Antonio Montanari Il furore dei marinai Crisi istituzionale della Municipalità di Rimini (30.5.1799-13.1.1800) Testo pubblicato in "Studi Romagnoli", vol. 53, 2002, ed. Cesena 2005, pp. 448-511. |
1. Alle origini dell’insurrezione Rimini, 30 maggio 1799. Nella sua Cronaca cittadina, Nicola Giangi scrive: «Insorgenza. Oggi è stata una giornata delle più cattive» [1]. Il «governo francese» [2], iniziato il 5 febbraio 1797, giunge all’epilogo. Verso mezzogiorno, «sono venute in Terra tutte le Barche Pescareccie, unitamente ad una Barca Canoniera dell’Impero; tutti li marinari hanno impedito che si spari un Canone contro la Barca Canoniera, hanno messo à sassate il Comandante Fabert Francese, e il Comandante Sirò Cisalpino, e bastonati varj Soldati Piemontesi». Dal porto la sommossa s’estende nel vicino centro abitato: ai pescatori si uniscono «li birbanti di Città». Tutti assieme vanno «a dar il sacheggio à due Boteghe di Ebrei» [3], bruciano «gli Arbori di Libertà», ed assaltano il «Palazzo Publigo», dove rubano «tutto quello che vi era» [4], dopo aver «rotto ogni cosa». Sintetizza Giangi: «Tutte le Boteghe, case e fenestre levate; un chiasso, un susuro ben grande». Più analitico, il notaio Michel Angelo Zanotti scrive nel suo Giornale[5]: quel 30 maggio è stato «giorno di terrore, e di allegrezza insieme». Ventiquattr’ore prima, la notizia che gli austriaci hanno fatto ingresso a Ferrara, Bologna e Ravenna, e minacciavano Forlì, ha cagionato «gran fermento nel Popolo, che diviso in complotti dava segni di pericoloso tumulto». Si aspettavano i soldati di Vienna, per regolare i conti in sospeso con quelli di Parigi. Il 26 marzo gli eserciti austro-russi della seconda coalizione hanno aperto le operazioni militari sul fronte italiano. Papa Pio VI era stato già da qualche giorno fatto prigioniero dai francesi in Toscana, dove si era rifugiato il 20 febbraio 1798. I francesi, il 27 aprile, sono stati sconfitti a Cassano d’Adda, ed hanno sgombrato Milano: è così caduta la Repubblica Cisalpina [6]. Il 22 maggio Ferrara si è arresa: in città, contro giacobini ed Ebrei si sono scatenate violenze e vendette [7]. Il 27 maggio, alla sera, sono entrate in Ravenna le truppe tedesche. L’occupazione napoleonica ha stremato le nostre popolazioni. Sotto la cenere cova il fuoco della vendetta non soltanto contro i militari francesi, ma anche verso quanti hanno parteggiato per le idee repubblicane. La scintilla scocca sull’acqua, come ha spiegato Giangi: i marinai che approdano al porto di Rimini, bloccano ogni reazione delle truppe francesi contro il brigantino austriaco. Zanotti ricostruisce la scena in tutti i dettagli: «le Barche pescareccie rientrano frettolosamente quando il brigantino austriaco con bandiera imperiale ridottosi in poca distanza fà fuoco sulla trinciera». I marinai impediscono che il cannone costiero replichi verso il brigantino, dal quale si sentono protetti. Ai marinai, prosegue Zanotti, si accodano gli «abitanti dello stesso Porto». Armati di remi, bastoni e pietre, essi mettono in «precipitosa fuga» la guarnigione francese. Il legno imperiale attracca mentre, tra «un sonoro generale fischiamento» ed «una tempesta di sassi», il comandante cisalpino fugge verso la «Porta marina» e rientra in città. Il Tenente di Marina Carlo Martiniz, giunto con il brigantino austriaco, «si unisce co’ sollevati marinari, ed insieme assalgono la nominata Porta marina». Giangi riassume la situazione in una frase lapidaria: «Il Tenente Carlo Martiniz Capo della Barca Canoniera ha in parte sedato il tumulto». La differenza che riscontriamo tra il racconto di Giangi e quello di Zanotti, è importante. Sulle pagine di Zanotti si basano le interpretazioni contemporanee che vedono nell’incidente armato sul porto l’inizio di una vera e propria «insorgenza» [8]: le guardie della «Porta marina» abbandonano ogni difesa, «atterrite dalla nata insurrezione dei marinari», e Martiniz entra «trionfante» in città. Lo precede un parone del Borgo San Giuliano (abitato dalla marineria riminese), Giuseppe Federici, «chiamato volgarmente ‘il glorioso’» [9], che è accompagnato da alcuni suoi fratelli e da «una turba numerosa di gente sussurrante del Porto». Tutta questa parte della vicenda manca nella Cronaca di Giangi, il quale prosegue ricordando soltanto: «La notte però varj ladri particolari armati sono andati in Casa Lettimi, e in Casa Ferrari à voler del denaro». La differenza tra le narrazioni di Giangi e Zanotti, dipende dal diverso atteggiamento nei confronti della vicenda, che essi assumono nelle loro cronache. Anzitutto Giangi, al contrario di Zanotti, ne subisce le conseguenze nella notte tra 27 e 28 giugno, con un traumatico arresto che è, come vedremo, frutto di un’avversione particolare nei confronti suoi e della sua famiglia. Giangi inoltre fa un semplice resoconto, mentre Zanotti ambisce a comporre una ben più articolata e complessa pagina descrittiva, nella quale esprimere una precisa (ma anche molto addomesticata) interpretazione degli eventi [10]. Tra i due esiste infine una diversità culturale: mentre Zanotti è uomo di studio e di lettere, Giangi è un semplice mercante che compila le sue carte, si direbbe, per passatempo (ed in questo caso, per testimonianza), senza quella specifica intenzione storiografica che troviamo nel suo più illustre collega il quale fu pure archivista comunale. A Zanotti preme di dimostrare che la rivolta antifrancese è fatta in nome di ideali politici e religiosi a cui doveva essere tributato il massimo rispetto, perché rovesciavano i pericolosi princìpi di libertà propagandati dalle truppe repubblicane e da quanti le avevano applaudite. Nelle pagine del Giornale, dove si narrano gli sviluppi dei giorni seguenti, Zanotti accompagna inevitabilmente all’elogio degli «Insorgenti» pure la denuncia degli eccessi commessi in quei giorni a Rimini, che egli attribuisce non agli stessi promotori della rivolta antifrancese, ma a quella popolazione che loro s’accompagnava, provocando azioni che il nostro cronista definisce non condivisibili, anzi decisamente condannabili. Questa distinzione, in apparenza intelligente ed acuta nel contesto letterario della pagina, non regge all’atto della verifica logica della narrazione: il giudizio storico dev’essere rivolto ai fatti nel loro complesso, non può essere interpretazione e giustificazione delle intenzioni (buoni i marinai, cattivi i «villani» calati «dalla Campagna, e dai vicini monti»): soprattutto anche perché non sappiamo sino a qual punto quelle intenzioni fossero veramente degli «Insorgenti» oppure soltanto dell’autore del Giornale. Uno studioso riminese dell’Ottocento, Antonio Bianchi racconta quegli stessi fatti con una lucidità che s’accompagna ad una freschezza di ricordi se non personali almeno famigliari: le sue parole, più che da storico, sono quasi quelle di un testimone, essendo nato nel 1784, e vivendo, all’epoca degli eventi esposti, a Rimini, dove attorno al 1790 il padre si era trasferito dalla natìa Savignano per fare educare meglio il figlio [11]. Scrisse Bianchi che «i nostri paesi scarsi di presidj tumultuavano, specialmente per essersi innoltrati gli austriaci fin sul Ravennate, quando il 30 maggio alla vista di un reggimento austriaco scoppiò una rivolta nella marineria, alla quale si unirono i birbanti della città secondo il solito, rivolta già preparata e combinata» [12]. La penna di Bianchi stava per procedere oltre, come documenta il manoscritto, edito da Luigi Vendramin [13], per precisare che la rivolta era stata «combinata dal ...». Ma un ripensamento lo porta a cancellare quel «dal» che avrebbe introdotto un chiarimento, il quale sarebbe stato assai utile oggi per noi, ed a limitarsi ad un’affermazione che potrebbe apparire generica, mentre in sostanza non lo è. Bianchi spiega che quell’insorgenza non era un’azione spontanea ma appunto «combinata»: la sua opinione reca così un altro significativo contributo nell’inquadramento degli eventi riminesi. Bianchi era un cattolico alieno da simpatie o nostalgie rivoluzionarie, anzi piuttosto conservatore. Egli si mostra fortemente critico nei confronti del potere temporale. L’equilibrio di giudizio che appare nella sua Storia di Rimino, deve suggerirci di considerare con attenzione la cancellatura, che forse Bianchi usa per non apparire troppo pettegolo riguardo ad avvenimenti a lui troppo vicini. Ritornando a Zanotti, va detto che il suo racconto, nella posizione pregiudiziale di favore e simpatia nei confronti dei protagonisti dell’asserita controrivoluzione, non coglie altri aspetti che appaiono evidenti e primari nella successione degli eventi: i «marinari» non soltanto partecipano (lo vedremo tra breve) a tutta una serie di gravi disordini contro cose e persone della città, ma (come si spiegherà) bloccano la vita politica di Rimini sino al punto di rendere necessario un governo provvisorio che deve ‘dialogare’ con l’invasore austriaco, da cui riceve legittimità istituzionale, in un’ambigua fase di transizione. Dalla serie dei fatti realmente accaduti, potremo anzi ricavare un giudizio opposto a quello espresso da Zanotti: ai marinai non interessava soltanto cacciare i francesi, ma soprattutto approfittare della confusione militare (e politica) esistente in