Antonio Montanari
Giovanni Bianchi (Iano Planco).
La Spetiaria del Sole
,
edizione integrale dal testo a stampa del 1994.


1. "Il divin Planco"
Giovanni Bianchi (1693-1775), celebre medico e filosofo riminese, è il protagonista di queste pagine, in cui si presentano documenti 'dimenticati' per oltre due secoli. Si tratta di lettere che Giovanni, i suoi fratelli ed una cognata si scambiarono, dal 1715 al '43.
La Spetiaria del Sole è il negozio del padre di Giovanni, Girolamo Bianchi, farmacista. I documenti di cui parliamo, sono stati raccolti nel secolo scorso dal canonico Zeffirino Gambetti. Dal 1870 si trovano nella Biblioteca Gambalunghiana di Rimini.
Impossibile sembra che Carlo Tonini, celebre e celebrato studioso, e fonte pressoché unica di ogni ricerca anche odierna, non li abbia consultati. Più facile, anche se irriguardoso, è ipotizzare che non li abbia voluti utilizzare, per non smontare il mito che Giovanni Bianchi aveva costruito di sé per i contemporanei e per i posteri.
L'immagine che della famiglia Bianchi emerge dall'epistolario, è diversa da quella che Giovanni ci offre nei suoi scritti. La precoce morte di Girolamo segna una svolta drammatica, di cui però non c'è traccia nelle pagine di Giovanni, né nelle biografie che gli furono dedicate.
Giampaolo Giovenardi, arciprete di San Vito ed ex alunno di Giovanni Bianchi, che tenne per volontà dello scomparso l'Orazion funerale in suo onore, ricorda soltanto che i genitori del Nostro furono "non riguardevoli per nobiltà di sangue, né per abbondevole copia di ricchezze, ma solamente onesti, e civili". Quell'aggettivo "onesti" è lo stesso usato da Bianchi in un'autobiografia latina del '42. A chi successivamente gli rinfaccia di non esser mai stato ricco, Bianchi risponde di non esser mai stato "povero".
Giovanni nelle proprie pagine si racconta come fanciullo prodigio, e come giovane tutto rivolto agli studi, dotato di capacità eccezionali. Nelle lettere che gli scrive un fratello, frate nei Minimi, Giovanni invece appare come un perdigiorno che frequenta cattive compagnie.
Giovanni Bianchi fu bastian contrario per vocazione, attaccabrighe per diletto, e petulante censore delle altrui opinioni. Lui stesso si confessa "implacabile nelle inimicizie e negli odi".
Nelle polemiche, ricorre sempre a degli pseudonimi: attacca quella "peste di chirurgo" primario di Rimini, nel 1722, dietro la maschera di tal Marco Chillenio, anagramma del cerusico Carlo Michelini che gli finanzia il pamphlet; nel '26, si firma Ianus Plancus; nel '31, Pietro Ghigi; nel '45, addirittura si sdoppia come Simone Cosmopolita che interviene contro un anonimo bolognese "pro Iano Planco".
Nel corso della celebre disputa sul risanamento del porto canale di Rimini, Bianchi pubblica la Memoria del suo oppositore Serafino Calindri, aggiungendovi delle maliziose note a firma del solito Marco Chillenio che apparirà pure come autore di una Lettera in difesa del "Signor Dottor Bianchi" e delle sue teorie idrauliche. Lo scontro di Planco nel 1731 con il bolognese Giambattista Mazzacurati, medico che esercitava a Pesaro, provocò addirittura l'intervento del papa che interessò i Legati di Pesaro e Ravenna affinché la questione fosse risolta.
Brutto carattere, dunque, il Nostro: "pieno […] di vanagloria e jattanza e […] non esente dai bassi affetti dell'invidia, e sprezzatore per conseguenza dell'altrui merito, godeva delle contese letterarie e scientifiche", così lo definisce Carlo Tonini.
"Ovunque si recasse suscitava interesse, si procurava preziose e durature amicizie, sino a quando, almeno, non ne guastava qualcuna con le sue non sempre felici polemiche", racconta Gian L. Masetti Zannini. "Personaggio di valore indiscusso", fu "anche ambizioso all'eccesso", secondo Giuseppe Pecci. "Grandi difetti ebbe compagni alle sue grandi virtù: e più notevole fu quello della vanagloria e dello spirito irrequieto e battagliero, onde tante questioni incontrò, e tanta molestia ebbe a soffrire", sottolinea Carlo Tonini.
"Non si sa veramente per qual motivo latinizzasse il proprio nome in quello di Giano Planco (Janus Plancus)": forse, lo fece "per quella sua boria e ostentazione che aveva d'uomo studioso delle antichità". Per la sua "indole sarcastica e battagliera", incontrò "molte e fiere inimicizie" e guerre, in patria come fuori di Rimini. (È ancora Carlo Tonini a commentare.)
Comune maestro di una generazione d'intellettuali concittadini, Bianchi compie irregolarmente i primi studi, a causa della morte del padre, avvenuta quando lui ha 8 anni. Fino agli 11 studia Latino presso i Gesuiti riminesi, poi si dedica alla lettura di storici, geografi, botanici, chimici. A 18 anni si accosta alla Filosofia, analizzando le opere di Cartesio e Newton. In seminario, lo costringono a studiare il pensiero aristotelico, un edificio ormai demolito dalla nuova Scienza di Galileo. A 24 anni comincia a studiare Medicina a Bologna. A 26, nel 1719, si laurea.
Poi va a Padova, dove si lega d'amicizia con Giambattista Morgagni e con Antonio Vallisnieri: il primo è il fondatore dell'Anatomia patologica, il secondo è un convinto sostenitore del metodo sperimentale di Galilei nell'arte medica.
Ritornato a Rimini, dopo aver curato gratis i poveri per tre mesi, Bianchi inizia un suo giro d'Italia che dura dal '23 al '40. Contatta luminari, allaccia rapporti di lavoro. Spera nell'incarico di professore di Medicina teorica a Padova, ma glielo soffia un collega già celebre, il professor Piacentini. Scrive opuscoli polemici, studia le maree e le conchiglie. In casa propria, allestisce un museo in cui raccoglie di tutto, collezioni naturalistiche ed archeologiche che attirano l'attenzione dei forestieri: "Mi rallegro […] al vedere che non passa letterato per Rimini, che non faccia capo a lei", gli scrive Ludovico A. Muratori che lo ha raccomandato per il posto a Padova.
Nel 1741 dall'Università di Siena gli viene la nomina a titolare di Anatomia umana. Per Bianchi, sembra iniziare una nuova stagione, ma purtroppo ha breve durata. Appena salito in cattedra, comincia a scontrarsi con i colleghi, tacciandoli d'ignoranza, e lamentandosi della penuria di libri in fatto di Storia Naturale. In Botanica, si mette a tartassare vivi e defunti.
