicità interna lorda...).
Ma il nostro filosofo non è convinto:
sarebbe comunque una felicità quantitativa, e non quella
qualitativa di cui avremmo bisogno: “il Pil esclude le
transazioni fuori mercato, i lavori domestici, il volontariato,
il lavoro in nero, le spese di riparazione, ecc.
Ormai scaldati i motori, Latouche procede
a ruota libera e propone un altro campione borghese, Robert
Kennedy (!), che, imbeccato dall’economista Galbraith, prima di
essere ucciso avrebbe dichiarato: “il nostro Pil […] include
l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette e le
corse delle ambulanze che raccolgono i feriti sulle strade,
include la distruzione delle nostre foreste e la scomparsa della
natura. Include il napalm e il costo dello stoccaggio dei
rifiuti radioattivi.
In compenso il Pil non conteggia la salute
dei nostri bambini, la qualità della loro istruzione, l’allegria
dei loro giochi, la bellezza della nostra poesia o la saldezza
dei nostri matrimoni. Non prende in considerazione il nostro
coraggio, la nostra integrità, la nostra intelligenza, la nostra
saggezza.
Misura qualsiasi cosa, ma non ciò per cui
la vita vale la pena di essere vissuta”. Sagge considerazioni,
da parte di uno dei grandi marpioni della storia politica
borghese del XX secolo!
Ora, non c’era proprio bisogno di
ricorrere alla solita americanata per capire che il calcolo
dell’andamento del Prodotto interno lordo è sempre stato poco
meno che una panzana.
In un’economia in cui i servizi e la
finanza hanno un peso sempre più grande, che cosa sia il Pil
in termini reali, che cosa rappresenti, non si sa più.
Eliminando l’effetto dell’inflazione, il
Pil dovrebbe infatti misurare grandezze fisiche: ma se questo è
già problematico per il settore industriale, dove si producono
milioni di merci diverse, figuriamoci nei settori dove non c’è
una vera e propria produzione fisica, come nei servizi e nella
finanza.
Le misurazioni diventano sempre più
inaffidabili, per cui il nostro filosofo trova il terreno
già seminato da misure alternative e sostitutive, che mostrano
divergenze sempre maggiori rispetto alle statistiche ufficiali.
Latouche in realtà è rimasto paralizzato
dall’insulsaggine del Pil e quindi, invece di capire la sua
inconsistenza reale, lo identifica con… il demonio. Se
riuscissimo a togliercelo dalla testa (“vade retro, Satana, esci
da questo corpo!”) e usassimo al suo posto un “Pil qualitativo”,
staremmo tutti felici e… freschi!
Ma non gli basta: il nostro
stregone-esorcista ha bisogno di un linguaggio più aulico. Si
tratta, dice, di una “pauperizzazione psicologica”, di cui
occorre liberarsi.
Se i lavoratori del mondo intero potessero accedere alla
conoscenza profonda del loro bisogno “distorto”, se gli affamati
d’Africa e del Medioriente sapessero di questa “carenza
psicologica”, potrebbero trovare lavoro… milioni di analisti e
psicoterapeuti.
E invece, che cosa tocca sopportare?
Anni e anni di catena di montaggio e di
lavori forzati, di lunghe file nelle sedi sindacali e di
manganellate della polizia!
Si capirebbe invece che servono
infrastrutture che creino “valori d’uso non quantificato e non
quantificabile dai fabbricanti professionali del bisogno”.
Ma poi “uscire dall’immaginario economico
implica rotture molto concrete”. Ohilà, le paroline mancanti!
“Rotture concrete”? Si convertirà dunque il nostro alla lotta di
classe?
Una variante antiglobal
Tiriamo il fiato, concediamoci un
intermezzo prima di riprendere la critica. Nel tempo della
grande abbuffata della globalizzazione, degli inni al mercato
che tracimava e distruggeva piccole economie incapaci di
resistere agli uragani delle forze produttive, le giaculatorie
erano diverse: l’antimperialismo reazionario affidava il suo
riscatto alle anticaglie, che nessuno poteva e voleva salvare.