quei momenti, per imporre con la violenza al governo della città un mutamento sostanziale che eliminasse il tradizionale sistema di rappresentanza basato sui due ceti di «Nobili» e «Cittadini » (i borghesi). Questo sistema li teneva lontani dal diretto controllo della cosa pubblica, mentre essi si dimostravano da tempo, ed in maniera incontrovertibile, uno dei motori dell’economia locale. Ovviamente, Zanotti non poteva accettare che tutto questo accadesse, e non poteva condividere anche gli aspetti negativi di quell’«insorgenza»: per tale motivo, nel proprio racconto, deve accompagnare alle scene (a lui gradite) in cui si grida a favore della Religione e del papa, anche quelle verso cui esprime la sua condanna, cioè quelle in cui agisce la «malcostumata plebe» ed irrompono i «malintenzionati che riempiono le piazze». L’«universale sommossa» porta persino all’assalto delle carceri [14], scrive Zanotti, con la liberazione dei «detenuti per politiche opinioni», dei «delinquenti criminosi» e dei «forzati così detti galeotti». Anche a Rimini come nelle altre città dell’Italia del Nord, si scatena il «terrore bianco», così chiamato perché simile a quello francese dell’inverno 1794-95 dopo il colpo di Stato dei moderati del 9 termidoro (28 luglio 1794). Gli austriaci hanno iniziato dovunque una dura repressione che colpisce migliaia di patrioti. Anche loro non si comportano in maniera troppo diversa dai nemici francesi. L’unica differenza è che le truppe di Parigi si presentavano con un biglietto da visita in cui i princìpi di libertà, eguaglianza e fraternità erano un proclama condiviso da molti patrioti (e ben presto tradito nella pratica militare e di governo), mentre quelle di Vienna innalzano le insegne, care ai reazionari, dell’aquila imperiale e dell’«amore della Santa Fede», come leggiamo in un proclama pubblicato a Rimini l’8 giugno [15]. Dietro ad una di queste due insegne, quella religiosa, balenano forti dubbi ed inquietanti domande, se dobbiamo stare ad un Sonetto estemporaneo[16] intitolato Nel faustissimo arrivo delle truppe austriache nella città di Rimino il giorno 4 luglio 1799, dove si legge, dopo il ringraziamento «al grand’Iddio»: «Dal pio Cesare fatta è già sicura | Italia; e non andrà guari che inulto | Non resti il fallo de l’infame Roma». Se il poeta avesse voluto accusare come infame il «fallo» dei francesi a danno del papa (la sua prigionia), non avrebbe accostato l’aggettivo al nome della città: egli quindi intende accusare direttamente il governo romano di non aver difeso il papa-re dagli attacchi repubblicani, ma ignora che l’imperatore d’Austria (ora tanto esaltato) ha negato a Pio VI [17] quell’ospitalità poi concessagli dal granduca di Toscana. Non poteva di certo sottoscrivere, il nostro poeta, le affermazioni dell’Encyclopédie, laddove si legge che la corte del pontefice era composta da uomini «preoccupati di accrescere la dignità e la potenza del papa, al fine di trovarvi loro stessi di che accrescere la propria dignità e arricchirsi» [18]; ma poteva esservi pericolosamente vicino. Altri interrogativi: può esistere un collegamento tra l’inizio del sonetto, in lode della marineria [19], e questo definire «infame» Roma? Quanti, di quella marineria, erano dello stesso parere del poeta, cioè criticavano il governo pontificio? Quest’autore era un solitario, oppure esprimeva idee diffuse? Ed infine, quali sono queste idee: quelle favorevoli ad un potere spirituale, a Roma, scisso da quello temporale? Oppure sottomesso a quello dell’imperatore? Oppure infine, come vedremo, ad un governo cittadino del tutto autonomo da ogni controllo esterno, pontificio od imperiale che fosse? 2. La società riminese del 1700 Due notizie è necessario ricordare, a questo punto, per comprendere l’importanza del ruolo che la marineria svolgeva in città: essa formava «una Classe di circa tre mila Persone», sui tredicimila abitanti che aveva allora Rimini [20]; nel 1796, al Legato di Romagna, in relazione al problema del sequestro della armi, si era scritto che la marineria era «poco docile» [21]. Contemporaneamente, allo stesso Legato era stato pure comunicato che i problemi maggiori per il mantenimento dell’ordine pubblico riguardavano i contadini, «esposti ai derubbamenti, e crassazioni di fuorusciti, e vagabondi», ed i marinai, «intimoriti da funesti incontri per mare»; mentre la città era «esente la Dio mercé da complotti, congiure, ed altre pericolose turbolenze» [22]. Ho già documentato in altre pagine [37] che Martinelli fu uno studioso attento di Economia politica [38], seguace del pensiero riformistico di Beccaria, e sostenitore della «libera panizzazione» in anni vicini (1791) a quelli di cui ci occupiamo ora. La sua preparazione e la sua intelligenza non dovettero passare inosservate, in quei giorni tormentati, ai responsabili dell’amministrazione riminese, anche se nessuna cronaca attesta un ruolo da lui giocato dietro le quinte della vita politica ufficiale. Accanto al nome di Nicola Martinelli si potrebbe fare anche quello di Daniele Felici Capello. In età repubblicana, egli ha ricoperto importanti incarichi non soltanto a Rimini: è stato con lo stesso Martinelli nell’Amministrazione Centrale di Romagna (1797), diventandone presidente. E’ stato commissario governativo nel Dipartimento del Rubicone (1798). Sarà ministro dell’Interno nella Repubblica Italiana (1803) e ministro delle Finanze nel Regno Italico di Napoleone [39]. Durante la Reggenza è amministratore del Dazio sulla macina del grano. Precisa Zanotti che i prescelti sono Marco Bonzetti, il conte Giulio Cesare Battaglini, Luca Soardi, il conte Carlo Zollio e Girolamo Soleri, con «aggiunti» il cav. Ercole Diotallevi Bonadrata e Girolamo Graziani, «tutti del ceto nobile della Città». Nei verbali della Reggenza [AP 617], leggiamo: «[...] il Popolo richiese a Monsignor Vescovo, che gli avesse nominato de’ soggetti per una nuova Magistratura provvisoria, al che avendo Egli risposto, che il Popolo li avesse nominati da se, questi acclamò» Bonzetti, Zollio, Soardi, Bonadrata, Battaglini e Soleri [46]. Manca qui il nome di Graziani, ricordato da Zanotti, mentre Giangi invece omette il nome sia di Soardi sia di Graziani, parlando soltanto di cinque soggetti prescelti. Dai verbali della Reggenza ricaviamo che il 16 giugno [AP 617, c 7v.], Carlo Zollio è dispensato: la sua richiesta di «essere alegerito da un tal peso troppo superiore» alle sue forze, è stata approvata da Viezzoli [47]: lo sostituisce Ippolito Tonti. Il 2 luglio [ibid., cc. 13r/v], si dimettono anche Bonadrata e Bonzetti: per l’occasione si decide di ripristinare il numero di otto componenti (sei «Nobili» e due «Cittadini») nella Magistratura, come sotto il governo pontificio: i nuovi eletti sono Federico Fregoso Carradori, Pasio Antonio Valloni, Nicola Manzaroli e Giovanni Pallotta (questi due sono i «Cittadini»). A questo punto la Reggenza è composta da Battaglini, Fregoso Carradori, Soardi, Soleri, Tonti, Valloni («Nobili»), Manzaroli e Pallotta («Cittadini»). Il 3 luglio [ibid., c 8r], Ippolito Tonti è nominato Capo della stessa Magistratura e Capo Console. Come ho già osservato, alcuni degli eletti avevano maturato esperienze politiche precedenti nella pubblica amministrazione riminese. Da un tabella compilata da Patrizia Antonioli nella sua interessante tesi di laurea [48], è possibile ricavare un’utile statistica: nel periodo del «governo francese» e nei due anni precedenti tra gli «eletti» riminesi incontriamo Bonzetti, Soardi, Soleri e Zollio. (Sono invece al debutto Battaglini e Bonadrata.) Il più esperto è senza dubbio Bonzetti: ha fra tutti la più alta presenza nelle cariche pubbliche, quindici mesi su venticinque tra 1795 e 1797, ed un bimestre anche sotto il «governo francese» nel 1797. (Bonzetti era un «buon cattolico, schietto, ed amato da tutti», secondo quanto scrive Zanotti in altra parte del suo Giornale[49].) Soardi ha sei presenze nel biennio pre-rivoluzionario ed una in epoca francese. Zollio, una presenza prima ed una dopo l’arrivo delle truppe napoleoniche. E’ interessante riprodurre, da questo verbale della «Reggenza», la cronaca dell’antefatto: «Dopo lo sbarco seguito nel giorno 30 Maggio decorso della Marina Austriaca in questo Porto, e la fuga delli Comandanti la Piazza, e della Guarnigione», il popolo «in armi, e tumultuante» aveva «atterrate le insegne dell’antico Governo, e posto a sacco la Casa della Municipalità ed altri luoghi». Come si vede, non c’è nessun accenno all’insorgenza del porto contro i francesi: è un silenzio che può essere interpretato non come un’omissione ma come un giudizio di merito sull’episodio, considerato tanto insignificante e secondario (ai fini politici) da poterlo trascurare nella descrizione degli eventi. Se l’assalto degli uomini di Giuseppe Federici avesse avuto, nella successione cronologica, quel posto di primaria importanza che oggi da parte di taluno si pretende abbia avuto, esso non sarebbe stato dimenticato, e forse al protagonista sarebbe spettato anche un pubblico riconoscimento. E’ anche vero che a consigliare un silenzio su Federici ed i suoi insorgenti poteva essere il rispetto dovuto ai nuovi conquistatori austriaci, dai quali si attendeva un’espressione d’autorità per poter