Antonio Montanari
Aurelio De’ Giorgi Bertola. Una nuova biografia
Testo pubblicato ne "Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792" (2000)

"Oh ti potessi vedere con quell’abigliamento grave con cui ti porti alla tua bottega! vorrei darti tanti e poi tanti baci, finché giungessi a farti perdere la tua magistrale gravità... mi fai compassione, ma godo nello stesso tempo della gloria che tu acquisti"

Ricorda Cantimori che "il nostro abate Amaduzzi, amico dei livornesi rieditori dell’Enciclopedia", fin dal 1774 aveva preveduto "fatti strepitosi che avrebbero trasformato tutto il sistema d’Europa" [1]. Due anni avanti la bufera dell’89, Aurelio De’ Giorgi Bertola pubblicava La Filosofia della Storia, un trattato noioso e pedante, in cui spiegava che i governi del tempo avrebbero potuto mantenere "per un giro di secoli" la loro forza e prosperità, perché ormai le "rivoluzioni ordinarie" erano "assai più rare, gagliarde assai meno".

Come attestano anche le lezioni di Storia tenute a Napoli ed a Pavia tra ’81 ed ’86, Bertola credeva, al pari di Amaduzzi, in un riformismo capace di garantire all’Europa un tranquillo sviluppo sociale ed economico. Rispetto ad Amaduzzi, Bertola mancava di uno studio disciplinato che gli offrisse consapevolezza delle tensioni esistenti nella vita politica del loro tempo, quando "un soffio di rinnovamento percorre il vecchio continente" [2]. Bertola ha assorbito le proprie idee più dalle assidue ed estenuanti frequentazioni salottiere, che dall’analisi delle vicende degli ultimi quattro secoli: egli infatti non tratta mai analiticamente del periodo [3] che va dalla rivolta dei Paesi Bassi (1566-81) alla Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776).

La sua formazione era tutta intessuta di eruditi rimandi alla classicità, secondo l’educazione ricevuta prima nel seminario di Todi, dove dalla natìa Rimini nel ’63 (a dieci anni) fu collocato per le scarse risorse economiche famigliari; poi presso il vescovo della stessa città di Todi, mons. Francesco Pasini, suo congiunto. A quindici anni è stato mandato in monastero, a diciassette (dopo un anno di noviziato a Bologna a San Michele in Bosco) ha pronunciato i voti da Olivetano, costretto dalla prepotenza del fratellastro Cesare, e senza che vi si potesse opporre la madre che più tardi invano si sarebbe pentita del proprio agire. E’ stato quindi a Milano, e nel ’72 è tornato a Rimini. Innamoratosi di una giovane corteggiata già quattro anni prima, è scappato dal monastero, e si è arruolato in Ungheria; qui non ha retto alle fatiche della vita militare, per cui è rientrato a Rimini da dove è stato mandato a Siena come Lettore di Italiano.

La sua vera vocazione era la poesia, sin dagli albori dell’adolescenza. Dopo le precoci prove di traduzione dal tedesco a tredici anni, Bertola debutta con plauso universale nel ’74, componendo la prima delle tre Notti Clementine, grazie alla quale stringe amicizia con Amaduzzi [4]. Questi canti a ricordo di papa Ganganelli (completati nel ’75), descrivono in modo quasi impercettibile il maturarsi del suo gusto letterario: abbandonato il modello allora in voga di Edward Young (invocato nella prima Notte come musa e testimone della novità italiana di quest’opera), egli ripropone senza clamore gli esempi più severi della nostra grande tradizione. Accanto ad un marcato interesse verso la poesia civile di stampo pariniano, Bertola manifesta uno spirito dantesco che, tra l’altro, lo porta a chiudere la triade con l’immagine dei "chiari più dell’usato" raggi del sole, in opposizione alla lugubre scena che l’aveva introdotta [5]. È un’esperienza che resta sterile. Appena riscossi i plausi per questa poesia sacra, sùbito Bertola si getta a comporre il libretto erotico di Versi e Prose (1776), che gli darà fama duratura e che, per un abbaglio carducciano, sarà considerato non il frutto elegante di ardori giovanili, ma il tardivo "sdrucciolare nell’oscenità velata o aperta" [6].