“Occorre una nuova democrazia”, si
diceva, “che permetta di eleggere rappresentanti affidabili
contro burocrati globali: il potere deve essere affidato alle
persone e alle comunità”.
E ancora:
“contro la delocalizzazione che la
globalizzazione economica impone, e quindi contro
l’impoverimento delle comunità e delle economie locali, è
necessario invertire la tendenza”,
gridavano migliaia di giovani e non più
giovani, marciando e issando cartelli. “Solo quando un’attività
non può essere soddisfatta localmente il potere e l’attività
devono spostarsi a un livello più alto: il percorso dovrà essere
quello che va dalla regione, alla nazione, al mondo”.
Sul piano del lavoro, gli antiglobal si
ergevano a difesa dei piccoli agricoltori, espropriati delle
proprie terre, e dei pescatori, privati del proprio ecosistema
costiero: essenziali entrambi “per costruire un mondo dove tutti
possano vivere e lavorare con dignità”. Incapaci di concepire
una possibilità rivoluzionaria, che spazzi via come un uragano
le immense forze distruttive del capitalismo, le piccole
creature del sottobosco capitalistico invocavano d’essere
salvate dalla furia devastatrice.
Occorre, sostenevano strisciando tra
Bruxelles, i palazzi dell’Onu e il Chiapas (ricordate il Chiapas,
il sub-comandante Marcos?), lottare per… la sostenibilità
ecologica, difendere la diversità, la sussidiarietà, l’equità,
il principio di precauzione: “le comunità e le nazioni sono
sicure”, sostenevano, “quando la popolazione ha cibo sufficiente
e in particolare quando produce il proprio cibo”.
E aggiungevano: le persone vogliono che
questo cibo sia certo, che non sia una merce scarsa, come
avviene da quando le corporations si sono impossessate di tutti
i mezzi di distribuzione e di scambio.
La globalizzazione ha aumentato la
disparità fra ricchi e poveri all’interno della maggior parte
dei paesi, le tensioni sociali sono diventate una minaccia alla
sicurezza generale... Dunque, oltre ai diritti civili e
politici, “occorre”, dicevano, “garantire anche i diritti
economici sociali e culturali”.
Invocavano la loro salvezza, mentre
tutt’intorno intere aree erano sconvolte da guerre, stupri
etnici e pogrom, mentre collassavano intere regioni devastate da
terremoti, tsunami, tracimazioni di fiumi e di fango, mentre la
massa immensa dei proletari interni e immigrati si accresceva e
si incamminava per le vie dell’intero pianeta per creare
quell’immensa ricchezza che a loro era negata...
E intanto, le “piccole comunità isolate” (il
mondo dei Puffi) cercavano degli sponsor per il
proprio caffè, per la piccola produzione, per i prodotti
biologici e artigianali...
Ora, questa vecchia malattia a
contenuto proudhoniano e bakuninista (lo sosteniamo
da sempre) è contagiosa:
l’opportunismo tenta di inocularla nelle file operaie,
spostando le posizioni politiche e storiche del proletariato su
un terreno interclassista, a fianco di strati piccolo- e
medio-borghesi della società.
Questa è la sede di tutti gli errori,
la fonte di tutte le rovine.
Qual è in effetti la sostanza
piccolo-borghese della “critica” all’imperialismo?
E’ quella di immaginarsi e far credere
alla classe operaia che l’imperialismo possa essere diverso (più
benevolo, più corretto, più premuroso, più equilibrato), purché
si ascoltino i sermoni dei preti piccolo-borghesi;
che la classe operaia possa raggiungere il benessere, restando
in piedi il capitalismo;
che ci possa essere un capitalismo senza crisi periodiche, senza
disoccupazione, senza miseria, e soprattutto senza guerre, senza
oppressione dei popoli e delle nazioni più deboli, senza lotta
accanita per i mercati e le fonti di materie prime… e tutto
questo al prezzo stracciato di qualche pacifica riforma dello
stato borghese.
