Rimini ieri. 1945
«Così arrestai Tacchi a Padova».
"il Ponte", Rimini. 29.10.1989

Il gen. Carlo Capanna rievoca per il Ponte un episodio del 1945, legato alla tragica vicenda dei Tre Martiri. Il drammatico colloquio durante il viaggio di trasferimento: «Che cosa dicono di me?», chiede il repubblichino. «La cosa più grave è l'impiccagione di quei ragazzi. C'è la denuncia del frate...». «Allora per me non c'è più niente da fare. Se scappo mi sparate?»

Giugno 1945. Mentre Rimini comincia a progettare il suo futuro, dopo le immani distruzioni belliche che l'hanno resa la «nuova Cassino», si fanno i primi conti con il passato. Le ferite della guerra non sono soltanto quelle materiali. Le macerie si vedono. I dolori sono nascosti. C'è ansia di giustizia.
La pagina più tragica della guerra civile a Rimini, durante il periodo della cosiddetta Repubblica di Salò, è legata ai Tre Martiri, impiccati in piazza Giulio Cesare il 16 agosto 1944: Mario Capelli (23 anni), Luigi Nicolò (22) ed Adelio Pagliarani (19). Li hanno catturati il segretario del fascio repubblichino Paolo Tacchi ed un maresciallo della Feldgendarmerie nazista.

Appena iniziato l'attacco alleato alla Linea Gotica, Tacchi scappò da Rimini. Era il 31 agosto 1944. Con lui c'erano altri fascisti e le manati di Tacchi, Ines Porcellini e Bianca Rosa Succi.
In Lombardia Tacchi s'impegnò in rastrellamenti contro i partigiani. Dopo la Liberazione fu arrestato a Como «per collaborazionismo e per aver determinato l'omicidio per impiccagione» dei Tre Martiri. Da Como, fu trasferito a Padova. Nella città del Santo, in quella primavera del 1945 presta servizio come ufficiale un riminese, Piero Albani.
Albani è amico di un capo partigiano, Carlo Capanna, anch'egli riminese, conosciuto con il nome di battaglia di Oberdan. Sino al 10 maggio 1945, Capanna ha fatto parte dell'Office Strategic Service (Oss), il servizio segreto americano che agiva in appoggio alle forze di liberazione e che era stato costituito da William Donovan, amico personale del presidente Roosevelt e soprannominato Wilb Bill, Bill il Selvaggio. Dopo la guerra, il modello dell'Oss servirà per creare la Cia.

Albani parte da Padova per avvisare Capanna a Rimini di una voce raccolta in «ambienti bene informati», come si usa dire. Secondo questa informazione, Tacchi stava per essere liberato: «La Dc cerca di tirarlo fuori», riferisce Albani a Capanna.
Capanna chiede subito al Commisariato di Ps di Rimini un mandato di cattura per Tacchi. Ottenutolo, corre a Padova per arrestare l'ex segretario repubblichino. Viaggia a bordo di un'auto militare Usa ed in divisa da americano con i panni che indossava quando era nell'Oss.
Carlo Capanna, ora generale dell'Aeronautica in pensione e medaglia d'argento al valor militare, ci racconta in esclusiva i momenti di quella vicenda. È la prima volta che l'episodio viene ricostruito nella sua completezza. Un resoconto sommario era stato pubblicato l'8 settembre 1945 da «Il Garibaldino», periodico che Capanna redigeva con Nino Polverelli, il quale firmò la testata come direttore e curava le cronache su Tacchi.

Capanna è entrato nella Resistenza subito dopo l'8 settembre 1943, quando è annunciato l'armistizio tra Italia ed Alleati. Quel giorno se ne va dall'Accademia aeronautica di Forlì, dove studiava, con un fucile, una pistola ed un grosso pacco di caricatori per il fucile. È con un gruppo di amici che lui stesso fa armare, in previsione di tempi duri che non tarderanno ad arrivare. Da Forlì, Capanna va a Meldola. Qui trova un deposito ai auto dell'Aeronautica, s'impossessa di un'Ardea e scende verso Rimini.
A Cesena c'erano già i tedeschi. Verso Cervia, il gruppo di Capanna incontra un'autocolonna nazista. Con un colpo d'acceleratore e sparando per ara, riescono ad avere via libera. Superano anche un blocco a Cesenatico, arrivano a Rimini al ponte di Tiberio.

