Antonio Montanari

Andrea Lettimi «contrabbandiere» di farina


Il 7 febbraio 1761 al Consiglio Generale di Rimini viene letto un memoriale inviato al Cardinal Legato di Romagna dal signor Alessandro Lancellotti, «Appaltatore della Farina» [1], il quale lamenta che «si commettono infiniti Contrabandi» a suo danno. Come pubblico appaltatore, soltanto lui può vendere farina: chiunque altro lo faccia, è passibile di denuncia e condanna. Così vogliono le leggi. E così lui spera che ci si regoli davanti alla sua protesta.
In generale, egli scrive nel memoriale, i contrabbandieri si comportano «con il miglior modo, che sia possibile per non venir discoperto». Ma si ritrova anche chi «baldanzoso, e senza timore della giustizia pretende a forza contrabandare» senza esser disturbato: «Questo è il cittadino Andrea Lettimi», precisa Lancellotti. Nella storia di Rimini il nome di Andrea Lettimi s'incontra per un evento più glorioso, l'acquisto nel 1770 del palazzo che porta ancora il suo nome e che lui successivamente fece alzare, restaurare e rifinire, come annota un cronista del tempo, il notaio Michel'Angelo Zanotti [2]. Dal memoriale di Alessandro Lancellotti e da altri documenti possiamo ricavare inedite notizie su Lettimi, relativamente alla sua attività ed alla sua carriera politica.
Lancellotti scrive che Lettimi fu accusato già «dalli 25. ottobre dell'anno prossimo scorso [il 1760] perché in soli due giorni aveva venduto libbre 528 di farina». Con questa denuncia, aggiunge l'appaltatore, si è aperta in Roma una lite giudiziaria costosa che corre il rischio di non approdare a nulla perché Andrea Lettimi «con mille racomandazioni, e prepotenze fa in modo, che non siano intese» le ragioni della parte lesa, e che non vengano rispettate «le giuste, e provvide leggi della Legazione sopra li Contraventori».
Ma c'è qualcosa di peggio, fa umilmente osservare Lancellotti: «Ardì lo stesso Lettimi ne' giorni passati» spedirgli un «monitorio» attraverso il Cardinal Camerlengo, «colla pretensione d'esser mantenuto in possesso di dare la farina delle sue Entrate in scomputo delle mercedi de' suo Operarj del Filatojo». E' una diffida di Lettimi a Lancellotti perché receda di denunciarlo: «in vigore di questo monitorio», aggiunge l'appaltatore, Lettimi «ritornò a dispensare, e vendere più di prima la farina a detti suoi Operarj».
Il Bargello di Rimini accusa di contrabbando non il ribelle Andrea Lettimi, ma due operai del suo filatojo, facendoli incarcerare, e sostenendo di aver agito «per avere avuto notizie da un suo Amico». A Lettimi non mancano né la voglia né la forza per trovare altri argomenti a proprio favore: adesso, osserva Lancellotti, egli «medita di far precipitare l'Appalto, asserendo che ogni Possidente può liberamente dare alli suoi Domestici, et Operarj la farina in scomputo delle mercedi, e ciò viene affermato da altri Consiglieri, che bramano levare l'appalto per rimettere in pristino l'Abbondanza»: cioè, ci si voleva affidare direttamente ai servizi comunali.
L'Abbondanza è un organismo amministrativo composto da quattro consiglieri eletti, nato verso la metà del XVI secolo, e regolato poi da nuove norme all'inizio di quello successivo. I quattro Abbondanzieri avevano l'obbligo di tenere provvista la città di grano, farina e pane. Nel momento in cui ci troviamo con la vicenda di Lancellotti e Lettimi, l'Abbondanza non cura direttamente la 'fabbricazione' del pane e la vendita della farina, ma affida il compito ad un privato, mediante un'asta al miglior offerente. L'appalto per il periodo ottobre 1760-settembre '61 è stato affidato ad Angelo Sagramora, il quale ha concesso a Lancellotti quello della sola farina per 170 scudi, contro i 600 che lo stesso Sagramora deve corrispondere alla Comunità. E' un sistema (introdotto nel 1755) che non a tutti piace, come si ricava dal passaggio del memoriale di Lancellotti, quando ricorda che «altri Consiglieri» difendono il comportamento di Lettimi, bramando «levare l'appalto».