Gli sorge intorno una barriera di ostilità e di diffidenza, destinata ad aumentare nel '42 con quella sciagurata autobiografia anonima che, alle smaccate lodi a Bianchi, univa gli attacchi all'ambiente accademico senese. Attacchi che ne rivelavano l'autore nel medesimo soggetto di quelle pagine.
Alla fine, Bianchi è costretto ad ammettere di aver scritto lui stesso il testo incriminato, prima di ritornarsene (nel '44) a Rimini, dove la Municipalità gli assegna uno stipendio annuo di duecento scudi per la sua sola presenza, con la qualifica di medico primario, e lo onora anche della cittadinanza nobile.
A Rimini, Bianchi riprende l'insegnamento privato, iniziato prima di andare a Siena. La sua casa si trasforma in una vera e propria scuola, ricca di materiale didattico di vario tipo, e di una biblioteca ch'egli tiene continuamente aggiornata.
La frequentano allievi che diventeranno famosi, come Battarra, Bonsi, Garampi e Lorenzo Ganganelli, il futuro Clemente XIV. In quella casa, Bianchi nel novembre del '45 ripristina l'Accademia dei Lincei che, nata a Roma nel 1603, era stata chiusa nel 1630, alla morte del fondatore Federico Cesi. (Dal 1755, dell'Accademia riminese si perdono le tracce.)
Nel 1746 a Bianchi vengono lanciate "accuse acerbissime […] quasi di violata religione nella sezione dei cadaveri". L'Anatomia costituisce la sua passione scientifica e per questa, anche a Siena, aveva già incontrato contrasti: i colleghi lo avevano accusato di infettare il nosocomio, con quasi duecento autopsie in sette mesi. Come lui stesso racconta, le proteste riminesi lo costringono a chiedere licenza alla Curia romana, per le sue esercitazioni.
Nel '49 osserva un caso clinico che poi descrive nella Storia medica d'una postema nel lato destro del cerebello…, per dimostrare che una lesione del cervelletto provoca una paralisi nel corpo dalla stessa parte del lobo offeso, non in quella opposta come accade per il cervello. Considerata oggi il suo capolavoro scientifico, la Storia non fu allora accolta positivamente dal mondo medico, con l'eccezione di Morgagni.
I rapporti epistolari tra Bianchi e Morgagni sono comunque anteriori alla pubblicazione della Storia, avvenuta nel '51: Morgagni gli aveva già scritto che Antonio Maria Valsalva, proprio maestro, morto nel 1723, aveva sostenuto la diversità tra cervello e cervelletto circa le conseguenze delle "offese" a questi organi, fornendone "la vera dimostrazione anatomica e clinica del fatto" nel De Aure humana tractatus.
Ricevuta la Storia, Morgagni nell'aprile '52 scrive a Bianchi: "A me parve degna di lode la Diligenza di Lei in riosservare attentamente ciò che tanti altri Notomisti osservando, non avevano con pari esattezza descritto […]".
Quel "riosservare" è un ironico accenno, in sintonia con il carattere ilare di Morgagni, ad una ‘scoperta dell'acqua calda’ fatta da Bianchi? Probabilmente Morgagni attribuiva a Planco soltanto il merito di aver messo in ordine nozioni già acquisite, ma non da tutti accettate.
Tra 1759 e '61, appaiono vari scritti di Planco contro l'inoculazione del vaiolo a scopo preventivo, propugnata dal medico genovese Giovammaria Bicetti De' Buttinoni. Il quale era stato consigliato da alcuni greci che avevano visto praticare la vaccinazione a Costantinopoli, presso quel "folto popol che noi chiamiam barbaro e rude", come scriverà nel 1765 Giuseppe Parini nell'ode L'innesto del vaiuolo, dedicata allo stesso Bicetti.
Nel '61 Bianchi riceve una lettera (autografa solo nella chiusa) di Voltaire che lo ringrazia del discorso In lode dell'arte comica, inviatogli in dono. Rousseau lo cita nel libro primo dell'Emilio [1762], dove raccomanda la dieta vegetariana (detta pitagorica), propugnata da Antonio Cocchi ed avversata da Bianchi.
L'ex allievo Ganganelli gli scrive nel '63 che non c'è forestiero che non passi per Rimini per "vedere il Dott. Bianchi, e che non abbia segnato" quel nome tra i suoi ricordi.
Appena eletto papa nel '69, Ganganelli nomina Planco archiatro pontificio onorario e cameriere segreto. La Municipalità riminese gli raddoppia a 400 gli scudi dello stipendio annuo, per ordine dello stesso pontefice. Dopo la morte di Clemente XIV, Bianchi è confermato da Pio VI nella carica che gli dà diritto di farsi chiamare monsignore e d'indossare un elegante abito prelatizio ("mantellone paonazzo", lo chiama), con cui egli si pavoneggia, ambizioso qual è.
Negli anni '60 a Rimini, si discute animatamente della sistemazione del porto canale. Il filosofo Giovanni Antonio Battarra è contrario a prolungare i moli, come invece propone Bianchi che, firmandosi Chillenio, attacca il proprio ex allievo e collaboratore (gli ha fatto incidere tavole di rame nel '44). I rapporti tra i due sono tesi già da un po' di tempo, e peggioreranno. Planco combatte anche l'opinione di padre Ruggiero Boscovich ("levare la Marecchia dal porto presente o levare il porto dalla Marecchia"), e lo accusa di dar "cattivi consigli".
Boscovich, scrivendo a mons. Garampi il 9 luglio 1768, tira una frecciatina che sembra rivolta proprio al medico Bianchi: "Né avrei creduto, che la tracotanza di alcuni ignorantissimi in quelle materie, e non so quanto meritatamente accreditati in altre, dovesse far tanta impressione in alcune persone di rango impiegate ne' governi […]".
L'idraulica non è il suo campo, ma Planco da buon erudito settecentesco vuole dimostrarsi enciclopedico. La gloria sicura, egli se l'attendeva ovviamente dalla Medicina, dove "rese famigliare il salutevole rimedio della China China per le febbri terzane, come per tante altre del medesimo genere"; produceva guarigioni quasi miracolose, per cui era solito autodefinirsi "il medico de' disperati".
È sostenitore dell'idroterapia, ritiene i viaggi giovevoli a migliorare "spiriti ed umori" del corpo, in un'epoca in cui sta nascendo un turismo culturale ed uno anche balneare: provetto nuotatore, in uno scritto del 29 luglio 1746 lascia la prima testimonianza moderna di un bagno di mare (fatto di sera, con il marchese Giambattista Diotallevo Buonadrata), prima di un lauto pranzo a bordo "d'una galeotta napolitana".
A 60 anni s'innamora di una celebre attrice comica romana, Antonia Cavallucci, che egli chiama "valorosa fanciulla". Il teatino padre Paolo Paciaudi, la definisce invece "infame sgualdrina" e "cortigiana svergognata", d'accordo con Giovanni Lami che la classifica semplicemente, alla francese, una "figlia di gioia".
Poi, la vecchiaia di Planco è turbata anche da problemi famigliari: nel '72, il fratello Giuseppe impazzisce.
