Riministoria © Antonio Montanari

Tempio, il sorriso del saggio
"Tempus loquendi, tempus tacendi"


Uno dei primi libri che ho letto nella mia giovinezza è quello scritto dal canonico don Domenico Garattoni sul Tempio Malatestiano. Imbevuti com’eravamo d’un sacro timore della donna, vista come simbolo della dannazione eterna, mi fece un certo effetto trovarvi al secondo capitolo una definizione che poteva suonare altamente provocatoria o persino empia alle nostre orecchie adolescenziali, la definizione di "Tempio erotico".

Nel primo capitolo svettava il "Tempio eroico", a sottolineare la gloria che il principe aveva voluto per sé, immortalata in un edificio solenne, che pur sempre era la Casa del Signore, di un altro Signore, Quello per cui proprio lì, nel 1952, ero stato cresimato dal vescovo monsignor Luigi Santa.

La discussione di don Garattoni sul "Tempio erotico" termina con la citazione del motto sapienzale che è inciso su due fasce, "alla sommità del padiglione che ammanta la magnifica Arca" d’Isotta. Motto che, aggiungeva il sacerdote, "ìntima silenzio per reverenza al Tempio e per pietà verso la Morta". Il motto, preso dall’"Ecclesiaste", recita: "Tempus loquendi, tempus tacendi".

Cresciuto (da un po’) in età, mi pare ora che sia troppo riduttivo applicare il valore di quel motto soltanto alla figura di Isotta, quasi fosse un segnale simile a quello che all’ingresso delle città una volta imponeva il silenzio alle trombe automobilistiche, con il divieto di segnalazioni acustiche. Anche perché, soprattutto, il motto è presente pure in altri luoghi del Tempio.

Cresciuto in età, inoltre, sono costretto a correggere il mio ricordo giovanile per via del titolo del libro a cui appartiene il motto: oggi se citate l’“Ecclesiaste” denunciate la vostra data di nascita, perché il libro è ora chiamato “Qohélet”. Se cambia un titolo della “Bibbia”, si può forse anche cambiare un’interpretazione di una scritta del Tempio Malatestiano.

Dunque, "Tempus loquendi, tempus tacendi" potrebbe significare qualcosa d’altro rispetto a quello che quarant’anni fa vi leggeva il canonico don Garattoni, personaggio celebre in città, allora, non soltanto per la sua raffinata cultura, ma anche per certi trascorsi, diciamo, di simpatia fascista, che oggi piacerebbero molto, temo.

Il problema del motto sapienzale riguarda questo dato: in che rapporto esso si pone con tutto il resto della costruzione? E’ un semplice accrescimento culturale erudito, o può persino offrirci un significato aggiuntivo a quello della sua semplice presenza? (Ogni segno è un segnale.)

Nel “Qohélet” troviamo scritto, in ordine di successione, che nulla di nuovo c’è sotto il sole; che è inutile cercare di capire il senso delle cose accadute nel mondo; che "per ogni cosa c’è il suo momento": ed è qui che incontriamo l’elenco dei "tempi", a cui appartiene il moto citato. C’è il tempo di piangere, e quello di ridere, quello di lutto e quello di baldoria. Insomma, anche la gloria è qualcosa di passeggero, non è quel sogno d’immortalità che un condottiero, un signore, un principe pensa per sé e proietta nel futuro. "Tutto è come un soffio di vento: vanità, vanità, tutto è vanità", dice il testo, ricalcando la "Vulgata" di san Gerolamo: "Vanitas vanitatum et omnia vanitas". Soltanto "chi ha fiducia in Dio riesce bene in tutto".

La lezione, d’altra parte molto semplice del “Qohélet”, demolisce e ridicolizza ogni pretesa di eternità umana. L’eternità spetta soltanto a Dio, Sua è ogni grandezza; nostra, ogni miseria e fallacia.