Come diceva Lenin, è questa la sostanza
del riformismo piccolo-borghese: un capitalismo pulito, leccato,
moderato, ordinato!
E invece non esiste altro capitalismo
che il capitalismo e il profitto è il suo profeta: dunque, o si
sta dalla parte del proletariato o si è contro di esso.
E per lo stesso proletariato vale il grido
di battaglia di Marx: “il proletariato o è rivoluzionario o non
è nulla”!
Erano dunque i tempi delle illusioni, per
le tante comunità destinate allo sfascio totale.
“Improvvisamente”, poi, entra in scena una crisi economica il
cui potenziale distruttivo è paragonabile a quello del ’29, se
non peggio.
Panico!
Sconcerto!
Tradimento!
Ma quelle illusioni, fondate come
sono sulla piccola produzione, su un lavoro “concreto” che cerca
di salvarsi in epoca di prosperità, di avere un proprio sia pur
piccolo spazio, sono dure a morire.
Ora che siamo entrati nel gorgo della
tempesta, che cosa ne è dunque di queste comunità? che cosa ne è
delle tante promesse ai popoli affamati e derelitti?
Dove sono gli sponsor dalla pancia piena?
“Bambole, non c’è una lira”, denunciano
dal palcoscenico sociale i bilanci degli Stati.
“Il debito pubblico è arrivato alle
stelle, occorre tirare su le maniche, stringere la cinghia”.
La nostra critica alle illusioni di questo
mondo di dannati ai limiti del baratro tendeva allora, all’epoca
dei no-global o anti-global trionfalistici (ricordate il nume
tutelare Naomi Klein?), a dimostrare che solo la direzione del
proletariato guidato dal partito rivoluzionario poteva dare
qualche speranza ai dannati della terra.
Sappiamo d’altronde, per teoria e per
esperienza, che la loro domanda, la loro azione, in tempi in cui
la dinamica borghese corre in fretta, sono sorde al contatto
vivificante del proletariato in lotta.
Sappiamo che solo quando la
pauperizzazione, quella reale, li porterà sulla soglia
dell’abisso, allora, forse, sarà possibile trascinare la loro
massa sulla scia del proletariato che tenta l’assalto al cielo.
E per tutti questi strati che cosa
significa la “felicità quantitativa”?
Nel mezzo della tempesta
Ma il pragmatismo americano alla Naomi
Klein non bastava più: ci voleva il condimento filosofico alla
francese, ed ecco che arriva Serge Latouche. Il quale si accoda,
e naturalmente filosofa: riscopriamo tutti quant’è bello tirar
la cinghia, che bel rumore fa la pancia vuota!
Dalla sua cattedra, denuncia un modello
economico in cui il “Pil quantitativo” sarebbe il non plus ultra
della ragioneria nazionale e internazionale. “Occorrono rotture
radicali concrete”, esclama!
E allora, novello Don Chisciotte, lancia
in resta si dà a colpire quel gigante immaginario, da cui
discende una nutrita figliolanza (per esempio, gli indicatori
del debito/Pil e del deficit/Pil, posti quali colonne d’Ercole a
difesa di un’unità monetaria europea che fa acqua da tutte le
parti – indicatori che ballano a seconda dell’ubriacatura
finanziaria internazionale e degli interessi nazionali in
gioco).
E sentite le ricette:
“Sarà necessario fissare regole che
inquadrino e limitino l’esplosione dell’avidità degli agenti
(ricerca del profitto, del sempre più): protezionismo ecologico
e sociale, legislazione del lavoro, limitazione della dimensione
delle imprese e così via. E in primo luogo la ‘demercificazione’
di quelle tre merci fittizie che sono il lavoro, la terra e la
moneta”…
Il talento per le barzellette è,
come si vede, al centro della sua dottrina educazionista: egli
vede le classi sociali e i suoi agenti come bambini dell’asilo
nido, a cui vorrebbe far indossare un grembiulino perché non si
sporchino, da controllare notte e giorno perché non vadano di
nascosto a rubare la marmellata.
