Antonio Montanari.
Malatesti, storie europee.
Mappe dalla periferia del potere.

1. Una questione di metodo.
2. Tra papi, imperatori ed eretici.


La Storia dev'essere «aperta»: al «momento certosino della competenza» deve seguire «quello della verifica pubblica».
Alberto Melloni, Il diavolo non abita la storia. E non ci servono i tribunali, «Corriere della Sera», anno 103, n. 26, 01.02.2005, p. 31.

1. Una questione di metodo.
Malatesti, storie europee, dice il titolo. Tante opere sono state magnificamente scritte sui signori che tra Romagna e Marche dominarono e lasciarono splendide tracce della loro vita di corte. Come il tempio di Sigismondo a Rimini e la biblioteca francescana di Novello a Cesena.
La nostra divagazione dalle illustri piste tracciate da autorevoli studiosi, non va alla ricerca di sentieri inesplorati, ma ha un altro scopo, molto più semplice. Tracciare ipotetiche mappe in cui le linee del potere europeo di re o imperatori o (soprattutto) dei papi, s'intersecano con i percorsi “periferici” della famiglia Malatesti.
Non promettiamo nulla agli accademici di tante (inutili) accademie, al sussiego arrogante e maldicente di alcuni di loro, che tutto (inutilmente) sanno. Per cui “giudicano e mandano” chi non si sottomette alla loro assurda e maniacale pretesa di agire in condizione di monopolio negli studi storici. E per cui vìolano quella regola enunciata magnificamente da Alberto Melloni in un suo articolo sul Corriere della Sera. Regola secondo la quale la Storia dev'essere «aperta»: perché al «momento certosino della competenza» deve seguire «quello della verifica pubblica».

Queste pagine sono un semplicissimo racconto di fatti per collocare i Malatesti nei contesti in cui agirono. Pur provenendo dalla periferia dell'impero e della Chiesa, essi sono sempre presenti dove c'è un evento che conta, di quelli che nei libri di Storia hanno pagine alquanto numerose.
Ogni tanto, per tracciare le nostre mappe, apriremo delle finestre all'interno degli argomenti, così come le si apre da dentro una stanza, per prendere luce o guardare il panorama che circonda l'edificio in cui ci si trova.
Per “architettare” teoricamente il progetto delle mappe con annesse finestre, ci siamo avvalsi di due scritti a cui dobbiamo dichiarare pubblicamente il debito personale, senza presumere però di coinvolgerli come responsabili delle nostre mancanze.
Carlo M. Cipolla nella sua Storia economica dell'Europa pre-industriale ad un certo punto (p. 215 ed. 2009) avverte il lettore che «le “spiegazioni” facili di complessi fenomeni storici affascinano la gente, proprio perché sono facili e quindi “comode”». Alla «spiegazione» che piace, Cipolla contrappone la «problematica» che invece irrita: «Eppure la “spiegazione” è il più delle volte irraggiungibile, mentre la “problematica” resta sovente la sola cosa valida».
La parola «problematica» contrapposta alla più dogmatica «spiegazione», mi ha rimandato a tempi passati che ho ricostruito in un breve ricordo del professor Giovanni Maria Bertin, composto quando egli scomparve il 15 novembre 2002, all'età di 90 anni.

Che ruolo ebbe Bertin in questa mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel lavoro quotidiano, nel vivere giornaliero, con quella semplice definizione che nelle parole «visione problematica della realtà» riassume un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certo utile per evitare ogni soggettivismo che può fuorviare, portare ad accettare il pregiudizio, consolidare nei propri errori una visione della vita che non può mai essere soltanto nostra, rifiutando il concetto che ci sono anche altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente o conflittualmente rapportati.
La stessa «visione problematica della realtà» approda poi ad una visione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta come accettazione della «soppressione della contraddizione». Riassumevo una pagina di Bertin, studiata dopo la laurea (1966) in un suo testo intitolato «Educazione alla ragione» (1973) con queste parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico».
Di queste parole mi sono ricordato, inevitabilmente, anni fa in una pubblica occasione, contestando ad un presunto scrittore di cose storiche un giudizio (per usare un eufemismo) inconsistente su Mazzini, il quale, nemico della lotta di classe, veniva da lui definito colpevole delle fortune del socialismo. Cercai di spiegare che anche lo studio storico, deve essere improntato a questa visione problematica che sia appunto antidogmatica ed aperta alle varie ipotesi (soprattutto per non addivenire a conclusioni false o fuorvianti).
Cito l'episodio al solo scopo di testimoniare (sarebbe forse troppo ardito usare il verbo «dimostrare») come l'atteggiamento problematico non sia un prezioso sentimento da sfoggiare soltanto in occasioni solenni, ma atteggiamento mentale da assumere ed usare in ogni atto della vita.