Dal ’76 all’83, mentre insegna Storia e Geografia all’Accademia navale di Napoli, Bertola intreccia "fortunati amori" con le belle dame della corte di Ferdinando IV e Maria Carolina: lui "rozzo e scioperato" sempre "in compagnie di lazzaroni e di donnacce" [7]; lei, figlia di Maria Teresa d’Austria e futura sanfedista, era invece "colta, parlava più lingue, sapeva di filosofia, accennava perfino a riforme sociali e frequentava la massoneria, vezzo quest’ultimo di gran moda tra gli intellettuali dell’epoca" [8]. Nel ’77 Bertola s’ammala gravemente "di petto", e confessa di essere un "solitario infelice" vicino alla morte. L’anno dopo vorrebbe cambiar vita: ammogliarsi, o tutt’al più lasciare il chiostro ed andare a Malta, nella Cappelleria reale. "Fissatevi una buona volta seriamente", gli scrive Amaduzzi il quale svolge nei suoi confronti il ruolo di consigliere spirituale (tanto ricercato per quanto inascoltato), che gli deriva dall’essere più anziano di tredici anni.

Nel ’79, anno in cui pubblica le Poesie campestri e marittime, confida ad Amaduzzi: "Oggi sono in uno stato, che mi nuoce esser poeta" [9]. Sa che la nuova cultura richiede dagli intellettuali un impegno diverso dal produrre versi encomiastici o d’amore. Ma questa convinzione nasce soprattutto da una variabilità di umori, dimostrata da Bertola in ogni atto della sua vita, e dovuta forse alla solitudine che lo ha segnato fin dalla forzata monacazione [10]. Egli cerca di reagirvi ribellandosi a regole e convenzioni, in nome di una natura roussonianamente buona che tutto fa lecito. Le necessità pratiche lo costringono a sottostare con molte difficoltà ai galatei mondani ed alle convenienze pratiche.

Nell’83 torna a Rimini oppresso dai debiti con la Camera Regia Napoletana. Ad Amaduzzi si confessa "dissipato" da quella voluttà di cui si era fatto banditore con Versi e Prose teorizzando:"Siamo nati per i piaceri; ad essi mirano indistintamente tutte le nostre azioni" [11]. Rinuncia all’idea di chiedere l’annullamento dei voti, dopo aver constatato i costi economici e le difficoltà burocratiche da affrontare. Si accontenta della licenza di poter vestire l’abito di prete secolare. Abbandona così quel lungo mantello bianco che tanto fascino aveva esercitato sulle sue infinite amanti [12], le quali concordano anche su un altro punto, quando all’unisono lo definiscono "volubile".

Il suo naturale lo portava a vedere il trionfo della felicità nell’appagamento continuo ed immediato dei sensi. Egli non sa trovare accenti diversi neppure per la veronese Elisa Contarini in Mosconi (che nell’85 gli dà una figlia, Lauretta): con lei, si era fatto pedagogo mostrandole filosoficamente nell’eros l’unica via di salvazione. Lei non dovette faticare molto a percorrerla, come allieva diligente di così insinuante maestro che sentenziava: "Pensa che tutta è pene / La vita e che un sol bene / Se togli Amor, non ha".

Nell’83 Bertola scappa per nove mesi a Vienna, dove è Nunzio apostolico il riminese monsignor Giuseppe Garampi che ottiene per lui l’insegnamento di Storia all’ateneo di Pavia, e che teme per la sua inquietudine: se non cambierà, "si rovinerà per sempre anche presso di quegli, che di più sono stati gli autori dell’odierna sua collocazione, non che presso il Pubblico" [13]. Vienna, agli occhi di Bertola, rappresenta il simbolo della cultura tedesca alla quale guarda da sempre con un’attenzione speciale: nel ’77 ha tradotto gli Idilli dello zurighese Salomone Gessner, due anni dopo ha licenziato l’Idea della poesia alemanna, ampliata nell’Idea della bella letteratura alemanna (’84).

