Antonio Montanari

Galeotto di Pietramala, cardinale "malatestiano"

15. Documenti.

15A. Avignone.
Il «soggiorno avignonese» dei Papi, durato dal 1305 al 1376, inizia dopo la morte a Perugia di Benedetto XI (il 7 luglio 1304), quando si raduna nella stessa città il conclave da cui il 5 giugno 1305 esce eletto l'arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got. Egli assume il nome di Clemente V (1305-1314) e resta in Francia dove si trovava.
Clemente V si fa incoronare il 14 novembre 1305 a Lione alla presenza di Filippo il Bello. Soggiorna prima in Guascogna, sua terra d'origine, e poi dal 1309 ad Avignone, città che apparteneva ai conti di Provenza, cioè agli Angiò, sovrani di Napoli governata allora da Carlo II re di Sicilia (1248-1309). Ecco perché solitamente si fa iniziare la «cattività avignonese» nel 1309, saltando la premessa del soggiorno francese di Clemente V sino a quell'anno. Nel 1334 Giovanni XXII (in carica dal 1316), poco prima di morire il 4 dicembre dello stesso 1334, concepisce «il piano di tornare in Italia e trasferirvi la Curia, se non a Roma, città ritenuta insicura, almeno a Bologna», riscuotendo l'opposizione sia di guelfi sia di ghibellini. [Cf. Mayeul Chaudon, pp. 100-103]
Nel 1348 Clemente VI (Pierre Roger, Arcivescovo di Arras, Sens, Rouen, docente alla Sorbona e Papa dal 1342 al 1352), compra Avignone da Giovanna D'Angiò, contessa di Provenza e regina di Napoli dal 1343, quando aveva diciassette anni. («Con l'avvento di Filippo VI di Valois, Pierre Roger salì parallelamente nel favore reale e nella gerarchia della Chiesa; le alte funzioni che il pontefice gli conferiva giustificavano il suo ruolo negli affari francesi. Vescovo di Arras il 3 dic. 1328, fu trasferito a Sens il 24 nov. 1329 e a Rouen il 14 dic. 1330: l'arcivescovato di Rouen era il più ricco della Chiesa francese, uno dei meglio dotati di tutta la Cristianità»: cfr. Clemente VI, di B. Guillemain, papa, DBI, 26, 1982.)
Bramosia di denaro e centralizzazione del potere provocano, durante la fase «avignonese», un'avidità ed una rapacità curiale e pontificia che, come osserva Franco Gaeta [XI, Corsera, pp. 284-285], s'accompagnano ad una dipendenza della Chiesa dai sovrani francesi.
Questa dipendenza porta ad una maggioranza di Cardinali francesi nel Sacro Collegio [Cf. Voci, op. cit., p. 100], ed al «consolidarsi di un partito incline a prolungare il soggiorno della Chiesa» lontano da Roma. Per tutto il periodo «avignonese» si registra un'«aperta critica verso la condizione delle alte gerarchie ecclesiastiche, con l'accentuarsi della tendenza all'evangelismo pauperistico» che porta al «Grande Scisma» tra 1378 e 1417 [cf. G. Sodano, L'Inquisizione episcopale e l'Inquisizione pontificia, VII M. E.p. 521].
Nel 1417 è eletto Martino V al Concilio di Costanza (1414-1418) che pone «termine alla contrapposizione tra papi contemporaneamente eletti da differenti schieramenti» cf. M. A. Noto, Il papa e le gerarchie ecclesiastiche, ME 10, p. 438].
Il papato, come sottolinea G. Miccoli, è «lacerato e disperso» non soltanto per ragioni interne alla Chiesa ma pure per la «crisi politica e sociale che aveva duramente colpito le antiche strutture produttive e di potere». Il periodo avignonese e le vicende dello scisma evidenziano «alla coscienza stessa dei contemporanei, il carattere di colossale e articolato strumento del potere assunto dall'istituzione ecclesiastica». [Cf. G. Miccoli, La storia religiosa, «Storia d'Italia», II, 1, Dalla caduta dell'impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, pp. 897-898, 904.]