Anche Lettimi è un Consigliere (di grado civico, cioè non nobile) della città di «Rimino». Nell'adunanza in cui, il 7 febbraio '61, si esamina il memoriale contro di lui, ha il buon gusto di non presentarsi, così i suoi colleghi possono discutere il caso in tutta libertà. Ma da quanto apprendiamo dal verbale della seduta, il Consiglio non aveva nessuna intenzione di metter legna sul fuoco. Anzi. Preferisce ricorrere a un bel secchio d'acqua per spegnere fiamme fastidiose. A Lancellotti, che chiede di por fine alla «baldanza di detto Lettimi per le sue esorbitanti vendite di farina» con un provvedimento «che sia d'esempio agli altri ancora», il Consiglio risponde con un gesto pilatesco: non risulta «cosa faccia il Sig. Lettimi, e cosa pretenda il Lancellotti, il quale attesa la pendenza della Lite in Roma, e del Monitorio dell'Eminentissimo Camerlengo puole instare avanti il Giudice della causa per far valere le sue ragioni». Come a dire: noi non c'entriamo per nulla, ci pensi la Giustizia romana a fare il suo corso.
La storia si ripete poco dopo. Il 30 luglio '63 ad Angelo Sagramora, «conduttore» della privativa del pane e della farina (di cui è appaltatore Andrea Bagli), la Congregazione del Buon Governo dà torto [3]. Andrea Lettimi può tranquillamente pagare i salari dell'officina serica con il grano delle sue proprietà. Non conta nulla che esista un bando che proibisca simili comportamenti.
Il 5 febbraio 1770 Andrea Lettimi viene promosso all'unanimità al grado di Consigliere Nobile [4]. La decisione, spiega il verbale, è presa in considerazione delle «sovrane premure di Nostro Signore accompagnate con obbliganti generosissimi sentimenti dalla viva voce dell'Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Borromeo nostro Legato ora presente in questa Città». Insomma, da Roma è venuto l'ordine di innalzare Lettimi a maggior dignità sociale e politica. I Consiglieri obbediscono al Papa: «singuli, ex rassegnatione facta unanimes, viva voce, nemine discrepante, acclamarunt fiat, fiat, fiat». Nel maggio '72 Lettimi riesce a far nominare Podestà di Coriano il proprio genero dottor Giuseppe Baldini [5]. La notizia lo raggiunge a Comacchio, dove Andrea Lettimi è «appaltatore delle Valli di Comacchio» [6].
Il padre di Andrea Lettimi, Claudio Almerico [7], davanti alla Curia Vescovile riminese era stato accusato di stupro da Elisabetta Parri. Nel 1683, Claudio ottenne «rinuncia» da Elisabetta ad ogni querela [8], in cambio di una dote di scudi quaranta che la donna avrebbe ricevuto soltanto al momento in cui fosse entrata nella Casa Pia di Santa Maria del Soccorso, chiamata delle «Malmaritate», posta nella parrocchia di San Bartolomeo [9].
Nel 1770, Andrea Lettimi deve scucirne di più, di scudi, per diventare Nobile: ben cinquecento, per il «regalo» previsto dalle leggi riminesi. Nel 1687, la tariffa era stata stabilita al doppio: ma nel 1692 (per soli dodici nuovi Nobili) venne dimezzata perché non si trovava nessuno che potesse spendere la cifra prima prevista. Per soli quattro nuovi Cittadini, sempre nel '92, la tariffa fu di centocinquanta scudi. Il 5 dicembre 1722, per i Cittadini la cifra originale (del 1687) viene ribassata da trecento a duecento scudi [10]. Ciò dimostra due cose: che circolavano meno soldi, e che per nobilitare il proprio sangue, bastava mettere da parte un po' di scudi, magari pagando gli «operarj» non in vil moneta ma con farina di contrabbando.

2. Il grano «privilegiato» degli ecclesiastici

Sul finire del 1762 a Rimini viene aperto un forno privato per panizzare il grano «privilegiato» della Mensa vescovile e quello proveniente dalle abbazie cittadine di san Giuliano e san Gaudenzo, delle quali è abate commendatario il cardinal Ludovico Maria Torregiani, segretario di Stato di Clemente XIII. La farina ricavata da questo grano ed il pane prodotto da quel forno vengono venduti in spacci e botteghe sparsi «per tutta la città» [11].