La penna di Bertola è instancabile e miete allori: nell’83 compone le Favole, nell’85 le Lettere campestri e nell’89 un Elogio di Gessner, per limitarci alle opere più importanti [14]. Le lezioni all’ateneo pavese assorbono molto del suo tempo. La Mosconi se lo immagina all’università, "con quella lunga toga e quel collare, in aria di gravità leggere posatamente con (non sonora) ma piccolina voce" i fogli preparati con grande cura: "oh poverino! con quel musetto da baci tanto carino, farai ridere a parlar di cose sì gravi". Oppure se lo figura "coll’orologio alla mano, misurare le pagine co’ minuti", per occupare giustamente lo spazio di un’ora: "Oh ti potessi vedere con quell’abigliamento grave con cui ti porti alla tua bottega! vorrei darti tanti e poi tanti baci, finché giungessi a farti perdere la tua magistrale gravità: quanto allora con quell’aria soave e passionata, ch’è proprio caratteristica dell’incantatrice tua fisionomia, faresti più colpo sull’animo stesso de’ tuoi scolari! Infelici! non ti conoscono nel tuo vero punto, e non vi è che la tua B[etti]na che potesse a’ loro occhi svelare tutte le grazie del tuo volto! Povero B[ertòla]! quante fatiche, quante seccature! rifuse [‘contestate’, n.d.r.] ancora le tue lezioni? mi fai compassione, ma godo nello stesso tempo della gloria che tu acquisti" [15].

L’attività letteraria di Bertola comprende anche le Osservazioni sopra Metastasio (’84), il Saggio sopra la favola (’88) ed il Saggio sopra la grazianelle lettere e nelle arti [16].
Per acquistare "forza alla salute e lumi pel suo spirito", come spiega la Mosconi, Bertola viaggia di continuo. In Svizzera conosce Gessner, con cui ha un incontro strano: si finge un amico che ne portava i saluti. Sembra di rivivere l’episodio di Tasso che si presentò sotto mentite spoglie alla sorella, annunziandole la propria morte. Alla Mosconi, nel leggere una biografia dell’autore della Gerusalemme, è parso "di trovare tanti tratti di rassomiglianza" in comune con il poeta riminese. Non aveva torto, così come non sbagliava a rimproverare all’amante una "naturale ferocia" [17], interpretabile come risvolto di un narcisismo che, traslato dalla letteratura alla vita, faceva dell’Io il supremo regolatore di ogni rapporto sociale.

All’atto di partire da Verona per Vienna nel luglio ’83, Elisa Mosconi lo ha fornito di una commendatizia per un amico: "Vous n’entenderez jamais un Poëte le plus gracieux, spirituel, tendre ed délicat. […] La tournure de son ame est faite exprés pour aducir les cœurs les plus féroces. […] C’est un veritabile aimant qui s’attire par ses talents, par les graces de sa figure et de sa société l’estime, l’admiration et l’affection des hommes et des femmes ensemble". Tenero e delicato, il nostro abate alla Pontebba, vicino a Tarvisio, abusa di una tredicenne presso i cui parenti è ospite [18].

Il pellegrinare è per Bertola la metafora esistenziale di una continua fuga da sé stesso, alla ricerca di un ubi consistam più illusorio per lui di un giuramento d’amore. E proprio da un itinerario percorso nell’87 in Svizzera e Germania, nasce lentamente il suo capolavoro, il Viaggio sul Reno e ne’ suoi contorni. Su ogni tappa invia una relazione alla contessa cesenate Orintia Romagnoli in Sacrati, un’amica più giovane di lui di nove anni: sono pagine che appaiono nel ’90 sulla Biblioteca fisica d’Europa, e che formeranno il volume pubblicato a Rimini nel ’95 con dedica alla stessa Orintia [19]. Sarà un successo in tutt’Europa, soprattutto presso le nuove generazioni : "per temi e moduli di prosa poetica", il Viaggio sul Reno diviene "uno dei testi fondamentali dell’ultimo Settecento italiano"; esso esalta la dolce, soave malinconia "in una direzione di blando e raffinato preromanticismo" [20].

Nel novembre ’93 proprio a Verona, mentre è ospite della Mosconi divenuta semplice testimone di una passione archiviata per sempre, Bertola avverte i primi sintomi della malattia che lentamente lo stacca dall’attività docente. Per tutto il ’94 non può lasciare Rimini, e cura i restauri al "nido" di San Lorenzo in Monte, cioè il casino di campagna sulle colline della città, acquistato in marzo grazie all’aiuto economico di Orintia. Nell’estate ’95 si allontana soltanto recandosi "a Venezia per consultare que’ Professori nel timore di patir di renella": non era quello il vero male che lo molestava, ironizza Pindemonte che accenna alla passione dell’amico verso Isabella Teotochi [21].