15B. Petrarca scrive al papa.
Il periodo avignonese è attaccato duramente da Francesco Petrarca nella celebre lettera diretta a papa Urbano V (Senili, IX, 1), che leggiamo nell'antica traduzione di Fracassetti: «Come all'antica sede riconducesti la Chiesa alle tue mani affidata, così fa' di ricondurla agli antichi costumi per guisa che torni a parersi irreprensibile e veneranda agli occhi del mondo intero, qual era un giorno, e quale, sia detto in pace di quelli che n'ebber colpa, non fu pur troppo da lungo tempo. Nato alla grand'opra fa' tu di compierla. Ammonisci i tuoi Cardinali, e ad uno ad uno, e tutti insieme li esorta che si ricordino di esser uomini, né sempre a darsi solazzo, ma pensino ancora qualche volta alla morte e alla vita eterna. Aguzzino gli occhi, e vedranno nulla quaggiù esser durevole, ma tutte le mondane cose brevi e fuggevoli più del vento, tutto nella vita nostra dubbio, variabile, vacillante, caduco: e vane le cure, fallace la speranza che si paion nutrire di star saldi sopra un labile fondamento, affannandosi nella ricerca di cose ridicole e dispregevoli» [vedi nota 1].
Tra queste «cose ridicole e dispregevoli», Petrarca annovera gli sgabelli eburnei, e la ricchezza a cui gli uomini della Curia miravano [vedi nota 2].
Verso di loro, Petrarca nutre un sincero disprezzo: «Parmi sentire le blande lusinghe e il cupo mormorare de' Cardinali affaticati a farti recedere dall'alto proposto ed a tenerti lontano dal passo a cui per obbligo del proprio stato avrebbero dovuto confortarti e sospingerti» [vedi nota 3].
Passando dalle questioni religiose a quelle politiche, Petrarca richiama i giudizi espressi contro il nostro Paese, sostenendo: «A stringer tutto in poche parole io dico pertanto che, fatto ragguaglio dell'Italia alla Francia, la differenza dall'una all'altra è così grande e così nota, che del giudizio non può lasciarsi aver dubbio chi si conosca alcun poco di storia. Degl'ingegni, il solo disputarne sarebbe stoltezza. Restano i libri a far testimonianza del vero» [vedi nota 4].
Oratori e poeti si trovano soltanto in Italia: «Oratores et poetae extra Italiam non querantur» [vedi nota 5].
«Quanto ai costumi ed ai modi del viver civile confesserò di buon grado essere i Francesi arguti, faceti, leggeri nelle parole e ne' movimenti della persona, proclivi allo scherzare, giulivi nel canto, buoni bevitori, ed avidi commensali. Ma la vera gravità, la moralità della vita, fu sempre propria degl'Italiani, e sebbene, lacrimevole a dirsi, sia la virtù scemata in tutti i luoghi…» [vedi nota 6].
Circa la storia della grandezza italiana, non manca un richiamo a Bologna, vista veramente «felicissima» negli anni della sua prima giovinezza, «ma poi secondo il volgere degli umani eventi coll'andar del tempo men lieta, indi misera, ed in quest'ultimi anni sventuratissima» [vedi nota 7].
Questa lettera di Petrarca (una «uscita sgarbata», la giudica Claudio Mésoniat) è «commentata con un certo imbarazzo e fastidio in un carteggio del 1395 tra il card. Galeotto Tarlati di Pietramala, Nicola di Clamanges e Giovanni di Montreuil» [vedi nota 8].
La lettera delle «Senili», IX, 1 che abbiamo finora ripreso, ha un antefatto da ripescare. Nel 1366 [vedi nota 9], il 29 giugno, Petrarca aveva indirizzata allo stesso Urbano V (eletto il 28 ottobre 1362) una prima epistola, che leggiamo come unica del VII libro delle «Senili», il cui titolo è: «Ut Romam Ecclesiae sedem repetat, hortatur» («Caldissimamente esorta il Pontefice che, lasciato Avignone, riporti a Roma la sedia papale», traduce Fracassetti [vedi nota 10]).
Petrarca è poi informato dal segretario apostolico Francesco Bruni che il Pontefice aveva ben accolto quel messaggio [vedi nota 11].
Pure la seconda lettera che abbiamo visto (Senile IX, 1) fu «accolta dal papa con molto favore» [vedi nota 12].