L'auto è senz'olio. Alla Fiat (situata allora all'angolo dei bastioni occidentali, proprio vicino al Ponte), Sartini non ne ha, e manda Capanna in viale Principe Amedeo «dall'altro Sartini, quello del distributore», vicino all'attuale grattacielo. Anche qui, niente olio, ma un buon consiglio: «Andate all'aeroporto».
«All'aeroporto, erano scappati tutti, la gente rubava a più non posso. Per procurarsi la benzina, qualcuno aveva sforacchiato i serbatoi degli aerei. Un caccia tedesco sorvola la pista e ci mitraglia». Capanna abbandona l'auto e decide di tornare a Rimini in filobus. Indossa la divisa interna dell'Accademia aeronautica. Scende in piazza Giulio Cesare e va verso via Garibaldi, dove al 142 abitava la sua famiglia.

Il padre lo accoglie sconsolato. Gli sussurra: «Vedi come ci hanno ridotto». Giuseppe Capanna è un antifascista di vecchia data, ricorda il figlio: «Lo hanno arrestati una prima volta nel '21. Sotto la dittatura, ogni volta che succedeva qualcosa a Mussolini, lo portavano in galera, con Isaia Pagliarani, Bordoni, Naccari, Faini» che erano tutti in odore di opposizione al regime. Nel 1924, uno di quegli arresti avviene in modo diverso dal solito. Dopo che in casa gli hanno messo le manette, il figlio Carlo si avventa contro il questurino.

Il 12 settembre 1944 è il giorno in cui Mussolini è liberato a Campo Imperatore sul Gran Sasso, dai paracadutisti del gen. Karl Student (il merito se lo attribuì il colonnello delle SS Otto Skorzeny, ricevendo da Hitler le insegne di Cavaliere della Croce di ferro).
Il 15 settembre Mussolini riprende «la suprema direzione del Fascismo», come annuncia l'agenzia di stampa ufficiale Stefani da Roma. E nomina Alessandro Pavolini segretario provvisorio del partito, ed ordina a tutte le autorità militari, politiche, amministrative e scolastiche che erano state destituite dalle loro funzioni, di riprendere i loro posti.

Il 16 settembre a Rimini nasce il fascio repubblichino con 20 iscritti. Il giorno 18 Mussolini parla da Radio Monaco, annunciando ufficialmente la nascita della Repubblica Sociale Italiana, la famigerata Repubblica di Salò. Parla con una voce «monotona e stanca che aveva perso i toni sonori e vibranti»: qualcuno ipotizzò, racconta Laura Fermi nella sua nota biografia del duce, che «non era Mussolini che parlava», che era stato ucciso e che lo avevano sostituito con un sosia vagamente rassomigliante all'uomo di Predappio.

L'incontro riminese tra fascisti ed antifascisti, sotto la direzione di Tacchi, non produrrà nessun accordo. Anzi, gli antifascisti che vi parteciparono, saranno sconfessati dai lo partiti.
Quali intenzioni di pacificazione avessero i fascisti riminesi, lo dimostra la caccia che danno a Giuseppe Capanna che semplicemente ha osato criticare quell'incontro.
Tacchi dà ordine di arrestarlo. «I questurini prendono un certo Tosi di Corpolò che rassomigliava a mio padre. Ma visto che non era lui, dovettero rilasciarlo», racconta Carlo Capanna.
Tosi, appena libero, avvisa Giuseppe Capanna che stavano per catturarlo. Capanna padre fugge, e si rifugia in un suo podere a Ponte Uso. La Polizia a questo punto arresta la moglie di Giuseppe Capanna, signora Marzia (detta Maria), e la porta davanti a Tacchi.

«Dov'è vostro marito?». «Le faccio un regalo se me lo trova», risponde la signora, inventando con felice prontezza una storia di tradimenti coniugali ed affari in pericolo: «È scappato con soldi ed amante. Io debbo fare dei pagamenti, e non so come comportarmi...».
Anche Tacchi inventa, ma la sua è una balla che non sta in piedi: «Volevamo che vostro marito ci desse qualcosa per gli sfollati». «E che bisogno c'era d'arrestarmi? Per dei soldi? Vi darò mille lire. Ma non le ho dietro. Manderò mio figlio a consegnarvele», risponde la signora.
Due giorni dopo, Carlo Capanna va da Tacchi alla famigerata Colonia Montalti, alle Celle, dove i repubblichini picchiavano la gente, e che era la sede del fascio di Salò. Porta le mille lire promesse. Sono presenti Platania e Frontali.Tacchi chiede al giovane dove sia suo padre. Carlo ripete la storia di una fuga d'amore, aggiungendo: «Lei è un sadico, sa già come sono andate le cose, ha avuto i soldi, ma vuole rinnovare il dolore».

Il colloquio a questo punto ha una svolta inattesa. Tacchi guarda fisso Capanna, e gli dice: «Le è caduta una pistola». Capanna ammette: «È vero, è la mia pistola d'ordinanza...». Capanna è militare, ha prestato giuramento di fedeltà alla monarchia (nel suo animo, sulla scia del padre, p convinto repubblicano). Agli occhi di Tacchi, Carlo Capanna è un nemico che si dichiara tale. Confidenzialmente, Tacchi ribatte: «Tu vuoi andare a fare il militare...».
«Lei è sergente, io equivalgo a sottotenente. Non accetto il tu. Le do del lei. Faccia altrettanto», risponde severo Carlo Capanna. «No, dei voi, semmai», puntualizza Tacchi.