Infine, circa l'impianto delle mappe sono pure debitore ad una contaminazione che deriva da un articolo di Domenico Scarpa sopra un argomento letterario, i tre «sensi» di cui dovrebbe tener conto la critica nell'esame di un'opera.
Scarpa vi illustra una «problematica» di grande interesse anche per le discipline storiche, fatti ovviamente i necessari adattamenti. Spazio, tempo e contenuti sono i tre àmbiti in cui le discipline storiche dovrebbero cogliere precisi collegamenti e fondamentali implicazioni.
1. Circa lo spazio, dice Scarpa, si dovrebbe considerare che ogni singolo elemento è inserito in un sistema, per cui esiste una relatività geografica dei saperi. Nel caso delle discipline storiche, potremmo parlare di una correlazione degli eventi, perché il «qui ed ora» vale soltanto per le cronache giornalistiche peggiori.
2. Per il tempo, la legge della «lentezza» suggerisce di cogliere la durata di ogni testo letterario ma pure di ogni evento storico. Ogni data di nascita prevede giorno mese anno ed ora e minuti. Non certo il periodo della gestazione e nemmeno quello della crescita. Qualsiasi fatto è gestito e digerito. Ovvero dura di più di quello che ci ricorda una semplice citazione cronologica. La data di elezione di un papa dice poco su quanto è accaduto nel conclave che lo ha scelto.
3. Infine, per quello che abbiamo chiamato i contenuti, e che Scarpa definisce le sfumature, vale una norma di efficace definizione e di fondamentale valore anche per le discipline storiche: piccole differenze, grandi conseguenze. Come sa chi studia la storia dei partiti politici e delle loro scissioni.

Post scriptum. Circa l'immagine di Leonora Gonzaga riportata in capite, è eloquente la parte dell'immagine posta sullo sfondo a destra. Mentre la dama in primo piano sfoggia se stessa nella certezza della sua verità celando soltanto le pudenda come da galateo, due cameriere (immaginiamo che tali siano le figure rappresentate) noncuranti dell'apparato di tutta la scena, vanno a cercare qualcosa che nessuna fantasia può immaginare.
Esse demistificano l'apparato della rappresentazione, dicono a chi guarda che la vera vita non sta nella posa elegante della dama ma nel buio segreto di una cassapanca. Loro la aprono, noncuranti del veditore a cui la bella Leonora dirige tutto il suo sguardo.
Ma oltre a tutto ciò, quelle due donne che forse cercano qualcosa che non c'è, simbolicamente possono raffigurare quanti negli studi storici credono di sapere tutto ma ignorano di non sapere, ed in senso opposto a quello socratico. Altrimenti come farebbero ad esempio a far nascere Pandolfo II Malatesti nel 1325 e poi affidargli nel marzo 1335 (quando il poverino avrebbe avuto nove o dieci anni) addirittura il comando di armati vittoriosi grazie ai quali sarebbe divenuto podestà di Fano? Dimenticando oltretutto che la questione era stata posta da uno studioso italiano già nel 1907 (anticipando al 1310-1315 quella nascita). Come ben sanno gli autori di un testo apparso a Stoccolma nel 2004…
Ma la processione degli «ignari», ovvero di «coloro che non sanno», è lunga.
Vi compare chi non s'accorge che il terzo abate che regge una chiesa non può precedere cronologicamente il secondo suo predecessore, anche se i poveretti sono costretti ad essere ricordati soltanto nella dignità precaria delle note (le leggiamo, non le leggiamo…?).
Lo stesso autore non s'accorge che una lapide del 1686 non può essere datata con un decennio d'anticipo soltanto in virtù della propria fama di pasticcione conclamato ed acclarato. E che il 1682, «M.D.C.XIIXC», non può esser trasformato in un impossibile 1698.