Nota 1. Cfr. l'edizione delle «Senili» curata da G. Fracassetti, II, Le Monnier, Firenze 1870. pp. 1-35. Testo latino: «Reduc ecclesiam tue creditam custodie in antiquos mores, quam in sedes pristinas reduxisti, ut undique fiat irreprehensibilis et qualis olim fuit toto orbe venerabilis esse rursus incipiat, ac dilecta, quod diu certe non fuit, eorum pace dixerim qui in culpa sunt. Tu ad hoc natus ministerium gloriosum imple feliciter. Admone cardinales tuos omnes ac singulos ut meminerint se esse mortales, ne semper delitias, sed quandoque mortem cogitent et eternam vitam; figant oculos, videbunt nichil stare, sed brevia et vento velociora omnia totumque quod hic vivitur anceps, varium, tremulum, caducum, ubi curis inanibus et fallaci spe quasi in solido pedem ponunt rerumque contemptibilium curiositate ridicula conflictantur». Il testo latino di tutte le citazioni di questa «Senile IX, 1» è leggibile ad es. nell'edizione dell'Opera omnia di F. Petrarca, S. Henricpetri, Basilea 1581, pp. 874-884. Si tratta di un volume unico. L'ed. precedente del 1554, con lo stesso stampatore di Basilea, è in due tomi: nel secondo di essi troviamo l'epistola «Senile IX, 1», pp. 933-944. Entrambe le edizioni dell'opera petrarchesca uscite a Basilea, sono a cura dell'umanista Johannes Herold, 1511-1570.

Nota 2. Un particolare che riguarda il nostro Cardinal Galeotto: egli «non usciva mai con meno di trenta scudieri e dodici familiari di cappa». Cfr. G. Franceschini, «Alcune lettere del Cardinale Galeotto da Pietramala», in «Italia medievale e umanistica», VII (1964), pp. 375-404, p. 381. Qui leggiamo di una lettera del segretario pontificio Francesco Bruni, in cui si scrive al proposito delle spese per scudieri e familiari: Galeotto «è grande e gentile uomo e grande signore e non ha da potere mantenere suo stato».

Nota 3. Testo latino: «Audire michi videor cardinalium blanditias ac susurros ex condicto sacratissimis tuis auribus ingestos, ut ab incepto dehortarentur teque inde retraherent quo cuntantem urgere affusi ac supplices debuissent».

Nota 4. Testo latino: «Proinde ut breviter summa perstringam, de rebus ac gloria italorum et gallorum quidve inter utrosque intersit adeo notum est ut dubitari nequeat ab homine cui historiarum notitia ulla sit. Nam de ingeniis disceptare ridiculum, libri extant veri testes».

Nota 5. Testo latino: «Nullus est gallicus, nullus doctus in Gallia. Ius utrumque quo utimur itali condidere, conditumque itali exposuere, ita ut horum nichil aut perexiguum exteris cedat, et in altero quidem longe grecos itali superant, de altero nemo est qui litiget. Oratores et poete extra Italiam non querantur, de latinis loquor, vel hinc orti omnes vel hic docti».

Nota 6. Testo latino: «De moribus vulgaribus fateor gallos et facetos homines et gestuum et verborum lenium, qui libenter ludant, lete canant, crebro bibant, avide conviventur. Vera autem gravitas ac realis moralitas apud italos semper fuit. Et licet, quod flebile damnum est, virtus toto orbe decreverit, sique tamen eius sunt reliquie, in Italia, nisi fallor, sunt, siquid est perversi moris, inter ipsos est; nusquam advene tanto sunt in honore».

Nota 7. Testo latino: «Quid Bononiam tuam loquar? quam supradicti principis etate felicissimam dictam invenio, quamque ego siqua in terris est felicitas vere felicissimam puer vidi, deinde, ut retrograde res mortalium sunt, lapsu temporis felicem, post et miseram, ad extremum per hos annos proximos miserrimam vidimus, nunc te auspice felicitati sue redditam videmus».