Giovanni Bianchi muore il 3 dicembre 1775, a 82 anni e 11 mesi, per "un'atroce infreddatura" contratta sei giorni prima nell'assistere alla sacra funzione celebratasi in "rendimento di grazie" per la promozione alla sacra porpora del concittadino Francesco Banditi. "Fu sepolto in Abito e Rocchetto in S. Agostino".
La lapide reca il testo da Planco stesso dettato in latino, ove si legge che lui nacque infelice, visse ancor più infelice e infelicissimo morì: credo quia redemtor meus vivit - et in novissimo die suscitabit me - heic requiescit in pace - ioannes paullus simo bianchius - domo arimino qui appellari latine maluit ianus plancus - nascitur infelix vixit infelicior - obiit infelicissime - sed adiuvante deo animo semper hilari quod sibi - ratione et assiduo bonarum pene omnium - litterarum studio comparaverat - vixit annos lxxxii menses xi - obiit ann. salutis mdcclxxv. vale.
L'epigrafe suscita (anch'essa) delle polemiche. Un suo ex alunno, il filosofo abate Giancristofano Amaduzzi, giustifica l'"irrequietezza del suo spirito, per cagione della pazzia frenetica del fratello", anche se ritiene quel testo "uno sconcio di decrepitezza".
"Bizzarra come era bizzarro Planco", definisce l'epigrafe in una lettera privata il poeta Aurelio Bertola che, per la Gazzetta Universale di Firenze, compila un necrologio ("giovanilmente sincero", secondo Augusto Campana), in cui descrive più i difetti che i pregi di Bianchi: lo chiama stravagante, ambizioso, "poco felice nella natìa favella […] osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta. Vantatore di se stesso […] ed alcuna volta ributtante disprezzatore d'altrui, appassionato all'estremo per le beghe letterarie, e soggetto alle bassezze dell'ambizione".
Ne nasce un "vespaio" (il termine è dello scienziato veterinario Francesco Bonsi). "I Riminesi sono sossopra", confida Bertola all'abate Amaduzzi, difendendosi: "Ho detto delle verità alquanto dure" e "mi si danno i titoli di bastardo, di apostata". Bertola accusa "la grossolana Riminese improprietà", definisce i propri concittadini delle "bestie da soma", non sopporta il "ridicolo ascendente di Planco" esercitato sugli allievi della sua scuola. Ma poi, quasi per farsi perdonare, scrive un'ode in onore di Bianchi:
"Rimino mia non piangere,
vive il divin tuo Planco".

2. La Spetiaria del Sole
Il 15 settembre 1687 viene creata "una Compagnia di negozio tra' li Ss.ri Gio: Batt. Concordia, habitante in Mondaino e Girolamo Bianchi da Rimino dà farsi nella Spetiaria e Drogheria sotto l'insegna del Sole, posta nella piazza di detta Città".

Concordia muore l'8 marzo 1696, lasciando eredi due figli: Bonifacio e Francesco. Il 23 marzo Girolamo Bianchi compra la quota di Concordia nella Spetiaria per 1.421 scudi.
Girolamo Bianchi, figlio di Simone e di Aurelia Tognacci, è nato in Rimini il 4 gennaio 1657. A Roma ha ottenuto il diploma per il libero esercizio da farmacista il 5 aprile 1683, divenendo nello stesso anno "Capo Speziale del Venerab[il]e Archiospedale del SS.mo Salvatore a S. Giovanni Laterano".
"Adì 24 aprile 1690, in giorno di Lunedi nella chiesa del Crociffisso de' Monaci Olivetani in strada nova", Girolamo Bianchi sposa Candida Cattarina Maggioli "di ettà di Anni 18 in Circha", figlia di Bartolomeo e di Lucia Gulinucci "Ambi de' Borghi". "La funzione del sposalizio la fece il sig. d. Giacomo Zanoli Curato della Chiesa di s. Bartolomeo". Girolamo Bianchi ha età "di Anni 33 mesi 3 e' giorni 21".
È lui stesso a raccontare del proprio matrimonio in un manoscritto (finora sconosciuto), che contiene anche le notizie sulle nascite dei suoi figli: "Adì 2 luglio 1691 festa della Visitazione della B. V. dalla sud[dett]a mia moglie nacque il P[ri]mo figliolo e' fù maschio al quale li pose nome Pietro Antonio Maria e nacque a' hore 7 e' tre quarti in Circha e' fù tenuto al Sachro fonte dall'Ill.mo Sg.re Dom[eni]co Tingoli e' fù batezato alli tre del d[et]to mese di Luglio 1691 in giorno di martedì. Il sud[det]to mio P[ri]mo figliolo mori li 23 agosto 1693", e venne sepolto nella chiesa di Sant'Innocenza.
Sabato 3 gennaio dello stesso 1693 nasce "Gio. Pauolo Simone", battezzato il 5 gennaio da don Giovanni Battista Ranilla, curato della Cattedrale di Santa Colomba, alla presenza del padrino ("compater") "Sg.re Cavaglier Ercole Filippo Bonadrata", uno dei personaggi più importanti della città.
Il 1° novembre 1694 viene alla luce il terzogenito Pietro Antonio, tenuto a battesimo da "Giuseppe Rigazzi medicho". Seguono Elisabetta (nata il 14 settembre 1695, muore di cinque giorni); Anna Maria (nata l'11 luglio 1697, muore di mesi 15 e giorni 22, il 3 novembre '98), Filippo Maria (nato il 23 agosto 1698) e Giuseppe Carlo (nato il 3 novembre 1699).
Elisabetta fu portata al Fonte battesimale dal dottor Simone Zaccaria, Anna Maria dal notaio e "Secretarius Communitatis" Felice Carpentario, Filippo Maria dal medico Marino Angelini, e Giuseppe da Fabiano Ghinelli. Nell' atto di battesimo di Anna Maria, il curato della Cattedrale di Santa Colomba, Giacinto Fabbri definisce Girolamo Bianchi "farmacopeuta". In quello di Filippo Maria, un altro curato della stessa Cattedrale, Sante Quadrelli registra che la nascita avvenne con un parto agitato ("pulsata natura").
Girolamo Bianchi il 1° ottobre 1696 è dichiarato dal vescovo di Rimini card. Domenico Maria Corsi, "suo Speziale e Familiare". Nel '98 il card. Francesco Maidalchini, Abbate della "Abbatia di S. Gaudentio di Rimini", gli rilascia un attestato in cui lo si definisce "Computista" della stessa abbazia.
Girolamo Bianchi muore nei primi mesi del 1701, forse tra il 6 ed il 16 luglio: è del 20 agosto un "Bilancio di tutto quello che si trova nella speciaria del Sole…", steso da Francesco Bontadini da Ravenna, che in atti successivi si qualifica "aromatarius" (profumiere) ed "agente del sig. Girolamo Bianchi".
La vedova di Girolamo Bianchi ha 29 anni "circha". L'unica eredità che riceve, è un debito di 1.400 scudi.
