Antonio Montanari

I giorni dell'ira

Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino

Bisogna avere il coraggio di confessare e di riconoscere le piaghe e le ferite dell’uomo malato, spogliarle dei cenci vergognosi con i quali si cerca di mascherarle. Se non si conosce il male, se non lo si riconosce, come si può guarirlo?
Jean-Marie Lustiger, Cardinale di Parigi, 1989

Mai forse come allora si toccò con mano quale barbarie potesse produrre il delirio della potenza.
Noberto Bobbio, 1997

7. La prof. che faceva la spia
Roxanne Pitt lavorava per l'Intelligence Service. Il bombardamento del 26 giugno sul Titano forse causato dalle notizie degli agenti segreti sugli sconfinamenti dei Servizi Segreti e dei repubblichini.
I giorni dell'ira, 7. "il Ponte", 29.04.1990

29. Il Primo maggio.
Primo maggio 1944. Clandestinamente, viene celebrata la festa del Lavoro. "Quando i fascisti trovarono i cantieri deserti andarono su tutte le furie", testimonia Gildo Gasperoni: "Come cani arrabbiati passarono minacciosi per le case degli operai ad intimar loro di recarsi a lavorare, minacciando persecuzioni verso tutti coloro che non avessero ubbidito".
Proprio quella mattina, Gasperoni viene arrestato, con un tranello: il maresciallo Tugnoli, comandante i Carabinieri di Borgo, lo invita in caserma per informazioni.
"Ingenuamente, in buona fede", ammette Gasperoni, "lo seguii". Giunto in caserma, venne subito rinchiuso in camera di sicurezza.
Secondo Gasperoni, a farlo arrestare é stato il col. Marino Fattori, per vendicarsi del "successo... di resistenza operaia" del Primo maggio. Ma c'era anche un altro motivo: Gasperoni aveva combattuto in Spagna con i 'rossi'.
"Udii una conversazione del maresciallo con il carabiniere: gli diceva che il giorno dopo alle nove sarebbe venuto a prelevarmi il colonnello Fattori per portarmi in Italia a render conto dei miei 'crimini' consumati in Spagna contro i nostri fratelli italiani che combatterono a fianco delle truppe di Franco", spiega Gasperoni.
L'arrestato trascorre una nottata insonne. Al mattino successivo, mette in atto il progetto di evasione. Attende che siano aperti i catenacci della porta, dà un improvviso spintone, e tra lo stupore dei Carabinieri, "con due balzi mi trovai" all'ingresso. Esce dall'edificio, ruba l'auto che doveva tradurlo in Italia, fugge verso la Baldasserona a nascondersi "nella cripta dove la leggenda afferma che dormisse" il Santo fondatore della Repubblica. Si dà alla macchia e poi viene nascosto da diversi amici.

30. Al cimitero di Montalbo.
Quattro giugno. Gasperoni viene nuovamente catturato, assieme a quattro riminesi (Decio Mercanti, Giuseppe Polazzi, Leo Casalboni ed Elio Ferrari), al cimitero di Montalbo. Gasperoni é trattenuto a San Marino, e sarà presto liberato. Per gli italiani si prospetterà la fucilazione: riusciranno fortunosamente a salvarsi tutti, come già abbiamo visto nel settimo capitolo (II puntata).

31. Le bombe.
Il giorno più tragico della storia di San Marino, il 26 giugno 1944. "Erano le 11 circa. La gente guardava ignara il consueto orrendo spettacolo, quando un susseguirsi di scoppi fragorosi parve scuotere la mole del Titano", scrisse Balsimelli.
Muoiono 40 sammarinesi e 23 italiani. "Fu il terrore".
Quattro squadroni di bombardieri inglesi sganciarono 243 bombe, "senza nessun motivo né apparente né sostanziale", commenta lo storico Luigi Lotti.
Il giorno stesso, il governo sammarinese chiede al ministero degli Affari esteri della Repubblica di Salò di far trasmettere per radio una nota di protesta, secondo lo storico Lotti. L'ex reggente Balsimelli ricorda invece che si fece capo alla Radio vaticana.
Viene interessato anche il governo svedese, perché intervenga presso le potenze alleate in favore di San Marino. Il 7 agosto, gli alleati dichiarano di aver già disposto "da tempo" il rispetto della neutralità sammarinese, "subordinatamente rispetto norme internazionali".

32. Il patto violato.
Chi non vuole più rispettare la sovranità della piccola Repubblica é adesso la Germania. Il 28 luglio '44, il Comando di Ferrara comunica che sarà costretto a ciò, "non appena che necessità di carattere militare richiedessero il transito di essa da parte di automezzi o pedestre", senza occupazione o misure coercitive contro la popolazione, e senza requisizioni. Il patto di Rommel dell'ottobre '43, é così violato dagli stessi tedeschi.
Quella dichiarazione, commenta Balsimelli, "significava la guerra in casa".
Viene decisa una missione al Nord, da Mussolini. I diplomatici sammarinesi partono il primo agosto.

33. Fu solo un errore?
Perché San Marino fu colpita dagli aerei inglesi? Matteini parla di "informazioni di dubbia esattezza", in base alle quali agì l'Alto Comando Militare Britannico. Aggiunge Montemaggi che agli inglesi "era stato riferito che i tedeschi si erano impadroniti della Repubblica dal febbraio e che dai primi di giugno stavano ammassandovi depositi di munizioni".
Tali notizie (precisa Montemaggi), erano state trasmesse, "secondo i documenti" del Public Record office inglese, attraverso "non precisati 'prigionieri di guerra'".
"Che tale dizione non intenda coprire le informazioni sballate di qualche agente segreto in vena di errori?", si chiede lo stesso Montemaggi.
Le segnalazioni agli inglesi potrebbero essere considerate né false né errate, in base ad un documento sammarinese dello stesso 26 giugno '44 (indirizzato al maggiore Gunther, comandante germanico della 'piazza' di Forlì), trascurato sinora, ma pubblicato da Ghigi: "Preghiamo di voler ordinare alle Truppe Germaniche di esimersi dal frequentare a gruppo od isolatamente il nostro territorio per togliere qualsiasi motivo di apprensione alla popolazione e con esso qualsiasi parvenza di motivo di offesa aerea nemica". Sono importanti queste ultime parole: i tedeschi a San Marino erano di casa.
Abbiamo già visto le varie violazioni della sovranità sammarinese, commesse dalle SS e dai repubblichini.

34. Le spie.
I fascisti utilizzarono i nazisti per regolare conti 'interni', quasi che i cittadini sammarinesi fossero divenuti improvvisamente italiani, e che la neutralità del Titano non esistesse più, quando si trattava di dare la caccia ad antifascisti italiani là rifugiati.
Per osservatori più o meno smaliziati, per spie attente alla sostanza delle cose e non a sottili distinguo diplomatici, era facile concludere che San Marino si dimostrava troppo arrendevole nei confronti del nazismo.
Dunque, le notizie giunte agli inglesi sull'occupazione di San Marino già dal febbraio '44, più che informazioni sballate di qualche agente segreto in vena di errore, potrebbero essere il frutto di un ragionamento politico, molto duro com'era nello stile dell'Intelligence inglese (il servizio segreto), ma con una sua logica ferrea che poggiava su dati di fatto inoppugnabili: la facilità con cui le spedizioni punitive di fascisti e tedeschi avvenivano sul Titano.
Inoltre, ai servizi segreti inglesi risultava già da tempo che San Marino era un covo di spie. Una di loro, Roxane Pitt, ha scritto in un suo libro ("La spia timida", Longanesi editore), che nel '43 "San Marino era piena di gente che per poche lire vendeva informazioni militari sia da parte alleata sia dell'Asse".
A San Marino giungevano profughi jugoslavi, ribelli albanesi, "o che so io", tutte persone che "in realtà erano per la maggior parte spie pagate dalla Germania e persino, per quanto allora mi sembrasse incredibile, dalla Russia. Chiacchieravano tutti senza ritegno..." e la Pitt poteva così raccogliere sul Titano quelle notizie che passava poi all'Intelligence service di S.M. Britannica.
Quindi, agli occhi inglesi, San Marino appariva come un centro di per sé importante, non solo per posizione strategica, ma anche per quel suo ondeggiare tra neutralità richiesta agli anglo-americani, e passività dimostrata nei confronti dei nazisti e dei fascisti di Salò.
Il bombardamento del 26 giugno, più che frutto di un errore, fu la conseguenza di un disegno politico e militare ben preciso: tagliare i ponti tra San Marino e quei confinanti dimostratisi così invadenti.

SCHEDA 1. La spia-prof.
Roxane Pitt vive a Rimini tra la fine degli anni Trenta ed il tempo della seconda guerra mondiale. Si presenta come la professoressa Albertina Crico. Insegna lettere italiane allo Scientifico Serpieri e al Ginnasio. Di lei abbiamo già parlato nella seconda puntata di "Rimini ieri", dedicata al 1939 ("Ponte", 24. 9.89).
Un suo ex alunno, ora professore del Classico a riposo, dopo aver letto quel nostro articolo, ci ha gentilmente fatto pervenire la testimonianza che pubblichiamo.
"Era giovane, bella, disinvolta, elegante e sempre ben pettinata. Alloggiava all'albergo Aquila d'oro, il più grande e lussuoso in centro, a quell'epoca. E' stata mia insegnate dell'anno scolastico 1938/39. Era preparata, disponibile con gli alunni, non eccessivamente esigente. Ci affascinava per quel suo apparire molto moderna: anche oggi, una donna come lei, si noterebbe.
"Non mi pare che ci parlasse del fascismo con molta convinzione: né poteva essere diversamente, pensando alla sua storia. Ho il ricordo di qualche insegnante fascista convinto, ma non certo la Crico era tale.
"Quando ho saputo che si trattava di una spia inglese, come insegnante ho pensato alla delusione dell'ex alunno che non era stato il centro dell'interesse del suo professore, ma un alibi per nascondere altra attività".
Il volume di memorie della Pitt ha come titolo originale "Il coraggio della paura". In esso, la fantomatica prof. Crico racconta questa sua avventura a Rimini e a San Marino: si era sostituita ad una sorella, sposatasi con un ufficiale italiano poi disperso in Russia, e dispersa a sua volta in un campo di concentramento nazista. Nei giornali del 1939, il nome della Crico appare tra i commissari d'esame dei ludi giovanili della Gioventù italiana del Littorio, svoltisi nella nostra città.

SCHEDA 2. Quel 26 giugno.
Ricorda Valeria Ricci, che allora aveva sei anni e frequentava la prima elementare a San Marino: "La maestra aveva appena chiuso la finestra quando il vetro scoppiò. Una piccola scheggia la colpì ad una guancia, provocando una goccia di sangue che le rigò il volto. L'insegnante ci fece nascondere dietro i banchi. Poco dopo, i nostri genitori vennero a prenderci, per riportarci a casa".
Quella maestra era Bice Franciosi, sorella di Pietro, noto esponente politico socialista di San Marino.

SCHEDA 3. A Montalbo.
"Cominciò a piovigginare. Avevamo appena iniziata la riunione quando appaiono, all'improvviso, il figlio del maggiore Fattori e due altri fascisti, con i mitra spianati; ci costringono ad alzare le mani e a stare con le spalle al muro. Pochi minuti dopo arrivano i Carabinieri sammarinesi armati...": con loro c'é anche Fattori padre.
Il racconto é di Decio Mercanti: "Io ero l'ultimo della fila, vicino alla scarpata. In un momento di disattenzione dei fascisti, tentai di fuggire... quando Gatti mi sparò...; allora mi saltarono addosso i Fattori; fui picchiato e colpito fortemente al petto con il calcio del fucile".
Gli arrestati vengono trasferiti nelle carceri di Forlì, e consegnati in mano della Gestapo.
(Da D. Mercanti, La Resistenza nel Riminese, in "Storie e storia", n. 10, p. 85).