Dal 1° ottobre '62 (data di inizio dell'anno annonario), l'appaltatore del «pan venale» e della farina è Andrea Bagli che si è aggiudicato la gara offrendo scudi 440 di «corrisposta» annua. In base alle leggi vigenti, nessuno può creare un forno privato, né spacciare pane prodotto in proprio. Secondo Andrea Bagli, anche il vescovo di Rimini, cardinal Lodovico Valenti (che, come scrisse il canonico Luigi Nardi nella sua «Cronotassi», «fabbricò il bel Seminario che abbiamo vicino» al Tempio Malatestiano) ed il cardinal Torregiani debbono sottostare alla norma, per cui egli ricorre contro di loro, presentando reclami ed istante sia a Rimini sia a Roma. Non l'intimorisce per nulla l'alta carica occupata da Torregiani.
Il grano della Mensa vescovile è quello che viene riscosso nella diocesi a titolo di decima delle singole chiese. Esso viene definito «privilegiato» perché non deve sottostare agli obblighi fiscali locali («taglioni, ed altre gravezze»), in quanto proviene da «luoghi fuori di territorio»: è infatti prodotto in fondi non sottoposti alla giurisdizione della Comunità di Rimini.
In base alle «sovrane disposizioni» dello Stato della Chiesa, la stessa Comunità deve sottostare però ad una norma che permette ai produttori dei grani «privilegiati» di dichiarare se vogliono o no vendere all'appaltatore il loro prodotto. Questa clausola non piace, ovviamente, all'appaltatore per tre motivi: essa lo obbliga a dovere aspettare che gli ecclesiastici decidano, a loro arbitrio, se vendere o no; lo costringe a comprarlo, in caso di offerta, ad un prezzo maggiorato di venti scudi rispetto al costo totale [la cosiddetta «vigesima»]; in caso contrario, egli deve procurarsi il grano necessario allo sfamo della popolazione per tutto l'anno annonario acquistandolo al prezzo del momento nel quale è messo nella condizione di presentarsi al mercato, per cui corre il rischio di completare le sue provviste quando ci può essere un rialzo dei costi rispetto al periodo precedente.
Succedeva che le pretese degli ecclesiastici superassero i limiti stabiliti nelle leggi. Andrea Bagli, ricercato dai cardinali Valenti e Torregiani «per la compra del loro grano», si è dichiarato «pronto a comprarlo con l'aumento della vigesima, ma i due porporati pretendevano assai di più. E vedendo che non potevano indurre l'Appaltatore a pagar[g]li il prezzo desiderato, si risolsero di aprire il Forno, come di fatti l'apersero, e così esitare il loro grano panizzandolo». Sono documentate anche le eccessive pretese dei due cardinali: mentre il prezzo corrente oscillava tra i 24 ed i 25 paoli allo staro, essi ne chiedevano 30. [Dieci paoli fanno uno scudo.]
Dopo l'apertura del forno ecclesiastico ed anche di «molte Botteghe da spacciar Pane a conto de' mentovati Eminentissimi», Bagli ritiene lesi i suoi diritti ed inoltra «giudiciale Intimazione» alla Comunità di Rimini, in cui fa «protesta di tutti li danni, che soffriva» non solo per l'apertura di quel forno, ma anche per non aver ricevuto «la prestanza obbligatagli»: infatti il contratto di appalto prevedeva che, all'inizio della sua attività nell'ottobre '62, Bagli ricevesse «una vistosa gratuita prestanza di scudi 1.552:63:11», introdotta nel 1757. La somma corrispondeva al «prezzo del grano dell'Annona venduto al primo appaltatore» nel 1755, anno in cui si incominciò ad affittare i Forni secondo la volontà espressa dalla sacra Congregazione del Buon Governo.
La Comunità riminese, dopo l'intimazione di Bagli «non credette di moversi né punto né poco» per cui egli decide di «avanzar ricorso» alla stessa Congregazione, «a fine di ottenere l'ordine, che venisse chiuso il Forno dai due Eminentissimi aperto, come di fatto l'ottenne». Ricevuta soddisfazione a Roma, Bagli chiede all'autorità riminese di assumersi «il peso di far eseguire un simil ordine». La risposta che riceve è negativa, perché la Comunità è «fissa nella credenza di non dover prendere parte in questa briga», a conferma (par di capire) di una volontà politica di mantenersi indipendente dal potere centrale, e di non rimanere coinvolta in una disputa che toccava non gli interessi pubblici, ma quelli di parte dell'appaltatore Bagli.