Planco ha appena compiuto otto anni, Pietro ne ha poco più di sei, Filippo due e Carlo uno. Il peso di questa famiglia, un tempo tra quelle più in vista nella città, come dimostra l'amicizia con alcuni dei padrini nei battesimi, ricade tutto su Candida Maggioli. Non può essere lei a curare anche gli affari della Spetiaria del Sole: Francesco Bontadini ha carta bianca.

3. Frate Girolamo, Filippo e Giuseppe Bianchi
Planco andava nella Spetiaria come un qualsiasi garzone "che stassene in un angolo della bottega, intento a sceglier'erbe, radici e foglie". Non è lui a raccontarcelo, ma un suo avversario che critica le vanterie esposte da Planco nell'autobiografia scritta in latino nel 1742. Planco replica che non è mai stato "pauper & abiectus", bensì sempre un uomo "libero" dedito alla cultura.
L'aver lavorato nella Spetiaria, è un ricordo che lui rimuove come qualcosa di vergognoso.
Nonostante la morte del padre (sosteneva in quell'autobiografia), si era dedicato subito allo studio delle Lettere, nelle quali si era nutrito per tutta la vita. Il racconto ufficiale che Planco fa della propria giovinezza, non coincide con le notizie che ricaviamo dalle lettere famigliari: dove traspare invece un'esistenza normale, non da genio. La figura di Planco viene ridimensionata, ma anche resa più simpatica. I testi delle lettere sono stati riportati fedelmente agli originali, con i modi ortografici e gli errori in essi contenuti.
Seguiamo in parallelo le vicende di Planco e di suo fratello Pietro. Pietro va a scuola dai Padri Minimi, senza troppo entusiasmo. (Per Planco, invece, il ragazzo dà lustro a quell'Ordine.) Destinato a diventar frate con il nome di Girolamo, riprendendo quello del padre defunto, Pietro ama poco o nulla i libri, e definisce "coglionerie" gli studi di Teologia. Il 13 dicembre 1716 è fatto Diacono.
Il giorno prima scrive a Planco: "[…] intendo con mio sommo dispiacere la morte di P[adre] Massani, ma se la causa della sua morte è stata la soverchia applicazione allo studio, non pensate già che questa debba essere la causa della mia ancora, perché già ho abbandonato affatto lo studio, perché già noto che lo studio non serve a niente nella Religione". Il 18 dicembre 1717, a Pesaro, è ordinato sacerdote.
Nelle lettere che Pietro scrive al fratello, scopriamo gli aspetti inediti della biografia di Planco. Frate Girolamo è preoccupato per la condotta di Giovanni che pratica persone "che sono bufoni, che non sono boni ad altro che coglionar il prossimo, e da quali non si puol imparare niente di serio". Nella stessa missiva, ricorda a Planco: "[…] non mancate di fare le parti del nostro debito acciò siate stimato, e ciò farete se vi manterete sul savio, e abbandonerete le bufonarie" [1715]. (Planco racconta diversamente di sé stesso, e in quel periodo si rappresenta come tutto rivolto agli studi della nuova Filosofia, della nuova Scienza e della Lingua greca, nella quale diventa peritissimo.)
All'inizio del '17, Girolamo suggerisce al fratello di porsi "alla chierica". Il sacerdozio però non attira Giovanni che ne teme i vincoli. Qualche amico vorrebbe spingerlo verso gli studi di Diritto, ma lui non apprezza "gli imbrogli e le arti dei legulei".
Frate Girolamo, benché più giovane di un anno rispetto a Planco, si attribuisce il ruolo di capofamiglia ed i suoi toni diventano severi. Nel marzo '17 ironizza: "Ho supposto fin ora che voi vi siate pigliato tempo per pensare alla vostra ellezione di stato, e perciò non abbiate potuto scrivermi". In aprile, non avendolo visto comparire alla fiera, gli scrive da Fano: temo che stiate male "o pure che habbiate de grandi interessi matteschi a quali secondo il solito v'applichiate".
Quando nel novembre del '17, a 24 anni, Planco sceglie di avviarsi alla Facoltà di Medicina, frate Girolamo osserva: "Godo che siate arrivato in Bologna sano e salvo […]; non vorrei che questo fosse il tratto dell'asino, cio è che principiaste con fervore e che poi vi" perdeste per strada, "in mille altre scienze"; "vi ricordo l'honor vostro, le spese della casa, l'utile che perdereste (ciò non riuscendo), e la povertà nella quale con tempo potreste cadere". Figuriamoci se l'enciclopedico Planco voleva accettare questi consigli, farciti di ammonizioni realistiche!
A Fano frate Girolamo ha conosciuto l'"Eccellentissimo Signor Dottor fisico Pini da Rimini, [il] quale si muore quasi per la fame". Per la festa di San Francesco da Paola, si è invitato da solo al convento dei Minimi, e tanto mangiò che i frati pensarono che "fosse un ano che havesse mangiato o pure che avesse il male della lupa".
Della Medicina, Girolamo non ha molta fiducia. I medici li manda "a far dar l'asino tutti quanti", per averli sperimentati di persona: sofferente di "ipocondria e debbolezza", vedeva in quei giorni "vicina" la fine della propria esistenza. (Siamo ancora nel '17, vivrà altri quattordici anni.)
La lettera di frate Girolamo con gli auguri a Planco per la sua carriera universitaria, termina con un'annotazione amara: "[…] state sicuro che quando avrò bisogno di qualche cosa da casa scriverò solamente a Francesco, e quando mi venisse voglia di scrivere a Filippo e Gioseppe non gli scriverò altro che esortazioni accio abbassino l'alterigia e faciano capitale di Fran[ces]co".
Nel '16 Giuseppe lascia lo studio, e "attende alla botega": frate Girolamo suggerisce a Planco di farlo esercitare "in leggere e scrivere acciò gia che sà poco legere con il tempo sappia niente".
Il nome di Francesco Bontadini appare per la prima volta nelle lettere del '16. Il frate lascia intendere come la famiglia sia divisa in due partiti, a proposito della gestione della bottega: lui parteggia per Francesco, che invece è osteggiato da Filippo e Giuseppe.
Da una missiva successiva di Filippo, del '18, si ricava che la discussione verteva sulla pretesa di Francesco d'"entrare in parte […] del negozio".
Planco sembra fungere da paciere: "Vedete di mitigare Filippo e fare che egli e Giuseppe se la passino daccordo con Fran[ces]co". Ma in realtà, come lo accusa Filippo, Planco sostiene Francesco. Costui ha esperienza d'affari, mentre Filippo e Giuseppe sono ancora troppo giovani per cavarsela da soli: in quel 1717, quando frate Girolamo scrive a Planco di fare affidamento unicamente su Francesco, essi non hanno ancora diciannove e diciotto anni.
Nel '18 (riferisce Filippo a Planco), frate Girolamo li rimprovera: cominciò a "dire cabiamo [che abbiamo] in testa di voler far gl'omini, e reger noi […]". Filippo risponde: "[…] certo che lo dobiamo avere che, e roba nostra, e non siamo piu ragazi dessere menato a naso da piu nessuno".