Bibliografia essenziale.
Sono nel cit. volume di Ghigi, "San Marino 1943-1944", le testimonianze di G. Gasperoni (pp. 133-135), il documento Gunther (315), e il testo di Lotti (nell'introduzione, p. X).
Per Balsimelli, vedi alle pp. 109-110 di "San Marino nella bufera" di A. Montemaggi. Dello stesso Montemaggi, cfr. "Rimini S. Marino '44", Della Balda, San Marino, 1983 (p. 22).
La seconda puntata de "I giorni dell'ira" é nel "Ponte" del 17 dicembre 1989.

SCHEDA 2011. Dal "Ponte" del 9.5.2010.
Il registro della prof spia.
Una storia di guerra, tra Rimini e San Marino.

Il bombardamento di San Marino del 26 giugno 1944 è sovente messo in relazione con l'attività spionistica al servizio degli inglesi svolta da Albertina Crico che tra fine 1942 ed inizio 1943 aveva visitato la Repubblica del Titano mentre abitava a Rimini. Qui insegnava Lettere presso il locale Ginnasio superiore. L'ipotesi è nata nel dopoguerra dalla fantasia di ex repubblichini in cerca di verginità politica. Addossando agli Alleati responsabilità morali nell'aggressione ad uno Stato neutrale, dimenticavano un fatto accaduto poco prima del 26 giugno 1944, e senza nessi con il lavoro della Crico: il 18 marzo a Serravalle di San Marino un cittadino riminese, Giuseppe Babbi, era stato catturato dai fascisti italiani e consegnato alle SS per la deportazione a Fossoli. Babbi, sindacalista cattolico ed antifascista ben noto, era stato ceduto dal governo sammarinese ai repubblichini di Rimini dopo un lungo tergiversare. Ebbe salva la vita per interessamento della diplomazia alleata. Le bombe del giugno 1944 rispondono al disegno di tagliare i ponti fra San Marino ed i confinanti italiani, così invadenti e protetti dai nazisti. Nell'ottobre 1943 sul Titano era salito Rommel, non certo per una visita turistica.
Albertina Crico alias Roxane Pitt, nata ad Aden e laureata a Milano, è studiata con cura da Federicomaria Muccioli ne "Il registro della spia. Le molte vite della professoressa Tina Crico" (Panozzo ed.), attraverso fonti note e documenti inediti. Ne risulta, e non poteva essere altrimenti per una spia, il ritratto ambiguo di una donna affascinante e colta. Non tutto dicono i fogli dei servizi segreti britannici, restano le doppie verità accreditate dalla stessa Crico, permangono i misteri sui fatti accaduti nei giorni di guerra fra la Romagna (c'entra anche Forlì con la sua liberazione) e San Marino.
Il mistero più evidente, mai messo in relazione alla Crico, tocca la rinuncia al bombardamento a tappeto del Monte Titano, che gli anglo-americani avevano progettato (settembre 1944). Il merito va ad un gappista riminese, lo scrittore Guido Nozzoli (autore di "Quelli di Bulow"), sceso dal Titano e consegnatosi prigioniero agli inglesi. Ai quali disse che a San Marino c'erano soltanto una radio tedesca ed oltre centomila rifugiati italiani. Gli inglesi controllarono, accertarono la verità delle informazioni ricevute da Nozzoli, e rinunciarono alla "seconda Cassino". Era stata la Crico ad accreditare notizie inesatte su una massiccia presenza di forze armate tedesche sul Titano? Diciamo con Muccioli (ricercatore di Storia greca all'Università di Bologna): "La risposta è forse nascosta in qualche inaccessibile archivio inglese". [Pietro Corsi]
8. Tra saluti romani e bombe alleate
Le missioni diplomatiche a Salò, le promesse di Mussolini, le minacce naziste ed il timore di ritorsioni anglo-americane. Poi, il 20 settembre, la liberazione.
I giorni dell’ira, 8. "il Ponte", 20.05.1990
35. Verso Salò.
Prima che parta la missione diplomatica sammarinese che, il primo agosto, si recherà al Nord per trattare con Mussolini e con l'ambasciatore tedesco, sul Titano arrivano ufficiali della Sanità germanica. Vogliono impiantare un ospedale. Se ciò accadesse, per la Repubblica significherebbe trovarsi coinvolta in pieno nella guerra.
Dai primi di luglio, l'aviazione inglese ha ricevuto l'ordine di non bombardare la Repubblica. Ma dal 28 dello stesso mese di luglio, i tedeschi non garantiscono più la neutralità sammarinese. In caso di "necessità di carattere militare", le truppe naziste varcheranno i confini, per farvi transitare uomini e mezzi. San Marino è tra due fuochi: il pericolo alleato e le minacce tedesche. "Si navigava tra Scilla e Cariddi", disse il Reggente Balsimelli il 23 settembre, a liberazione avvenuta.
La delegazione diplomatica è composta, oltre che dallo stesso Reggente Francesco Balsimelli, da Giuliano Gozi (capo dei repubblichini sammarinesi), da Ezio Balducci (attivissimo Plenipotenziario che, dopo il bombardamento del 26 giugno, aveva iniziato a far la spola tra San Marino ed il Nord, in viaggi sempre più rischiosi), e dai professori Marino Belluzzi e Leonida Suzzi Valli.
La delegazione si reca nel pomeriggio dello stesso primo agosto, a Salò, dove ottiene un appuntamento con Mussolini per la mattina seguente; e poi va a Fasano, dove alle 19.30 è ricevuta prima dal segretario dell'ambasciata tedesca, dottor Gherard Gumpert ("buon amico della Repubblica e del dott. Balducci", scrive Balsimelli), e poi dall'ambasciatore stesso, Rudolf Rhan. La conversazione con quest'ultimo avviene in francese. Alla fine, i diplomatici vanno a dormire, ospitati nell'ex treno reale di Vittorio Emanuele III.

36. Saluti romani.
La mattina del 2 agosto, Mussolini accoglie con saluto romano i delegati sammarinesi, "due dei quali, Balducci e Gozi, gli erano ben noti", come scrive ancora Balsimelli.
"Sarete avvolti dalle fiamme, ma non sarete incendiati", profetizza Mussolini. Il capo della Repubblica di Salò garantisce un suo intervento presso i tedeschi, perché non installino a San Marino l'ospedale 'minacciato'.
Dopo l'incontro con Mussolini, la delegazione "riceve la visita di alcuni militi ed ufficiali sammarinesi delle 'Brigate Nere' di stanza a Salò, alcuni dei quali saranno poi fucilati durante i tragici avvenimenti dell'aprile-maggio 1945", prosegue Balsimelli nella sua ricostruzione di quei contatti diplomatici. Tra quei fucilati, ci sarà Marino Fattori, ucciso il 6 maggio '45 a Buglio in Monte. Suo figlio Federico fu invece ucciso il 6 settembre '44 in Valtellina.

37. "Niente ospedale".
Il 3 agosto, giungono dai tedeschi le assicurazioni attese. Niente ospedale, niente occupazione. "Passaggio di truppe attraverso determinate strade marginali solo in caso di estrema necessità".
"Purtroppo... la guerra passò nell'inerme Repubblica seminando altre stragi, altre rovine", scrive Balsimelli. Il 12 agosto, avviene l'arresto da parte delle SS dei sei sammarinesi che saranno liberati il 25 dello stesso mese: è l'episodio che abbiamo ricostruito nelle prime tre puntate de «I giorni dell'ira».
I tedeschi, in questo periodo, giocano su due fronti. Cercano di farsi consegnare i sei prigionieri, lasciati in custodia nelle carceri del Titano: e forse lo fanno per non perdere la faccia nei confronti dei camerati repubblichini. E tornano alla carica con la richiesta di installare in Repubblica un ospedale militare.

38. Retorica e confusione.
Sono momenti confusi. I protagonisti, ricostruendoli, non li hanno sezionati con mente fredda, ma spiegati con partecipazione sentimentale, per cui spesso la retorica ha impedito un discorso razionale.
E' una retorica che fu usata anche, in perfetta buona fede immaginiamo, per salvare la stessa Patria in pericolo, come accadde a Balsimelli, quando scrisse il 30 luglio '44 a Mussolini: "Duce, il mio nome pienamente oscuro nel campo della politica, appena noto nel campo degli studi, non posso pretendere che voi lo ricordiate come quello di uno studioso che vi fece pervenire negli anni scorsi alcune pubblicazioni d'indole storica e letteraria che riscossero l'alto elogio vostro...".
Momenti confusi, si diceva. Tutto induce a pensare che i tedeschi cercassero di ricattare San Marino: o ci consegnate i prigionieri, o avrete in casa i nostri soldati. Cioè, la guerra.
Fu in quei giorni di metà agosto che Balducci, per togliere a Schutz (comandante delle SS a Forlì), "ogni velleità legale di impadronirsi dei cinque (in realtà sono sei, n.d.r.) sammarinesi, incarica l'ispettore Animali di preparare un dossier che comprovi l'esistenza di un complotto diretto contro il Governo della Repubblica", scrive Montemaggi.
Il tenente Pietro Animali, ispettore di polizia, prepara un fascicolo che Balducci non approva: "Se diamo questa roba a Schutz, quello ce li fucila tutti quanti", e fa bruciare la relazione.
Questo particolare conferma quanto imprecise fossero le linee politiche in quelle fasi della storia sammarinese, che appaiono affannose non per volontà dei singoli protagonisti, ma per le obiettive difficoltà di quella navigazione "tra Scilla e Cariddi", che impediva di stabilire una rotta decisa.

39. L'attacco alleato.
Quando, verso la metà di agosto, i tedeschi tornano alla carica per installare l'ospedale militare, San Marino decide una nuova missione al Nord, per parlare con il feldmaresciallo Kesserling a Reggio Emilia, e con l'ambasciatore Rhan a Fasano.
La missione (Balducci, Bigi e Belluzzi), parte il 21 e torna il 25. I tedeschi rinunciano all'ospedale. Perché?
Nella notte tra 25 e 26 agosto, inizia l'attacco degli Alleati sulle rive del fiume Metauro. All'alba del 30, varcano il fiume Foglia. Per le truppe germaniche, è l'inizio della fine.
Un ospedale in una zona che stava per essere invasa dal furore delle armi, ormai non aveva più nessun significato. Chi, come Balducci, ritenne di essere stato in grado di convincere i tedeschi a rinunciare a quell'ospedale, non comprese tutta la verità che stava dietro al comportamento definito "cavalleresco" del generale Max Schrank.
Per i nazisti, s'avvicinava l'ora della resa dei conti con la battaglia di Rimini. Lo sapevano, ma non potevano certo ammetterlo.

40. Passano i tedeschi.
Il 31 agosto, i tedeschi transitano per San Marino con autocarri carichi di munizioni e benzina: "I patti e le assicurazioni tante volte riconfermate, con l'avanzare degli Alleati, andarono perdendo di valore, data la necessità che l'esercito germanico aveva di accelerare per quanto fosse possibile, i movimenti dei reparti e dei mezzi" (Balsimelli).
I rinforzi diretti alle zone di operazione "ci rendevano involontariamente complici presso gli Alleati, di favorire la resistenza nemica", annota sempre Balsimelli.
Il primo settembre, altri autotrasporti passano per Borgo e Città. Inoltre, i tedeschi "allacciarono alla nostra rete telefonica dei cavi per comunicazioni col fronte e coi Comandi limitrofi, isolando Montegiardino e Faetano".
Poi, giunge la notizia che i tedeschi stavano per occupare Dogana e Serravalle, per "uno spostamento di fronte ordinato da Kesserling". Balducci e Belluzzi ottengono la revoca dell'ordine, rivolgendosi al Quartier generale tedesco di Santarcangelo.
Il 3 settembre, una radio trasmittente tedesca viene installata a Montegiardino. I nazisti stavano ritirandosi. "Nella notte del 4, sotto il Borgo era tutto uno sferragliare di carri armati... Il giorno 5 Montegiardino, Faetano, Chiesanuova erano quasi in stato di occupazione...". I soldati germanici sigillano il centralino telefonico, e così isolano San Marino.
Le truppe del Reich hanno portato la guerra nella Repubblica.