Come gli antiglobal o no global e gli
antenati del ceppo anarchico, vorrebbe limitare la dimensione
delle imprese, proteggere e “de-mercificare” pacificamente la
società dello spreco per lo spreco. Demenziale!
Mentre i comunisti rivoluzionari aspettano
con ansia che il bestione esploda proprio a causa di quella sua
avidità sociale generale, di quel suo divorare mercificando
tutto quello che tocca, e affilano le armi per la sua
distruzione attaccandolo nei suoi punti deboli, nelle sue crisi
di rigetto, questo pretonzolo alla Don Bosco vuole salvarlo.
“Parallelamente a una lotta contro lo
spirito del capitalismo [sic!], sarà opportuno dunque favorire
le imprese miste in cui lo spirito del dono [sic!] e la ricerca
della giustizia [sic!] mitighino l’asprezza del mercato”.
O gran virtù dei cavalieri antichi!
Nemmeno il De Amicis del libro Cuore è
mai arrivato a tanto:
il povero scrittore ottocentesco almeno
era giustificato dallo spirito unitario nazionale (o almeno
dalla sua propaganda!), ma il nostro filosofo dell’anno 2010 è
sicuramente colto da “demenza senile”. In questo suo frullatore,
stanno bene lo Stato, le classi sociali, il mercato, il
salariato, le imprese, ecc.: praticamente, il presente stato
sociale, purché sia… buono e virtuoso, per virtù delle sante
disposizioni dell’animo evangelizzato.
Per arrivare all’abbondanza frugale, le
proposte degli “alter mondisti”, quelli dell’economia solidale,
del volontariato, del “chilometro zero”, delle “alternative
regionali”, e via farneticando, sono bene accetti ai “partigiani
della decrescita”, di cui Latouche si sente padre fondatore.
Con grande modestia, autocertifica come
rivoluzionario il suo programma (si fa per dire) e la sua azione
riformista: una società conviviale, organizzata attorno allo
spirito del dono, e una bandiera in cui sono ricamate tante
luminose R: “rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare,
rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare, riciclare.
Tutte insieme possono portare, nel tempo,
ad una decrescita serena, conviviale e pacifica”6.
Dei quattro cavalieri dell’Apocalisse che
guidano il carro del capitale (Pestilenza, Guerra, Carestia e
Morte) non c’è più traccia: basta concentrarsi bene sulle “otto
R”, credere fermamente in esse, praticarle (chissà mai come?), e
il miracolo di San Serge è compiuto, il Pil s’è sciolto!
Questo spirito cristianuccio
dovrebbe dunque essere il guardiano interiore dell’ordine, della
pace sociale. L’utopismo che Latouche rivendica è lo stesso
Aldilà religioso sfuggito da qualche angolo di sagrestia o da
qualche incensiere.
Da quando la rivoluzione borghese ha
separato Stato e Chiesa, ogni pacifismo gioca a rimpiattino tra
concezioni mistiche e milizia controrivoluzionaria, e il suo
santo terreno di gioco non è altro che il cimitero.
La dura critica che in un altro articolo
Latouche porta alla Chiesa cattolica e alle sue encicliche si
muove dentro queste contorsioni ideologiche.
Attratto dalla mistica, egli
infatti richiama le parole dell’evangelista Matteo: “Nessun uomo
può servire due padroni. Poiché sempre odierà uno e amerà
l’altro. Non si può servire al contempo Dio e Mammona”7.
E dunque, se Mammona è il Pil, qui Dio
rappresenta l’economia degli orticelli privati.
Ma l’economia degli orticelli privati è quella stessa economia
pre-capitalista da cui faticosamente un’immensa massa di
popolazione rurale si è staccata, sotto la spinta imperiosa di
un capitalismo nascente e trionfante, nel corso di un infinito
processo di proletarizzazione – sola condizione affinché gli
espropriati possano poi giungere a espropriare a loro volta gli
espropriatori (la grande produzione, la grande distribuzione).