controllare la vita cittadina; così come poteva apparire contraddittorio esaltare un personaggio che aveva dato avvio ad una protesta che s’era aggravata a tal punto da mettere in pericolo l’ordinato svolgimento della situazione pubblica. Alla base di tutto il problema c’è il solito dubbio: il popolo «in armi, e tumultuante» che aveva «atterrate le insegne dell’antico Governo», andava considerato benemerito anche dopo che aveva compiuto i gesti di vandalismo, con il porre «a sacco la Casa della Municipalità ed altri luoghi»? Per riportare la tranquillità, prosegue il verbale della «Reggenza», fu «pregato da persone zelanti della pubblica quiete Monsignor Vescovo di portarsi a parlare pubblicamente»: «Andò egli nel dopo pranzo sulla pubblica piazza detta della Fontana accompagnato da varj Sacerdoti», raccomandando fra le altre cose «la subordinazione» alle autorità. Erano presenti «un Uffiziale di Marina Austriaca» (che, tramite Zanotti identifichiamo nell’«ajutante Martiniz»), ed il «Comandante della Guardia Urbana» (che sappiamo essere Giovanni Battista Agolanti). Zanotti ritiene che tutto ciò sia provocato non dalle azioni dei «bravi» rivoltosi, ma dalla mancanza delle «promesse truppe tedesche», senza le quali la città «si trovava fra la confusione, ed il tumulto materialismo degli armati marinari in uno stato pericoloso, ed infelice di continua combustione, e di anarchia». Gazzola ordina ai marinai anche di non attentare alle persone ed alle loro proprietà, e di non offendere alcuno né con le parole né con i fatti, avvertendo che il mantenimento della quiete pubblica dipende dalle «Cesaree Autorità»: chi ha dei sospetti, deve consigliarsi con il canonico Ottavio Zollio (è il sacerdote già ricordato da Zanotti) e con l’arciprete Carlo Ioli, cioè «le rispettabili persone, e per carattere, e per pietà», verso le quali gli stessi marinai hanno espresso «stima e venerazione» allo stesso Gazzola. I nuovi disordini irritano sia il comandante austriaco Giuseppe De Loy sia gli eletti alla Magistratura: De Loy vuol andarsene, gli amministratori intendono dimettersi. Il comandante austriaco è fermato in modo brusco sul porto, da un gruppo di «marinari». La Magistratura pubblica ancora un editto per riportare la calma in città. I primi a farne le spese sono gli Ebrei, per i quali il 21 giugno è ripristinato l’«antico loro segnale» sul cappello: con il ritorno al «sistema, che vigeva sotto il Governo Pontificio», non si poteva «trascurare quella parte, che riguarda la necessaria distinzione degli Ebrei dai Cattolici» [B 22]. Il provvedimento non piace al Comando militare, secondo quanto si ricava da una lettera che il vescovo di Cervia Gazzola invia il 23 giugno [B 22] al Magistrato di Rimini: «Se nello Stato di S. M. I. si prattica in contrario, ciò non toglie, che fino all’organizzazione del nuovo Governo non si debbano osservare le leggi» di quello passato (il pontificio), «nel momento che il Popolo lo chiede per un zelo di Religione, che appunto ora si vuole in trionfo, onde resti conservata la quiete, e la pubblica tranquillità». Gazzola non solo non disapprova, ma elogia il proclama riminese: «Un Cristiano non si vergognerebbe di essere contrasegnato per tale; sicché l’Ebreo ancora non deve ricusare di farsi conoscere per quello, che Egli è». A Garampi si rivolge il 31 agosto [AP 504] la Reggenza: il cancelliere Bartolomeo Bellini ha svolto «premurose ricerche» sull’accaduto, accertando che «fino ad ora niente [h]avvi di concludente alle mire de’ sediziosi, che solo si pascono di parole insussistenti». Garampi è «pienamente autorizzato a prender tutte quelle misure, che troverà del caso, sull’espulsione de’ Forastieri». I marinai agitano la vita cittadina, i colpiti come responsabili degli eventi sono i forastieri. Contro quest’ultimi ci si è accaniti fin dal 1796, considerandoli pericolosi sovversivi e responsabili di ogni attentato all’ordine costituito. Il 24 agosto alla Reggenza di Faenza quella di Rimini scrive che è stata intimata da Garampi la partenza verso quella città, con un certificato di buona condotta, a due tranquilli veneti, Bernardo Ponzoni e Giovanni Battista Inson, «fabbricatori di paste» presenti ed attivi da un anno [AP 504]. Da una lettera della Reggenza allo stesso Garampi, apprendiamo che ad alcuni mercanti triestini, dato che essi «apportano vantaggio alla Città», è invece accordato uno speciale permesso di soggiorno di due settimane, con la possibilità di prorogarlo «nel caso, che in questo lasso di tempo non potessero esitare le loro mercanzie» [26 agosto, AP 504]. Il 16 settembre si svolgono le solenni esequie in cattedrale in memoria di Pio VI. Garampi, scrive Zanotti, rivolge ai suoi militari un discorso di commemorazione del pontefice, il quale se cessò dopo essere stato arrestato «di essere vostro Principe, giammai lasciò di essere vostro Padre». La sua morte «fra le sanguinose mani de’ Barbari», chiede che «la spada del Signore degli eserciti vendichi il martire». Il 21 settembre da Firenze, dove è stato «arrestato per ordini superiori», giunge a Rimini il ciambellano imperiale Gian Maria Belmonti, padre della ricordata Barbara che era stata arrestata il 3 giugno, e fratello di Lodovico arrestato il 17 giugno. Zanotti lo chiama «gran partitante Francese, e Repubblicano, che ottenne le più vistose cariche nel Governo Democratico» (fu deputato dell’Amministrazione Centrale romagnola). Era stato lui ad ospitare nel proprio palazzo Napoleone Bonaparte [111]. Gian Maria Belmonti chiede «di essere trasportato altrove»: gli austriaci lo traducono nel castello di Pest in Ungheria, dove morirà (a quanto pare suicida) il 10 settembre dell’anno successivo, a cinquant’anni [112]. Osserva Carlo Tonini che non si conobbe «la vera cagione» del suo arresto: quella di Gian Maria Belmonti sembra una vicenda orchestrata da misteriosi personaggi che agivano nell’ombra e che fanno pensare ad una regia segreta anche dietro il manifestarsi del «furore» popolare. Il 25 settembre [AP 505] Garampi sequestra indebitamente del formentone portato da un contadino in casa di una donna di Marina: secondo la Reggenza non ci sono «prove sufficienti per dichiararlo contrabbando» (il reato è previsto soltanto se avviene l’imbarco della merce). Di conseguenza si ordina il rilascio del contadino arrestato. Il 4 ottobre Garampi invia alla Reggenza un piano per la formazione di una nuova Guardia urbana. La Reggenza rimanda la decisione all’amministrazione provinciale [5 ottobre, AP 505]. Il 16, 17 e 18 ottobre i «marinari» organizzano un solenne triduo di ringraziamento «per li riportati favori nel conflitto co’ Francesi del dì 31 maggio scorso»: Zanotti aggiunge che vi partecipa tutta la popolazione del Borgo di San Giuliano. (Una curiosità insignificante, forse: perché il ringraziamento è celebrato con quattro mesi di ritardo? Più che un ritardo, potrebbe essere la conferma di voler continuare a controllare la piazza.) Si passa quindi ad eleggere la nuova Magistratura: solamente Bonsi supera i due terzi (con 32 voti contro i 29 richiesti). A questo punto si propone di votare la proposta di una nuova ballottazione fra i cinque consiglieri (quattro «Nobili» ed un «Cittadino») che hanno ricevuto più voti in quella appena conclusa, «onde per i due terzi di voti ottenerne l’inclusiva; e non ottenendola essi, fare lo stesso sperimento di altri cinque». La proposta è bocciata (26 voti a favore, contrari 16: non è raggiunta la maggioranza dei due terzi). Eletti (e votati) alla Magistratura riminese, 1799-1800. I «votati» si riferiscono alle sedute del 19 e 28 gennaio 1800. In quella del 19 risulta eletto soltanto Bonsi. Il 28 nessuno dei dieci ballottati in due riprese ottiene il quorum (la seconda votazione ha il rimando alla nota 6). 31 magg. _______ 2 luglio _______ 4 agosto _______ 13 genn. _______ 19 genn. _______ 28 genn. _______ 31 genn. _______ Battaglini Battaglini Bonadrata (2) Bonzetti (3) Soardi Soardi Soardi Soardi (6) Soleri Soleri Soleri Soleri (6) Soleri Zollio (1) Tonti Tonti (4) Tonti (6) Tonti Fregoso Fregoso Valloni Valloni Manzaroli Pallotta Pallotta Bonsi Bonsi (5) Bonsi Ceccarelli Ceccarelli(6) Ceccarelli Garattoni Garattoni Garattoni Garattoni Mancini Mancini Mancini Agolanti Agolanti Agolanti Belmonti Belmonti Belmonti Felici Felici (6) Guidantoni Guidantoni NOTE [1] Cfr. SC-MS. 340, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR]. La sua Cronaca raccoglie notizie sul periodo 1782-1809. Essa fu continuata dal figlio Filippo relativamente agli anni dal 1811 al 1846 (cfr. SC-MS. 1242, BGR). Nicola Giangi fu «Cittadino consolare»; il 14 marzo 1799 egli scrive nella Cronaca: «Questa sera ho cessato di esser Municipale». [2] Cfr. A. Montanari, Fame e rivolte nel 1797, Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli», XLIX (1998, ma 2000), p. 699. [3] Nel 1796, gli ebrei «dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» risultano Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana Costantini, i fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi: temendo, al «passaggio delle Truppe Francesi», di essere «molestati per raggion d’avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello», essi ottennero di toglierlo con il versamento alla Comunità riminese