41. Un'altra spia.
Si susseguono giorni drammatici, con nuovi interventi diplomatici, fino a che il 15 settembre gli Alleati informano che il loro Comando "batterà la zona di San Marino come qualunque altra zona del fronte", racconta ancora Balsimelli, dato che San Marino era stata trasformata "in un centro di rifornimenti e prestazioni".
Il console sammarinese a Roma, aveva preso contatto con gli Alleati sin dal 9 giugno (giorno in cui nella capitale italiana si era insediato il Governo Militare Alleato), per spiegare la neutralità della piccola Repubblica, da rispettare durante il conflitto e dopo la prevista liberazione del territorio italiano circostante.
Il 5 settembre, la Commissione alleata centrale veniva informata che San Marino, dopo aver "abolito il fascismo il 28 luglio 1943, si reggeva in forma prettamente democratica".
Mentre Balducci tratta con i tedeschi, i rapporti con gli alleati vengono tenuti da San Marino attraverso il tenente di vascello Giorgio Zanardi, sfollato a San Marino assieme ai fratelli Guido e Vittorio. Ma Zanardi non è soltanto un ufficiale del Regio esercito italiano, bensì anche un agente segreto dell'Intelligence inglese. E' un'altra spia che appare nelle vicende sammarinesi di quei giorni, dopo Roxane Pitt che viveva a Rimini con il nome di Albertina Crico, di cui abbiamo parlato nella precedente puntata.
Zanardi era giunto a San Marino ai primi di giugno del 1944, poco prima cioè del bombardamento che avrebbe colpito la Repubblica il 26 dello stesso mese. Come si vede dal compito ufficiale affidatogli sul Titano, di tenere i contatti con gli Alleati, Zanardi poté inserirsi tranquillamente nelle stanze dei bottoni, senza destare alcun sospetto: l'ex Reggente Balsimelli, a guerra conclusa, parlerà di lui come di un "ardimentoso ufficiale" che accettò rischiosi incarichi per "ripagare in qualche modo la generosa ospitalità ricevuta".
Zanardi lascia San Marino il 15 agosto, va a Roma, "spiega" la situazione agli Alleati, ritorna sul Titano il 18 settembre: nel frattempo, un altro tentativo di evitare che gli inglesi attacchino San Marino, viene condotto a termine dal sergente della Confinaria Virginio Reffi che s'avventura nelle Marche. Arrestato dalle SS, Reffi riesce a fuggire, passa il Foglia e ad Urbino s'incontra con l'Alto Comando inglese, a cui precisa che "sulla vetta e nei centri abitati non vi erano truppe nemiche", avendo piazzato i tedeschi qualche batteria solo ai margini del territorio.

42. Perché non andò ko.
Gli Alleati intanto avanzano verso Rimini. A San Marino, i partigiani riminesi erano di casa. Alcuni di loro scendono dal Titano verso la città di Sigismondo, nel pomeriggio del 19 settembre, mentre si combatte la battaglia per la presa di Borgo Maggiore. Li comanda il sottotenente Guido Nozzoli che racconta: "Il nostro era il primo nucleo partigiano che l'Ottava armata incontrava sulla Linea gotica... Avvicinai un ufficiale per informarlo sul disfacimento delle difese tedesche a San Marino e sulla drammatica situazione dei civili rintanati nelle gallerie, ed ebbi la sensazione che non mi ascoltasse neppure. Mi ero ingannato".
Ad un ufficiale dell'Intelligence Service, "avvolto in una nube di profumo", Nozzoli ripete più minuziosamente il racconto. L'indomani mattina, un sottotenente confida a Nozzoli "che il Comando aveva accertato l'esattezza" delle informazioni fornite sullo schieramento tedesco e sulla ubicazione dei campi minati, "rinunciando al bombardamento di spianamento di San Marino programmato prima" dell'arrivo di quel gruppetto di partigiani.
Il Titano era salvo con le sue migliaia di rifugiati.

SCHEDA 1. Il «Viaggio periglioso» del Reggente.
Francesco Balsimelli così ricostruì il suo «Viaggio periglioso del Reggente in missione» svoltosi nell'agosto 1944: a pochi chilometri da Argenta, i diplomatici sammarinesi «raggiungono un'interminabile colonna someggiata di tedeschi diretta di rinforzo al fronte. Nella speranza che la colonna finisca, procedono per qualche chilometro, ma solo brevi soluzioni di continuità la interrompono. Ad un tratto, rombo di apparecchi in perlustrazione».
E' un grido di allarme: «Achtung! Achtung!». Per prudenza, la delegazione sammarinese si ferma: «Gli apparecchi si avvicinano e lanciano bengala che rischiarano sinistramente a giorno la strada e la campagna».
L'autista Pietro Liverini e Giuliano Gozi «si accucciano nella fossetta», mentre il Reggente Balsimelli «ignaro di giberna e di gavetta, sordo al richiamo dei compagni, pensava che si potesse fare di meglio che seppellirsi in un tombino stradale: scorge dal ciglio il campo sottostante; è un salto di appena un metro; miglior partito gli sembra darsi alla campagna e raggiungere un cascinale a meno di cento metri e… si trova sospeso in un pentagramma di filo spinato. Si sente le gambe lacerate e gli abiti impigliati negli aculei dei fili».
Dal cielo scendono altri bengala. Volano altri colpi di mitraglia. «Il momento è critico; ma il Reggente impaniato in quei fili, che annaspava per districarsi come una mosca incappata nella ragnatela, ha del grottesco. Il buon Liverini vorrebbe trattenere le risa per riverenza, si avvicina a carponi al Reggente e lo aiuta cercando di lasciare meno brandelli possibile di stoffa e di pelle a quei fili».
La missione sammarinese trova rifugio, poco dopo in quel cascinale disabitato che Balsimelli aveva intravisto. Decidono di passare lì la notte. «Ma il freddo umido, i rombi dei bombardamenti lontani, i bagliori come di lampi temporaleschi, il crepitìo intermittente della mitraglia, lo scalpiccio degli zoccoli e degli scarponi sulla strada vicina, ritardano il sonno e vincono la stanchezza. Per un pò conversano al buio, facendo dell'umorismo sul letto e sulla stanza in confronto col comodo e confortevole treno 'reale' in cui aveva passato due notti il Capo di uno Stato 'repubblicano'».
(L'articolo di Balsimelli, apparso sul «Resto del Carlino» del 19. 8. 1954, è in A. Montemaggi, «San Marino nella bufera», cit., p. 116).

Bibliografia essenziale.
Cfr. il cit. A. Montemaggi, "San Marino nella bufera", passim, anche per il discorso e gli articoli di F. Balsimelli.
Il cap. 42 di questa puntata riprende il cap. 12 del nostro "Rimini ieri", cit., ove è pure riportata la testimonianza di Nozzoli, resa a Ghigi nel volume "La guerra a Rimini e sulla Linea Gotica", p. 222.
9. Fascisti alla sbarra
In esclusiva, il racconto inedito del processo ai repubblichini del Titano, attraverso gli appunti di un giudice, il prof. Giovanni Franciosi.
I giorni dell'ira, 9. "il Ponte", 10.06.1990

43. Dalla condanna all'amnistia.
"Il crollo della linea gotica consentì, con il decreto del 23 settembre 1944, di restituire il potere al Consiglio dei LX e di estromettere i fascisti dal Governo", ci spiega Cristoforo Buscarini, ripercorrendo velocemente gli avvenimenti della Repubblica dopo la liberazione del territorio riminese dall'occupazione tedesca, avvenuta il 21 settembre.
"Con la legge del 23 ottobre dello stesso '44, fu poi avviato un procedimento penale contro i responsabili fascisti. Si badi bene, però. Il procedimento era limitato agli atti compiuti dopo il 28 ottobre 1943, e quindi si riferiva unicamente a coloro che militarono nel partito fascista repubblichino, e compirono atti di violenza". Il 28 ottobre '43, il Consiglio di Stato aveva decretato un "atto di pacificazione cittadina che metteva i capi del regime al riparo da qualsiasi rischio penale per le responsabilità assunte nel Ventennio", precisa Buscarini.
L'effetto di questo provvedimento era chiaro: "In tal modo, non pochi gerarchi responsabili del Ventennio superarono indenni la bufera", aggiunge Buscarini.
Ritorniamo al processo contro i repubblichini. "La sentenza penale, emessa il 22 gennaio 1946, rivelò particolare indulgenza rispetto alla gravità delle imputazioni, le quali esulavano dall'ambito puramente politico, per configurare autentiche, comprovate violenze. Essa fu presto seguita da ampia amnistia", conclude Buscarini.

44. Scene di un processo.
Sul processo ai repubblichini, siamo in grado di presentare una ricostruzione inedita, grazie agli appunti redatti allora dal prof. Giovanni Franciosi, nel corso delle sedute del Consiglio dei XII per le sanzioni contro il fascismo, di cui fece parte.
I lavori vengono inaugurati il 24 dicembre 1945. Il Reggente Martelli illustra la gravità e l'importanza degli atti da compiere, ed invita tutti "i componenti a una serena, obiettiva discussione", facendoli giurare sul segreto, e che essi giudicheranno "senza amore e senza odio".
"Seduta calma e tranquilla", commenta Franciosi: "Sembra che tutti i membri del Consiglio dei XII siano consci della gravità della funzione che sono chiamati ad assolvere".
Franciosi, assieme ad altri due consiglieri, è poco persuaso "sulla entità e consistenza delle prove raccolte su molte gravi imputazioni". Ha dubbi anche su alcuni passi della relazione che il Sindacato istituito dalla legge 23 ottobre '44, ha fornito al Consiglio dei XII. Si decide pertanto di convocare il presidente del Sindacato stesso, avv. Federico Comandini, "affinché possa illuminare il Consiglio sulle procedure seguite durante l'istruttoria e i criteri seguiti nel formulare la sentenza" di primo grado contro i repubblichini.
Preso atto che, come si è visto, "il compito del Sindacato è limitato al periodo 1943-1944", e che quindi "il Ventennio può venire solo incidentalmente considerato", Franciosi e altri due consiglieri "fanno osservare come tutto porti a considerare la opportunità di una pena contenuta in limiti minimi".
D'altra parte, precisa Franciosi, la legge "votata quasi all'unanimità dal Consiglio dei LX... dà la facoltà al Consiglio dei XII di scendere, nell'applicazione del Codice, al di sotto dei minimi che esso prevede".
Viene poi ricordato un elemento, "lamentato anche dal Sindacato, che la cittadinanza non si è molto interessata al processo".
L'osservazione sottintende uno spirito di riappacificazione, a riprova del quale Franciosi aggiunge un particolare: "Vi è stato perfino un membro del Consiglio di Liberazione dei più attivi... che pur essendo tra gli accusatori, non si è presentato a deporre quando è stato citato quale teste, anzi ha rilasciato ad un imputato una dichiarazione che in un certo modo lo scagiona da un delitto (bastonatura allo... stesso)...".
Non tutti sono d'accordo con la tesi di Franciosi. Ma alla fine, la proposta di contenere le pene nei limiti minimi, "viene accolta".

45. «Idee di mitezza».
Annota Franciosi: "Anche questa seduta calma. Sembra che le idee di mitezza prevalgano. Ma si ricomincia a manifestare l'intransigenza e la settarietà di qualcuno (...)": seguono i nomi.
Qualcun altro è, come Franciosi, "per una condanna più morale che materiale". C'è infine chi "dà ragione a tutti. Dice che siamo tutti d'accordo. Chissà da quali elementi lo ricava questo accordo?".
Alla terza seduta (2 gennaio 1946), interviene l'avv. Comandini, presidente del Sindacato che ha formulato la relazione trasmessa al Consiglio dei XII. Gli vengono chiesti alcuni chiarimenti ritenuti necessari al processo.
La domanda principale che gira tra i componenti del Consiglio dei XII, è questa: in base a quali prove il Sindacato "ha potuto ravvisare negli atti del pfrs una cospirazione"? E poi: se cospirazione c'è stata, come si è concretata?
La richiesta parte dallo stesso Franciosi. Altri giudizi calcano la mano. Danno per accertata la cospirazione, e si chiedono perché non sia stato ipotizzato invece il più grave reato di attentato alle istituzioni della Repubblica.
"Comandini... nega che si possa parlare di attentato". Alla domanda di Franciosi su come si sia realizzata la cospirazione, Comandini risponde: "Colla richiesta del potere fatta il 5 giugno".
La dichiarazione di Comandini rende necessaria una "nuova consultazione degli atti perché molte cose... sono rimaste dubbie anche dopo le delucidazioni date".
E' il momento di maggior tensione tra i XII: "La maggioranza comincia a dimostrare il suo disappunto. Credeva di avere qualche cosa di più sicuro e di maggiormente colpibile. Nei consiglieri della minoranza aumenta invece il disagio morale": essi infatti hanno "l'impressione che la colpabilità degli imputati non venga lumeggiata in modo da avere una chiara idea".
La maggioranza sembra a Franciosi "disorientata (almeno i capi). Appare via via evidente che alcuni elementi (...) se ne freghino delle risultanze del processo: essi nella loro incoscienza sono tranquilli e disposti a qualsiasi condanna".