Nota 8. Cfr. C. Mesoniat, «Poetica teologia: la "Lucula noctis" di Giovanni Dominici e le dispute letterarie tra '300 e '400», Roma 1984, p. 41. Qui si rimanda a D. Cecchetti, «Petrarca, Pietramala e Clamages. Storia di una “querelle” inventata», Parigi 1982. Di questo volume, nella recensione firmata da Paola Trivero in «Romanische Forschungen», n. 96, 1984, pp. 228-231, si legge la ricostruzione storica della polemica nata dall'espressione cit. del Petrarca: «Oratores et poetae extra Italiam non querantur» nella lettera del 1368. Il Cardinal Galeotto, «personaggio influente della curia avignonese», e Nicolas de Clamanges, «all'epoca rappresentante di spicco della cultura universitaria parigina», si sarebbero scambiati il breve carteggio di tre lettere. Galeotto si complimenta con Clamanges per il suo stile, facendo «riferimento allo sprezzante giudizio che Petrarca aveva formulato sui francesi.
Nicolas de Clamanges, in una replica che occupa due lunghe lettere, non solo costruisce un vero e proprio “pamphlet” antipetrarchesco, ma dopo aver illustrato la sua concezione della letteratura, celebrata in una prospettiva ciceroniana come supremo conforto della vita, e offerto una normativa retorica, innovatrice in senso umanistico, traccia una storia delle “humanae litterae” dall'antichità ai suoi tempi, facendo iniziare la rinascita delle lettere in Occidente dal XX secolo francese…».
Le due lettere di Nicolas de Clamanges (1394-1395) sono al centro di un vecchio studio (1914) curato da R. Sabbadini ed apparso a Firenze con il titolo «Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV. Nuove ricerche». Qui si legge di Nicolas alle pp. 74-75: «A dodici anni si recò allo Studio di Parigi, dove compiuti i corsi elementari s'inscrisse nel 1375 alla facoltà di arti, ottenendovi la licenza l'aprile del 1380. Immediatamente dopo frequentò la facoltà teologica, ma non vi consegui che il solo grado di baccelliere. Vestì l'abito ecclesiastico, e nel 1395 fu creato canonico e decano di S. Clodoaldo della diocesi di Parigi. Questa prima parte della sua vita egli trascorse nello Studio parigino, nel quale insegnò arti dal 1381 al 1397. Col 1397 s'inaugura un nuovo periodo della sua vita, poiché il 16 novembre di quell'anno fu assunto all'ufficio di scrittore apostolico da Benedetto XIII, che lo investì inoltre di un canonicato a Langres. Alla corte di Avignone rimase un decennio. Nel 1407, alcuni mesi prima che scoppiasse la nuova bufera con la scomunica lanciata da Benedetto XIll contro il re di Francia, il Clémangis s'era allontanato dalla curia, ritirandosi per alcuni mesi a Genova».
A pag. 76 troviamo: «Il Clémangis è sostanzialmente un autodidacta. Quando egli difende dall'accusa del Petrarca la cultura francese del suo tempo, esce in questa affermazione: "in Studio Parisiaco (vidi) etiam sepe Tullianam publice legi rhetoricam, sepe item privatim, nonnunquam etiam Aristotelicam. Poete vero summi et optimi Virgilius atque Terentius illic etiam sepe leguntur". Vero è che egli parla solo dell'oratoria e della poetica; ma anche ristretto a queste due discipline, l'elenco di quei quattro autori è ben meschina cosa rispetto alle vaste e scelte cognizioni che sera procacciate il Clémangis».
Infine a pag. 77 si legge che le due lettere di Nicolas «sono indirizzate a un italiano, al suo protettore il cardinale Galeotto di Pietramala, il quale non si sapeva dar pace che un francese, il Clémangis, potesse essere tanto colto e scrivere cosi elegantemente senza aver frequentate le scuole italiane».
Tornando alla recensione di Paola Trivero, significato è il suo giudizio positivo sul libro di Cecchetti, che «costringe a ridimensionare il ruolo dei letterati parigini nella riscoperta dei classici» (p. 231), dimostrando che le lettere di Clamanges sono «un rifacimento di trent'anni posteriore al testo primitivo». Ed in quei trent'anni «avvengono fatti come l'incontro dell'intellettualità francese e italiana a Costanza».
Cfr. pure Noël de Fribois, Abregé des croniques de France, a cura di K. Daly, Parigi 2006, pag. 186 nota 1. Per una breve biografia di Nicolaus de Clamengiis, cfr. A. Thomas, De Joannis de Monsterolio vita et operibus, Torin, Parisiis 1883, pp. 86-87.
Nel cit. Franceschini, p. 386, si ricorda che Galeotto da Pietramala influenzò il nascente Umanesimo francese: si veda al proposito la bibliografia presentata alla nota 3 della stessa pag. 386.
Sul libro di D. Cecchetti, «Petrarca, Pietramala e Clamages. Storia di una “querelle” inventata» si veda pure la recensione molto positiva di R. Jacoff, in «Speculum», 60, 1985, The Medieval Academy of America , p. 216. E la cit. a p. 127, nota 98, del volume «Vestigia. Studi in onore di Giuseppe Billanovich», Roma 1984, in un saggio di C. Bozzolo, Laurent de Premierfait et Térence, pp. 93-130. Alla stessa autrice si deve, in «Un traducteur et un humaniste de l'époque de Charles VI, Laurent de Premierfait», Sorbona, Parigi 2004, il saggio introduttivo (pp. 17-179) dove ripetutamente si parla del testo di Cecchetti: cfr. 25-26, 73, 159, 165, 177. extra