Dunque, non per tornare alla pace dei
campi (che non c’è mai stata), ma per abbattere finalmente un
modo di produzione che ha chiuso il suo tempo storico e aspetta
solo una rivoluzione violenta che distrugga i vecchi rapporti di
produzione: cioè, l’azienda come unità economica, il mercato dei
produttori autonomi, il denaro e con esso il profitto, la
rendita, l’interesse, il salario…
Il filosofo sa tutto questo, ne ha sentito
parlare (è pur sempre un intellettuale, ohibò).
Ma, poiché milita nella fureria
antistalinista di stampo democratico (altra nefasta
conseguenza dello stalinismo), egli, come i suoi compari,
continua a contrabbandare per “socialismo” quanto avveniva nella
Russia degli anni ’30 e ’40 (i piani quinquennali, lo
stakhanovismo, la competizione con l’Occidente a colpi di
produttività accresciuta, ecc. ecc.) e non vuole comprendere che
non si trattava d’altro che di capitalismo, con i suoi ritmi di
sviluppo infernali, gli orari di lavoro ossessivi,
l’industrializzazione forzata, i salari da fame, il gulag come
sistema di internamento d’ogni specie di opposizione.
Epoca di crisi generale è questa: parlar
male di questa “finzione di socialismo” per salvare il… lato
onesto e virtuoso del capitalismo è davvero una santa impresa. I
rinascenti francescani alla Latouche hanno assicurato un posto
in paradiso.
Il programma rivoluzionario immediato
“Ma allora”, esclamerà a questo punto,
indignato, uno di questi francescani, “ma allora voi comunisti
siete per la crescita irresponsabile, per la produttività
esasperata, per il Pil come misura d’ogni cosa!”.
“Spiegare con calma”, consigliava Lenin.
E così bisogna fare. Bisogna cioè spiegare
che la soluzione a tutti quei malanni (che sono reali, e che
sempre più lo saranno, drammaticamente, nell’approfondirsi della
crisi) non può essere cercata dentro al modo di produzione che
li produce.
Il “latouchismo”, la “teoria della
decrescita”, non sono altro che sempre più esangui riapparizioni
di quel “cadavere che ancora cammina” che è il riformismo:
credere (e soprattutto far credere) che la soluzione possa
esserci “qui e ora”, in nome di un “pragmatismo” che in ultima
analisi è dello stesso stampo borghese.
Noi comunisti diciamo invece, da un secolo
e mezzo, che le misure di “disintossicazione” dall’avvelenamento
(reale e metaforico) del capitale potranno solo essere prese da
un potere proletario, saldamente in pugno al partito
rivoluzionario e strappato alla borghesia attraverso un processo
rivoluzionario necessariamente violento.
Solo allora si potrà cominciare a
“decrescere”, se vogliamo usare quest’espressione ambigua; solo
allora si potranno creare le condizioni per lo sviluppo del
comunismo (che non “si costruisce”, come si voleva fare nella
Russia degli anni ’30, a colpi di iper-produzione –
dimostrazione lampante che lì “si costruiva” capitalismo); solo
attraverso il periodo, più o meno lungo (questo lo dirà la
storia), della dittatura del proletariato guidata dal partito
comunista sarà possibile questa riorganizzazione dell’economia e
della società su basi diverse, aprendo così la strada al pieno
dispiegarsi della società senza classi, della società di specie.
Allora (e non prima) saranno possibili
le “rotture concrete” di cui cianciano a vanvera Latouche e
i suoi seguaci: e saranno quegli interventi dispotici
nell’economia, che Marx e Lenin hanno da sempre indicato come
contenuto centrale del potere dittatoriale.