46. «I compromessi».
Quarta seduta, 7 gennaio. Il Reggente apre la discussione, credendo che "tutti i Consiglieri si siano formati un'idea chiara del processo".
C'è un gran silenzio nell'aula: sembra che tutti siano consci della gravità degli atti', annota Franciosi. Il quale si alza a parlare per primo: "La costituzione del fascio repubblicano ha portato gravi difficoltà al Governo in momenti particolarmente difficili... L'azione del fascio è stata veramente deplorevole".
Secondo Franciosi, non sono accettabili le tesi della difesa sull'opera svolta dai fascisti sammarinesi a favore della Repubblica. Infatti, "quando il fascio repubblicano si è costituito, le relazioni sia coi tedeschi che con la Repubblica sociale italiana erano normalizzate e nulla era più da temersi data la condotta di stretta neutralità dal Governo tenuta".
Per Franciosi, occorre distinguere tra azioni moralmente condannabili, ma non perseguibili penalmente, da quelle che richiedono invece l'applicazione del codice penale. Dai documenti, aggiunge, non è emersa pienamente la prova del delitto di cospirazione contro lo Stato: "Nello stesso atto del 5 giugno 1944 non si richiede una cessione di poteri, ma solo maggiore partecipazione al Governo".
Franciosi esprime poi un giudizio molto acuto, sotto il profilo politico: "L'ammissione di cospirazione non è conciliabile coi compromessi anteriori e posteriori al 5 giugno".
Franciosi mette così a fuoco, con la parola "compromessi", il clima creatosi a San Marino dopo l'atto di "pacificazione cittadina" del 28 ottobre '43, con il quale si aprivano le porte del Governo anche ai fascisti: ben cinque, su venti componenti, tra cui lo stesso Giuliano Gozi, il duce di San Marino.
Quella di Franciosi è una denuncia basata su di un'opinione ben precisa. Nella confusa situazione creatasi dopo il 28 luglio '43 (caduta del regime fascista sul Titano), i repubblichini si sono macchiati in un certo senso di colpe 'permesse' loro anche dagli avversari. Quindi, non debbono essere soltanto i repubblichini a pagare per tutti. Di qui, la propensione di Franciosi alla linea della clemenza.
Scrive Franciosi che il suo richiamo "a tutti i compromessi anche dal Giacomini sottoscritti", punge lo stesso Giacomini che "annaspa per giustificarli e per coprirsi" (quest'ultima parola non è chiara nel manoscritto), "con una vernice di verginità che gli tolga qualche scrupolo di coscienza sulla sua posizione".
Per provare la cospirazione, poi, secondo Franciosi, occorrerebbe provare anche che in precedenza fossero stati compiuti atti in questa prospettiva, atti "che non fossero a conoscenza come per esempio azioni delittuose eventualmente compiute nelle andate al Nord", di cui non si parla però nei documenti ufficiali.
Altri interventi di segno opposto alla linea sostenuta da Franciosi, definiscono "politico" il processo che si sta svolgendo, ed aggiungono che la condotta degli imputati va valutata appunto sotto il profilo politico e non penale. La conclusione è che i fascisti non cospirarono soltanto, ma cercarono pure di realizzare un attentato allo Stato.
Il dott. Alvaro Casali aggiunge altri particolari su fatti, intimidazioni o "atti violenti", come l'attentato alla sua persona: "Dice che in quel giorno (6 febbraio '44) c'erano in Borgo ben 10 fascisti di città e che era preparato un vero e proprio complotto per colpire non solo lui ma anche altri esponenti".
Giacomini ribadisce: "Il processo è politico e come tale non soggiace alle forme procedurali". Gli risponde Franciosi che per un processo politico occorreva una "legge eccezionale", non quella normale che era in vigore allora.

47. «Condanna morale».
In una seduta successiva (di cui manca la data negli appunti), Franciosi ripresenta le sue considerazioni: crede che "nel dubbio di una cospirazione, si debbano punire i fascisti per quanto hanno effettivamente compiuto e sia pienamente provato. La condanna sarà quindi soprattutto una condanna morale, una solenne deplorazione..., aggravata da interdizione e da una mite sentenza".
Alla parola "deplorazione", interviene ironico Giacomini: "Come facciamo coi bambini delle scuole elementari". Lo scontro all'interno del Consiglio dei XII si fa aspro. Franciosi, assieme al collega Suzzi Valli, ripete che è per una "giustizia serena" che scaturisca da un "accurato esame degli atti". Dalla parte opposta, si parla di "giochetti" per perdere tempo. Franciosi replica sdegnato: "Questo è un linguaggio offensivo".
La maggioranza dei XII è per l'ipotesi della cospirazione, e per estendere l'accusa a tutti gli appartenenti al fascismo, "anche a quelli cioè non chiamati dal Sindacato o prosciolti da esso".
E' possibile soltanto una pena politica, precisa il Commissario della Legge: così, il Consiglio vota all'unanimità di "dare una sanzione morale a tutti gli ex fascisti repubblicani, infliggendo la perdita dei diritti politici per un tempo da determinarsi caso per caso".
Osserva Franciosi: ormai il Consiglio è diviso in due parti, tra chi vuol dare un giudizio sereno in base agli atti, e chi senza averne letta neppure una riga, è deciso ad infliggere pene di una certa misura, "indipendentemente dai dubbi (o certezze)" che possono nascere dalla lettura degli atti stessi.

48. Il verdetto.
Eccoci alla conclusione dei lavori. Si mettono ai voti le accuse alle singole persone. Per Giuliano Gozi passa la sentenza di sette anni di carcere, per suo fratello Manlio pena di cinque anni.
Osserva ancora Franciosi: "Durante il procedimento è stato veramente deplorevole il contegno di alcuni membri della maggioranza che si comportavano come se si trattasse di fare un giuoco di società piuttosto che di infliggere pene anche gravi a persone che, se anche colpevoli, meritano che i loro casi vengano discussi con la serietà che l'ambiente e il caso richiedevano".
Tra la maggioranza, si parla di "atto di giustizia", per il quale non c'entra per nulla la generosità.

49. Amarezza e silenzi.
Indipendentemente da quanto ognuno possa pensare sul voto contrario dato da Franciosi alla sentenza, assieme ad altri due consiglieri, queste sue pagine restano un importante documento su di un momento cruciale, tra vecchio e nuovo corso degli eventi.
In Franciosi, prevale la volontà di sostituire agli odi del passato, la clemenza di un perdono inteso come rinuncia alla punizione.
Resta l'eterna domanda se giustizia e punizione siano soltanto una forma di vendetta legalizzata della società, o un bisogno degli uomini per ricostruire la vita, dopo le violenze e le distruzioni.
Gli appunti di Franciosi trasudano amarezza. Sono pagine utili a capire il travaglio della storia e dei giudizi che vengono espressi sugli avvenimenti trascorsi, soprattutto quelli più recenti.
Un'osservazione di Clara Boscaglia ritrae perfettamente questo dramma umana: "I verbali del Consiglio di Stato nella loro schematicità non offrono nessuna documentazione del calvario di quei giorni che i più anziani non sembrano intenzionati a tramandarci e che i più giovani ignorano perché nessuno si preoccupa di farlo conoscere".
E a sostegno della sua opinione, la Boscaglia cita proprio Francesco Balsimelli, Reggente nel 1944: "Checco non rievocava volentieri quel periodo, forse perché troppo troppo brutto, forse perché vi giocò un ruolo molto importante... Mai accondiscese alle pressioni di chi insisteva perché dalle pagine del suo diario traesse per le future generazioni la storia degli anni 1943-1944".
Dopo i "giorni dell'ira", vennero i "giorni del silenzio". Che durarono a lungo, ma non poterono cancellare dalla memoria collettiva e dei singoli, quei tragici momenti.

50. «Questo bieco manganellatore».
All'inizio del 1965, "accompagnato da un ben noto camerata sammarinese, è tornato a San Marino il famigerato Paolo Tacchi di triste memoria, per chiedere nientemeno, con una improntitudine inqualificabile, un attestato di 'benemerenza' per il gran bene che dispensò al tempo del neonato fascismo locale e durante il tragico periodo della seconda guerra mondiale".
E' un corsivo di "Riscossa socialista" degli allora socialdemocratici sammarinesi, uscito nel marzo '65, dove leggiamo ancora: Tacchi, "questo bieco manganellatore di cui molti concittadini portano ancora nelle carni i segni delle sue feroci aggressioni, forse per rifarsi una verginità in Italia, domandava ad un ex Reggente del tempo, una graziosa testimonianza, credendo di trovare in Repubblica, uomini disposti ad assecondare questa sfacciata e provocatoria pretesa. Ben ha fatto l'interpellato a trattarlo nella maniera drastica col metterlo alla porta, sola e meritata risposta, ma non sarebbe stato male che la nostra Polizia lo avesse associato per qualche giorno nella frigida Rocca a meditare sulle sue eroiche gesta, per convincerlo che i Sammarinesi hanno buona memoria e non sono disposti a perdonare le infamie e le violenze ingiustamente subìte!".
Tacchi, in quegli anni Sessanta, cercava invece di accreditare di sé una diversa immagine, raccontando al Montemaggi (che ne riferisce in un suo libro dell'84), di esser sempre stato "animato verso San Marino dagli stessi sentimenti che il dantesco Farinata degli Uberti nutriva verso Firenze, la città che l'aveva ripudiato e che pur egli amava ed aveva salvato"!
L'"Inferno" dell'Alighieri, Tacchi lo aveva studiato da giovane, proprio a San Marino, quando frequentò le scuole della Repubblica.Il prof. Giovanni Franciosi (1894-1981), allievo di Righi all'Università di Bologna, fu insegnante di matematica e fisica, molto apprezzato ed amato dai suoi studenti che gareggiavano per essere inseriti al suo corso liceale al "Serpieri".
Alla sua morte, Carlo Alberto Balducci così ne scrisse sul "Ponte" (31. 5. 1981): "Era un illuminista… Quella chiarezza… dal piano scientifico si riverberava su quello morale e si traduceva in rigore di vita, che non escludeva però la comprensione: ne scaturiva quel suo rassicurante equilibrio…".
Nel Ventennio, anche Franciosi fu costretto alle adunate del fascismo, in divisa, in piazza Cavour. Nel '27, apostrofato in maniera arrogante dal seniore Lancia, si era poi rifiutato di partecipare ad ulteriori manifestazioni. Ed ebbe, ovviamente, delle grande. In suo aiuto venne il segretario agli Interni di San Marino, Giuliano Gozi, colui che Franciosi si trovò a giudicare, dopo la fine della guerra.
Conclusosi il processo al Consiglio dei XII, l'altro Gozi, Manlio, chiese l'intervento di Franciosi nei confronti suoi e del fratello Giuliano: "La nostra vita in carcere è insopportabile", gli scrive dal penitenziario di Urbino nel marzo '46, chiedendogli aiuto: "Comprendo che molte saranno le difficoltà, ché ben conosco la irriducibilità di chi molto se non tutto può".
In un'altra lettera a Franciosi, scriveva lo stesso Manlio Gozi: "Nei momenti di disgrazia, quando si è caduti e tutti che prima ti riverivano ti sfuggono per il timore di compromettersi, il ritrovare un vecchio amico che, avendo saputo sorvolare su qualche screzio che può avere questa vecchia amicizia per un pò raffreddato, si batta a difesa della giustizia sfidando ire e impopolarità, non è cosa che càpita sovente e si verifica soltanto in chi la sua vita uniforma a princìpi di rettitudine e onestà".
Giovanni Franciosi era nipote di Pietro (1864-1935) che "storico, filosofo pubblicista e giornalista, fu la mente del socialismo sammarinese che egli non vide mai disgiunto dai concetti di democrazia e libertà", come scrive F. Bigi in "Pagine sammarinesi" (Garattoni, Rimini, 1963, p. 162).