Carlo Capanna, da accusato passa ad accusatore. «Io ufficiale dovrei stare a disposizione di un sergente di marina? Poi, so tutti i suoi precedenti.». Tacchi cambia espressione nel volto. Capanna alza il tiro: «Lei era impiegato in banca ed ha rubato, e per non finire in galera si è sparato un colpo 'intelligente'...». (Dice oggi Carlo Capanna: si sapeva a Rimini che Tacchi si era ferito di striscio con un'arma da fuoco.)
Tacchi comincia ad urlare come un dannato: «Questo, lo denuncio per diffamazione». Poi lo licenzia, ammonendolo: «Si ricordi bene di non incontrarmi sulla strada, perché altrimenti saranno guai».
Con ferma serenità, Capanna precisa: «Ognuno ha la sua strada davanti, e vedremo chi la spunta». Le loro strade sono destinate ad incontrarsi quasi due anni dopo quello scontro di fine settembre '43, alla sede del fascio.

Chi era Tacchi, chiedo al gen. Capanna, prima di ricostruire l'episodio del giugno 1945. «Un matto, un esaltato e violento. Uno che faceva pressione sui ragazzini». Terrorizzava soprattutto i chiamati alle armi del 1923-24, gli 'sbandati' che venivano reclutati per Salò, pena la fucilazione.
Finisce la guerra. Albani avvisa Carlo Capanna della possibilità che Tacchi venga liberato a Padova. Capanna corre a Padova. Il destino fa incontrare nuovamente Tacchi e Capanna, a parti rovesciate.

Con Capanna ci sono un poliziotto, il maresciallo Nicola Galdieri, ed un partigiano comunista, Nicola Pericoli. «Al carcere di Padova, esibiamo il mandato di cattura, e ci consegnano Tacchi. Non gli faccio mettere le manette, per sottolineare la differenza di trattamento che noi sapevamo riservare» al nemico, dice Capanna. La differenza tra la violenza di Tacchi, nei confronti di tanti, come la madre di Capanna; e la serenità di una giustizia che agiva senza cercare vendette. «Uno schiaffo morale», aggiunge Capanna ricordando quella scena.
Il comandante la piazza di Padova rifiuta il trasporto. Capanna replica infuriato: «Vogliamo che Tacchi sia giudicato», ed esce sbattendo la porta (avrà una punizione di dieci giorni di rigore, poi annullata). «Con un mezzo di piazza, una Balilla, porto Tacchi via da Padova. Sempre senza manette. Per strada, Tacchi comincia a parlare».
Ricostruiamo quel dialogo. È la prima volta che viene descritto per intero.

Tacchi: «Che cosa dicono di me a Rimini?».
Capanna: «Ne dicono tante. La cosa più grave è l'impiccagione di quei tre ragazzi...». («Uno di loro, Pagliarani, era figlio della Maria, la nostra donna di servizio, che stava a Vergiano.»)
Tacchi: «Sarà difficile dimostrarlo...».
Capanna: «C'è la denuncia del frate che ha assistito al discorso fra lei ed il capitano tedesco che voleva mandarli in Germania. E lei, Tacchi, ha voluto che fossero impiccati. Bisogna dare l'esempio, con il suo processo: altrimenti mi rivolgo alle autorità in alto. È una cosa che bisogna finirla».
Tacchi: «Allora, per me non c'è più niente da fare».
Il frate a cui si riferisce Capanna è padre Callisto Ciavatti, del convento di san Bernardino. Il giornale «Città Nuova» del 12.5.1946 riporterà la deposizione scritta inviata dal frate al tribunale di Forlì. In essa si ricorda il «tono perentorio» con cui Tacchi interrogò il frate quando, la sera del 15 agosto 1944, si presentò al Comando tedesco a Covignano.

Padre Ciavatti aveva chiesto al Comando di «commutare la pena di morte nella deportazione», e ricevette la «promessa di rivedere la cosa».
All'uscita del colloquio con i nazisti, verso le 20, padre Ciavatti incontra Tacchi: «... alle mie spiegazioni esclamò: "Niente da fare, padre. La giustizia umana è ormai compiuta"».
Alle 22, Tacchi incontra di nuovo il frate ed esclama: «Padre, lei è servito».
Poco dopo l'interprete confermava al frate la condanna a morte per impiccagione dei tre ragazzi.