di un «dono gratuito» di cinquecento scudi. Il «dono» fu fatto, come scrivono i Consoli di Rimini, «in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi» (cfr. Fame e rivolte nel 1797, cit., note 42 e 44, p. 687). [4] Un inventario è fatto successivamente, cfr. in AP 617, 1799-1800, Atti della Cesarea Regia Reggenza, Archivio storico comunale di Rimini, in Archivio di Stato di Rimini [ASR], sotto la data del 29 luglio 1799, c. 25r. (La sigla AP indica gli «Atti Pubblici» della Municipalità di Rimini. Molti di tali documenti non hanno numerazione progressiva delle carte o delle pagine.) La Commissione per «ricevere, riconoscere, ed inventariare tutti gli oggetti, e parte che sono state tolte tanto al pubblico Palazzo, che ad alcuni Particolari nella ben nota emergenza», è stata istituita il 3 giugno 1799 [ibid., c. 3r], composta da Pompeo Rufo, Alessandro Buonadrata, Nicola Manzaroli e Pietro Brunori. [5] Cfr. M. A. Zanotti, Giornale di Rimino dell’anno MDCCIC, Tomo decimo, SC-MS. 317, BGR. Zanotti scompare nel 1830, a 74 anni. [6] Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento, 1700-1815, Milano 1956, pp. 270-271. [7] Cfr. V. Sani, Le rivolte antifrancesi nel Ferrarese, «Folle controrivoluzionarie» a cura di A. M. Rao, Roma 1999, p. 210. [8] Cfr. M. Viglione, Rivolte dimenticate. Le insorgenze degli italiani dalle origini al 1815, Roma 1999, p. 191. Sull’impostazione data da questo autore al racconto dei fatti riminesi, rimando alla nota seguente. [9] Forse il soprannome (come le usanze popolari dimostrano), voleva indicare il personaggio ricorrendo alla figura retorica dell’ironia che fa intendere il contrario di quanto si dice, mediante un tono di irrisione. Ci troveremmo così davanti non ad un personaggio eroico, ma ad un fanfarone, come il soldato plautino. Secondo il cit. Viglione, Martiniz sbarca dopo l’«insorgenza popolare, guidata da Giuseppe Federici». La ricostruzione di questo autore non è fedele: mentre Zanotti fa rientrare i pescherecci «quando il brigantino austriaco» fa fuoco, Viglione anticipa l’insurrezione marinara a prima dello sbarco austriaco, per valorizzare la figura di Federici. [10] Ho avuto già modo di accennare alla mentalità di Zanotti, scrivendo come essa «avesse un’impronta codina, e fosse più portata a credere nelle verità delle leggi e del potere che le incarnava, piuttosto che nel primato del divenire storico»: cfr. L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici», «Studi Romagnoli» L (1999, ma 2003), p. 957, nota 48 [11] Cfr. A. Montanari, Antonio Bianchi scrittore, in A. Bianchi, Storia di Rimino dalle origini al 1832, Rimini 1997, p. XV. [12] Cfr. Bianchi, op. cit., pp. 172-173. [13] Luigi Vendramin ha curato la trascrizione del ms. pubblicato nell’ed. di cui alle due note precedenti. [14] Fino al 1825 le carceri di Rimini si trovano dietro al palazzo del Comune, a contatto con l’ufficio del Monte di Pietà: in quell’anno sono trasferite nella Rocca di Sigismondo. [15] Cfr. il proclama del comandante Viezzoli al popolo di Rimini, in Zanotti, op. cit., pp. 190-192. [16] Cfr. in Fondo Gambetti Stampe Riminesi, BGR. [17] Pio VI scompare nella notte tra 28 e 29 agosto 1799. A Rimini la notizia della sua morte è diffusa dal vescovo con un proclama dell’11 settembre, pubblicato il giorno seguente. Il 16 ci sono solenni esequie in cattedrale. Tre artiglieri muoiono nella piazza della Rocca, colpiti dal cannone sparato a salve per commemorare il defunto pontefice. [18] Cito dalla traduzione italiana dell’antologia sull’Enciclopedia, II, Milano 1966, p. 525. [19] «Queste, che sfidan già venti e procelle | Genti intente a le reti, al remo, a l’amo, | Le amiche loro lasciando navicelle, | Fecer Fabert d’ardir ripiene gramo». (Fabert, già cit. da Giangi, era il comandante francese nella piazza di Rimini.) [20] Cfr. Fame e rivolte nel 1797, cit., nota 23, p. 681. Nel 1739 la popolazione riminese assommava a 9.580 anime, cioè 3.500 circa in meno rispetto al 1796, come ricavo dal fasc. 9, «Stato d’Anime della Città», in AP 636 (Documenti vari), ASR. Poche, approssimative notizie sulla consistenza della marineria riminese, sono nella terza ed. del Discorso istorico-filosofico sopra il tremuoto del 1786, pubblicato da G. Vannucci (le due edd. precedenti sono anonime) a Cesena nel 1787, a spese del libraio riminese Giacomo Marsoner: vi si parla soltanto delle barche «le maggiori, e le più forti», dette tartanoni, che erano dieci, con una ciurma di circa quindici marinai. (Queste notizie sono segnalate in P. G. Pasini, Notizie ‘marinaresche in uno scritto sul terremoto riminese del 1786, «Romagna arte e storia», n. 9/1983, «Studi sulla marineria», pp. 85-88. [21]Ibid., nota 38, p. 686. Cfr. AP 502, Copialettere della Municipalità, dal 1° maggio 1796 al 28 febbraio 1797, Al Legato, 14 luglio 1796, ASR. [22] Cfr. Fame e rivolte nel 1797, cit., nota 41, p. 687. Cfr. AP 502, 14 luglio 1796. È un documento diretto al Legato, diverso da quello in precedenza cit. con pari data. [23] Cfr. Fame e rivolte nel 1797, cit., p. 676. Interessanti osservazioni relative a Cesena, sono nel saggio di F. Foschi, Utopia e realtà. I rapporti della comunità di Cesena con i papi concittadini Pio VI e Pio VII, in «Due papi per Cesena», a cura di P. Errani, Bologna 1999, p 33: nel 1797 si cercò di ripescare «il mito dell’autonomia cittadina, al culto della quale poteri civili e religiosi era necessario si sottomettessero», con un sogno «municipalistico» destinato a svanire ben presto. [24] Venturi parla di questo aspetto, nell’esame di una situazione anteriore, per gli anni ’30-40 dello stesso secolo XVIII. [25] Cfr. L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., pp. 949-955. [26] Non spiega granché «la facile etichetta di giacobinismo, intesa quale indicazione di pura e semplice adesione agli ideali rivoluzionari francesi. La qualifica di ‘giacobino’ procurava accuse e denunce anche a carico di chi non voleva sposare la causa repubblicana d’Oltralpe, ma soltanto modificare dall’interno il regime sociale ed economico imposto dalla Sede Apostolica, i cui caratteri di arretratezza risultano evidenti dal confronto con la politica delle riforme adottata altrove» (cfr. L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., p. 956). Sul problema dell’interpretazione del giacobinismo come corrente ideologico-politica, «i cui confini, peraltro, non è sempre agevole tracciare con nettezza», cfr. L. Guerci, Istruire nelle verità repubblicane. La letteratura politica per il popolo nell’Italia in rivoluzione (1796-1799), Bologna 1999, p. 10. [27] Ho avuto modo, recentemente, di osservare: «Mi è capitato di leggere in Gambalunghiana varie tesi di laurea, dove si riprendono testi diventati ormai classici, quali le cronache (1773-1829) del notaio Michel’Angelo Zanotti. Mai nessun docente universitario ha consigliato ai suoi studenti di porsi il problema di come considerare Zanotti, di capire l’ideologia che stava dietro alle sue pagine, la posizione politica che lo portava ad assumere certi atteggiamenti. Tutte le cronache di Zanotti sono state riversate da Carlo Tonini nell’aggiornamento della Storia di Rimini [vol. VI, I-II, Rimini 1887-88, ed. an. Rimini 1995] scritta da suo padre Luigi Tonini, senza sottoporle ad alcun vaglio critico. Anzi, peggiorando la scrittura originale, come denunciò il prof. Luigi Dal Pane, docente dell’Università di Bologna. Tempo fa, mentre stavo componendo una storia dell’Annona riminese nel 1700, poi pubblicata con il titolo de Il pane del povero in Romagna arte e storia (n. 56/1999, pp. 5-26), consultai un testo di Luigi Dal Pane del 1932, dove si dichiarano tre cose: che la controversia sull’Annona era rimasta ignota in campo scientifico; che non si potevano svolgere altre indagini per il “preclaro disordine” dell’Archivio comunale; e che gli “scrittori di storia riminese [...] vi accennarono da cronisti, e, come al solito, non cercarono di penetrarne l’intimo significato”. Prosegue Dal Pane: Carlo Tonini “copiò dal Giornale dello Zanotti non senza cambiare qualche frase e mutare la costruzione del periodo [...] per occultare» il plagio: così, «invece di chiarire le cose [...] le imbrogliò”, per cui alla fine “certi passi che erano chiari e significativi nella prosa dello Zanotti, divennero oscuri e senza colore in quella del Tonini”». (Cfr. A. Montanari, La Scienza illustrata, «Il Ponte», Rimini, 6 gennaio 2002.) Lo scritto di L. Dal Pane è Una controversia sull’Annona di Rimini nel secolo XVIII, «Rivista internazionale di scienze sociali e discipline ausiliarie, XL (1932), III», pp. 327-345. [28] Cfr. A. M. Rao, La questione delle insorgenze italiane, «Folle controrivoluzionarie», cit., p. 33. [29] Le guerre europee (1667-1772) ridisegnano i rapporti tra gli Stati del continente ed anche la carta geo-politica dell’Italia: basti ricordare l’acquisto austriaco della Lombardia nel 1714 (pace di Rastadt) che condiziona, nel bene e nel male, tutta la successiva storia della Penisola. (Per ciò che riguarda la nostra realtà locale, è importante sottolineare la politica austriaca diretta a conquistare il predominio sull’Adriatico.) [30] Cfr. S. J. Woolf, La storia politica e sociale, «Storia d’Italia. 