Dall'incrociarsi della corrispondenza tra Planco ed i suoi fratelli, apprendiamo anche che Francesco Bontadini, nell'autunno 1718, decide di sposarsi con Giovannina Buferla, senza dir nulla ai Bianchi, nella cui casa egli vive assieme alla propria madre: "Gia credo che sapiate che Francesco sia lo sposo nella giovanina inamorata di buferla, credevo che velaveva avisato […] noi non sapiamo come egli si vogli fare, e lui [frate Girolamo] mi disse non la condura gia in casa nostra, edio li risposi certo che non la [l'ha] da condure, ma bensì a da condur via sua madre", scrive Filippo a Planco.
Francesco sembra citato anche nel testamento di Girolamo Bianchi, esibito dallo stesso Francesco e da frate Girolamo a Filippo e a Giuseppe, in un incontro finito in rissa, con una "ciasata" da "farsi sentire per tutta la piaza o per dir meglio da tutta la Città": "[…] non sei padrone" ha urlato Francesco a Filippo che non è riuscito a trattenere "la colera" nel rispondergli [1719].
Francesco è sollecitato "dal'inquetudine di sua madre […] a far negozio da sé", scrive Filippo a Planco, rassicurandolo: "[…] fra tanto io mi vado impraticando del negozio, e penso quando noi saremo in stato lo faremo da noi, che sesanta scudi saranno buoni per voi acio potiate proseguire i vostri studi senza discapito di Casa nostra" [1719]. (Quei "sesanta scudi" sono la parte che spetta annualmente a Francesco.)
Filippo accusa Planco: "[…] quando vi bisogna qualca cosa non fate mai capo da noi contuttocio vi mantenete in Bologna col dispendio comune per vostro vantaggio, e pure non vi sia negato nulla, e vero che sete magiore ma abbiamo quel tanto, che gli avete voi e non voleste che fosimo padrone dun mezo baioco mi pare che sia un indiscretezza la vostra" [1719].
Nel 1720 frate Girolamo apprende che Francesco "non stava più in nostra botega", senza però saperne la causa. Il frate esorta Planco a far "animo a Filippo acciò diventi premuroso nelli interessi di bottega"; e lo sollecita ad insegnargli "con pazienza a far conti e scrivere".
"Filippo, per quanto intendo non si avanza altro che in buffoneria, e poco o niente attende agli interessi di casa; che piutosto procura di scialare quanto può", annota amareggiato frate Girolamo, quasi per dire a Planco (in quei giorni a Crema): avevo ragione io a voler affidare a Francesco la gestione della nostra bottega [1723]. L'unica preoccupazione di Filippo, secondo il frate, è quella di "pigliarsi li suoi divertimenti", mentre soltanto Giuseppe cura il negozio.
Nel '24 Filippo lascia l'impresa di famiglia, andando a lavorare altrove come orafo ed ottico. Nel '28 titolare unico della Spetiaria figura Giuseppe il quale già in una lettera del '26, nell'augurare a Planco "buon Carnavale", si lamentava che "la solita scarsezza di denari rovina il tutto".
Nel '29 Filippo pensa di aprire una propria bottega a Santarcangelo, senza però sciogliere la società famigliare. Due anni dopo è a Roma, dove viene assunto, su raccomandazione di mons. Antonio Leprotti (prima docente di Filosofia in Seminario a Rimini, e poi medico personale di Clemente XII e Benedetto XIV), dall'orefice Angelo Spinaci, "uno dei migliori argentieri" della città. Ma Filippo arriva quando Spinaci cade in disgrazia presso l'aristocrazia capitolina, per colpa di un marchese che ha screditato la bottega con una scenata per strada. Filippo ha poca paga e niente lavoro: "[…] siamo cinque lavoranti che ci stiamo a guardar" [1731]. Però non si perde d'animo: "[…] sia come si voglia à me non importa pur un Cazzo".
Contemporaneamente Planco ha altri pensieri per la testa: si è innamorato. Filippo gli raccomanda di fare attenzione: "[…] guardate d'imbarcarvi bene é di spendere bene i vostri danari, acioche non vabiate poi à pentire come sucede alla magior parte degli amogliati".
Quanto ai propri (scarsi) danari, Filippo accusa ancora Planco: "[…] a voi non si è negato cossa alcuna, ma ben sì negate tutto a me". E rinvanga il passato: "[…] se voi non aveste protegiuto tanto quel nostro dil[ettissi]mo Sig.e Francesco Ladro Baccho Sommo che nel temppo che voi eravate in Bologna li vene volonta di prender moglie ed io vi scrissi che sarebbe stato bene il mandarlo via dalla bottega […] e Giuseppe io eramo dacordi di caciarlo al diavollo come ben si merittava per le tante suue belle azioni fataci dacordo assieme con voi ed il Frate nostro Fratello".
A causa di Francesco, Filippo se ne era andato di bottega, "per non più poter sofrire l'imperianza di quel nostro tanto amaro birbante".
Nella stessa lettera Filippo scrive a Planco: "Gia che voi dite d'aver contribuito molto piu di me in servizio della Casa con aver pagato mille e quattrocento scudi di debiti che aveva lassiati nostro Padre pero in questo voi dite una solennissima fandonia perché in tal tempo voi non eravate capace à far senza robba […]".
Allora, Planco studiava e doveva essere mantenuto, forse con altri debiti, come lascia intendere Filippo che conclude: "[…] or su faciamola finita perche sé non tralasciarete con questo caluniarmi vi giuro che in breve tempo la romperemo affatto".
Tre anni dopo Filippo ribadisce da Roma: "Intendo più tosto allegerire il mio debito, che soddisfare al vostro merito".
Per aprire la propria bottega, Francesco ha preso, dalla Spetiaria del Sole, "la robba la più bela e la migliore", denuncia Filippo, ricordando amaramente a Planco di non esser stato "patrone di dire una meza parola" nei momenti in cui si è deciso il futuro della vita economica sua e di Giuseppe [1731].
Ora che si trova in cattive acque, Filippo incolpa quella coalizione tra frate Girolamo e Planco, che ha sostenuto gli interessi di Francesco.
Non sappiamo quanto tempo sia durato il soggiorno romano di Filippo, il quale nel '41 risulta ritornato in Romagna. Si è sposato con Lucrezia, ed ha un figlio, Girolamo, futuro medico e collaboratore di Planco. Vive poveramente in una proprietà agricola della moglie, a San Martino in Converseto (Comune di Borghi). Desidererebbe ritornare a casa propria, presso Giuseppe, ma costui non vuole e preferisce aiutarlo a distanza inviandogli periodicamente del grano. Giuseppe scrive a Planco: "[…] li mando quello che posso; ma non vorrei che un giorno mi venissero in stuffo. Da un canto compatisco perché ho veduto la sua miseria mà pol dire mea culpa".