Nota 9. La lettera contiene un passaggio, «E con questo proposto stetti tre anni aspettando» («haec cogitans toto triennio expectavi»), che chiarisce circa la data di composizione erroneamente posta talora nel 1368. La data del 29 giugno 1366 va integrata con quanto si legge in Wilkins, p. 241: il Petrarca verso la fine di giugno la riprende in mano scrivendo «un'aggiunta che è quasi lunga quanto la parte principale» che aveva già composto. La lettera, scrive U. Dotti, Vita di Petrarca, 2004, p. 383, è consegnata al corriere soltanto il 17 agosto successivo.

Nota 10. Cfr. il vol. I della cit. ed. Fracassetti, Le Monnier, Firenze 1869, pp. 379-435. Nella cit. edizione dell'Opera omnia di F. Petrarca, cfr. alle pp. 811-827.

Nota 11. Cfr. Ricci, Miscellanea petrarchesca, Roma 1999, p. 115. Qui si trova l'analisi della cronologia delle citt. due Senili del libro IX, risalenti al 1368, cfr. pp. 113-115.

Nota 12. U. Dotti, Vita di Petrarca, 2004, p. 398.



15C. Bartolomeo Mezzavacca e Lodovico Donati.
A guidare i cardinai ribelli sarebbe stato il Cardinale Bartolomeo Mezzavacca, Vescovo di Rieti, denunciato dai sei colleghi arrestati. I quali, sottoposti a tortura, confessano che «si sarebbero dovuti recare al concistoro nel castello di Nocera, ciascuno con dodici familiari nascostamente armati, per catturare il papa con la complicità del Mezzavacca e dei reali napoletani e condannarlo al rogo dopo un rapido giudizio». [Cf. la voce Mezzavacca, Bartolomeo, DBI, 74, 2010, a cura di S. Fodale.]
«Con altri quattro cardinali residenti alla corte napoletana, Pileo da Prata, Landolfo Maramaldo, Luca Gentili e Poncello Orsini», nell'estate 1385 promuove «una dichiarazione di disobbedienza a Urbano VI, che fu trasmessa al clero romano e che ribadiva le tesi della follia del papa (sostenuta anche in uno scritto del 25 marzo) e della sua eresia» [cfr. il cit. Fodale, Mezzavacca, B., DBI 74: «Non ha alcun riscontro l'affermazione che fuggisse ad Avignone da Clemente VII. Fu riabilitato da Bonifacio IX» nel 1389.]
Mezzavacca è ben conosciuto da Urbano VI che lo ha voluto nella delegazione inviata a trattare con «Carlo III d'Angiò Durazzo per l'investitura del Regno di Sicilia, concessa il 1° giugno 1381» [cfr. il cit. Fodale; altrove si legge che Mezzavacca «avea oprato al rovescio», persuadendo il re di Napoli a non fare nulla, «ed erasi rimaso col Regnante medesimo»: cfr. L. A. Anastasio, Istoria degli antipapi, II, Stamperia Musiana, Napoli, 1754, p. 180].
Della delegazione faceva parte pure il nostro Galeotto Tarlati di Pietramala, allora protonotario apostolico. Mezzavacca, è «fulminato dall'ira del pontefice per non avere corrisposto al suo desiderio nella missione affidatagli presso il re di Napoli all'effetto di indurlo a cedere il ducato di Capua e di Amalfi a Francesco da Prignano», il ricordato nipote di Urbano VI, e pertanto fugge ad Avignone [O. Scalvanti, Il giuramento di Baldo degli Ubaldi a Urbano VI, Bollettino della Deputazionedi storia patria per l'Umbria, IX (1903), p. 13].