Tornato "in patria" il 29 ottobre, Bertola chiede alla Conferenza Governativa di Milano un’altra licenza a passar l’inverno lungi da Pavia, con un certificato medico il quale attesta che il poeta non avrebbe potuto applicarsi senza grave danno "e nemmeno affacciarsi a un clima più rigoroso". Lo stesso giorno Bertola implora "pietà" dal plenipotenziario imperiale conte Johann Joseph Wilczeck: "Son presso a vedermi nella mendicità". Per timore della giubilazione, già ordinata dalla Conferenza Governativa, chiede un impiego diverso dalla Cattedra, ricordando che quanto percepiva non gli bastava "a vivere": "Oltre alla salute", aggiunge, "potrei accennare altri titoli; i servizi in biblioteca senza soldo, il servizio prestato con somma cura nelle Scuole Minori, e le diverse opere pubblicate ecc." [22].

Nelle carte bertoliane c’è un silenzio che dal 29 ottobre ’95 giunge al 14 maggio ’96, data di un’altra lettera di Pindemonte [23], nella quale leggiamo che al riminese era stata tolta la pensione dell’Università. L’11 ottobre ’96 Bertola riprende a compilare un Diario inedito [24] in cui registra, oltre agli spostamenti di luogo ed alle spese sostenute, anche le lettere spedite, con il nome del destinatario e, quasi sempre, un brevissimo sunto di ogni epistola. Queste poche pagine, sempre trascurate per la loro schematicità ed il nullo valore letterario, hanno un grande significato biografico.


Il 21 ottobre egli parte in diligenza da Rimini e fa tappa ad Imola. Il giorno seguente raggiunge Bologna, dove si ammala e rimane fino al 2 dicembre. A molti dei suoi corrispondenti Bertola lascia credere di aver abbandonato Rimini per recarsi a Pavia, allo scopo di ottenere nuovamente la pensione e di riscuoterne gli arretrati. La verità è un’altra. Nel Diario del 1° novembre leggiamo: "non potea più restare in patria; né poi maneggiarmi: venuto qui [a Bologna, n.d.r.]per poi passare a Firenze a passare il verno". Nel progetto di Bertola, la Firenze governata da Ferdinando III di Lorena (fratello dell’imperatore d’Austria Francesco II), doveva essere soltanto una tappa intermedia di un viaggio da concludere a Vienna. Egli cercava di sottrarsi al clima politico creatosi all’interno dello Stato della Chiesa dopo l’armistizio con Napoleone del 23 giugno ’96: il 4 ottobre il Pontefice ha chiamato a raccolta i sudditi "a difesa dei suoi Stati"; il 18 da Forlì è cominciata in tutta la Romagna la cattura dei giacobini, portati il 19 a Rimini e di lì nel forte di San Leo. Anche Bertola correva il rischio di essere incarcerato nella caccia ai sostenitori del partito oltremontano, per la nomea di "illuminato" acquisita dopo i due discorsi massonici di Milano dell’88, che però nulla ebbero di rivoluzionario sia nelle intenzioni sia nelle parole [25].

È in questo scenario che egli tenta di "passare il verno" a Firenze, per stare lontano dalla Romagna e dalla Lombardia. Ma il destino vuole che la malattia lo blocchi in quella Bologna che dal 16 ottobre fa parte della Cispadana. Alla Sacrati il 2 novembre scrive: "che mi procuri il sussidio; e torno al nido; ma nell’incertezza m’espongo alla mendicità". Il tipografo-libraio veneziano Giacomo Storti [26] rimprovererà a Bertola di non esser passato allora da Bologna a Padova, dove stazionava l’armata austriaca: di lì avrebbe potuto facilmente raggiungere Vienna [27].

Nel Diario il 13 novembre si legge una risposta inviata ad Orintia: "Su le ragioni del mio partire: nessuno può accusarmi d’aver mancato né qual cattolico né qual suddito. Dunque son tranquillo". Il 28 c’è un lungo passo che inizia con il riassunto di una lettera della stessa Sacrati, "che contiene: "Di tornare al casino; che bisogna dar prova di sentimenti, né basta averli: […] di ricorrere a Vienna per mezzo di M[onsigno]r Albani, cui scriverà essa"". Bertola riporta di seguito la risposta ad Orintia: a Pavia, su trentadue docenti, ne sono tornati venti, anche lui dovrebbe presentarsi; "per Vienna è vano; avendo io tentato: fino alla pace non si vuol dar nulla agli impiegati: ma e della pensione a cui ho diritto ora ancor più di prima? Per pietà me la ottenga. Sono senza un soldo. […] Quella piccola pensione mi basterà fino a miglior sorte". Il rientro di Bertola al "nido" di San Lorenzo, è avvenuto per le premure della contessina cesenate che seguiva il poeta con una pietà filiale, succeduta all’invaghimento tipico in tutte le fanciulle più o meno in fiore che lo avvicinavano [28].