Ecco: detto così sembra un’ovvietà, ma provatevi a calare dentro un Tempio solenne, dentro ad un monumento autocelebrativo, il senso di questa condizione relativa (e misera) dell’uomo rispetto alla supremazia del Giudizio divino: "Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male, anche le azioni fatte in segreto". Sono le parole poste a conclusione del “Qohélet”.

Proiettatele sopra le scritte di marmo, applicatele alle intenzioni di chi volle fare incidere l’ammonizione del "Tempus loquendi, tempus tacendi": vi accorgerete che c’è qualcosa che non quadra, i conti non tornano, anzi tornano benissimo se ipotizziamo che un saggio abbia voluto quel motto proprio come motivo conduttore, ideale e reale, della costruzione, a dominare su ogni altro aspetto, per moderare, anzi per smentire la pretesa assoluta, assurda, del principe di elevarsi il monumento, di passare alla Storia per la sua grandezza, per le sue imprese: "Vanitas vanitatum et omnia vanitas".

Immaginiamolo, questo saggio, mentre disegna il suo progetto, prima nella propria mente, poi sulla carta, e mentre colloca in quel gesto il senso di una propria convinzione, il desiderio di esprimere copertamente una verità che è scopertamente sotto gli occhi di tutti, ma che, proprio per questo fatto, nessuno vuol applicare a chi da tutti si distacca e differenzia: il principe.

Ma anche tu, principe, partecipi del trascorrere dei tempi, nulla ti rende diverso dagli altri. Il saggio sorride perché il principe, ogni principe non accetta quest’idea del tempo che livella, distrugge, illude. "Sic transit gloria mundi", ammonisce un semplice cerimoniere nell’atto in cui il novello pontefice sale all’altare. Ed uno stoppino acceso si consuma facilmente, immagine altrettanto semplice. "Sic transit gloria mundi" sembra ripetere anche il motto di “Qohélet”.

Ma chi, tra gli uomini di Sigismondo Pandolfo dei Malatesti, poteva suggerire quel gesto di sorriso quasi compassionevole al suo signore, per rendere omaggio però ad un altro Signore, l’unico da riconoscere come tale nella nostra vita?

Qualche anno dopo aver letto il libro di don Garattoni, mi avvicinai a Leon Battista Alberti ed al pensiero umanistico per obblighi universitari: ho riaperto anche quel saggio dove si parla di Alberti, ha quarant’anni e lo scrisse il nostro docente di Pedagogia, Giovanni Maria Bertin.

Di lì ho iniziato a ripercorrere la strada albertiana, per trovare materiale che potesse dare un qualche fondamento alla mia ipotesi del sorriso del saggio che fa incidere il motto sapienzale. Ed ho sfogliato un vecchio testo di Eugenio Garin, sulla filosofia italiana, oltre ad opere più recenti, trovando questa citazione dal "De Iciarchia" (il governo della casa) di Leon Battista Alberti: "Smetti, smetti, uomo di ricercare gli arcani del dio degli dèi più oltre di quanto è concesso ai mortali: a te e alle altre anime prigioniere del corpo vorrei che fosse concesso da’ superni non più di questo, di non ignorare del tutto le cose che vedete con gli occhi". (Il discorso si potrebbe ampliare, manca lo spazio.)

"Il sorriso dell’ignoto marinaio", s’intitola un libro di Vincenzo Consolo. Il sorriso del noto architetto, potrebbe chiamarsi l’"historia" di questa iscrizione del nostro Tempio, ripresa dal “Qohélet”, e proposta provocatoriamente ancora oggi a noi che, entrando nel Tempio, non abbiamo quella consapevolezza che la citazione biblica dovrebbe suggerirci.

C’è un tempo per parlare, ed uno per tacere. Ma ovviamente, parlare a proposito, senza inventarsi quello che non c’è, perché nel Tempio c’è già tutto. Basta fermarsi un attimo, tacendo, ad ascoltare quelle pietre che parlano. Ci basta non ignorare "le cose che vediamo con gli occhi". E soprattutto ricordare che "Dio giudicherà tutto quel che facciamo di bene e di male, anche le azioni fatte in segreto".



Antonio Montanari



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