Allora si dovrà procedere, per esempio,
al “disinvestimento dei capitali”, ossia alla destinazione
di una parte assai minore del prodotto a beni strumentali, a
favore di quelli di consumo; allora si dovrà procedere
all’“elevamento dei costi di produzione”, per poter dare, fin
tanto che vi è salario, mercato e moneta (non dimentichiamolo:
siamo ancora dentro alla dittatura del proletariato), più alte
paghe per meno tempo di lavoro, provvedendo, contemporaneamente,
alla “drastica riduzione della giornata di lavoro” (meno della
metà delle ore attuali, assorbendo così disoccupazione e
attività antisociali);
allora si dovrà procedere alla riduzione
del volume della produzione con un “piano di sottoproduzione”
(ecco la decrescita!), che la concentri sui campi più necessari,
e dunque al “controllo autoritario dei consumi”, combattendo la
moda pubblicitaria di quelli inutili, dannosi e voluttuari, e
abolendo di forza le attività volte alla propaganda di una
psicologia reazionaria (gli esempi non mancano certo!);
allora si dovrà procedere alla rapida
“rottura dei limiti di azienda”, con trasferimento di
autorità non del personale, ma delle materie di lavoro, andando
verso il nuovo piano di consumo; alla “rapida abolizione della
previdenza” a tipo mercantile per sostituirla con
l’alimentazione sociale dei non lavoratori fino ad un minimo
iniziale;
all’“arresto delle costruzioni” di
case e luoghi di lavoro intorno alle grandi città e anche alle
piccole, come avvio alla distribuzione uniforme della
popolazione sulla campagna, con riduzione dell’ingorgo, della
velocità, del volume del traffico, vietando quello inutile; alla
“lotta decisa”, con l’abolizione delle carriere e dei titoli,
“contro la specializzazione” professionale e la divisione
sociale del lavoro;
alle ovvie misure immediate, più vicine a
quelle politiche, per sottoporre allo Stato comunista la scuola,
la stampa, tutti i mezzi di diffusione, di informazione, e la
rete dello spettacolo e del divertimento…8.
Ma ciò si potrà fare solo allora: cioè con
il potere saldamente in pugno – un potere volto non alla difesa
di un modo di produzione superato, inutile e solo dannoso, e
dunque alla conservazione e alla riproduzione di classi e caste
privilegiate, ma al futuro della specie stessa.
Ecco la nostra risposta
al riformismo di ogni specie: post-staliniano, verde, rosa o
viola, o latouchiano.
Note:
1. K. Marx, L’ideologia tedesca,, Editori Riuniti, pag. 3-4
2. Cfr. Il Manifesto del 17/9/2010, da cui traiamo le citazioni
che seguono.
3. K. Marx, Miseria della filosofia, Editori Riuniti, pag. 28.
La dedica di Marx sta a pennello anche a Latouche-Proudhon:
“L’opera del Sig Proudhon non è un puro e semplice trattato di
economia politica, un libro ordinario; è una Bibbia: ‘Misteri’,
‘Segreti strappati dal seno di Dio’, ‘Rivelazioni’, non vi manca
nulla. Ma poiché ai nostri giorni i profeti sono discussi più
coscienziosamente degli autori profani, è pur necessario che il
lettore si rassegni a passare con noi attraverso l’arida e
tenebrosa erudizione della Genesi, per librarsi poi con il
signor Proudhon nelle regioni aeree e feconde del
supersocialismo”…
4. Cfr. il nostro articolo, sul numero scorso di questo stesso
giornale, “Gli idiots savants e la cosiddetta ‘crisi dei
consumi’”.
5. Cfr. idem.
6. Cfr. Serge Latouche, “Il programma delle Otto R”,
decrescita.it (sito dell’Associazione per la Decrescita).
7. Cfr. Serge Latouche, “Decodifica dell’Enciclica ‘Caritas in
veritate’. L’ode papale alla ‘buona’ economia”, Le Monde
Diplomatique, settembre 2010.
8. Ritorneremo ancora presto su queste questioni. Cfr. intanto
“Il programma rivoluzionario immediato (Riunione di Forlì del 28
dicembre 1952, seconda parte)”, ora in Per l’organica
sistemazione dei princìpi comunisti, Edizioni Il programma
comunista, Milano 1973, pp.29-30.
Fonte: Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2011)
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