A San Martino Filippo scompare il 3 aprile 1743, in seguito a grave malattia, dopo aver avuto un altro figlio, Giacomo, morto il mese precedente, all'età di un anno.
Ai funerali di Filippo, non ci sono i suoi fratelli. Planco è a Siena. Giuseppe invece deve badare alle "canaglie" spagnole che gli hanno occupato la casa. Sono i giorni della guerra di successione austriaca (1740-48).
Il piccolo Girolamo viene ospitato da Giuseppe, nominato nel testamento di Filippo tutore del bambino. Lucrezia, la vedova, è in miseria, ma senza grossi debiti, pagati da Filippo poco prima di morire, vendendo "la robba e casa che aveva a Bagniolo di Borghi".
Lucrezia scrive a Planco, rinfacciandogli che si "fosse disgustato con il fratello". Per fortuna, aggiungeva, al piccolo Girolamo Planco ha perdonato il fatto di essere figlio di un fratello non amato, e lo ha messo in mano dei "Signori Cognati". La sua situazione economica è aggravata dalla "dimoranza di queste truppe che hanno messo il vivere in un prezzo non giusto; siché la mia fiducia e speranza stà riposta nel buon animo di V. S. Ill.ma", confida a Planco [1743].
I "Signori Cognati" mandano subito Girolamo a scuola da una maestra che abita "sul campo delli Teatini" (relaziona Giuseppe a Planco). Girolamo il 20 maggio 1760 si laurea a Cesena in Sacra Filosofia e Medicina. Divenuto poi aiuto di Planco, quando avrà un figlio, nel 1796, lo chiamerà in suo onore Giovanni. Abiterà nella casa dell'illustre zio, in "Strada Vescovado, vicino al Tempio Malatestiano".
Al nome di Filippo è legato un episodio del 1719, narrato da frate Girolamo: "un certo Frataccio" di Rimini aveva cercato di presentare a casa Bianchi la figlia del notaio Ricci, "una bella giovine", su mandato della madre di costei, parlando in particolare appunto con Filippo. Frate Girolamo allora temette "difficultà, rotture, inimicizie e miserie che possono succedere si a Filippo come anche alla giovine", e che si riprometteva di rappresentare al notaio Ricci, nel caso in cui "il negozio potesse andare avanti" per l'interesse del mezzano, a cui la madre della ragazza aveva "promesso qualche cosa".
Il matrimonio con la giovane Ricci avrebbe potuto procurare a Filippo un'esistenza diversa, ma non se ne fece nulla proprio a causa dell'intervento del fratello frate.
Frate Girolamo come un vero pater familias "giudica e manda", pretendendo di guidare in tutto i fratelli. Nel '23, suggerisce a Planco di arruolarsi presso "il gran Turco" che "sta faccendo de preparativi di guerra". Come a dire: dato che qui non combini nulla, vai alle armi. Planco invece viaggia per l'Italia, in cerca non soltanto di amici e scoperte culturali, ma pure della salute. Gli studi continui e i tanti esami anatomici compiuti, lo avevano fiaccato.
Riposatosi e inosservante dei consigli, Planco riprende le consuete ricerche in tutti i campi dello scibile. E scrive pure novelle, imitando quel Boccaccio il cui capolavoro frate Girolamo gli ha chiesto nel '21, per leggere in convento le "maggiori novelle sopra li Frati", onde i suoi "sudditi" imparassero "ancor loro a fare furbarie simili".
Sarà poi lo stesso Girolamo ad inviare a Planco suggerimenti narrativi licenziosi, in puro stile decameroniano, presi dalla cronaca di fatti correnti in Pesaro, dove si trovava [vedi Appendice].
Nel chiostro, frate Girolamo si sente lontano dalla vita: "Qualche volta mandatemi li avvisi [i giornali] acciò mi divertisca qualche poco e per sapere qualche novità del mondo" [1721]. Erano giorni di cattivo tempo, quelli. Da Misano non si reca a predicare a Scacciano, "stante le pessime strade": "non voglio perdere la sanità e le scarpe per dire quatro ciarle a quei Villani".
Divenuto "abate", deve "stare in gravità, e non dare in coglionerie", anche se non può "far tanto per reprimersi, perche quod natura dat", nessuno riesce a mutare [1719]. La vita conventuale lo amareggia: "[…] mi trovo molto angustiato per le maligne simulazioni che girano tra frati, [i] quali si mostrano sempre piu in apparenza cordiali, quanto più sono in realtà maligni. Dico di questi di Pesaro […]" [1722].
Non tollera però analoghe critiche da parte di Planco: "Ma oh quanto siete presuntuoso […], d'animo codardo e vile! Tuta la vostra arditezza non consiste in altro che in ciarlare e tagliare, come suol dirsi, li panni di dosso agli altri, e particolarmente a noi poveri Frati […]" [1722]. La lettera vibra della passione di un'invettiva contro i "Secolaracci", seguaci del Mondo, e maestri "dell'instabilità e dell'inganno".
Di queste parole forse si sarà ricordato Planco nel '69 quando, divenuto medico del papa, è "posto in grado di prelatura", ed ha diritto al titolo di monsignore. I tempi "matteschi", di cui aveva parlato frate Girolamo, erano ormai lontani. Ma il fantasma della follia vaga per casa Bianchi: Giuseppe (come si è visto) impazzisce nel '72. La malinconia lo perseguita da una vita. Nel '16, Girolamo aveva scritto a Planco: fatelo "stare allegro perche temo ha dinanzi tragico".
Nessun documento abbiamo trovato sulla fine di Giuseppe. Quella di Girolamo invece è descritta in una serie di lettere del frate stesso a Planco. Afflitto da tosse, catarro abbondante e ristrettezza di petto, Girolamo non si fida ancora dei medici: "[…] io non sono così facile a dar fede a certi uni che milantano con i loro segreti di far resuscitare i morti, per far morire i vivi" [1730]. Nel frattempo, invoca da Planco un aiuto a diventar padre provinciale (era superiore), muovendosi con un anno e nove mesi di anticipo sulla data prevista.
Nella primavera successiva le sue condizioni peggiorano: "[…] per l'inappetenza mi sono tanto indebolito che non poteva più reggermi in piedi" [1731]. Dopo una nuova cura, una purga quotidiana, migliora un poco. Dal letto segue lo svolgimento della già citata lite 'scientifica' di Planco con il medico Mazzacurati, e ne fa un'accurata relazione al fratello, consigliandogli di non farsi vedere da quelle parti.
Chiede a Planco di comperargli le opere di San Girolamo, "[…] non già perché io abbia intenzione di voler ritornare alla applicazione, ma solo affinche se mai morissi (giacche sto malsano) li Frati non mi trovino tanto danaro da farli ridere".