L’ultimo giorno del ’96 Bertola ringrazia il Cardinal Legato di Romagna, "così umano e caldo protettore delle lettere e di chi le coltiva", per la benignità accordatagli con prove "generose" [FGG]. Il 15 gennaio ’97, assieme al comandante delle truppe pontificie generale Michele Colli, Bertola fugge a Roma per sottrarsi "all’imminente pericolo di esser arrestato e condotto in assai miser luogo, come uomo di opinioni infette e perverse" [29]. Egli si considera oggetto di "una persecuzione del Governo Romano" e si dichiara sicuro della propria innocenza [30]. A Roma soggiorna un mese. Poi va in Toscana, dividendo "due mesi fra Siena e Firenze", dove riabbraccia "tanti amici non più veduti da 22 anni addietro"; infine, sofferente di aneurisma, "sul finire di aprile" torna a San Lorenzo [31]. A Milano le "strane vicende" [32] di Bertola suscitano dubbi sul suo comportamento, a quanto pare considerato poco entusiasta se non ambiguo.

Il 26 aprile egli è nuovamente a Rimini. La Romagna è in mano delle truppe napoleoniche da quasi tre mesi. Anche per lui viene l’ora di infranciosarsi. Quanta cum voluntate possiamo intuirlo da molte lettere inedite e dalle pagine del Diario [33] che ci documentano la sua disperata ricerca di sostegno economico. Gli amici intervengono presso l’amministrazione francese, procurandogli due incarichi remunerati [34]: a maggio, la stesura di un Piano dell’educazione letteraria per l’Amministrazione Centrale romagnola [35], ed in agosto la redazione delle Letture istruttive per il popolo dell’Emilia [36], il cui primo numero esce il 29 settembre.

Il 3 giugno Bertola ringrazia il Comandante della Romagna generale Sahuguet per aver voluto con delicatezza "relever par un soutien permanent une triste existence" [37]. Dopo parole di riconoscenza, egli augura al generale gloria e felicità, associandosi all’omaggio di tutta la provincia, "heureuse vraiment de voir se realizer en son faveur le plus beau des réves politiques, le pouvoir entre les mains de la philosophie". In Bertola sembrano riaffiorare quei pensieri che avevano alimentato la sua fiducia nel riformismo dei sovrani illuminati. Sarebbe troppo facile sottolineare lo stridente contrasto tra quei pensieri e la realtà determinata dalle truppe napoleoniche, se non pensassimo al valore formale di questo documento che è un ringraziamento per quanto concesso, non una pagina di filosofia della Storia.

In ottobre la Cisalpina gli accorda la giubilazione, dopo aver soppresso la sua cattedra pavese per risparmiare nelle spese. A metà gennaio ’98 con il concittadino Nicola Martinelli (suo parente e protettore, oltre che abile diplomatico ascoltato non soltanto presso i francesi), Bertola si reca a Milano [38], la città in cui durante gli anni dell’insegnamento pavese ha abitato in contrada de’ Bigli. Si ammala nuovamente. Deve subire cinque cavate di sangue. Tra fine marzo ed inizio aprile, ritorna a Rimini, a San Lorenzo. Il poeta è gravemente infermo, e Francesco Martinelli (fratello di Nicola) si offre di ospitarlo nel proprio palazzo, dove Bertola si trasferisce tra il 17 ed il 22 giugno. Alle cinque del pomeriggio del 30, muore. Nella stessa sera il suo corpo viene trasportato "privatim" nel vicino Tempio Malatestiano [39]. Il 1° luglio è sepolto nella tomba degli avi [40], con una cerimonia frettolosa e senza pompe per motivi politici: Bertola ha servito i nemici della Chiesa i quali, instaurata la Repubblica a Roma, hanno costretto Pio VI a lasciare la sede apostolica il 20 febbraio.