Circa questi numerosi «ignari», una particolare attenzione merita il caso di Ciriaco d'Ancona, sulla cui venuta a Rimini è stata bellamente inventata una data da nessuno studioso serio ipotizzata.
Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455) è un «bizzarro e geniale archeologo» che frequenta i circoli umanistici di Firenze. Ed è pure un «lettore di Dante» che per la sua ansia di sapere ama «presentarsi nei panni d'Ulisse» (Garin), ed ha ripetuti incontri con Sigismondo Pandolfo Malatesti signore di Rimini. Su invito di Sigismondo («Sigismundo Pandulphi filio Malatesta principe clarissimo favitante»: cfr. il suo Itinerarium edito da L. Mehus, Giovannelli, Firenze 1742), visita Rimini nel 1441 o forse due anni dopo (1443) come indica altra fonte (cfr. Corpus inscriptionum latinarum, XI, I, p. 80, n. 365).
Queste due date sono accettate da tutti, tranne uno che riporta tutt'altra indicazione («1435», «o comunque in un momento non lontano»!). Questa indicazione non risulta da nessuna fonte, ed è spacciata in nota come «versione corrente», ripresa «in modo acritico». Ma «versione corrente» letta e tramandata dove? Nello stesso libro, leggiamo con altro autore che la visita di Ciriaco è avvenuta «prima del 1441». Ovviamente non fa nessuna differenza fra 1441 o «prima del 1441», «o meglio nel 1443» (come un cattedratico riminese spiega in un ampio testo dedicato al Tempio malatestiano, ed edito a Cesena nel 2000).
La «versione corrente», stando alla nostra personale ignoranza, tanto «corrente» non dovrebbe essere, dal momento che non è citata né dall'altro autore del libro né nell'imponente tomo del cattedratico sullodato.
Ma l'autore ignaro ed inventore pure in un altro punto non convince: quando parlando di Giovanni Di Marco (a cui il libro è riservato, trattando dei suoi libri lasciati alla Biblioteca Malatestiana di Cesena), lo dichiara morto il 23 febbraio 1474. Da Angelo Battaglini (Dissertazione accademica sul commercio degli antichi e moderni librai, 1787, p. 51, nota 105), apprendiamo che Giovanni Di Marco «morì in Roma nel 1474, e fu sepolto a dì 23. Febbrajo». Battaglini non scrive che Giovanni Di Marco morì e fu sepolto il 23 febbraio, ma (ripetiamo) che «morì in Roma nel 1474», e che alla data del 23 febbraio «fu sepolto».
Battaglini riporta un documento riminese che è la sua fonte, il testo latino del notaio Nicolino Tabelioni del 5 marzo 1474, l'inventario dei beni di Giovanni Di Marco. Qui leggiamo che il medico riminese Giovanni Di Marco «obiit & ab hac vita migravit ac sepultus fuit…». Qui poi va notata la differenza, temporale in questo caso, che comporta quell'«ac» che non congiunge soltanto ma puntualizza («morì, e precisamente fu sepolto»), come ben comprese Battaglini quando (ripetiamo) scrisse: «morì in Roma nel 1474, e fu sepolto a dì 23. Febbrajo». Ovviamente gli storici del 1700 conoscevano il latino… Che invece ignora il nostro contemporaneo che in altro testo e per altro argomento non sa che nella lingua dei padri «in» e l'accusativo è molto diverso dall'«ad» usato con lo stesso caso. Ma l'ignaro non può farci caso e bellamente inventa una sua personale traduzione.