3. Dal Primo Settecento all’Unità», Torino 1973, p. 7. [31] Cfr. Candeloro, op. cit., p. 282. [32] Su questo aspetto, si ritornerà successivamente. [33] Cfr. in AP 545, Lettere Segrete della Magistratura, ASR. [34] Cfr. nel cit. Fame e rivolte nel 1797, p. 722. [35] Cfr. A. Montanari, Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997, ma 2000), pp. 573-574. [36] Cfr. nel cit. Fame e rivolte nel 1797, p. 722. [37] Cfr. L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., pp. 956-964. [38] Cfr. Il pane del povero, cit., passim. [39] L’attività politica pubblica di Felici Capello nel corso del 1799, è attestata da lettere della Municipalità di Rimini a lui rivolte, di cui diremo infra. (Cfr. anche AP 617, 13 luglio 1799, c. 17v, per una sua convocazione dal Magistrato.) Egli muore nel 1836, ad 80 anni. Di lui Giangi scrisse, come riferisce C. Tonini (nel cit. Compendio della Storia di Rimini, II, p. 502), che «sarebbe asceso tant’alto più per le raccomandazioni del cognato Marchese Innocenzo Belmonti, che per meriti proprii». [40] Cfr. E. Raimondi, La retorica d’oggi, Bologna 2002, p. 51. [41] Sull’argomento rimando al cit. Fame e rivolte nel 1797, passim. [42] La vecchia cattedrale di Santa Colomba è ridotta a caserma dai francesi nel 1798. Prende il suo posto la chiesa di san Giovanni Evangelista (detta di sant’Agostino) della quale si parla qui. Nel 1809 la cattedrale è trasferita nel Tempio Malatestiano, dove si trova tuttora, ad opera del vescovo Gualfardo Ridolfi. Santa Colomba fu demolita nel 1815. [43] Martiniz (scrive Zanotti) prende alloggio nella casa di Giuseppe Pari, «ove già seguì il portentoso prodigio del girar degli occhi dell’Immagine di Maria SS. detta poi della Misericordia trasportata nella Cattedrale». Questo evento, accaduto il 27 luglio 1796, non è il primo registrato dalle cronache, all’indomani della prima invasione francese della Romagna (che non tocca Rimini): il 19 luglio 1796 nel borgo San Giuliano si scopre un’immagine della Beata Vergine Addolorata «quadretto di Venezia che dagli occhi le scaturiscono le lagrime, e molti attestano averle vedute, trà gli altri due canonici», come narra N. Giangi, op. cit.: alle ore due di notte (corrispondenti alle 22 odierne), l’immagine è trasportata nella chiesa di san Giuliano. Il giorno 20 muove gli occhi la Madonna conservata nell’oratorio di san Girolamo. Il 27 luglio succede il mentovato episodio nell’abitazione, al porto, di Giuseppe Pari, «detto Blablà»: un’altra Beata Vergine dell’Aspettazione «muove, e gira gli occhj in una maniera sorprendente». Il 29, si annuncia che il Crocefisso della Confraternita della Santa Croce «ha aperto gli occhi e la bocca». Lo stesso giorno il vescovo Ferretti trasferisce l’immagine della Vergine dell’Aspettazione presso le monache di sant’Eufemia ed il 31 in duomo con solenne processione, ponendole il nome di Mater Misericordiae. In duomo si organizzano varie processioni, scrive ancora Giangi: il primo agosto tocca alle dame, il giorno dopo alle zitelle (in 160), a piedi scalzi. Secondo quanto si legge in Atlante per il dipartimento del Rubicone, «Romagna arte e storia», n. 6/1982, pp. 26-27, a Forlì, sparsasi la voce del movimento degli occhi della Vergine in un’edicola pubblica, il locale vescovo la fa smontare da un muratore e da un falegname, e la nasconde in curia; a Ravenna succede un episodio analogo, ma si tratta di una falsa voce: lo ricorda il monaco Benedetto Fiandrini, precisando che chi non crede al «preteso miracolo» è chiamato col nome di «Giacobino (che in questi tempi significava incredulo, atteo o cosa simile)». [44] Cfr. A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, «Pagine di Storia & Storie», a. V, n. 11, supplemento al settimanale «Il Ponte», Rimini, 14 marzo 1999. [45] La parola «bisognosi», che potrebbe far balenare un discorso sulle cause sociali nella rivolta, non è di mano del cronista, ma di bocca del prelato. [46] Questo verbale reca la data del primo giugno 1799. In una lettera che i nuovi amministratori di Rimini inviano alla Cesarea Regia Reggenza di Ravenna il 24 luglio 1799, si legge: «dal Popolo fummo acclamati alla Provvisoria Magistratura». Cfr. «Prospetto, delle miserie di questa città» in AP 504, Copialettere della Municipalità, dal 1.6.1799 al 19.9.1799, ASR. [47] Cfr. la sua lettera del 15 giugno 1799 in B 22, Sec. XVIII, Corrispondenza del R. I. Commissario e R. I. Reggenza 1799-1800, ASR. Viezzoli controfirma tutte le lettere in partenza dalla Municipalità riminese. [48] Cfr. P. Antonioli, Il triennio rivoluzionario in Romagna: Rimini dal 1796 al 1799, ASR e BGR. Qui si possono trovare, passim, ampie note biografiche dei principali personaggi protagonisti delle vicende del 1799, con relativi rimandi bibliografici. [49] Ne ho riferito in Fame e rivolte nel 1797, cit., p. 696. Il giudizio di Zanotti su Bonzetti è ripreso da C. Tonini, nel suo Compendio della Storia di Rimini, II, 1896, p. 224. Tonini lo collega a quello su Martinelli, impegnato con Bonzetti in una missione diplomatica del 1796, all’apparire dei francesi in Romagna: «due veri contrapposti, dice il cronista: poiché il primo era tutto filosofo e tutto francese, il secondo tutto cattolico e tutto papa». Forse questa precedente attività in comune di Bonzetti e Martinelli, può tornare utile ai fini del discorso che ho fatto più sopra, circa un possibile ruolo di consigliere svolto da Martinelli a Rimini anche in questi confusi momenti. [50] Il verbale non dice che il cambio di residenza si era reso necessario dopo il saccheggio del giorno precedente. Giangi scrive semplicemente: «La residenza del Magistrato è in Casa Gambalunga». Zanotti invece precisa: i nuovi eletti «provvisoriamente posero la loro residenza nel palazzo Gambalunga finche fosse ricomposta l’antica primiera residenza del palazzo magistrale il giorno avanti manomesso, lo che non si effettuò poi, che ai 12 Ottobre avvenire del corrente anno». Quest’ultimo particolare forse indica qualcosa sull’entità dei danni arrecati alla residenza municipale dagli insorti. [51] Lo stesso primo giugno 1799 [AP 504], al comandante austriaco, i Magistrati scrivono: «L’arrivo di vostra Eccellenza in questa Città ci ricolma di giubilo, e ci anima a sostenere la Magistratura provvisoriamente conferitaci dal Popolo». [52] Cfr. il cit. «Prospetto, delle miserie di questa città», AP 504: qui si dice che De Potts «si degnò confermarci nell’Ufficio». [53] Sulla lunga crisi economica della città, in fasi anteriori, anche prima dell’arrivo dei francesi, cfr. il cit. Fame e rivolte nel 1797, passim. [54] Il 16 agosto 1799 [B 22], la Municipalità riminese progetta di chiedere «ai Benestanti di sovvenire la Patria con delle somme volontarie», al frutto del cinque per cento. Il 24 agosto si decide la vendita delle posate del Pubblico [AP 617, c. 30v.]. [55] Sul problema dell’approvvigionamento del grano, in AP 617 si trovano alcuni documenti relativi a tutto il periodo della Reggenza provvisoria. Il primo è del 12 giugno 1799 [c. 5r]. Come si constata in ibid., cc 9-10, è deliberata una generale diminuzione dei prezzi dei generi alimentari. A settembre, si chiede alle autorità austriache di permettere l’acquisto di grano a Trieste, cosa che allora non era possibile, e poi in Ungheria: cfr. AP 505, Copialettere della Municipalità, dal 19.9.1799 al 3.2.1800, ASR, passim, mese di novembre (lettere dirette al commissario provinciale Giuseppe Pellegrini); e B 22, lettera di Pellegrini del 25 novembre 1799. [56] Il comandante Potts ordina che, con il ripristino del sistema pontificio, si riuniscano all’amministrazione di Rimini «tutte le Comuni del Contado, e le Ville del Barigellato, compresi quelle di Bellaria, ed il Borgo di Cattolica, che n’erano stati smembrati per la legge del 21 vendemmiale anno 7; e tornarono i Luoghi di Verucchio, S. Ermete, e S. Martino de Molini, che erano stati uniti al loro primiero Corpo» (lettera alla Reggenza di Cesena, 22 ottobre 1799, AP 505). [57] «La tassa di famiglia pel mantenimento della Guardia Urbana cade sopra i Possidenti, Mercanti, e Capi d’arte che hanno capitali in questa Città, e suo Territorio. Siccome questi vengono ad essere diffesi dalla Forza, così Essi soli debbono portarne il peso». La tassa è di 40 baj mensili. Lettera del 18 agosto 1799 al comandante della Guardia Urbana. Sull’attivazione della tassa, cfr. la delibera del 10 agosto 1799 in AP 617 (c. 27v), dove si cita il relativo editto del 4 agosto [58] Cfr. in AP 504, lettera al Giusdicente del 6 agosto 1799. [59] Cfr. nel cit. Compendio della Storia di Rimini, II, p. 266, [60] Cfr. R. Copioli, Ildegarda oltre il tempo, Rimini 1998, p. 64, nota 23. Sulla genealogia della famiglia Belmonti, cfr. M. A. Zanotti, Genealogie di famiglie riminesi, SC-MS. 187-188, c. 134 (ora c. 144), BGR. [61] Cfr. lettera al commissario Pellegrini, 10 dicembre 1799, AP 505. [62] Il 27 giugno 1799 [AP 617, cc. 10v/11r] la Reggenza delibera la costituzione, a partire da luglio, di Uffici civili provvisori col sistema che si praticava sotto il governo pontificio. Podestà è nominato l’avv. Lelio Pasolini. Al cronista Zanotti, s’affida l’incarico di «Notaro del Sig. Vicario delle Gabelle, Dogana e Macinato». [63] La distribuzione delle sovvenzioni è affidata ai parroci del Borgo di San