Nel primo dei suoi scritti per le Letture, egli si era illuso che la condotta dei repubblicani francesi fosse "mirabilmente in armonia colla religione de’ nostri Padri": aveva inquadrato il discorso politico particolare in quello filosofico più generale, ricordando (con lo stesso ottimismo degli scritti di dieci anni prima), che "la natura tende invariabilmente a un ordine fisso e conservatore", lo stesso a cui mirava il "nuovo Governo" della Cisalpina. Nell’ultimo articolo [41] che compone per le Letture prima di morire, Bertola appare un pensatore tutto diverso, più disincantato e problematico, rispetto a quello della Filosofia della Storia. Non è "vano osservare", scrive, come "dagli stessi principj" possano "derivare talvolta conseguenze differentissime; come queste stesse conseguenze finanche sembrino non di rado essere una cagione; come degli avvenimenti contrarj sieno l’effetto degli stessi assiomi; come s’incontrino da per tutto eccezioni, riserve, modificazioni; e come la verità sembri voler più fuggire chi più qui l’insegue".

La ragione gli mostra che la storia e la vita sono un complesso di contraddizioni, alle quali l’uomo non trova rimedio. L’intuizione poetica gli aveva dettato un distico che potrebbe essere il suo doloroso epitaffio: "Sei tu che non sai vivere / E dài la colpa al mondo".


Note al testo
Abbreviazioni usate nel testo: FGG, Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Biblioteca Comunale Gambalunghiana di Rimini; FPS, Fondo Piancastelli, Biblioteca Comunale A. Saffi di Forlì.

[1] Cfr. D. Cantimori, Illuministi e giacobini, in "La cultura illuministica in Italia", Eri, Torino 1957, p. 272.

[2] Cfr. F. Valsecchi, Condizioni politiche e sociali dell’Italia nell’età dell’Illuminismo, ib., p. 59.
[3] Soltanto nel secondo discorso massonico di Milano del 1788 (di cui diremo), Bertola accenna alle "rivoluzioni improvvise che sono già accadute" (per colpa delle "miserie altrui", cioè dei non massoni), ed a quelle "onde siamo minacciati": "È un nembo che s’avanza rapidamente […]; noi lo vedremo avvicinarsi senza temerlo; e lo vedremo dileguarsi senza averlo provato".

[4] Ad Amaduzzi, Bertola dedica una strofa: "Empia Amaduzzi tuo, che ricco spande / E moltiforme di scienza un nembo, / D’Attico pretto mele un nappo, e il mande / A così fausta genitrice in grembo; / Tu spargerai delle nettaree tracce / Al varco trionfale ambe le facce".

[5] Cfr. A. Montanari, Le Notti di Bertola, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Il Ponte, Rimini 1998, p. 47-49. "Tutto m’avvolgo nell’orror del monte / or che la notte precipita giù bruna", è l’inizio della prima Notte.

[6] Il giudizio carducciano è riproposto nel saggio introduttivo ad un’edizione di tali Versi e Prose del 1776, che, curata da L. Tassani (Salerno, Roma 1992, p. 7), ha un titolo esplicito anche per i non addetti ai lavori, di Rime e prose d’amore. Lo stesso Tassani ha inserito alcune liriche bertoliane (cfr. Poeti erotici del ’700 italiano, Mondadori, Milano 1994), in una buona compagnia che, se immortala il nome del Nostro presso un vasto pubblico di lettori, non gli rende giustizia facendone semplicemente un verseggiatore libertino.

[7] Cfr. G. Scotti, La vita e le opere di A. B., Aliprandi, Milano 1896, p. 13. Maria Carolina, nata nel 1767, è sorella di Giuseppe II. Ferdinando IV è nato nel 1759: "ignorante sebbene non privo di buon senso e di perspicacia, dedito ai divertimenti, privo di ideali e con scarso sentimento del dovere; […] per la sua stessa pigrizia, lasciava fare agli altri […] e dipendeva dalla moglie Maria Carolina"; era stato educato da un aio "famoso per la sua ignoranza", il principe di Sannicandro. Così B. Croce nella Storia del regno di Napoli, Laterza, Bari 1966, p. 180 e p. 166.

[8] Cfr. M. A. Macciocchi, L’amante della rivoluzione, Mondadori, Milano 1998, pp. 41-42. Della stessa autrice, si veda pure Cara Eleonora, Rizzoli, Milano 1993, passim.