Nonostante l'ordine impartito dal Buon Governo, il vescovo Valenti «proseguì lo spiano» [cioè la distribuzione] «del grano della sua Mensa», mentre il cardinal Torregiani continua nello stesso forno a «panizzare i grani delle sue Badie» ed a «vendere in più sitti della Città il pane».
I due Eminentissimi fanno presentare allo stesso Bagli una «citazione inibitoriale», cioè una diffida della quale egli stesso dà notizia alla Comunità di Rimini che «però non si mosse», dichiarando «inussistente» ogni pretesa dell'appaltatore di vedersi difendere nella privativa e di non dover pagare la prevista «risposta» di 440 scudi. Morale della favola: «L'appaltatore non volendo intraprendere lite con li due porporati», scrive egli stesso, «si risolve di comprare il grano per quel prezzo che Essi volevano maggiore della vigesima, ad effetto restasse chiudo quel Forno».
Soltanto il 28 gennaio '63 Bagli riceve dall'annona la «prestanza» del 1.552 scudi contemplata dal contratto di appalto. Il successivo 19 agosto in Consiglio Generale si discute una nuova istanza di Bagli che chiede ancora i danni «non meno per l'apertura del nuovo Forno, che per la prestanza ritardatagli», e si legge il parere steso dai Consoli contro le pretese dell'appaltatore, tutte respinte con argomentazione che in sostanza voglio scaricare l'amministrazione cittadina da ogni peso e responsabilità. Nel loro fervore polemico, i Consoli sostengono che la privativa riguarda soltanto i laici perché essa è stata concessa dal Legato, e non anche gli ecclesiatici (nel qual caso si sarebbe dovuta ottenere dal papa); e che la decisione del Buon Governo di chiudere il forno dei due Eminentissimi era opinione non dell'intera Congregazione, ma soltanto dello scrivente Cardinale Enriquez.
I 36 consiglieri approvano all'unanimità i pareri dei Consoli, convinti probabilmente di aver così garantito la loro indipendenza dai poteri laici e religiosi che incombevano da Roma. Anche il meccanismo annonario creato dalle «sovrane disposizioni» conferma un conflitto d'interessi su due piani: da una parte tra l'autorità locale (gelosa della propria autonomia) e quella centrale (che dirige dall'alto con un ferreo sistema di leggi la vita economica della città); e dall'altra, tra l'ordinamento economico dello Stato e gli interessi di alcuni gruppi «privilegiati» al pari di quel grano degli ecclesiastici. Questo conflitto provoca una perenne, ininterrotta litigiosità che contrappone legali indaffarati nello stendere memorie e nel proporre cause, con costi molto elevati per la comunità, la quale, se avesse impegnate tutte le cifre riservate per cause e controversie, avrebbe migliorato di non poco le condizioni di quei «poveri» che in gran numero vivono all'interno dei suoi confini.
Le vicende di Andrea Lettimi e del forno dei due Eminentissimi sono simboliche di un quadro generale di crisi politica dello Stato romano, la cui organizzazione si basava su privilegi, benefici, favoritismi. A lungo andare, tutto ciò mina alle fondamenta la credibilità del potere centrale. Il malcontento genera tensioni che precorrono eventi più drammatici. Non è la rivoluzione francese a lanciare verso di noi segnali di mutamento, né tanto meno saranno i soldati napoleonici (spediti a depredare le nostre regioni), ad introdurre le nuove idee (che loro stessi ignoravano). Lentamente, anche nel contesto riminese, il riformismo illuminato proveniente soprattutto dalla Lombardia, dimostra che le cose potevano, anzi andavano cambiate. Ma più tardi, nel '96-97 con la campagna di Bonaparte, furono pochi a credere che il mutamento potesse avvenire attraverso un'invasione armata, odiosa e terribile, che produceva soltanto miseria. E' vero che esistettero anche da noi i «giacobini», ma un'analisi attenta dei fatti e dei documenti porta a concludere che, più che rivoluzionari, molti di loro erano semplicemente favorevoli al rovesciamento del potere romano. Quella di giacobinismo fu un etichetta di comodo attaccata agli oppositori dello stesso potere. E poi non tutti i giacobini la pensavano allo stesso modo.

Antonio Montanari
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Pagina 1377, 27.08.2010. [http://xoomer.virgilio.it/antoniomontanari/storia/lettimi.html]