Tacchi ripercorre velocemente, in quegli istanti, le vicende dell'estate del 1944. Lui che, dopo la guerre e le lunghe vicende processuali che lo manderanno assolto, scriverà nel 1964 all'ospitale «Resto del Carlino» che aveva scelto la Repubblica sociale per un motivo ideale, «finire in piedi» se doveva essere vinto. In quei frangenti, dopo l'arresto di Padova, si comporta diversamente. Chiede a Capanna: «Se scappo, mi sparate?». «Certo», è la risposta che non ammette ambiguità.
Quando a Pontelagoscuro l'auto è ferma per un rifornimento d'acqua al radiatore, restano sulla vettura soltanto Tacchi e Capanna. Tacchi dice: «Io scappo». Una proposta di compromesso od una provocazione? Capanna è fermo nel suo proposito di portare Tacchi davanti ala giustizia.

Racconta ora Capanna: «Lo prendo per il cravattino e gli dico: "Da un delinquente, io non ne faccio un eroe od un martire. Non scapperai e non t'ammazzerò».
Capanna chiama il poliziotto, e gli ordina di mettere le manette a Tacchi.

A Bologna, Capanna non ha i soldi per pagare l'autista di piazza. Li ottiene al Cumer (Comando unificato militare Emilia Romagna), dal col. Cavazzuti, il comandante. Così può riprendere il viaggio verso Forlì. Perché non Rimini?
Capanna ha già un'esperienza, l'arresto a Carpi di Giuffrida Platania, il burattinaio, uno dei capi del fascismo repubblichino.
(Dal carcere Platania accuserà Tacchi di varie nefandezze, tra cui torture di partigiani nel corso di orge neroniane nel quartiere generale che Tacchi ha creato a San Marino, come pied-à-terre dove si riposava «dalle fatiche fasciste», in compagnia delle sue amanti.)

Platania viaggiava in un furgone del partigiano Savoretti di Bellariva.
A Modena, si fermano per il pranzo in un ristorante. Qui a Savoretta scappa un orgoglioso grido di guerra: «Abbiamo preso un fascista». La gente voleva linciare Platania. Capanna riuscì a salvarlo.
Arrivati a Rimini alla caserma dei Carabinieri nel Borgo San Giovanni, si dovette sottrarre Platania all'assalto della folla...

Per evitare rischi all'incolumità di Tacchi, Capanna lo porta a Forlì. Qui incontrano Perindo Buratti, il ras di Coriano.
Buratti dice al repubblicano Capanna che il repubblicano avv. Cino Macrelli «non mi vuole difendere perché sono un porco d'un fascista...».
Al momento dell'ingresso in carcere, Tacchi consegna a Capanna una busta «con un sacco di soldi» ed un orologio d'oro da consegnare alle sorelle. «Misi un annuncio sul "Garibaldino", le sorelle lo lessero e vennero a riturare l'orologio».
(L'amante 'ufficiale' di Tacchi, quell'Ines Porcellini che Nino Polverelli descrisse come «compunta, seria, docile, distinta ed educata», incontrò qualche anno dopo Capanna, e gli disse: «Tacchi t'aveva dato un orologio. Glielo avevo regalato io».)

Tacchi consegnando i suoi beni a Capanna, si sfoga contro Ugo Ughi, che era stato commissario straordinario al Comune di Rimini dal 27 novembre 1943, per volontà dello stesso Tacchi.
E Tacchi racconta a Capanna che Ughi aveva ricevuto da Mussolini un milione per aiutare i fascisti in difficoltà: «Ma 'sto lazzarone è andato via senza dar niente a nessuno».
L'8 luglio 1945, il primo numero del "Giornale di Rimini" esce con questo titolo: «Tacchi arrestato».

Al primo processo (maggio 1946), Tacchi sarà condannato a morte.
Dopo l'annullamento della sentenza (per mancanza di motivazione) da parte della Cassazione, nel 1947 è condannato a trent'anni.
Altro annullamento della Cassazione, per difetto di motivazione.
Dopo due assoluzioni per insufficienza di prove in altrettanti processi, Tacchi è assolto nel 1949 dalla stessa Cassazione per non aver commesso i fatti imputatigli.


Carlo Capanna al centro, Alberto Marvelli a sinistra. Foto del sito ufficiale sul beato Marvelli, alla pagina "Un cristiano in politica".

Rimini ieri. Cronache dalla città
Indice


Bibliografia.
L'articolo è citato:
nel cap. 12. de "I giorni dell'ira", di cui sono autore;
nel libro di Liliano Faenza su "La Resistenza a Rimini";
nella mia storia del settimanale "Il Ponte" 1987-1996, al cap. 3 (1991).

Antonio Montanari-47921 Rimini. Via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173
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1586, 06.01.2012. Modificata, 16.05.2012, 10:16