L'ultima lettera è del 10 luglio 1731: "Perché non ho forza di scrivere faro solam[en]te due righe per far vedere che sono ancor vivo; dicendovi che io sto con gran ansietà aspettandovi, affinché mi diate qualche solievo, che fin ora da veruno non ho avuto […]". E manda a dire "alli Padri Sapientoni" del convento di "Rimino": "[…] io ancora non sono moribondo come essi vorrebono". In quel convento egli ha sofferto "tante inquetudini" che considera "il principio ed aggravamento della […] malatia, che ora vorrebbero terminata ben presto con la morte".
Scompare pochi giorni dopo, il 12 agosto 1731, "d'Anni di Religione de minimi 22 […] d'età sua Anni 36 mesi 9 giorni 12". Fu sepolto nella chiesa di San Francesco da Paola, a Pesaro, "essendo il terzo anno che fù Corettore di detto Convento". Così si legge in un'aggiunta (di mano posteriore) alle carte del farmacista Girolamo Bianchi sulla sua famiglia.

4. Appendice. Suggerimento per una novella "boccaccevole"
Planco negli anni Venti invia spesso agli amici bolognesi delle novelle scritte in "piena boccaccevole libertà", come lui stesso dice in una lettera, raccomandandosi di farle leggere soltanto a "persone di natura né spigolistra, né picchiapetto". Gli argomenti, garantisce Planco, sono tutti presi dalla realtà.
Dato il loro contenuto, quelle novelle sono destinate a essere bruciate. Circolano soltanto manoscritte e "sigillate". Nessuna di esse ci è rimasta. Per questo, l'epistola che segue, scritta a Planco da frate Girolamo, con un suggerimento per una novella "boccaccevole", ha un particolare valore documentario.
"Car.mo Fratello […] Ho sapputo oggi da un mio amico un caso bellissimo, il quale desidararei che voi lo descriveste con bella maniera con una delle vostre solite Novelle; ma quantunque pochi giorni siano che si sia succeduto in Pesaro con tutto ciò non sò il nome delli personaggi, eccetto che del Confessore; è però in quelli li nomino a capriccio.
Un certo Bartolomeo amava ardentemente una bella e ricca giovane quali la nominaremo Madalena figlia unica di Curzio e Lisabetta; e questi accortosi dell'amore di Bartolomeo che portava alla loro figliola la sollecitavano a riamarlo conoscendola pieghevole a fare tutto ciò che volevano loro. Invidiando ciò un altro giovane chiamato Terenzio che desiderava volere per se la Madalena, pigliò partito di pregare una dama alla quale molte obligazioni havevano il Padre e madre di costei, acciò facesse in modo che la Madalena fosse sposa di Terenzio, come in fatti la buona dama esortò alli Parenti, acciò la giovine lasciasse l'amore vero Bartolomeo e lo trasferisse tutto verso Terenzio; come fece. Vedendosi Bartolomeo abbandonato dalla sua Amata, e sapendo tutto il negozio ordito da Terenzio, si prese pensiero d'informarsi chi fosse il Confessore della Madalena; alla fine avendo saputo che tanto la madre come la figlia si confessavano da un certo Padre collotorto chiamato Barbone o pur Baldigara; col pretesto della confessione s'accosto al Padre Confessore e li disse che prima di confessarsi aveva a dire qualche cosa per scarico di sua coscienza, e per prudenza del mede[si]mo Confessore. E ciò era, che essendo egli stato sin dalla fanciullezza amico grande di Terenzio, aveva scoperto con la libertà ragazzesca che questo per mancanza di instrumento generativo era inabbile a poter prender moglie, e che ora havendo inteso che voleva sposare la Madalena sua penitente, li pareva che il matrimonio sarebbe stato invalido; e che però essortasse efficacemente la Madre e la figliola a non fare tal sposalizio, altrimenti sarebbe accaduto ciò che è succeduto in Rimino in casa Gingoni. Il Confessore promise farlo volontieri; ed avendo ben studiato de impedimento impotentie, con ottime raggioni disse alla Madalena che in coscienza non poteva prendere per suo sposo Terenzio, ed ancora commandò alla Madre a non permetterlo. La Madalena afflitta per tal negozio e per l'amore ch'havea posto sopra Terenzio non sapendo che risolversi, alla fine per distogliersi dall'amore di Terenzio, li disse che non poteva ne voleva più per suo sposo, a causa che il P. Barbone gliel'havea proibito, havendo sapputo che non havea membro abbile alla generazione. Terenzio, che a vista della sua futura Sposa haveva il creapopolo fatto la risurrezione della carne, per far vedere cogli occhi gia che non poteva far toccar con mano quanto fossero false le raggioni del P. Confessore, con furia calatosi le calze mostrò a Madalena un bellissimo Cotale lungo due palmi, e grosso quanto una candela da 4 libre. La Madalena tutta allegra per si bella vista corrse alla Madre e li narrò il fatto, e poi dimandandogli se poteva quel gran negozio invalidare il Matrimonio; la Madre rispose, che non solamente era valido; ma che ancora sarebbe stato sufficientissimo per battere di dietro al P. Confessore tutte le di lui addotte raggioni. Eccovi il caso accaduto giorni sono in Pesaro, quale in fretta ho scritto, per avere io hora d'andare a confessare alcune donne che mi aspettano.
Salutatemi caramente tutti e qui resto.
Pesaro 16 Maggio 1722
Aff.mo Fratello
Fra Girolamo Bianchi"
"Boccaccevoli" appaiono anche altre lettere di frate Girolamo a Iano Planco. Un esempio del 1730: "Questi Sig[no]ri Pesaresi ora si sono dati ad una certa santità cogliona, e fanno grandi applausi alli PP. Gesuiti, e specialmente ad un certo P. Bianchi, che in questo Estate era stato quà a far la Missione, ed ora l'hanno fatto ritornare quà con una Maddonna per far botteghino, ed egli in tanto fa la Novena di S. Fran[ces]co Saverio, ne manca di dire delle freddure in quantità e pure riceve tutto l'applauso anche da quelli che paiono i più Sapienti. Insomma questi Sig[no]ri siccome per lo passato facevano applauso al P. Felice, che metteva loro le corna, così ora bramerebbero che li PP. Gesuiti bu[…?] li loro figliuoli".
5. Nota bibliografica
L'epistolario citato si trova nella Miscellanea Manoscritta Riminese del Fondo Gambetti della Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, diviso in cartelle intitolate alle singole persone: Padre Girolamo dei Minimi, Filippo Maria, Giuseppe Carlo e Lucrezia Bianchi.
Nella Miscellanea Manoscritta Riminese del Fondo Gambetti si trovano pure le Memorie mss. autografe del suo sposalizio, e delle nascite dei suoi figli dal 24 aprile 1690 al 3 Nov. 1699, di Girolamo Bianchi ("Seniore"), citate nel Catalogo Gambetti che elenca altresì tutti i documenti relativi ai singoli personaggi della nostra storia. Documenti che sono rintracciabili in diversi luoghi della stessa Gambalunghiana.
Presso l'archivio della Cattedrale di Rimini, nel Registro dei Battesimi AA, 1692-1699, si leggono gli atti relativi ai figli nati in tale periodo.