Giuliano, don Filippo Copioli, e di Santa Maria al Mare, don Giammaria Innocenti. [64] Così scrive Zanotti. Ma non si tratta soltanto di un «desiderio». In AP 617, 13 giugno 1799, c. 6, leggiamo che De Iacobi espressamente ordina che Garampi sia nominato Capitano della Milizia Urbana. Così pure in AP 505, al commissario Pellegrini, 10 dicembre 1799. [65] Cfr. AP 505, la cit. lettera a Pellegrini, 10 dicembre 1799. [66] A Lodovico Belmonti, fratello di Gian Maria, la Municipalità chiede di «produrre le sue giustificazioni»: cfr. la lettera indirizzatagli, del 13 agosto 1799, AP 504. Su di lui, cfr. la cit. tesi di Antonioli, p. 254, nota 72. [67] In AP 722, Polizia Criminale, ASR, si conserva la lettera che padre Bernardo Canuti il 23 luglio 1799 indirizza ai Magistrati di Rimini, parlando delle «miserie della lunga prigionia, in cui mi ha sbalzato la popolare sommossa». Egli chiede, per «recuperare la libertà perduta», una dichiarazione che per il suo arresto non è concorsa l’autorità riminese. «Sono sedici anni che dimoro in Rimini», precisa, «e sempre ho goduto l’onore d’essere amesso nelle case più rispettabili, molte delle quali m’amisero alla generale loro confidenza». Egli ricorda pure di aver un tempo deposto «l’Abito Monastico»: ecco perché Giangi scrive «ora Prete». Sulle cause dell’arresto avanza un’ipotesi Antonioli, op. cit., p. 252, nota 68: Canuti aveva appoggiato le autorità francesi quando respinsero il 10 agosto 1798 la richiesta di una processione con l’immagine della Madonna dell’Acqua. [68] Cfr. nel mio La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di Elisa Mosconi, Rimini 1997, passim. [69] Cfr. A. Montanari, Dalla città nuova ai Francesi. Aspetti di vita sociale nel Settecento, «Storia di Cervia, III. 1. L’età moderna», Rimini 2001, passim. [70] L’originale del proclama si trova in BGR, Fondo Gambetti, Stampe Riminesi. [71] Viezzoli se ne va a Pesaro il 15 giugno 1799. Ritorna il 28 dello stesso mese: cfr. AP 617, ad diem, cc. 11r/v. [72] Si tratta del già cit. «Prospetto, delle miserie di questa città», AP 504, dove si presenta il «quadro luttuoso» della situazione, ricalcando quanto già denunciato in fasi precedenti. Tra 27 e 29 dicembre 1796 lo «stato passivo della Comunità» è l’argomento che Rimini affronta in una specie di ‘trilogia della povertà’, rivolgendosi al Legato, al Segretario di Stato ed al Prefetto della Sacra Congregazione del Buon Governo: è una dichiarazione di fallimento amministrativo (cfr. L’«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., p. 946). Lo stesso tono è in una petizione a Bonaparte, del 7 febbraio 1797, nella quale si illustra «la situazione deplorabile» della città (cfr. Fame e rivolte nel 1797, cit., pp. 703-704). [73] Leggiamo in Giangi: il 24 giugno, per la mancanza di pioggia, si recitano litanie alla «Vergine dellAcqua» nel Tempio malatestiano (è una «Pietà» di scuola tedesca del XV sec., originariamente dedicata ai martiri e poi venerata per combattere la siccità). [74] Si tratta di Lorenzo Drudi che «fu un sapiente Medico, profondo filosofo, libero Pensatore, e in ogni genere di letteratura assai erudito, e buon critico, gran Bibliografo», nonché bibliotecario della Gambalunghiana tra 1797 e 1818: cfr. G. Urbani, Scrittori e prelati riminesi, SC-MS. 195, BGR, p. 265. A Drudi la Reggenza scrive il 7 ottobre 1799 [AP 505] per la riapertura della Biblioteca Gambalunghiana, osservando: «Ignoriamo quali siano i motivi, che ne impediscono l’apertura», e chiedendogli di illustrarli alla stessa Reggenza. (Come si è visto, il palazzo Gambalunga, sede della Biblioteca, era divenuto la residenza municipale provvisoria.) [75] Cfr. in AP 617, 30 giugno 1799, c. 12r. [76] Due giorni prima, lo stesso De Buday ha confermato Garampi nell’impiego di comandante della Guardia Urbana: cfr. AP 908, Epistolario, 1799-1801, ASR, ad diem. [77] Il 25 luglio 1799 [AP 617, c. 24r] si delibera un dono a De Buday ed ai suoi «Bassi Ufficiali», «a compenso dei sofferti incomodi», e per «assicurare a beneficio di questa città il loro favore». [78] Segue il 21 luglio 1799 [B 22] un editto per Cattolica, dove si registrava un «intollerabile disordine» a causa dell’«indebita, arbitraria, e ruinosa distribuzione delle razioni, che colà si dispensano a chi le percepisce da altri Luoghi con massimo danno del pubblico, e del privato interesse». [79] Il 25 luglio 1799 [AP 617, c. 24v] la Reggenza riminese incarica Daniele Felici Capello di contattare la Reggenza di Ravenna, per rimediare agli «estremi, e molteplici bisogni della nostra Patria». Cfr. pure la lettera della Reggenza provinciale del 27 luglio 1799, B 22. [80] Cfr. il cit. AP 908. La richiesta di Rimini è appoggiata anche dalla Reggenza provinciale (lettera del 26 luglio 1799, B 22: «Si avrà principalmente l’avvertenza di far cadere l’elezione sopra dei soggetti, che godino la confidenza del Pubblico, e del Governo», e si dovranno prendere soltanto «provvisorie misure»). [81] Si veda al proposito il già cit. documento del 7 febbraio 1797, sulla «situazione deplorabile» di Rimini (v. alla nota 72). [82] Da Ravenna il vice presidente Federico Rasponi il 6 agosto 1799 [B 22] fa notare che anche in quella città «sperimentasi la stessa penuria di denaro, per cui difficile si rende il rinvenirne ad interesse». [83] Secondo Zanotti il dispaccio di Klenau dell’11 luglio giunge a Rimini soltanto il 23. Questo spiega il fatto, come si dice nella nota 85, che la prima reazione di Rimini sia del 26 luglio. Questa Reggenza provinciale dapprima ha sede ad Imola, poi viene trasferita a Ravenna: cfr. nel cit. AP 504, lettera del 27 luglio 1799 alla Reggenza provvisoria. [84] Cfr. anche AP 617, delibera dell’11 agosto 1799, c. 28r; e AP 505, 8 ottobre 1799, dove si dice che il decreto del 17 luglio 1799 era «per la costituzione della Reggenza Provinciale distinta da codesta di Ravenna» (a cui è diretta la lettera). Il testo di Klenau del 17 luglio 1799 è in copia ms. acclusa da Imola a Rimini il 9 agosto 1799 [B 22]. [85] Cfr. la lettera del 26 luglio 1799 della Municipalità riminese alla Reggenza provinciale provvisoria [AP 504]: vi si parla della «ragione di non opporsi agli Ordini della Reggenza sino al risultato del ricorso». [86] Cfr. altra lettera del 26 luglio 1799 [AP 504], diretta a Daniele Felici Capello. [87] Cfr. la lettera alla Reggenza di Cesena, 19 agosto 1799 [AP 504]. [88] Cfr. la lettera della Magistratura riminese alla Reggenza di Forlì [AP 504]. [89] Un ruolo di primo piano nella vertenza è assunto dall’avvocato imolese Mancurti Del Caretto: cfr. le lettere a lui dirette dalla Municipalità riminese il primo ed il 19 agosto 1799 [AP 504]. Cfr. anche lettera dell’amministrazione imolese a quella di Rimini del 9 agosto 1799 [B 22]. [90] L’incarico gli è affidato il 10 luglio 1799, AP 617, cc. 16v-17v: la proposta di costituire una delegazione romagnola con il compito di contattare il generale Klenau, è del magistrato di Forlì Luigi Brosi, ben conosciuto a Rimini, perché, come si è detto, è stato il Governatore della città sino al 2 febbraio 1797. In tale documento si legge: «La Reggenza Provvisoria destinata per Ravenna si arroga tale superiorità, che giusta la sua istituzione non le compete sopra le altre Città della Provincia». Si dovrà chiedere a Klenau di dichiarare che Ravenna «non ha altra facoltà, che sopra i propri Abitanti, e Territoriali, come hanno le altre Magistrature». Il 13 luglio 1799, ibid., c. 18r, si decide ancora di chiedere una Reggenza provinciale autonoma da Ravenna. Cfr. pure ibid., c. 28r, la cit. delibera dell’11 agosto 1799. [91] In lettera alla Reggenza di Forlì, si parla della «capitolazione seguita fra le Reggenza di Ravenna, e le cinque Città unite mediante i Signori Deputati Mancurti, e Codronchi, e l’interposizione di quel Mons. Arcivescovo» [18 agosto 1799, AP 504]. [92] Cfr. la lettera al cit. Felici Capello del 18 agosto 1799 e all’avv. Mancurti Del Caretto del 19 agosto [AP 504]. Sul problema esistono anche altre lettere del 19 agosto alle amministrazioni di Cesena e Forlì. [93] Così leggiamo nella cit. lettera del 19 agosto 1799 all’avv. Mancurti Del Caretto. [94] Lettera alla Reggenza di Faenza del 19 agosto 1799 [AP 504]. [95] Di un Giuseppe Bussot Pellegrini la Reggenza riminese parla a Garampi [AP 504, 26 luglio]: «ei si partì da Roma giubilato nella Guardia Pontificia prima dell’invasione de Francesi, e si portò qua dopo il loro ingresso. Ottenne dall’Amministrazione centrale dell’Emilia il vasto locale dell’Ospizio degli Olivetani in questa Città coll’obbligo di eriggervi una Fabbrica di Calancà, e di carte da giuoco. In due anni che lo gode hà mancato di dar mano ai Calancà: motivo per cui la stessa Amministrazione ordinò, che ne fosse espulso, destinando il locale medesimo ad altro uso: mà ciò non ostante se n’è sempre mantenuto nell’indebito possesso, e dati in esso dei danni». (Calancà, è tela stampata a fiori o figure già importata dalle Indie: cfr. G. Gavuzzi, Vocabolario Italiano-Piemontese, Torino 1896. Debbo alla squisita cortesia di Virginia Brayda la segnalazione che in Archivio di Stato Torino, Atti notarili, si citano «lenzuola di calancà» e «vesti di calancà bianca».) Quel Pellegrini ebbe «gratuita abitazione di anni» nello stesso spazioso locale. Circa il carattere del personaggio, si precisa: «consta da un Processo di Polizia [...] essere immorale, e portato per le norme Repubblicane, conforme ha dimostrato nel suo contegno, e nell’aderenza avuta coi Comandanti Francesi». Che si tratti dello stesso commissario Pellegrini nominato il 2 ottobre 1799 [AP 908, c. 23r], lo fa sospettare un particolare: Giuseppe Bussot Pellegrini era stato raccomandato a Rimini dalle «premure» proprio del colonnello De Buday, primo comandante della Romagna, come la Reggenza fa presente a Garampi [AP 504, 26 luglio, cit.]