[9] Cfr. A. Montanari, Le Notti, cit.,p. 43.

[10] Il genio di Bertola "non era fatto per posarsi, ma per volare da un fiore all’altro", il suo carattere "estremamente volubile, aperto ad ogni suggestione, desideroso di mutare luoghi ed incarichi": cfr. A. Fabi, A. Bertola per L. A. Bertozzi, "Studia Picena" 1994, p. 263.

[11] Cfr. A. Montanari, La filosofia della voluttà, A. Bertola nelle lettere di E. Mosconi, Raffaelli, Rimini 1997, pp. 14-15. R. Troiano in Note sulla scrittura al femminile del Settecento, in "Studi in onore di A. Piromalli", ESI, Napoli 1994, scrive che "questa corrispondenza privata, nel suo corpo unitario" è "uno dei più interessanti documenti settecenteschi della scrittura femminile. Se ne avvide per primo il sensibile abate se si preoccupò di conservarla nella sua interezza" (cfr. nota 5, pp. 294-295).

[12] R. Renier ritiene che anche Corilla Olimpica abbia amato Bertola (in Quisquilie corilliane, "Giornale storico della letteratura italiana", 1887, II, pp. 449-452), ma egli scrive sulla scorta di notizie riminesi che parlano di carteggi di donne letterate in generale: "Se Corilla amasse il Bertola […] nol sapremmo affermare" (cfr. C. Tonini, La coltura letteraria e scientifica in Rimini, Danesi, Rimini 1884, II, p. 412n). In una canzonetta in suo onore, Bertola (nei dolenti panni di Saffo) la definisce "delizia / De le italiche arene" che sparge "un nuovo nettare / Tra le festive cene", aggiungendo: "Si sa, ch’estemporaneo / Formar puoi quel concento, / Per cui molt’anni sudano / Cento Poeti e cento".

[13] È un’epistola ad Amaduzzi: cfr. ib., p. 18. Sul viaggio di Bertola nella capitale austriaca, Corilla scrive ad Amaduzzi il 26 agosto 1783: "[…] che cosa vuol fare a Vienna? Ci si vuole stanziare? o tornerà a stare a Roma?": cfr. nel presente testo (vol. II), lettera n. 74.

[14] W. Binni, in un magistrale profilo critico del Nostro, considera "notevoli" le Favole bertoliane (più volte ristampate, ed ampliate): esse "accarezzano con particolare simpatia esseri ed entità naturali semplici e delicati, e svolgono in una simile temperie motivi di bonaria moralità e di galante ironia": cfr. Il Settecento letterario, in "Storia della Letteratura Italiana", Garzanti, Milano 1968, p. 691.

[15] Cfr. nel cit. La filosofia della voluttà, p. 38.

[16] Il Saggio sopra la grazia, composto nell’86, apparirà postumo. Al concetto di Winckelmann della "grazia" intesa come "il piacevole secondo ragione", Bertola contrappone quello del piacevole secondo natura. L. Tassoni, nell’introduzione alle citt. Rime e prose d’amore (pp. 13-16), collega il discorso sulla "grazia" ai temi erotici di queste composizioni.

[17] Cfr. nel cit. La filosofia della voluttà, p. 36.

[18] Ib., pp. 17-18.

[19] Ib., p 75. Bertola parte il 19 luglio e torna il 15 novembre. Oltre allo stesso Viaggio sul Reno, si veda pure A. Bertola, Diari del viaggio in Svizzera e in Germania (1787), a cura di M. e A. Stäuble, Olschki, Firenze 1982.

[20] Cfr. W. Binni, op. cit., pp. 694-695.

[21] Cfr. E. M. Luzzitelli, Ippolito Pindemonte e la fratellanza con Aurelio De’ Giorgi Bertola, Bastogi, Foggia 1987, p. 142.

[22] Cfr. FPS, 63.185.

[23] Cfr. E. M. Luzzitelli, op. cit., p. 143.

[24] Cfr. A. Montanari, Un "Diario" inedito di Aurelio Bertola, "Quaderni di Storia", n. 1, Il Ponte, Rimini 1994. Gli originali del "Diario" sono conservati in FGG, cartella Bertola. Il Diario si compone di tre parti. Le prime due constano di piccoli fascicoli, la terza di un foglio volante. Il primo fascicolo comprende il periodo dal 14 giugno 1793 al 28 gennaio 1795. Il secondo si riferisce al periodo dall’11 ottobre 1796 al 15 gennaio 1797. Infine il foglio volante comprende il periodo 1° aprile 1797-11 maggio 1797. Esiste anche un’aggiunta (6-10 marzo 1797), dal retro della lettera 63.50 del FPS.