SCHEDA 1. Giovanni Franciosi.
Il prof. Giovanni Franciosi (1894-1981), allievo di Righi all'Università di Bologna, fu insegnante di matematica e fisica, molto apprezzato ed amato dai suoi studenti che gareggiavano per essere inseriti al suo corso liceale al "Serpieri".
Alla sua morte, Carlo Alberto Balducci così ne scrisse sul "Ponte" (31. 5. 1981): "Era un illuminista… Quella chiarezza… dal piano scientifico si riverberava su quello morale e si traduceva in rigore di vita, che non escludeva però la comprensione: ne scaturiva quel suo rassicurante equilibrio…".
Nel Ventennio, anche Franciosi fu costretto alle adunate del fascismo, in divisa, in piazza Cavour. Nel '27, apostrofato in maniera arrogante dal seniore Lancia, si era poi rifiutato di partecipare ad ulteriori manifestazioni. Ed ebbe, ovviamente, delle grande. In suo aiuto venne il segretario agli Interni di San Marino, Giuliano Gozi, colui che Franciosi si trovò a giudicare, dopo la fine della guerra.
Conclusosi il processo al Consiglio dei XII, l'altro Gozi, Manlio, chiese l'intervento di Franciosi nei confronti suoi e del fratello Giuliano: "La nostra vita in carcere è insopportabile", gli scrive dal penitenziario di Urbino nel marzo '46, chiedendogli aiuto: "Comprendo che molte saranno le difficoltà, ché ben conosco la irriducibilità di chi molto se non tutto può".
In un'altra lettera a Franciosi, scriveva lo stesso Manlio Gozi: "Nei momenti di disgrazia, quando si è caduti e tutti che prima ti riverivano ti sfuggono per il timore di compromettersi, il ritrovare un vecchio amico che, avendo saputo sorvolare su qualche screzio che può avere questa vecchia amicizia per un pò raffreddato, si batta a difesa della giustizia sfidando ire e impopolarità, non è cosa che càpita sovente e si verifica soltanto in chi la sua vita uniforma a princìpi di rettitudine e onestà".
Giovanni Franciosi era nipote di Pietro (1864-1935) che "storico, filosofo pubblicista e giornalista, fu la mente del socialismo sammarinese che egli non vide mai disgiunto dai concetti di democrazia e libertà", come scrive F. Bigi in "Pagine sammarinesi" (Garattoni, Rimini, 1963, p. 162).

SCHEDA 2. Un falso storico.
Dopo la liberazione di Rimini (21 settembre '44), la propaganda fascista inventa un episodio che finisce sulla copertina della «Domenica del Corriere» del 13 ottobre '44, in una tavola di Walter Molino.
Si tratta della storia di «una popolana di diciotto anni» che «guida a sfracellarsi su un campo minato, cadendovi pur essa colpita a morte», una pattuglia alleata appena entrata in Rimini. Storia che sarebbe stata inventata (secondo A. Montemaggi, «Gazzetta di Rimini», 2.12.1990) dallo scrittore riminese Giovanni Tonelli.
Il poeta americano Ezra Pound ne ricavò lo spunto per uno dei suoi «Cantos» che, secondo il famoso critico Mario Praz, «son rimasti, dopo tutto, soltanto improvvisazioni, scucite filastrocche di ogni genere… di pettegolezzo».
Pound, antisemita e sostenitore di Mussolini, quando venne arrestato, dopo la guerra, preferì fingersi pazzo piuttosto che rispondere alle accuse di tradimento, che derivavano dal suo passato filofascista e dai discorsi di propaganda antiamericana, pronunciati alla radio italiana durante la guerra

Bibliografia essenziale.
Il testo di Giovanni Franciosi è inedito, di proprietà della famiglia, che sentitamente ringraziamo per avercelo fatto consultare e pubblicare.
La citazione di Tacchi del cap. 50, è in A. Montemaggi, "San Marino nella bufera", cit., p. 24.
"Riscossa socialista" apparve per un errore di stampa con la data "1964", poi corretta a mano sulle copie conservate nell'archivio storico del Partito socialista sammarinese.
Le lettere di M. Gozi citate nella scheda, sono di proprietà della famiglia Franciosi.
Il testo della Boscaglia è nell'«Annuario XIII» (anno scolastico 1977-78) del Liceo Statale di San Marino, pp. 56-63.
10. La pacificazione impossibile
La "folla impazzisce" dopo la 'caduta' di Mussolini. L'arresto di Platania, Buratti e Lancia, liberati poi dai tedeschi. La proposta di un "patto di non aggressione".
I giorni dell'ira, 10. "il Ponte", 29.07.1990

51. Dal 25 luglio all'8 settembre.
Alle 22.45 del 25 luglio, l'Eiar trasmette la notizia della caduta di Mussolini. Alle 17, il duce è stato arrestato, all'uscita da un breve colloquio con il re. Fatto salire dai Regi Carabinieri su di un'ambulanza, è trasferito a Ponza. Poi, viene tradotto alla Maddalena e a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Qui, il 12 settembre, è liberato da un commando di paracadutisti tedeschi, che lo conduce in Germania.
Il 18 settembre, Mussolini parla da Radio Monaco: «Sono sicuro che la riconoscerete: è la voce che vi ha chiamato a raccolta nei momenti difficili». É una voce stanca che aveva perso i toni abituali. Per questo, molti credono che Mussolini sia stato ucciso e che si tratti di un sosia, vagamente rassogliante, «usato dai tedeschi per far credere che il Duce sia davvero libero e vivo». (1)
É l'annuncio della nascita della repubblica sociale italiana, la famigerata repubblica di Salò.
L'Italia è divisa in due, al Nord ed al Centro, tedeschi e fascisti. Al Sud, il regno che ha per capitale prima Brindisi e poi, dall'11 febbraio 1944, Salerno.
Comincia per il nostro Paese il momento tragico della guerra civile.
Ricostruiamo le vicende riminesi di quei dodici mesi, dal settembre '43 al settembre '44, i lunghi «giorni dell'ira», partendo proprio dal 25 luglio '43, che segna un cambiamento radicale nella storia italiana.
Quella sera al cinema Savoia si proietta il film «Giorni felici», mentre Maurice Chevalier al Fulgor invita: «Sorridete con me». (2)
Dopo l'annuncio della Radio italiana sulle 'dimissioni' di Mussolini, anche a Rimini la gente esce per le strade a gridare la propria gioia.
Da Marina centro, si forma un corteo che si dirige verso piazza Cavour, al grido di «Viva la libertà! Vogliamo la pace». (3)
In piazza Cavour, c'è un tafferuglio: da una parte i manifestanti, dall'altra alcuni poliziotti ed un ufficiale della milizia che sferra un pugno in faccia ad un giovane comunista, Alessandro Ghelfi, che aveva doti oratorie particolari, pari alla sua forza fisica. Una decina di Carabinieri con il moschetto in mano, intima lo scioglimento. Il gruppo degli antifascisti si disperde nei borghi, discutendo sino a notte fonda. (4)
In piazza Giulio Cesare (ora Tre Martiri), c'è un battibecco tra chi cerca di arringare la folla, parlando anche dei combattenti: «Fu redarguito e stava per nascere un focarello di litigio. Le cose si quietarono subito, e tutto finì lì». (5)
La notte del 25 luglio, torna a Rimini Paolo Tacchi. É un sottufficiale della Marina, in licenza di convalescenza. Gioca a fare il duro. É un nome che ricorrerà spesso nelle nostre cronache.
Dalla stazione ferroviaria, Tacchi va verso casa sua, posta in via dei Mille. Al Caffè Marittimo, qualcuno gli grida: «É finita anche per te». Ne nasce una zuffa, sedata per l'intervento di altre persone. (6)
Le notizie che provengono da Roma, gli fanno deporre «la burbanzosa arroganza» che lo contraddistingueva. (7)
26 luglio: «Molta gente che non aveva sentito la radio o letto i giornali, era uscita di casa ignara di quanto accaduto, portando come al solito il distintivo del fascio all'occhiello della giacca». (8)
Gli antifascisti controllano, impongono di togliere quel distintivo, e se incontrano resistenza danno «scapaccioni e calci nel sedere». (9)
Racconta un altro testimone, il giornalista Flavio Lombardini: «Uomini di ogni età e condizione calpestano rabbiosamente il distintivo del Pnf. Un negozio di souvenir viene preso d'assalto e distrutto».
Un busto di Mussolini d'alabastro, gettato da una finestra, sfiora Lombardini a due dita dal capo. «La folla impazzisce». (10)
In piazza Cavour, su di un manifesto, «il solito ignoto ha scritto con mano sicura "Dalla tragedia alla farsa"». (11)
Mentre percorre via Garibaldi, viene picchiato a sangue con uno zoccolo in testa da cinque persone, Giuffrida Platania, un «acceso fascista» (12) che «non sapeva darsi pace», personaggio ben noto in città. (13)
La caccia al fascista è cominciata.
Quella mattina del 26 luglio, alcuni sammarinesi s'incontrano a Rimini nello studio del dentista dott. Alvaro Casali, allo scopo di «organizzare una manifestazione per indurre il governo di San Marino alle dimissioni». (14)
Tra 27 e 28 luglio, vengono arrestati alcuni esponenti del fascismo riminese: Giuffrida Platania, Perindo Buratti, Eugenio Lazzarotto, Giuseppe Betti e Valerio Lancia (che era stato anche il federale della città). Li libereranno i tedeschi il 13 settembre. (15)
Racconterà Buratti: «Il 27 o 28 luglio del '43 andai a Roma. Mi accompagnai col capitano dei carabinieri Bracco che da Rimini era stato trasferito a Roma... Quando, dopo una decina di giorni, tornai, il mio amico e fascista Motta, commissario di PS mandò un agente a casa mia -abitavo in piazza Malatesta- a vedere se c'ero. E poiché c'ero mi mandò a dire che andassi da lui. Non temessi: era un amico e un fascista. E mi mise in galera. Per protezione, mi disse». (16)
Qualche altro personaggio in vista nella Rimini in camicia nera, cerca raccomandazioni per il futuro, presso gli antifascisti. É il caso dell'avv. Salvatore Corrias, dell'Istituto di Cultura fascista, che va a trovare il socialista Mario Macina. Corrias è il primo a fare discorsi antifascisti in piazza. (17)
Otto settembre, tutti a casa. Qualcuno organizza la resistenza ai nazifascisti, come Carlo Capanna, uno studente riminese dell'Accademia aeronautica di Forlì, che se ne scappa a Meldola con un fucile, una pistola, ed un grosso pacco di caricatori per il fucile. (18)

Note
(1) Cfr. Silvio Bertoldi, Salò, Bur Rizzoli, Milano, 1978, p. 19.
(2) Cfr. Antonio Montanari, Rimini ieri 1943-1946, Il Ponte, Rimini, 1989, p. 16.
(3) Cfr. Decio Mercanti, Primi passi della Resistenza nel Riminese, in «Storie e storia», n. 4, p. 32.
(4) Ibidem.
(5) Cfr. Oreste Cavallari, Rimini imperiale!, Rimini, 1979, p. 98.
(6) Cfr. Amedeo Montemaggi, Come cadde il fascismo, «il Resto del Carlino», 25.7.1973. Se non indicate diversamente, s'intendono le pagine di cronaca riminese.
(7) Cfr. Flavio Lombardini, Fra due fuochi, 25 luglio 1943 - 25 agosto 1945, Rimini, 1975, in fotocopia, p. 11.
(8) Cfr. la testimonianza di Virginio Reffi, in La Repubblica di San Marino - Storia e cultura - Il passaggio della guerra 1943-1944, Bruno Ghigi editore (e curatore), Rimini, 1983, p. 199.
(9) Ibidem.
(10) Cfr. F. Lombardini, Fra due fuochi…, cit., pp. 5-7.
(11) Ibidem.
(12) Cfr. la testimonianza citata di V. Reffi.
(13) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, «Il Ponte», 1978, a dispense, p. 8.
(14) Cfr. la testimonianza citata di V. Reffi. Il fascismo a San Marino cade il 28 luglio 1943: cfr. la puntata de I giorni dell'Ira del 4. 3. 1990 (28 luglio, San Marino volta pagina).
(15) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 11.
(16) Cfr. O. Cavallari, Bandiera rossa la trionferà - Rimini 1944-1946, Rimini, 1979, p. 16.
(17) Cfr. A. Montemaggi, Come cadde il fascismo, cit., e O. Cavallari, Rimini imperiale!, cit., p. 96. Macina fu assessore nella Giunta socialista abbattutta dai fascisti nel 1922.
(18) Cfr. l'intervista concessa al «Ponte» del 29. 10. 1989, dal titolo «Così arrestai Tacchi a Padova».