. Rimini non ritenne opportuno di soccorrerlo [ibid.]. [96] In tale data è emesso un editto per l’ordine pubblico, in seguito a «ricorsi pervenutici d’insulti, e dileggiamenti sofferti da taluno» (lettera al comandante della Guardia Urbana, AP 504). [97] Cfr. lettera allo stesso Garampi del 9 agosto 1799, AP 504. Il 14 agosto la Reggenza riminese ordina a Garampi di arrestare come rei due cittadini del Borgo di Cattolica, tali Frontini ed Antonioli. Costoro ricorrono presso il vescovo di Cervia, presentandosi come «legittimi deputati in Cattolica». La Reggenza di Rimini precisa: «Per tali dovemmo dichiararli in vista di un irregolare contegno nella dispensa delle razioni, e sostituire ad Essi degli Individui più degni». I due hanno poi incitato il popolo contro gli Eletti, per cui sono stati arrestati ed ora attendono il «criminale giudizio» (lettera al vescovo di Cervia, intervenuto a loro favore, 15 agosto 1799, AP 504). [98] Cfr. in AP 504 la cit. lettera del 6 agosto 1799. [99] Cfr. AP 617, 30 giugno 1799, cc. 11v-12r. La Reggenza delibera una serie di provvedimenti per risparmiare nel personale («Risecamento di Stipendiati») il 30 luglio 1799 [AP 617, c. 25v]. Sono licenziati anche quattro sbirri. Circa il nuovo bargello, prescelto dal commissario Pellegrini, cfr. AP 908, 18 ottobre 1799, c. 23v. Dalla nomina della Reggenza provinciale del 29 novembre 1799 [AB 22], apprendiamo che si tratta di Girolamo Venturelli: cfr. pure AP 505, lettera al Giusdicente del 30 novembre 1799. [100] Cfr. in AP 908. L’originale è in B 22. Vi si legge che la Reggenza provvisoria «si è sempre data tutta la cura per la Pubblica Amministrazione, pel buon ordine, e tranquillità del Paese». Lo stesso 4 agosto Viezzoli firma una ricevuta per «tutti gli Effetti ritrovati presso quella Comune riconosciuti già di pertinenza della Repubblica Francese e Cisalpina» [B 22]. [101] Come risulta dall’elenco dei nomi, si tratta di una Municipalità rinnovata rispetto a quella nominata il 31 maggio, ed a quella degli otto componenti del 2 luglio (di questi otto, il 4 agosto mancano Battaglini e Manzaroli). Questo elenco del 4 agosto, senza il nome di Luca Soardi, è dato da Zanotti come nuova Reggenza del mese di dicembre 1799. L’elenco è confermato in AP 617 (c. 26v) da delibera del 6 agosto 1799 («Granarista dell’Annona»). [102] Cfr. in AP 504, lettera al generale Klenau. Le credenziali di Tonti sono presentate a Klenau dall’avv. Mancurti Del Caretto, di cui si è già detto. Il 15 agosto 1799 si precisa alla Reggenza provinciale che Tonti è stato scelto tra i Magistrati e non eletto dal Consiglio, stante il divieto di De Buday di convocare il Consiglio. Il 17 agosto il generale Klenau firma la nomina di Tonti [AP 504, 19 agosto, lettera alla Reggenza di Imola]. [103] Cfr. la lettera del 20 agosto 1799 [AP 504] della Municipalità di Rimini al barone De Jhugut, ministro imperiale e plenipotenziario per l’Italia. Rimini è preoccupata dei «raggiri della Reggenza di Ravenna», come scrive a quella di Imola il 28 agosto 1799 [AP 504]. [104] La Reggenza di Rimini ne scrive a quella di Romagna [AP 504]. Quest’ultima risponde [B 22, 17 agosto 1799] che «l’installazione da farsi della nuova Reggenza a forma degl’Ordini del Sig. Generale Klenau» non deve «sospendere l’effetto delle disposizioni dei tre Editti» indicati da Rimini nel messaggio del 13 agosto 1799, e che sembrano essere proprio questi ricordati da Zanotti. [105] Cfr. la risposta agli Eletti del 18 agosto 1799, AP 504: «La vicinanza del nemico, ed il pericolo che ne sovrastava per lo straordinario concorso de Forastieri, furono causa della istituzione del dicastero di Polizia. Cessata in oggi questa causa, non possiamo opporci alla dimissione, che le Signorie VV. Ill.me ce ne chieggono». In pari data [AP 617, c. 29r] c’è la delibera di sospensione dell’Elezione di Polizia. [106] Da lettera del 21 agosto 1799 [AP 504] al maggiore urbano Giovanni Zangari, si apprende che la Straordinaria Polizia ha condannato all’esilio soltanto un individuo. [107] Significativo il giudizio riassuntivo di C. Tonini, Storia di Rimini, VI, I, p. 939: i marinai si erano «incaponiti a voler essere la prima e sola custodia dell’ordine pubblico». [108] Il nome di Giovanni Battista Martelli appare ripetutamente nelle carte ufficiali riminesi durante il periodo francese: egli fu pure presidente dell’Amministrazione Centrale del Rubicone. [109] Su questa figura, cfr. S. De Carolis,M. R., medico leontino, «Atti del XL Congresso Nazionale della Società Italiana di Storia della Medicina», 2001, pp. 319-326. Rosa (1731-1812) fu allievo di Iano Planco (Giovanni Bianchi). Circa la sua cacciata in esilio, si può ipotizzare che come colpa gli venisse riconosciuta la collaborazione con l’autorità francese per un piano di studi per la Romagna, neppur concepito: sulla vicenda, cfr. il cit. Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario, p. 577. Urbani, op. cit., p. 553, scrive che Rosa «fino all’ultimo respiro di sua vita conservò una freschezza di spirito a pochi in quella età concessa». [110] Si tratta di Giuseppe Zanotti, fratello del nostro cronista (cfr. Antonioli, op. cit., p. 252: qui si ricorda che Domenico Bottini [il Botini ricordato da Giangi], era un ricco possidente già responsabile della recluta). [111] Cfr. Tonini, Storia di Rimini, VI, I, p. 804. [112] Cfr. C. Tonini, Compendio della Storia di Rimini, II, Rimini 1896, ed. anast. Bologna 1969, pp. 345-346. Importanti sono le osservazioni che Copioli, op. cit., p. 65, nota 23, fa sopra la morte di G. M. Belmonti, ipotizzando anche che «su di lui sia piombata la giustizia massonica». Egli era stato ministro della Cisalpina presso il Granduca di Toscana. Un bel ritratto («ricordo accorato», lo definisce Copioli, ibid., p. 60, nota 19) del personaggio, della sua cultura e delle sue idee politiche, è tracciato in Urbani, op. cit., pp. 669-678: G. M. Belmonti «poté attingere quel filosofico insegnamento, che tanto fa onore al secolo XVIII. per la copia de lumi, che ad illuminare i Popoli sui loro veri diritti ne derivò, e che pel molto imperversare della in oggi dominatrice intolleranza non sarà giamai che sia tolto di mezzo, con danno della ragione, e del vero». Secondo Urbani, Belmonti fu vittima «dell’invidia, e della vendetta» di alcuni componenti dell’«Ordine dei Nobili». (Sulla figura di Urbani, cfr. infra.) Partendo dal ritratto composto da Urbani, Copioli (ibid., p. 60) scrive che G. M. Belmonti fu «un idealista, un avventuroso, un rivoluzionario passato alla politica attraverso le idee dei filosofi». Sull’arresto di G. M. Belmonti, cfr. la lettera del Delegato Regio di Polizia di Bologna alla Reggenza di Rimini del 21 dicembre 1799, AP 722. Antonioli (op. cit., pp. 215-217, nota 2), sottolinea l’indipendenza di giudizio di G. M. Belmonti nei confronti degli occupanti francesi, e la sua sollecitudine a frenare le requisizioni da essi operate. La stessa autrice (pp. 232-233, nota 30) sottolinea che Daniele Felici Capello nel 1781 aveva sposato Innocenza Belmonti, sorella di Gian Maria, e scrive: «Si impone la riflessione che Daniele Felici nulla fece per cambiare la sorte del cognato nel 1799». [113] Cfr. anche ibid. alle date del 19 novembre 1799 e 10 dicembre 1799, in lettere rispettivamente dirette a Garampi ed a Pellegrini. [114] Cfr. AP 545. [115] Cfr. nel cit. Fame e rivolte nel 1797, passim. [116] In AP 504 è presente la «copia di lettera» del vescovo di Rimini alla locale Magistratura del 29 luglio 1799. [117] La lettera, del 30 luglio 1799 [AP 504], è intitolata «Beni dei Monasterj vigenti alienati dal prossimo cessato Governo». [118] Il provvedimento è ribadito il 4 agosto 1799. (Nel giugno 1800 sarà ordinata dal commissario imperiale la restituzione dei beni nazionali a Mense vescovili, Capitoli, Seminari e Parrocchie. Le cose cambieranno ancora il primo agosto 1800 quando il Primo Console Bonaparte restituisce quei beni agli acquirenti che ne fossero stati spogliati.) [119] Il 31 ottobre 1799 il regio commissario ordinerà la restituzione dei «Beni non venduti» alla Mense vescovili [AP 908]. [120] «Abbiamo anche con nostro sommo dispiacere dovuto soffrire di vederci con lettera di questo nostro Monsignor Vescovo, e per eccitamento di Monsignor Vescovo di Cervia quasi rimproverati di negligenza» (lettera alla Reggenza provinciale, primo agosto 1799, AP 504). [121] Il «Promemoria» è trasmesso lo stesso giorno ad Imola, all’avv. Antonio Domenico Gamberini affinché informi il «Commissario Provinciale Organizzatore conte Giuseppe Pellegrini», con lettera di pari data. Rimini invia successivamente una deputazione (composta da Soardi e Battaglini) presso