2. Tra papi, imperatori ed eretici.

Soldi donne e potere. Poi vengono papi ed ecclesiastici che pure loro hanno soldi donne e potere. Non per nulla già nel nono secolo di parla di uomini di Chiesa «uxorati» per indicare il loro praticare con concubine, che dava «poi stimolo ai laici ad ogni scelleratezza». (Bernini, Eresie, V). Del clero in generale si diceva che «incontinente, e fregolato» (ib. 56).
La Chiesa di Roma ammaestra le popolazioni con una ferocia non diversa da quella dei politici civili. A Roma appunto quando c'è un terremoto con una forte burrasca, si dichiara che tutto è cessato dopo che sono stati decollati alcuni ebrei che avevano fatto crocifiggere un'immagine di Gesù Cristo (ib., p. 6).
La religione deve terrorizzare per poter comandare. Si diffonde la cosiddetta «eresia degli Incestuosi» secondo la quale non andavano rispettate le norme ecclesiastiche che proibivano le nozze tra consanguinei. Contro questi eretici è lanciato un anatema. Molti legalmente sposati «per lasciare la moglie di poco loro genio, e congiungersi con una più desiderata», inventavano parentele da far valere per ottenere l'annullamento delle loro nozze… «Iddio però con l'improvvisa morte ad uno ammogliatosi con la parente anche con disprezzo delle scomuniche, fece conoscere quanto disgradisse gl'incestuosi matrimonj…» (ib., p. 55).
La religione è usata come strumento politico non soltanto dagli ecclesiastici, ma pure dai poteri laici. Lo dimostra la vicenda di Enrico IV che tenta lo scisma, è scomunicato, e va a Canossa (1077). Ma poi Enrico ci ripensa e torna allo scisma «per colpa delle sue tendenze ereticali» scrive il nostro Bernini, quasi precursore del Lombroso. Enrico è nuovamente scomunicato (1080). Ma non demorde. Si fa incoronare imperatore da un antipapa, rovesciando la regola che voleva il papa a dare la corona e non l'imperatore ad imporre la tiara. Il papa Gregorio VII è assediato, ma poi liberato da Roberto il Guiscardo. Senza gli eserciti degli scannatori laici, i pontefici non vanno da nessuna parte.
Anche nel XIII secolo Roma brilla per le continue scomuniche contro i rappresentati del potere laico. Ad Ottone IV fa gola la Sicilia. Il papa lo depone e lo scomunica. Innocenzo III fa eleggere re di Germania Federico. E poi scomunica tre re. Quello di Spagna, perché aveva sposato una nipote senza ottenere da Roma la necessaria dispensa. Che gli era stata negata non essendo stati ravvisati nella richiesta i requisiti di «necessità urgente» e di «utilità evidente». Il re di Francia, per aver tradito la real consorte sostituendola nel «letto maritale» con altra donna. Ed infine il re d'Inghilterra per violenza contro gli ecclesiastici (ib., p. 128).
Quando in Francia un eretico, Almerico, originario della zona di Chatres, predica il pensiero di Aristotele, i libri di quest'ultimo sono proibiti (ib., p. 128).
Il dissenso in ambiente ecclesiastico è messo a tacere brutalmente. Onorio V (1285) condanna la setta dei «Mendicanti Ordinis Apostolurum» detta dei «Fraticelli». Che si diffondono proprio nel momento in cui nascono «alcune dissensioni tra i Religiosi Francescani per l'interpretazione, e stretta osservanza della loro Regola; di modo che molti abbandonarono il Sacro abito, chi abbracciando altra approvata Religione, e chi n on approvata» (Bernini, pp. 194-195).
Bonifacio VIII fa disseppellire il corpo del ferrarese Ermano Pongilupo che, nonostante ripetute condanne dell'Inquisizione romana, era stato sepolto in chiesa (e venerato come santo dai suoi seguaci). Ed ordina che le sue ceneri siano gettate al vento (ib., pp. 195-196).
Fra Dolcino acquista la fama di tremendo (Bormio, p. 139) per aver predicato «la comunione de' beni e delle mogli»: la sua è una ex monaca, Margherita. La loro morte sul rogo (1307) «fu così intrepida come dolorosa sopra ogni dire e spietata», scrive Terenzio Mamiani (p. 669). Il quale aggiunge: «Quali fossero esattamente le religiose credenze di Fra Dolcino è difficile assai di sapere»: infatti appaiono «troppo strane e sozze quelle che gli furono attribuite».
Del Vangelo e delle parole di Cristo s'era persa ogni traccia, più nelle salde cattedre ufficiali che in quelle fragili ed improvvisate degli eretici. Nel nome profano di Dio la Chiesa, oltre che «puttaneggiar coi regi» come scrive Dante (Inf. XIX, 108), compie delitti ed empietà. Non è un aspetto marginale di ogni storia del tempo, ma il quadro su cui ogni storia va collocata, per coglierne significati altrimenti dimenticati. La storiografia ecclesiastica ha trasformato i signori delle città e degli Stati italiani, in amici o ribelli. Quei signori spesso e volentieri giocano d'azzardo col potere, sia guelfo o ghibellino, barcamenandosi ambiguamente in virtù del solenne, sacro «particulare». Che spesso è il pozzo fetido in cui precipitano le loro fortune.
Poi, a stendere un velo di nebbia sui misfatti della Chiesa e sulla corruzione dei politici d'alto bordo o di basso bordello, provvedono le cronache accreditando questa o quella versione dei fatti, per distinguere i buoni dai cattivi come nei film western. Accadrà anche con i Malatesti. L'episodio più grave e clamoroso avviene quando papa Pio II condanna Sigismondo (1462) accusandolo d'ateismo, e rimproverandogli la tomba per la concubina Isotta e le opere pagane di cui ha riempito la chiesa di san Francesco, ridotta a tempio «Infidelium daemones adorantium». La Storia ufficiale è servita dalla solenne sentenza latina. Ma la Storia non è fatta soltanto dagli atti dei potenti o dei papi, ma di tante altre storie che spesso sono dimenticate o manipolate. Alcune di queste storie.
Antonio Montanari

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