Muratori [Annali, XII, Pasquali, Milano 1753, p. 305], narrando gli eventi del 1383, scrive che Urbano VI «sì pieno di pensieri secolareschi era uomo cocciuto, né volea consigli, né chi gli contradicesse». Secondo Franco Gaeta [F. Gaeta, Il tramonto del Medioevo, ne «La crisi del Trecento», Bergamo 2013, p. 286], Papa Urbano VI era dotato di un carattere non duttile, ed aveva grande pratica degli affari di Curia, dove era stato a capo della cancelleria di Gregorio XI (Pierre Roger de Beaufort, eletto nel 1370): «ma tutta la sua lunga carriera di Curiale in Avignone evidentemente non aveva insegnato molto a quest'uomo, a meno di non pensare a un brusco, improvviso mutamento di carattere provocato da un delirio di potere».
Dopo l'elezione, Urbano VI pronuncia «una furibonda requisitoria contro la corruzione di cardinali e di prelati». Che insulta pubblicamente con epiteti violentissimi, e colpisce mediante provvedimenti che intaccano i loro privilegi e le loro entrate. Minaccia di scomunica i simoniaci. Richiama i vescovi al dovere di risiedere nelle loro diocesi. Tenta di abbassare l'autorità del collegio cardinalizio nel governo della Chiesa.
Sono tutti «elementi di rottura» che preludono allo scisma. I cardinali francesi prima contestano la sua elezione il 16 luglio 1378, ad Anagni, poi a Fondi, in territorio angioino, il 20 settembre eleggono Clemente VII, Roberto di Ginevra, che si trasferisce ad Avignone nel giugno dell'anno successivo.

Lodovico Donati, dell'Ordine dei Minori ed uno dei «fondatori dello studio teologico dell'università di Bologna», merita un ricordo particolare [G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, V, Società tipografica, Modena, 1775, pp. 129-130]. Dapprima subentra al Generale dell'Ordine stesso, Leonardo Giffone, dichiarato decaduto da papa Urbano VI in quanto schieratosi con l'Antipapa, poi è nominato Cardinale. Quando fallisce la missione affidatagli da Urbano VI presso il re Carlo di Durazzo, «cominciò a decader dalla grazia del sospettoso Pontefice, e molto più allor quando egli con cinque altri de' suoi colleghi gli venne accusato di aver ordita congiura contro di lui». E quindi «insieme con quattro altri cardinali fu per ordine di Urbano ucciso in Genova nel 1386», il 15 dicembre. I cardinali congiurati erano Pietro Tartaro di Rieti, loro ispiratore, Giovanni di Santa Sabina, Bartolomeo di San Lorenzo in Damaso, Gentile Sangro e Marino del Giudice (F. A. Becchetti, Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa, I, Fulgoni, Roma 1788, pp. 121-122)

NOTE.

Tiraboschi indica come fonte Oderico Rinaldi, nei cui «Annales ecclesiastici» (Roma 1567) leggiamo un brano ripreso da altra fonte (Gobelinus Persona [1358-1424], «Cosmodromium, Chronicon universale», Marnium-Aubrium, Francoforte, 1599, p. 267): «Dominus Papa recessit de Ianua, et in recessu quinque Cardinales, quos usque tunc in careribus detinuit, ibidem mortuos reliquit, sed quomodo, aut quali morte vitam finierint, non plene mihi constat».