Sia le Memorie di Girolamo Bianchi ("Seniore"), sia questi atti di Battesimo sono stati finora ignorati. Carlo Tonini nella sua monumentale opera intitolata La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, Danesi, Rimini 1884, non fa il nome del padre di Iano, Girolamo, ricordato invece dal Giovenardi nella Orazion Funerale in lode di mons. Giovanni Bianchi…, Occhi, Venezia 1777.
La vita di Iano Planco è ricostruibile attraverso le sue autobiografie: quella in latino pubblicata da G. Lami nella serie Memorabilia Italorum eruditione præstantium, I, Firenze 1742 [pp. 353-407], con il titolo Ioannes Blancvs, sev Ianvs Plancvs; e i Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Gavelli, Pesaro 1751.
Dopo la pubblicazione del testo latino nel Lami, ci furono polemiche su quell'autobiografia (anonima), a cui Planco rispose con una nuova opera: Simonis Cosmopolitæ Epistola Apologetica pro Jano Planco ad Anonymum Bononiensem, Arimini mdccxlv, in Ædibus Albertinorum. Il manoscritto è nel Minutario di Planco (SC-MS 969, Biblioteca Gambalunghiana), a partire dalla c. 428. L'Epistola è rivolta principalmente a Girolamo Del Buono, autore di un attacco all'autobiografia di Planco, apparso a Modena nel '45. Nell'Utile Monitorio di Tiburzio Sanguisuga Smirneo (Lugano 1748), risposta alla Epistola planchiana, attribuibile allo stesso Del Buono, si legge a p. 20 questa accusa al medico riminese: "[…] guadagnando continuamente più nel Giuoco, che nell'esercizio della pratica Medicina".
Il palazzo Bianchi, citato nel cap. 3, è il secondo edificio sul lato sinistro dell'attuale via Tempio Malatestiano, partendo da via IV Novembre verso piazza Ferrari. Si ricorda una lapide commemorativa di Planco, ivi apposta ed ora scomparsa.
In un documento del Fondo Gambetti, la Spetiaria è citata anche come Spezieria de medicinali, e robbe vive. L'ultima lettera in cui Giuseppe Bianchi accenna alla "bottega" è del 1742.
Nelle lettere del 1716-17, non si parla più della madre, Candida Maggioli che risulta viva in un atto notarile del 1711.
Circa la data di morte di Girolamo Bianchi, essa si può fissare tra il 6 ed il 16 luglio 1701, in base all'esame del manoscritto Libro dell'ussita de' denari da' spendersi nelle Mercantie del Negotio di Spetiaria e Drogheria da' me' Girolamo Bianchi 1701 (SC-MS 812, Biblioteca Gambalunghiana). Nello stesso manoscritto, si trovano allegati documenti intestati a "Eredi di Girolamo Bianchi", del 1722 e '44.
In una fattura di quest'ultimo anno, appare la sigla triangolare "EGB" (da leggersi appunto come Eredi Girolamo Bianchi), sormontata da una croce, ed è l'immagine qui riportata prima del presente capitolo e all'inizio tra occhiello e frontespizio.
Per una bibliografia particolareggiata su Giovanni Bianchi e gli autori da me citati nel corso del presente testo, rimando:
- al mio libro Lumi di Romagna, Il Ponte, Rimini 1993, 1ª ristampa, dal cui capitolo intitolato Giovanni Bianchi, il Planco furioso ho tratto alcune parti del primo capitolo del presente lavoro, limitatamente alla biografia di Planco stesso;
- ai miei articoli apparsi nel corso del 1993 sul settimanale Il Ponte, con i seguenti titoli: Iano Planco apprendista filosofo (13 giugno), Iano Planco nei "giardini d'Epicuro" (4 luglio), Iano Planco pensatore "antigesuita" (5 settembre), Iano Planco galileiano a metà (12 settembre), Iano Planco doctor gloriosus (24 ottobre), Iano Planco: affari di famiglia (21 novembre), Iano Planco e i suoi fratelli (12 dicembre). I primi quattro articoli esaminano in particolare gli studi filosofici di Planco. Negli altri tre si ricostruiscono i rapporti fra Planco e i fratelli, attraverso l'epistolario citato all'inizio di questa nota. Nel presente lavoro, ho inserito parti dell'epistolario non citate in quegli articoli.
La lettera "boccaccevole" pubblicata in Appendice, è del tutto inedita. Di Planco "scrittore di novelle boccaccesche" ha trattato Maria D. Collina nel cap. VII del suo volume Il carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Olschki, Firenze 1957: ove scrive che, di tali novelle, è "riuscita a rintracciare l'intero titolo" di due di esse, "e le prime righe del preambolo di una" (p. 150). Quindi, la lettera di frate Girolamo è un testo importante, come unica (possibile) traccia esistente di quelle novelle. Dal libro di M. D. Collina, è tolta la citazione di una lettera di Planco che appare all'inizio dell'Appendice.
Frate Girolamo documenta al fratello il suo suggerimento, con i riferimenti anagrafici ai protagonisti reali dell'episodio, in lettere successive, rispettivamente del 9 e 13 giugno dello stesso 1722.
Un particolare ringraziamento debbo, per la cortese disponibilità, al personale tutto della Gambalunghiana; e per suggerimenti fondamentali, ai fini della ricerca del materiale documentario presentato in queste pagine, alla dott. Paola Delbianco (Gambalunghiana), allo storico prof. Angelo Turchini e a Luigi Vendramin (Sezione Archivio di Stato di Rimini).
Circa la grafia dello pseudonimo Iano, ho preferito questa forma a quella più diffusa di Jano o Giano, perché la citata autobiografia latina s'intitola Ioannes Blancvs, sev Ianvs Plancvs, e perché nella lapide sulla tomba di Bianchi in Sant'Agostino a Rimini, è scritto Ianus. Sul passaggio da Ianus a Janus, sarebbe possibile un discorso che qui non è il caso di fare. Dirò soltanto, con il conforto di Bruno Migliorini, che quella "j" (semiconsonantica come in "jattura"), è grafia tipica del '700 (cfr. Storia della lingua italiana, Sansoni, Firenze 1961, p. 501). C'è stato chi, considerando che Giano italiano traduce Ianus latino, ha inteso lo pseudonimo planchiano come riproposta del nome proprio di una divinità pagana. Sul qual fatto l'Utile Monitorio scherzò, rammentando che in lingua etrusca la voce Giano (nome di "Deità mostruosa") "volea dir Somaro", ed aggiungendo con gratuita malvagità che Simone, messo a firma della Lettera Apologetica, e terzo nome di battesimo di Giovanni Paolo Simone Bianchi, appariva "ridicoloso" per un frequente uso letterario in favole comiche. Sappiamo che Simone era semplicemente il nome del nonno paterno. Ciò dimostra che talora le colpe dei nipoti ricadono sugli avi innocenti.
Che Iddio mi eviti la stessa sorte, dopo aver compilato le presenti pagine.
Antonio Montanari

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