[25] I testi autografi sono in FPS, 64.2. Il primo è un retorico elogio della "più fina filantropia"; nel secondo, Bertola narra dei suoi "studiosi pellegrinaggi" in Alemagna.

[26] Cfr. A. Montanari, Bertola redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, in "Romagna arte e storia", n. 50, Rimini 1997, pp. 127-130. Il Nuovo Giornale Enciclopedico d’Italia non cessò le pubblicazioni nel ’96 con la morte della curatrice Elisabetta Caminer Turra, come solitamente si legge, ma continuò ad uscire nel ’97 presso Storti, avendo quale redattore Bertola.

[27] Cfr. FPS, 62.261, 3 dicembre ’96. Del progetto bertoliano di trovare rifugio in Austria, parla pure una lettera del 25 agosto ’96 [FPS, 63.33] inviatagli da un corrispondente veneziano (dalla firma indecifrabile): "Perché mai a Vienna? parvi egli il momento, mio caro Amico, d’andar fra’ Tedeschi? L’impoverimento, la spopolazione, l’avvilimento, il malumore, il sospetto conseguente debbono render diabolico quel soggiorno!".

[28] Si vedano le insinuazioni della Mosconi a proposito di Orintia nel cit. La filosofia della voluttà, p. 73.

[29] La lettera è datata Roma 11 febbraio 1797 ed indirizzata al "cittadino Lorenzo Mascheroni professore all’Università di Pavia": cfr. G. Gervasoni, Dodici lettere inedite di A. B., in "Studi su A. B. nel II centenario della nascita (1953)", Bologna 1953, p. 140.

[30] L’epistola (a Pindemonte) reca la data del 24 ottobre 1797: cfr. E. M. Luzzitelli, op. cit., p. 155.

[31] Ib.

[32] Epistola di A. De Vecchi (19 marzo) a Bertola [FPS, 60.372].

[33] Le notizie che qui riportiamo sono riprese dalla nostra comunicazione tenuta alle "Giornate di Studio della Società di Studi Romagnoli" (Lugo, 1997) e di prossima pubblicazione, con il titolo Aurelio Bertola politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98). Le lettere a cui facciamo qui riferimento sono in FPS.

[34] Il 20 maggio [FPS, 63.11] gli viene fatta balenare inutilmente la promessa di un "beneficio ecclesiastico vacante", per indennizzarlo "in parte de’ sagrifizj" che Bertola era "disposto di fare all’Emilia". Da FPS, 63.14, 5 ottobre 1797, si ricava che esso era in territorio di Forlimpopoli.

[35] Questo incarico viene revocato quando, a luglio, si prevede la confluenza della Legazione di Romagna nella Cisalpina.

[36] Esse sono quasi sempre indicate erroneamente come "Lettere" o come "Giornale patriottico".

[37] Cfr. FPS, 63.178.

[38] Martinelli va a rinunciare alla carica di ambasciatore a Vienna per motivi di salute: cfr. la lettera di Bertola a Francesco Martinelli da Milano, del 3 febbraio 1798 [FPS, 63.133].

[39] Cfr. l’Atto di morte steso da padre Francesco Maria Veroli, parroco di Santa Maria in Trivio (chiesa di San Francesco, cioè Tempio Malatestiano), in Libro dei Defonti, Archivio Diocesano, Rimini, p. 69.

[40] Di questa tomba si sono perse le tracce.

[41] Tale articolo era stato steso per il n. XL (previsto in uscita con la data del 30 giugno, la stessa della scomparsa di Bertola): assieme al precedente per il n. XXXIX, è conservato manoscritto in FGG, cit. cartella Bertola.. Entrambi appartengono alla serie intitolata "Studi democratici", della quale sono rispettivamente il quinto e sesto capitolo.



Questo testo è stato pubblicato nel volume "Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792", a cura di Luciana Morelli, Olschki, Firenze 2000, pp. 389-398.

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2000. Rev. 2010*. http://digilander.iol.it/monari/bertola.corilla.html