La voce dedicata a Marino del Giudice nel DBI, vol. 36 (1988), si conclude con questa frase: «Allorché il 16 dicembre Urbano VI lasciò la città con la Curia pontificia, il D. e gli altri quattro cardinali ancora prigionieri non erano più con lui. La loro sorte è oscura. Corse voce che prima della partenza fossero stati fatti uccidere dal papa». Insomma, resta valida la ipotesi (anzi, tesi) di Gobelinus.


15d. Cleofe Malatesti.

Cleofe Malatesti di Pesaro «visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito» (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425), sposato il 19 gennaio 1421. Nel 1782 Annibale Degli Abati Olivieri Giordani per primo ne rivela la drammatica vicenda pubblicando la lettera inedita inviata nel 1427 da Battista di Montefeltro (1384-1448) a Martino V, Oddone Colonna, per invocarne un intervento «in difensionem» della propria cognata. Malatesti e Montefeltro sono imparentati con il papa tramite due sue nipoti: Vittoria Colonna nel 1416 ha sposato Carlo, fratello di Cleofe; Caterina Colonna dal 1424 è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro (1377-1443), fratello di Battista. La prima consorte di Guidantonio era stata, dal 1397 al 1423, Rengarda, figlia di Galeotto I Malatesti (1299-1385) di Rimini.
Battista, dotta e coraggiosa, è divenuta moglie di Galeazzo Malatesti (1385-1448) fratello di Cleofe nel 1405. Nel 1416 Galeazzo e Carlo Malatesti (1368-1429) di Rimini, fratello di Rengarda, sono stati catturati da un capo-brigante, Braccio di Montone (1368-1424) figlio del nobile perugino Oddo, ingaggiato da Giovanni XXIII, l'antipapa dalla tempra di condottiero spietato degna d'un principe laico. Per ottenere la loro liberazione la moglie di Carlo di Rimini, Elisabetta Gonzaga, si è appellata ai padri conciliari riuniti a Costanza (1414-1418). La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Da Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio, sono nati il ricordato Galeotto I e Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1322-1364). A costui fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1325-1373) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I «dei Sonetti o Senatore» (1366?-1429), padre di Carlo, Cleofe e Galeazzo. Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe. A consolidare la parentela, oltre agli affari ed alle imprese mercenarie, sono state le due sorelle Da Varano di Camerino: Gentile sposatasi (1367) con Galeotto I, ed Elisabetta moglie di Malatesta I dal 1383.
Per le proprie nozze Cleofe riceve da Martino V la speciale dispensa che le garantisce il rispetto della fede cattolica. Il futuro marito per iscritto il 29 maggio 1419 le promette «libertà di vivere secondo suo rito, e secondo i costumi d'Italia», e completa autonomia circa le funzioni liturgiche. Teodoro viene poi meno ai patti. Battista nel 1427 scrive al papa che Cleofe «a viro suo cogebatur sequi opinionem Graecorum». Le «diuturnae ac incredibiles angustiae» che affliggono Cleofe, preoccupano Battista per la salute spirituale della cognata: «Timendum namque est, ne mens illa, quae invisibili subsidio roborata hucusque incredibili fortitudine immota permansit, deicenps pusillanimitatem deficiat, praesertim si in mediis fluctibus se derelictam senserit, nec saltem sibi manum porrigi sublevatam».
La lettera di Battista di Montefeltro ed il testo di Annibale Olivieri del 1782 finiscono sotto gli occhi di Francesco Gaetano Battaglini (1753-1810) che a Rimini sta preparando una biografia di Sigismondo Pandolfo Malatesti, da inserire nell'edizione dell'«Hesperis» di Basinio Parmense (1794), assieme ad un saggio di suo fratello Angelo Battaglini (1759-1842) sulla «corte letteraria» dello stesso Sigismondo. L'introduzione all'opera, composta da Francesco Gaetano con dedica a Lorenzo Drudi, medico e futuro bibliotecario gambalunghiano (1797-1818), permette di entrare in quella che, per usare il termine caro sia a Roberto Longhi sia a Dante Isella, possiamo definire la loro «officina» letteraria. Dove la figura di Cleofe occupa un posto non secondario, come testimonia il passo in cui Battaglini confida a Drudi: «Ma io debbo pure ricordarmi avere voi preveduto, che alcune notizie che avevamo in pronto, non sarebbero cadute acconciamente nel mio scritto, e che tra l'altre non vi sarebbe caduto di ricordare comodamente quella Cleofe figliuola di Malatesta Signor di Pesaro…».