52. Arrivano i tedeschi.
Il 10 settembre, giorno dell'occupazione tedesca di Roma, a Rimini due autocarri-radio dei nazisti s'installano in piazza Giulio Cesare.
Il giorno 11, una pattuglia di motociclisti germanici giunge sul piazzale della nostra stazione ferroviaria.
Il 12, Mussolini viene liberato a Campo Imperatore, sul Gran Sasso, dai paracadutisti del gen. Karl Student (il merito se lo attribuì il colonnello delle SS Otto Skorzeny, ricevendo da Hitler le insegne di Cavaliere della Croce di ferro).
Quel giorno, da noi alcuni reparti tedeschi presidiano i punti nevralgici della città. I Comandi tedeschi occupano i migliori alberghi.
La notizia della liberazione di Mussolini, mette in agitazione la Milizia: un suo reparto sfila velocemente per il corso d'Augusto. Qualcuno pensa a voce alta: «Ma che cosa combinerà quel matto?». (1)
Lo stesso 12 settembre, la prefettura di Forlì pubblica un bando del Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante in capo tedesco in Italia, che segna la resa italiana ai nazisti: «Il territorio dell'Italia a me sottoposta è dichiarato territorio di guerra. In esso sono valide le leggi tedesche di guerra. Tutti i delitti commessi contro le forze armate tedesche saranno giudicati secondo il diritto tedesco di guerra. Ogni sciopero è proibito [...]. Gli organizzatori, i sabotatori ed i franco tiratori saranno giudicati e fucilati per giudizio sommario. Sono deciso a mantenere la calma e la disciplina ed a sostenere le autorità italiane competenti con tutti i mezzi per assicurare la sicurezza alla popolazione [...]. É proibito fino a nuovo ordine la corrispondenza privata [...]. Le autorità e le organizzazioni italiane civiche sono verso di me responsabili per il funzionamento dell'ordine pubblico. Esse compiranno il loro dovere solamente se si atterranno ai nostri ordini e se impediranno ogni atto di sabotaggio e di resistenza passiva contro le misure tedesche e se collaboreranno in modo esemplare con gli uffici tedeschi».
E poi: «Le truppe italiane che opporranno resistenza agli ordini emanati dai comandi tedeschi verranno trattate come FRANCOTIRATORI; gli ufficiali ed i comandanti di queste truppe saranno resi responsabili della resistenza eventuale e trattati come FRANCOTIRATORI». (2)
Sui proclami dei nazisti, nottetempo vengono apposte strisce con «A morte i tedeschi e i fascisti», stampate a Morciano dalla tipografia di Luigi Cavalli. (3)
I tedeschi fanno scuola ai 'nuovi' fascisti di Salò: dal berretto nero (copiato da quello delle SS tedesche), fino alla ferocia dell' «occhio per occhio, pietà l'è morta» (4), e agli atteggiamenti contro gli ebrei: «Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica». (5)
Rispuntano «i nuovi ras del terrorismo ad ogni costo». (6)
I tedeschi trattano i repubblichini «con distacco, non si fidano, ma essi fanno ostentazione di fedeltà all'alleanza. Un rapporto senza stima, basato sulla convenienza reciproca». (7)
E la gente? «Nessun popolo gradisce la presenza nei propri territori di forze armate straniere emananti decreti e ordinanze e esercenti atti di imperio»: lo scrive Mussolini sul «Corriere della Sera». (8)
Finisce così «quella lunga estate del '43», in cui a Rimini la «stagione balneare... era stata più movimentata e festosa delle altre». (9)

Note
(1) Cfr. F. Lombardini, Fra due fuochi…, cit., p. 16.
(2) Cfr. A. Zambelli, Resistenza nel Forlivese, Cappelli, Bologna, 1962, p. 20.
(3) Cfr. l'intervista a Guglielmo Marconi in A. Montemaggi, L'antifascismo riminese si organizza, «Carlino», 10. 4. 1964.
(4) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 36.
(5) Ibidem, p. 39.
(6) Ibidem, p. 15.
(7) Cfr. Silvio Bertoldi, La chiamavamo patria, Rizzoli, Milano, 1989, p. 230.
(8) La data è l'11 ottobre 1943, cfr. Giorgio Bocca, La repubblica di Mussolini, Laterza, Bari, 1977, p. 48.
(9) Cfr. l'intervista a Guido Nozzoli in La guerra a Rimini e sulla linea gotica, Documenti e testimonianze raccolti da Bruno Ghigi, Ghigi editore, Rimini, 1980, p. 210.

53. Incontro tra nemici.
La sera del 12 settembre, a Rimini, i repubblichini Paolo Tacchi, Perindo Buratti e Gualtiero Frontali s'incontrano, nello studio di quest'ultimo, in via Bonsi, con un gruppo di antifascisti cittadini, in vista di un patto di non aggressione, per evitare massacri «tra gli italiani». (1)
Racconterà Buratti: «Ci riunimmo... per salvare Rimini dai tedeschi al di sopra delle inimicizie di parte, animati solo da amor di patria». (2)
Tacchi non ha mai parlato di quell'incontro, il cui spirito però lo si può dedurre da parole che lo stesso Tacchi scrisse a proposito della costituzione del fascio repubblichino: «Difesa morale e materiale dell'Italia», soprattutto nei confronti dei tedeschi. (3)
Il comunista Decio Mercanti ricorda che la riunione «venne indetta... nell'intento di gettare le basi per la costituzione di un Comitato di Concordia tra fascisti e antifascisti», che «avrebbe dovuto portare alla pacificazione fra le due parti per impedire delle rappresaglie». (4)
Nei repubblichini forse agiva il ricordo di un'analoga iniziativa del 2 agosto 1921, quando Mussolini cercò di eliminare dal suo partito le punte estremistiche ed eversive dello squadrismo agrario, e propose un patto di pacificazione col partito socialista e con i sindacati, che durò soltanto fino a novembre. Mussolini intendeva dimostrare al Paese che il fascismo era ormai una forza politicamente matura.
Nella sua linea, Mussolini ebbe sempre contro i fascisti della zona padana, ma ottenne di poterla realizzare quando a Sarzana, il 21 luglio, un'azione squadristica guidata da Amerigo Dumini (il futuro assassino di Giacomo Matteotti), venne respinta da undici Carabinieri che fecero diciotto morti tra i fascisti.
Mussolini temeva «l'isolamento del fascismo e l'eventualità di un'inversione di tendenza nell'atteggiamento governativo verso i fasci» (5), che fino a quel momento avevano fatto i loro comodi.
In seguito, resosi conto di non poter fare a meno dello squadrismo agrario, Mussolini sconfessò quel suo patto di pacificazione (che in effetti non aveva mai funzionato sul serio). Ottenne così il riconoscimento della sua funzione di guida del fascismo che, nel novembre 1921, da movimento si trasforma in vero e proprio partito. Sono circa 300 mila, gli iscritti.
Ritorniamo al 1943. L'atteggiamento conciliatorio dei repubblichini riminesi, lo si ritrova anche in quelli di altre città.
A Ferrara, ad esempio, il federale Igino Ghisellini «propone un accordo con i partiti antifascisti,... discute con i loro esponenti,... concorda una tregua tra le parti». (6)
La sua è una «posizione tollerante» che si scontra con la linea dura di Pavolini, Farinacci, Ricci e Mezzasoma. (7)
A rimetterci è lo stesso Ghisellini: egli «avrebbe voluto portare al congresso» del pfr a Verona (14 novembre '43), dove nasce la repubblica di Salò, il «suo progetto di pacificazione nazionale, di accordo con i partiti antifascisti e di tolleranza per i protagonisti del colpo di Stato» del 25 luglio. (8)
Ma proprio quel 14 novembre, Ghisellini è ucciso, in modo misterioso. Viaggiava in auto. «Il suo corpo trapassato da sei colpi di rivoltella fu trovato senza stivali e senza portafogli nella cunetta della strada provinciale che portava al paesino dov'era sfollato, e l'assassinio fu attribuito ai partigiani benché i carabinieri potessero dimostrare che il federale era stato ucciso da qualcuno che viaggiava in auto assieme a lui». (9)
«Più tardi si comincerà a diffondere la voce che forse Ghisellini è stato ammazzato dai suoi». (10)
Già da settembre, «la Repubblica che avrebbe scatenato la guerra civile», aveva cominciato a spalancare «molte porte con una ventata che lì per lì sembrò di libertà... In una parola, pacificazione». (11)
Gli eventi successivi fecero cambiare opinione. Lo stesso 14 novembre, avviene la vendetta, nella città di Ghisellini, a Ferrara, con i tredici martiri del Castello.
Salò nasce nel sangue. Non ci si poteva fare illusioni sul futuro comportamento dei repubblichini.

Note
(1) Cfr. A. Montanari, Rimini ieri, cit., pag. 25.
(2) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 16.
(3) Cfr. la lettera di Tacchi al «Carlino» del 31. 1. 1964, in Fascisti, antifascisti e tedeschi fra le macerie di Rimini distrutta, di A. Montemaggi.
(4) Cfr. D. Mercanti, Primi passi…, cit., p. 34.
(5) Cfr. Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, VIII, 1914-1922, La prima guerra mondiale, il dopoguerra, l'avvento del fascismo, Feltrinelli, Milano, 1978, p. 373.
(6) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 15.
(7) Ibidem.
(8) Cfr. Gian Franco Vené, Coprifuoco, Mondadori, Milano, 1989, p. 225.
(9) Ibidem.
(10) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 15.
(11) Cfr. Gian Franco Vené, Coprifuoco, cit., p. 97.
11. Foto di gruppo in camicia nera
Nasce il nuovo fascio con 20 iscritti: saranno mille a dicembre. I bandi per gli "sbandati". Un abito civile per la salvezza.
I giorni dell'ira, 11. 11. "il Ponte", 30.09.1990