Pellegrini, a cui si dichiara, tra le altre cose, la penuria di grani [AP 617, 4 ottobre 1799, c. 40r]. [122] Leggiamo nel «Promemoria» che, al provvedimento della Reggenza provinciale sui Beni nazionali del 30 luglio 1799, ne segue altro del 4 agosto 1799. Si legge in Zanotti che il 28 ottobre Pellegrini ordina da Forlì la restituzione dei beni ecclesiastici invenduti. [123] Il 14 dicembre 1799 il cit. commissario Giuseppe Pellegrini comunica: è volontà del sovrano che, in mancanza dei fondi per quelle pensioni, esse debbano restare a peso di quanto attualmente possiedono i beni già goduti dalle corporazioni. [124] Le carceri riminesi nel 1799 ospitano ventotto persone, come risulta da un documento dell’Archivio Storico Comunale riminese [AP 722, cit.], dal quale apprendiamo che si trattava di ventiquattro uomini, un sacerdote e tre donne. Queste ultime sono Teresa Urbinati di Coriano e Cattarina Bertozzi di Longiano, entrambe responsabili di «lajdezze» e di «contravvenzione d’esilio»; e Maddalena Cevoli di San Clemente, colpevole d’infanticidio. Il sacerdote è don Piero Rombolotti del Territorio del Pallio di Urbino, per furto sacrilego e «mala qualità». Tra gli altri ventiquattro carcerati di sesso maschile incontriamo quattro detenuti «per furti», due «borsaroli», poi tre altri accusati (o giudicati, non sappiamo) rispettivamente per sparo, rissa e furto sacrilego. Infine ci sono quindici militari di cui uno francese. Il documento non ha una data precisa. L’anno (1799) lo si ricava dalla lettura dell’elenco dei detenuti. Nella parte del documento relativa ai quindici militari, ci sono alcune precisazioni che ci potrebbero indicare come esso sia stato compilato prima dell’arrivo degli austriaci (30 maggio 1799). Nel gruppo dei quindici ci sono «otto individui bresciani» condannati e «spettanti al Capitano Rellatore del Consiglio di Guerra»; «altri due Cispadani [...] a disposizione come sopra»; «altri tre Carattari spettanti come sopra»; il «Commissario Santamer» e Giuseppe Squadrini di Rimini «arrestati il 14 febbraio a disposizione come sopra». Soltanto i due Cispadani sono descritti «in Secreta», mentre per gli otto bresciani si parla di detenzione «alla Larga». Non si precisa nulla per le altre persone. Circa il «Commissario Santamer», si può supporre che si tratti di uno degli agenti francesi che avevano preteso contribuzioni indebite. Si può collocare così il documento nel periodo di metà maggio 1799, dopo lo stato d’assedio proclamato dal generale Lahoz per tutto il Dipartimento del Rubicone, e durato dal 4 al 13 dello stesso maggio 1799. E quindi prima della liberazione della città da parte della marina imperiale. [125] L’Amministratore interino dell’Annona è Pellegrino Bagli. [126] Cfr. «Memorie della Cesarea Regia Reggenza Provvisoria all’Ill.mo Magistrato Successore nel dì 16 Gennaio 1800», contenute in un fascicolo allegato ad AP 617. Queste istanze erano state dirette al «riaprimento dell’Abbondanza». Le «Memorie» contengono un’importante descrizione della situazione cittadina, sui cui dettagli non posso soffermarmi. [127] Sull’argomento rimando al cit. Il pane del povero. Nel 1788 l’Annona concesse ai fornai libertà di spaccio. Il Legato Nicola Colonna di Stigliano prima approvò queste norme che gli sembravano «tendenti al Ben pubblico», poi le annullò ed abolì nel novembre 1791. L’anno successivo, come si è scritto, Colonna riaffermò l’esclusiva dell’Abbondanza. Il 23 settembre 1795 il Legato Colonna impose nuovamente la «cessazione dei panfangoli», dopo aver ordinato il 25 agosto la panizzazione nel forno pubblico, «senz’aggravio della Comunità e col possibile maggior sollievo de’ Poveri». Per la situazione annonaria nel 1796, cfr. il cit. Fame e rivolte nel 1797, pp. 681-684. Il 2 agosto 1799 [AP 617, c. 26] la Reggenza nomina gli Abbondanzieri (Claudio Lettimi, Pompeo Rufo, Nicola Mattioli e Gaetano Ceccarelli); il 6 agosto 1799, Francesco Mancini è ballottato come presidente dell’Annona [ibid., c. 27]. [128] Cfr. AP 99, Annona frumentaria, ASR, c. 259v. [129] Così troviamo in un documento riportato nel cit. Fame e rivolte nel 1797, p. 681, nel quale leggiamo pure: «Una buona parte de migliori Artisti, e di Persone, ch’esercitano professioni liberali, non vivono del Pane dell’Annona». [130] Cfr. AP 99, c. 222v, sotto la data del 30 agosto 1796. [131] Cfr. Il pane del povero, cit., pp. 14-15. [132] Dopo l’armistizio del 23 giugno 1796, la Municipalità riminese ha faticosamente impedito «l’emigrazione di molti abitanti del Porto»: cfr. AP 502, Copialettere della Magistratura, 1796-97, ASR, 24 giugno 1796. [133] Tale diminuzione è di «2 oncie per tiera» il giorno 7, e di mezz’oncia per bajocco il giorno 16, di modo che il pane bianco scende a 20 once, quello bruno a 24 «per tiera». Così si legge in AP 617, cc. 51v/52r: il dato risulta più comprensibile in base ad AP 505, lettera alla Reggenza di Imola del 16 novembre 1799, dalla quale si ricava che le once indicate sono corrispondenti al costo di 4 bajocchi. Per rendere omogenei i dati rispetto agli anni precedenti, basta riportare il peso alla misura per singolo bajocco. [134] Cfr. nelle citt. «Memorie», in AP 617. [135] Nel cit. AP 99, c. 241v, alla data del 22 agosto 1797, si trova una proposta (poi non più ripresa od attuata) di alzare il peso del pane «bruno» per il popolo a nove once, e quello del «bianco» a sette. Nell’anno annonario 1766-67 «per maggiore vantaggio, e sollievo de’ Poveri», l’Abbondanza riminese (in sistema diretto) aveva stabilito di «spianare una sola qualità di pane [...] quello di tutta Farina», dal peso di sei once a bajocco. Nell’anno annonario 1764-65, ultimo in regime di appalto, il peso del pane «venale» era stato di undici once, e quello del pane «affiorato» di nove once a bajocco. Cfr. Il pane del povero, cit., pp. 16-17. [136] Cfr. AP 99, c. 246v., delibera del 16 agosto 1799. In tale registro annonario mancano i verbali successivi al 4 novembre 1797 (ultimo di quell’anno) sino al cit. del 16 agosto 1799 (primo della nuova serie). [137] Cfr. le citt. «Memorie» in AP 617. Qui si possono vedere anche le notizie sul consumo del grano e sulla perdita dell’Annona. [138] Cfr. in AP 505 le lettere sul tema, del 7 e 9 novembre 1799 al Sindaco delle stesse fosse ed al Giusdicente dottor Filippo Martelli. Sull’antecedente deviazione delle fosse Patara e Viserba verso le coltivazioni di orti e risaie in territorio di Verucchio, cfr. Fame e rivolte nel 1797, passim. [139] Abbiamo già letto nel documento di cui alla nota 130, che il pane dell’Annona non poteva «resistere ai dieci, o dodici giorni di navigazione». [140] Qui leggiamo che è stata rinnovata l’istanza per aver grano dall’Ungheria e da altri Paesi: cfr. AP 908, 18 dicembre 1799, c. 33v. [141] Cfr. De Carolis, op. cit., pp. 323-324. [142] Così Zanotti nel tomo undecimo (anno 1800) del suo Giornale, SC-MS. 318, BGR. Le successive citazioni da Zanotti sono riprese da questo tomo. La nomina di Bonzetti da parte di Pellegrini è del 6 gennaio 1800, AP 908, c. 35r, e B 22. [143] F. Bonsi (1722-1803), allievo di Iano Planco, fu un luminare della Veterinaria. [144] Fratellastro di Gian Maria Belmonti, egli visse dal 1757 al 1831. Cfr. la cit. Antonioli, pp. 215-217, nota 2. [145] Nel testo si legge «opposizione»: forse si deve intendere «posizione». [146] Il 3 dicembre 1799 [AB 22], la Reggenza provinciale dichiara che dagli impieghi debbono essere esclusi quanti «sono stati impiegati dal governo Democratico, e che abbiano prestato il giuramento civico». [147] Tutte le lettere ufficiali sono riprodotte sia in AP 880, Atti del Consiglio Generale, 1796-1801, ASR, sia in AP 908. Tralascio di ricordarlo per altri documenti. [148] Sulla figura di Urbani (1751-1829), cfr. due saggi di G. C. Mengozzi, G. U. U. Delegato all’organizzazione del Montefeltro, «Studi Romagnoli» XXI (1970), pp. 497-508; e Montefeltro giacobino, «Società di Studi storici per il Montefeltro», San Leo 1973, pp. 69-93. Nel primo lavoro, si denuncia giustamente l’«inusitato e singolare silenzio, se non l’oblio, che ha circondato la figura e l’opera» di Urbani e «di tutti gli uomini riminesi dell’età napoleonica da Nicola Martinelli a Gian Maria Belmonti, da Stivivi a Daniele Felici» (p. 497). Nel cit. Compendio, Tonini quando riporta la notizia della scomparsa di Urbani, lo definisce «autore del lavoro inedito degli scrittori riminesi, e nelle cose politiche versato» [p. 467]. Lo spirito illuministico ed anticlericale di Urbani traspare anche dal già cit. profilo di G. M. Belmonti, contenuto in Scrittori e prelati riminesi. Basti ricordare questo passo: per la «sacerdotale astuzia», dopo l’arrivo degli austriaci, «il delitto prendeva ovunque sembianza di virtù, e sembrava farsi per così dire, facile, e sicura strada al Paradiso». L’assenza di Urbani dalla adunanza del 19 gennaio 1800 ha un suo preciso significato come rifiuto di ogni politica di restaurazione. [149] In questo modo per ogni nominativo, tra favorevoli e contrari, ci sono in totale 42 preferenze. In alcuni casi ne sono riportate però 43, come per i tre esclusi. [150] La lettera di Pellegrini di nomina dei nuovi Magistrati è anche in AP 905, Risoluzioni 1793-28.2.1797 e 13.2.1800-23.1.1801, c. 101r, ASR. |