Battaglini mette a fuoco la vicenda di Cleofe con pochi cenni: «nel 1420 andò maritata a Teodoro Paleologo Deposta della Morea, ch'era figliuolo d'Emanuele Imperatore di Costantinopoli», ma «ella non durò quasi a convivere tranquillamente al marito, non cessando lui di volerla costringere di conformarsi agli errori dello scisma de' Greci».
Battaglini rimanda alla lettera «prodotta dal Signor Olivieri», con cui Battista di Montefeltro si «raccomandava a Papa Martino V» di soccorrere Cleofe «in quelle angustie». Segnalando la novità introdotta dallo studioso di Pesaro con quell'inedito, Battaglini sottolinea come nella vicenda di Cleofe sia centrale la questione religiosa. Alla quale va riferito pure lo stesso progetto delle nozze di Cleofe e Teodoro. Esse non sono l'atto avventato di una famiglia prestigiosa come i Malatesti, ma il risultato di un piano predisposto da Martino V (che scelse «personalmente» Cleofe) per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054.
Battaglini spiega che tra le tante altre notizie che non avrebbe potuto elencare trattando di Sigismondo, c'era quella che Cleofe «infine tornasse a casa». Lasciato il modo verbale della certezza usato nelle frasi precedenti, ricorre ad un congiuntivo con cui ci avverte trattarsi soltanto di una ipotesi. Battaglini non aggiunge altro, confidando nella capacità dei suoi lettori di cogliere il senso di quello scarto stilistico, tanto discreto da poter passare anche inosservato.
Sembra essersene accorto invece Luigi Tonini con l'acribia che gli era propria. Anche se non cita Battaglini, in una breve scheda su Cleofe annota: «Morì nel 1433, dicono in Pesaro». Ciò che invece Tonini tralascia, è la drammatica situazione vissuta da Cleofe, e testimoniata da Battista di Montefeltro a Martino V. Luigi Tonini (morto nel 1874) non poteva ignorare quella lettera «in difensionem» di Cleofe, oltretutto riproposta a Londra nel 1851 dallo scozzese James Dennistoun (1803-1855) e da Filippo Ugolini in un testo edito nella vicina Urbino nel 1859.
La cautela di Battaglini rispecchia le incertezze manifestate dallo stesso Olivieri a proposito di alcuni particolari della vita di Cleofe, quando esamina due passi del Raccolto istorico (1617) del riminese Cesare Clementini (1561-1624), relativi alla data delle nozze di Cleofe: nel primo (II, p, 102) è il 1416, nel secondo (II, p. 208) il 1420. Olivieri spiega che quel 1416 «fu certamente error di stampa», volendosi forse indicare il 1419 sulla scia del «Cangio nelle famiglie Bizantine Hist. Bizant. Tom. XXI, p. 198». Come si è visto la data esatta delle nozze è il 19 gennaio 1421, mentre al 29 maggio 1419 risale la «promessa solenne» di Teodoro a Cleofe per la sua «libertà di vivere secondo il suo rito, e secondo i costumi d'Italia», ed è del 18 agosto 1420 la partenza di Cleofe da Rimini verso Costantinopoli.
Cangio, aggiunge Olivieri, fissa la morte di Cleofe nel 1433, «onde non so da qual cattivo fonte prendesse il nostro Almerici, ch'ella morì in Rimino mentre andava a marito. Ella non morì certamente allora, e non sol visse forse quanto il Cangio scrisse, ma visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito».
Cleofe Malatesti. Documento integrale.
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Antonio Montanari
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