54. Nulla di fatto.
Alla riunione riminese del 12 settembre erano presenti, tra gli antifascisti, il dc Giuseppe Babbi, il socialista Gomberto Bordoni, il comunista Isaia Pagliarani ed il repubblicano Dario Celli. Le testimonianze sulle altre persone invitate all'incontro sono discordanti. (1)
Confrontiamo le varie ricostruzioni della riunione. Secondo Buratti, essa «si sciolse con un nulla di fatto». Tutti erano stati «d'accordo per invocare una tregua fraterna allo scopo di salvare la nostra città e tutti eravamo animati da questo sentimento, ma quando gli antifascisti affermarono che non potevano garantirci la calma nel territorio di nostra giurisdizione, noi fascisti non potemmo se non rispondere che ad atti di guerra avremmo risposto con atti di guerra». (2)
Ecco la versione di Decio Mercanti: «La riunione si concluse su un accordo di massima: necessità di un compromesso. E di ritrovarsi in un successivo incontro con la redazione di un eventuale documento. Questo non ebbe mai luogo. Il comandante tedesco infatti avendo saputo della riunione per la costituzione del Comitato, diede ordini al capitano dei carabinieri Bracco (il quale ne informò il rag. Frontali) che nessuna riunione di quel genere doveva aver luogo pena l'arresto immediato di coloro che vi avessero partecipato. Quella fu l'ultima informazione data da Frontali agli antifascisti che intervennero alla prima e, quindi, unica riunione». (3)
Ancora Buratti, nel 1979, in un'intervista telefonica a Cavallari, riferisce: «Rimanemmo a discutere fino a notte alta. In verità» Babbi e Celli «erano per l'accordo, Bordoni ci pensava sù e Pagliarani disse che non se la sentiva. E le ragioni non erano tanto politiche ed ideologiche quanto pratiche. Perché noi fascisti potevamo garantire ai tedeschi che non avremmo turbato l'ordine pubblico con persecuzioni contro gli antifascisti perché avevamo sotto controllo i nostri; i democristiani potevano assicurare che i loro non avrebbero svolto azioni di disturbo contro le truppe tedesche, in quanto potevano contare sulla organizzazione ecclesiastica; essendo pochi, i repubblicani potevano passarsi la parola, ma i comunisti? Bisogna dire, ammette Buratti, che Pagliarani fu onesto quando non volle impegnarsi per i suoi dato che, allora, il partito comunista non era organizzato. Sarebbe bastato un cavo telefonico manomesso da non si sa chi per farci mettere tutti in galera. E così il patto di tregua fallì». (4)
Conferma allo stesso Cavallari, Gualtiero Frontali: «L'iniziativa fu condivisa per quanto si riferiva alla libertà, al rispetto delle idee politiche ma incontrò difficoltà sull'impegno dei partiti a sconsigliare e vietare atti di sabotaggio contro i tedeschi, e ciò per mancanza di contatti con i partigiani. Ci si doveva riunire qualche giorno dopo ma fui diffidato dal capitano dei carabinieri. Non era gradito, questo tentativo, ai tedeschi forse perché temevano un accordo contro di essi. Ci si lasciò, così, delusi. Restò solo l'impegno personale al reciproco rispetto e a svolgere opera di concordia tra le varie correnti politiche». (5)
Frontali e Mercanti, schierati su posizioni politiche opposte, concordano su di un punto, cioè l'intervento tedesco contro ogni tentativo di pacificazione.
Di quella riunione riminese, c'è traccia tra i documenti ufficiali della repubblica di Salò, in una relazione prefettizia, secondo cui vi era stato nella nostra città un incontro dei fascisti «con gli esponenti del CLN, conclusosi con l'impegno da ambo le parti di evitare di molestarsi». (6)

Note
(1) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 16; idem, Fascisti e antifascisti a Rimini, «Carlino», 24. 12. 1963; D. Mercanti, Primi passi…, cit., p. 34; e O. Cavallari, Bandiera rossa…, cit., p. 17.
(2) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 16.
(3) Cfr. D. Mercanti, Primi passi…, cit., p. 34
(4) Cfr. O. Cavallari, Bandiera rossa…, cit., p. 17.
(5) Ibidem, pp. 17-18.
(6) Cfr. nota 3 a p. 34 di D. Mercanti, Primi passi…, cit.

55. Operazione sconcertante.
Il Cln di Rimini non si era ancora costituito alla data del 12 settembre '43. Aveva cominciato a prendere forma dopo l'8 settembre, ma nascerà ufficialmente soltanto nel marzo 1944. (1)
Lo ricorda Giuseppe Babbi, aggiungendo: «Inizialmente eravamo in tre con il socialista Gomberto Bordoni e il repubblicano maestro Dario Celli. A noi si unirono poi appartenenti ad altri partiti, come il comunista Isaia Pagliarani, che però più tardi si distaccò da noi in seguito ad un fiero litigio con Bordoni. Lo scopo delle nostre riunioni (talvolta ci vedevamo nella casa del signor Grossi nel borgo San Giuliano, talaltra in altri posti sicuri) era di svolgere un'attività politica di formazione democratica e di difesa contro il tedesco invasore». (2)
Come spiega Stefano Pivato, l'iniziativa dell'incontro fu accolta da quegli antifascisti «a titolo personale. Coloro che parteciparono furono sconfessati dai loro partiti». (3)
Nozzoli definisce quella riunione «una sconcertante operazione che ancor oggi non capisco come avesse potuto trovare udienza in una parte del Cln».
«Per quel che ne so», aggiunge Nozzoli, «pur dichiarandosi certo della sconfitta, Tacchi disse che il fascio sarebbe stato ricostituito in ogni caso, con o senza il suo assenso, con una differenza: che lui, conoscendo Rimini e i riminesi, avrebbe potuto far da mediatore con i tedeschi, impedendo rappresaglie e interventi troppo pesanti ai danni della popolazione, mentre un segretario venuto da fuori non avrebbe avuto certamente simili preoccupazioni». (4)
Era, quello, un «periodo confuso», ed è difficile sapere «che cosa avesse in mente un uomo imprevedibile» come Tacchi: «Forse, rendendosi conto che stava per mettere i piedi in un terreno minato, in un primo momento, nel formulare le sua proposta, pensava veramente di fare quel che prometteva... O forse no. In ogni caso soddisfaceva contemporaneamente due esigenze: quella di mettersi alla testa del fascismo riminese compiacendo i suoi superiori, e quella di assicurarsi delle benemerenze con gli avversari in previsione della sconfitta. In seguito, però, o perché travolto dalle passioni della lotta o perché trascinato dall'ingranaggio del potere, cambiò volto e comportamento». (5)
Veramente i repubblichini volevano «salvare Rimini dai tedeschi»? Scrive Mercanti: «I fascisti che avevano aderito alla repubblica di Salò divennero i collaboratori, le spie dei tedeschi, della Gestapo». (6)
Aggiunge Celestino Giuliani, uno dei capi della Resistenza nel Riminese, che «spie nazi-fasciste» erano sparse in ogni luogo. (7)

Note
(1) Cfr. A. Montemaggi, Fascisti…, cit.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. nota 3 a p. 34 di D. Mercanti, Primi passi…, cit.: Pivato aggiunge che «la Federazione clandestina del P.C. giudicò severamente il principio di un patto di concordia che portava al tradimento degli ideali antifascisti, e allontanò quelli che avevano partecipato, da posizioni di dirigenti».
(4) Cfr. l'intervista a G. Nozzoli in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 211.
(5) Ibidem, p. 212.
(6) Cfr. D. Mercanti, Primi passi…, cit., p. 35.
(7) Cfr. la «Relazione» del ten. Giuliani, in Copie di documenti originali sull'attività partigiana a Rimini e nelRiminese (1944-1945), in fotocopia presso la Biblioteca Gambalunga di Rimini (C 961).

56. Il nuovo fascio.
Il giorno 13 settembre, sei tedeschi giunti a bordo di un'autoambulanza, s'impadroniscono dell'aeroporto di Miramare: qui «erano scappati tutti, la gente rubava a più non posso. Per procurarsi la benzina, qualcuno aveva sforacchiato i serbatoi degli aerei». (1)
Alle ore 17, ufficiali nazisti si presentano alla caserma Giulio Cesare, e la fanno sgomberare da due Regi Carabinieri: «Non uno sparo, non un atto di ribellione». (2)
Le truppe germaniche, giunte in forza, si installano «nei punti periferici... dove molte case furono requisite per magazzini di viveri». (3)
Il 15 settembre, Mussolini riprende «la suprema direzione del Fascismo», come annuncia da Roma l'agenzia giornalistica Stefani. Nomina Alessandro Pavolini segretario provvisorio del partito, ed ordina a tutte le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche che erano state destituite dalle loro funzioni dal «governo della capitolazione», di riprendere i loro posti.
Il giorno 16, a Rimini, nasce il fascio repubblicano, con venti iscritti. I fondatori sono Paolo Tacchi, Giuffrida Platania, Cesare Frontali e Perindo Buratti.
Buratti confiderà a Cavallari: «Scattammo una foto... Volevamo che poi non venissero fuori a vantare primogeniture, come successe per la marcia su Roma...». (4)
A capo del fascio, per tre mesi, c'è un triumvirato capeggiato da Paolo Tacchi, con Frontali e Buratti.
Da dicembre, gli iscritti saranno un migliaio. E Tacchi ne resterà a capo, diventando segretario.
Il candidato favorito è Buratti, che però rifiuta, proponendo il nome di Tacchi: «Paolo se lo meritava». E Tacchi viene eletto. Come vice, è scelto Mario Mosca, un ufficiale di artiglieria residente nel Borgo San Giuliano. (5)
Il perché della nascita del fascio riminese, lo spiegherà Tacchi in una sua lettera al «Carlino», nel 1964: «La costituzione del f.r. derivò da un motivo ideale e da un motivo storico: motivo ideale quello dell'uomo che, avendo militato sotto una determinata bandiera nell'ora in cui essa era vittoriosa, non la getta tra i rifiuti quando si profila l'ora della sconfitta e se deve essere vinto vuol finire in piedi...». (6)
Ma nel 1944, il 31 agosto, all'avvicinarsi del fronte alleato, Tacchi era scappato da Rimini, con la 'carovana' dei repubblichini, e le sue due amanti. Anzi, si era anche procurato «un certificato di partigiano». (7)

Note
(1) Cfr. l'intervista cit. a Carlo Capanna, «Ponte», 29. 10. 1989.
(2) Cfr. O. Cavallari, Rimini imperiale!, cit., p. 101.
(3) Cfr. D. Mercanti, Primi passi…, cit., p. 35.
(4) Cfr. O. Cavallari, Bandiera rossa…, cit., p. 16.
(5) Ibidem, p. 17.
(6) Cfr. A. Montemaggi, Fascisti…, cit., «Carlino», 31. 1. 1964.
(7) Cfr. l'intervista di Bianca Rosa Succi al «Garibaldino» del 14. 9. 1945.

57. Gli "sbandati".
Settembre, in tutta l'Italia del Nord, è il mese del sacco tedesco. (1)
Lentamente, tra settembre ed ottobre, nella repubblica di Salò, quel generale tentativo di pacificazione che era stato sperimentato in un momento di «paure, prudenze, stanchezze, opportunismi» (2), lascia il posto alla guerra civile.
La politica della mano tesa cede il passo allo scontro.
Alla fine di ottobre, il ministro alla Cultura popolare, Fernando Mezzasoma, interviene presso quei giornali che si erano distinti nel raccogliere e propagare i messaggi di pacificazione, ed ordina di non pubblicare più appelli «per la fraternizzazione degli italiani», aggiungendo: «Dopo quarantacinque giorni di avvelenamento dell'opinione pubblica, di scandali, di predicazione dell'odio e di caccia all'uomo, certe manifestazioni rivelano solo viltà e tiepidezza». (3)
Il 23 settembre, Mussolini giunge in aereo a Forlì, con i suoi "carcerieri", l'ambasciatore Rudolph Rahn ed il generale delle SS Karl Wolff. Sale alla Rocca delle Caminate, poco distante da Predappio, dove il 27 avviene la prima riunione del governo di Salò.
Si decide il reclutamento di un nuovo esercito, «per volontariato e per coscrizione».
Ministro della Difesa nazionale è nominato Rodolfo Graziani che il 5 ottobre annuncia la costituzione delle forze armate dello stato nazionale repubblicano. I tedeschi vogliono che il reclutamento sia obbligatorio, con addestramento delle reclute in Germania. (4)
La legge sul nuovo esercito è del 28 ottobre, ma con effetto retroattivo: le forze armate di Salò «si intendono» costituite alla data del 9 settembre. In quel provvedimento, «non vi è nessun rapporto con la realtà»: infatti, «mancano i mezzi, le caserme sono semidistrutte, denari per pagare i soldati non se ne trovano, non si sa nemmeno se le reclute si presenteranno e se vi sarà il coraggio sufficiente per tentare l'arruolamento in simili condizioni». (5)
Il primo novembre, Mussolini ha annunciato ad Hitler il richiamo alla armi dei giovani del '24. Ma con il bando del 9 novembre, sono chiamati i militari nati nel secondo e terzo quadrimestre del '24, quelli del '23 e '24 in congedo provvisorio (ossia, gente scappata l'8 settembre), e tutti quelli del '25 della leva di terra. (6)
I prefetti sono impegnati «personalmente» da Mussolini a far rispettare la chiamata: «Il successo della presentazione sarà il segno sicuro della ripresa nazionale». (7)
I giovani rispondo in 51.162, secondo le cifre fornite a dicembre da Graziani. Quelli dell'Emilia-Romagna sono in testa, con 16.415 militari. La nostra regione, con i suoi 72 mila iscritti al pfr, è la più neofascista: ecco la ragione dell'alto numero di reclute. (8)
Una gran parte di questi ragazzi scappa alla prima occasione. (9)
«Ognuno ha nella valigetta un secondo abito borghese per quando quello che indossa sarà ritirato e sostituito dalla divisa. L'abito borghese è stato la grande risorsa dell'otto settembre. Chi prudentemente lo aveva si è salvato. Chi non lo possedeva è finito in Germania. I ragazzi sanno che anche stavolta c'è il rischio di finire in Germania e si preparano. La lezione è servita». (10)

Note
(1) Cfr. G. Bocca, La repubblica di Mussolini, cit., p. 97.
(2) Ibidem, p. 77.
(3) Ibidem.
(4) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 80.
(5) Ibidem, pp. 84-85.
(6) Cfr. G. Bocca, La repubblica di Mussolini, cit., p. 67; e S. Bertoldi, Salò, cit., p. 90.
(7) Cfr. G. Bocca, La repubblica di Mussolini, cit., pp. 67-68.
(8) Ibidem, p. 78.
(9) Ibidem, p. 70.
(10) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 91.
12. "Sbandati" al muro
La fucilazione dei giovani che non avevano aderito all'esercito di Salò. Per salvare qualcuno, a Gemmano i partigiani manomettono lo Stato Civile.
I giorni dell'ira, 12. "il Ponte", 21.10.1990

58. Tra minacce e premi.
Sta nascendo la resistenza armata. Molti salgono in montagna per combattere contro i nazifascisti. Altri cercano rifugio come e dove capita. Vercelli è un nome che fa paura. Lì vengono convogliati i coscritti destinati alle Divisioni da inviare in Germania.
Per convincere le reclute ad obbedire, i fascisti di Salò ricorrono ad «un'arma brutale, mai usata prima in Italia...: l'arresto dei loro genitori o dei loro fratelli in caso di mancata presentazione».
Alfredo Azzalli, classe 1923, vent'anni compiuti proprio l'8 settembre in Jugoslavia, da dove è tornato a piedi fino a Rimini, in casa dei futuri suoceri, aspetta gli eventi. Non si arruola, vive nascosto. (1)
Luigi Sapucci, anch'egli del '23, riuscito a fuggire da Bologna dove prestava servizio militare, nonostante fosse stato fermato da fascisti armati, racconta che ogni 15-20 giorni, i giovani chiamati alla armi «erano continuamente invitati a partire a mezzo di cartoline precetto: ricordo che me ne arrivarono sicuramente tre. Inoltre sovente venivano affissi sui muri delle varie contrade bandi, con l'ordine di presentarsi, pena la fucilazione sul posto». (2)
Il 18 novembre, viene pubblicato anche a Rimini il bando del ten. col. Dino Pancrazi, comandante del Distretto militare di Forlì, che promette ai richiamati che portassero in caserma le armi, un premio di 100 lire per una pistola, di 200 per un moschetto, di 500 per un fucile mitragliatore. Il bando «consigliava i richiamati di portarsi dietro un cucchiaio, una forchetta, una scodella (possibilmente metallica) ed un asciugatoio». (3)
Per convincere i giovani ad obbedire agli ordini di Salò, il nuovo comandante del Distretto, col. Dominici, il 25 novembre «rende noto che per quei giovani che non si presenteranno alle armi il Capo della Provincia denuncerà al Tribunale i capifamiglia» (4).
Il 18 febbraio 1944, ai renitenti e ai disertori viene comminata da Graziani la pena di morte, dopo una protesta di Kesselring su quell'esercito che è una «burletta». Graziani chiama anche alle armi le classi '22 e '23, ed il primo quadrimestre del '24, entro il 25 febbraio. Pena di morte a chi non si presenterà. Uguale trattamento a chi si assenterà «per tre giorni». (5) Adesso, i soldati che scappano, li chiamano assenti.
Alfredo Azzalli si presenta, viene mandato a Vercelli. L'incubo della Germania lo consiglia ad un gioco di astuzia. Da Milano, spedisce una cartolina a casa, racconta la partenza per il Paese alleato, ed invece diserta e fugge a Rimini.
A marzo, Graziani fa marcia indietro. Perdona chi si è presentato prima del 9 marzo, e quelli che, arrestati entro tale data, si arruoleranno "volontari". Infine, i disertori costituitisi, non saranno uccisi, ma mandati in galera per un minimo di 10 anni. (6)
Nel marzo '44, racconta Luigi Sapucci, «il problema di rimanere a casa stava diventando sempre più difficile, perché la repubblica sociale aveva messo insieme una certa rete di informatori». Sapucci decide di arrendersi agli eventi, si arruola, viene mandato come aiuto cuciniere a Padova. Qui trova due compaesani di Mulazzano, Libero Pedrelli e Ottorino Giovagnoli, che diserteranno, saranno ripresi nelle loro case, e poi fucilati : «Alla fine della sparatoria diversi tedeschi corsero ad immergere le loro dita nel sangue ancor caldo che sgorgava dai corpi delle due vittime e a sbaffiare i nostri volti dicendoci: "Buono sangue italiano?"». (7)
Il 25 aprile '44, Graziani promette il perdono agli «sbandati». Alfredo Azzalli torna ad Argenta, suo paese d'origine (dove i fascisti nel '23 avevano ucciso il parroco don Giovanni Minzoni), per vivere in un granaio fino al passaggio del fronte. I suoi commilitoni di Argenta, che per paura avevano aderito al richiamo, tentano di scappare. Tutti fucilati. Erano una decina.

Note
(1) Cfr. A. Montanari, Rimini ieri, cit., p. 27.
(2) Cfr. Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 285.
(3) Cfr. A. Montemaggi, Rimini 1943-1944, cit., p. 35.
(4) Ibidem.
(5) Cfr. S. Bertoldi, Salò, cit., p. 94.
(6) Ibidem.
(7) Cfr. Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., pp. 285-287.

59. Spirale di violenza.
L'immagine della morte accompagna la repubblica di Salò sin dal suo nascere. Il 5 novembre, il segretario del pfr, Alessandro Pavolini, incita i suoi uomini ad applicare i metodi di repressione usati dai tedeschi: «Di fronte al ripetersi di atti proditori nei riguardi dei fascisti repubblicani per parte di elementi antinazionali al soldo del nemico», Pavolini «ordina alle squadre del partito di procedere all'immediato arresto degli esecutori materiali o dei mandanti morali degli assassinii», e di passarli per le armi «previo giudizio dei Tribunali speciali». (1)
«Praticamente», osserva A. Petacco, «le squadre hanno carta bianca di arrestare chi meglio credono. É l'inizio di una spirale di violenza che insanguinerà il paese e della quale Pavolini sarà il principale responsabile». (2)
Intanto, i tedeschi deportano 600 mila soldati italiani. (3)
Il nuovo fascio è appena nato a Rimini, che sùbito appaiono per le strade i simboli di una violenza che terrorizza la gente.
Dopo la riunione di dicembre al Cinema Impero, durante la quale viene scelto come segretario Paolo Tacchi, «si vide subito di che pasta erano fatti i nuovi militi. Non avevano ancora dato il nero agli scarponi e messo in ordine le divise grigio-verdi, prelevate da chissà quale fondo di magazzino, ma avevano già il moschetto a tracolla e un piglio piuttosto truculento», racconta Guido Nozzoli. (4)
Quei militi inscenarono sùbito «alcune bravate. Quelli che mi trovai di fronte davanti al Palazzo Gioia, alla fine della loro adunanza, pur essendo dei ragazzini, con un'arma a portata di mano dovevano sentirsi importantissimi». (5)
Giulio Mancini, classe 1927, ricostruisce così quei giorni: «Una mattina mi trovai in centro a Rimini, per fare delle spese; ci fu un rastrellamento; quei fascisti avevano fatto dei posti di blocco per la città, negli incroci avevano rastrellato tutti i ragazzi che lavoravano per i tedeschi, in stazione, a chiudere le buche delle bombe, e ci portarono tutti alla Colonia nel fiume». (6)
I bombardamenti su Rimini erano cominciati il primo novembre 1943. La Colonia solare Montalti sul Marecchia, alle Celle, era diventata la sede del fascio repubblichino.
Prosegue Mancini: «Loro ci hanno preso, ci hanno messi in fila, con violenza, e poi ci hanno chiusi in una camera, ne facevano uscire due alla volta e cominciavano a menare... Cominciavano col farci mettere in ginocchio, con le mani per terra, su con la testa; partivano con una piccola rincorsa, e calci nel sedere e via; poi ricominciavano sempre da capo, sette, otto, dieci volte...». (7)
Mancini è «riuscito ad avere meno botte degli altri. Alcuni li hanno portati anche nel fiume e li buttavano giù nel gorgo, poi quando si arrampicavano per venire su, gli pestavano le mani; sono intervenuti anche i tedeschi e molti sono stati parecchi giorni a casa, perché erano feriti nelle mani. Io mi sono salvato perché Tacchi (che aveva la moglie sfollata a Covignano, alla villa Ruffi, io abitavo lì vicino), Tacchi si è interessato a guardare i documenti e mi ha mandato via sùbito». (8)
I tedeschi vanno a protestare con Tacchi, perché così sottrae manodopera alla Todt, l'organizzazione germanica del lavoro, «e Tacchi ha avuto delle grane», conclude Mancini.
Giacomo Signoretti, classe 1925, ricorda i repubblichini di Tavullia, «gran parte ragazzi di 16-18 anni, che sovente si davano a furti, saccheggi e alla caccia di giovani che non avevano risposto alla chiamata alle armi». (9)
Quelli che venivano catturati, i repubblichini li picchiavano e torturavano, e poi li fucilavano come «traditori della patria»: al fratello di Signoretti, Augusto, tagliarono «i capelli a mò di croce», prima dell'esecuzione capitale.
Con Augusto Signoretti furono uccisi altri quattro giovani del posto: Giuseppe Benelli, Nino Balducci, Ivo D'Angeli e Celestino Gerboni.
«Dopo la fucilazione i loro corpi vennero abbandonati, e soltanto la pietà dei cittadini di Tavullia provvide a raccogliere i corpi straziati dei poveri giovani barbaramente assassinati». (10)
Il dott. Alberto Sirocchi, cognato dello scrittore Gianni Quondamatteo, ricorda un'azione partigiana, più umanitaria che politica forse: «l'incursione notturna nel Comune di Gemmano per asportare dagli uffici di Stato civile e leva, i registri e tutti gli schedari della popolazione e per distruggere i nominativi di tutti i giovani che potevano essere soggetti alla chiamata alla leva da parte della repubblica sociale». (11)
«L'operazione si svolse senza nessun intoppo», precisa Sirocchi, «dei registri e delle schede, portati nella canonica, venne effettuata una cernita: quelli da salvare, furono nascosti in ripostigli della canonica stessa e quelli da distruggere, vennero bruciati accanto alla chiesa in tombini che un tempo servivano per la sepoltura dei morti». (12)

Note
(1) Il documento è in Arrigo Petacco, Pavolini, Mondadori, 1988, p. 172.
(2) Ibidem.
(3) Cfr. G. Bocca, La repubblica di Mussolini, cit., p. 96.
(4) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 212.
(5) Ibidem.
(6) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 261.
(7) Ibidem.
(8) Ibidem, pp. 261-262.
(9) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 290.
(10) Ibidem, p. 291.
(11) Cfr. l'intervista in Ghigi, La guerra a Rimini…, cit., p. 305.
(12) Ibidem.

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