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il Rimino - Riministoria
UN SEICENTO DA RIVALUTARE:
SCIENZIATI GALILEIANI TRA RIMINI E BOLOGNA.
GIUSEPPE ANTONIO BARBARI DA SAVIGNANO,
1647-1707

[Conferenza all’UNIVERSITÀ I. RIGHETTI, RIMINI,
10 dicembre 2004]

Nel 1757 monsignor Giuseppe Garampi scrive da Roma al proprio maestro Giovanni Bianchi (Iano Planco), chiedendogli notizie «di un tal Giuseppe Antonio Barbari di Savignano». Garampi (1725-1792) si è trasferito a Roma alla fine del 1746. Nel 1751 è divenuto Prefetto dell’«Archivio Secreto Apostolico Vaticano». Più tardi inizierà la sua importante carriera diplomatica.
Garampi precisa a Bianchi di aver rinvenuto nel «suo» Archivio varie lettere di questo Barbari «scritte a Monsignor Giovanni Ciampini in materie fisiche con un estratto d’un libro da lui pubblicato in Bologna nel 1678 con titolo L’iride, opera fisicomatematica. Di questo Barbari da Savignano io non ne avevo giammai avuta notizia alcuna». Giovanni Giustino Ciampini (1633-1698) è un enciclopedico studioso che si occupa di Archeologia, Letteratura, Scienza e Filosofia.
Le lettere di Barbari a Ciampini (in numero di tre, del 1691) sono oggi conservate nella Gambalunghiana fra le carte garampiane (SC-MS. 230, «Lettere e documenti vari…»). Esse, oltre al volume sull’Iride, sono gli unici documenti che attestino la sua attività di studioso ed i suoi interessi culturali.
I. Il 6 maggio 1691 Barbari ringrazia Ciampini per il giudizio favorevole ad una propria lettera «circa la produzione de Parelii» («zone luminose colorate che appaiono ai lati del Sole in seguito a fenomeni di rifrazioni dei raggi solari su cristalli minutissimi di ghiaccio sospesi ad alta quota», Zingarelli).
II. Il 17 giugno 1691 Barbari tratta di un «mostro bicorporeo» e della sua possibile origine biologica.
III. Il 23 settembre 1691 Barbari parla di un’opera di Paolo Bocconi sul modo di filar l’amianto. Qui ricorda («se non fallo») di aver conosciuto Bocconi nel 1682 in casa del conte Luigi Marsili. A Luigi Ferdinando Marsili, di cui era stato condiscepolo, Barbari lasciò il meglio dei propri pochi scritti. Marsili nel 1685 elabora il primo progetto dell’Istituto delle Scienze che nascerà soltanto nel 1714.
Giovanni Bianchi conosce la famiglia Barbari per aver avuto fra i suoi primi scolari don Innocenzo Barbari che nello stesso 1757 è curato della parrocchia di Santa Maria del Mare a Rimini. Così Bianchi risponde a Garampi, aggiungendo che Giuseppe Antonio era parente «di que’ Barbari di Verucchio de’ quali qui avemmo un Medico, che dimorò in Rimino da trent’anni, e poi ritornò a Verucchio a fare il Mercante da Seta, e che morì due o tre anni sono».
Circa Giuseppe Antonio, Bianchi precisa: «Quel Barbari di Savignano fu in Bologna scolaro del Montanari, e credo anche del Cassini, e fu condiscepolo ed amico del Guglielmini, con quale tenne carteggio per cose fisico-matematiche, e specialmente per cose astronomiche finché visse il Guglielmini. Essendogli morto un figlio in età di 20 anni, ed una sua figliuola essendosi fatta monaca in Roncofreddo mi pare che egli si ritirasse tra Filippini di Cesena. […] Quel libro dell’Iride del Barbari si ritrova nella Libreria Gambalunga stampato in Bologna l’anno 1678 […]». Bianchi non possedeva nella propria fornita biblioteca l’Iride, di cui nella Gambalunghiana esistono due esemplari.
Due notizie non appaiono nella lettera di Bianchi. Barbari era rimasto vedovo nel 1689. E nel 1692 aveva rifiutato l’invito alla cattedra di Matematica dell’università di Bologna. Forse i due fatti sono collegabili fra loro e con la stessa decisione di Barbari di ritirarsi fra i padri Filippini di Cesena. Muore nel 1707 a Savignano, dove era nato nel 1647.
Dopo gli studi letterari a Savignano e quelli filosofico-matematici a Rimini, Barbari si forma a Bologna sul finire degli anni Sessanta. Allora quell’università viveva un felice momento di proficua attività intellettuale, contrastata dal rigido controllo dell’Inquisizione e dal declino economico e sociale della città. Vi si stava costituendo la scuola sperimentale bolognese di ispirazione baconiana, gassendiana e galileiana.
Ne sono grandi maestri Marcello Malpighi per la Biologia, Geminiano Montanari per le Scienze matematiche, e Giovan Domenico Cassini per l’Astronomia. Con loro, Barbari ha stretti rapporti. Di Geminiano Montanari e forse anche di Cassini è stato scolaro. Montanari accoglie Barbari «con amore assai, e conosciutolo, l’ebbe come fratello» (G. I. Montanari).
Malpighi tiene Barbari in grande considerazione. Ne è prova il fatto che nel 1680 Malpighi invia alla Royal Society (di cui è socio onorario dal 1669), una copia dell’Iride di Barbari, assieme ad altri dieci testi scientifici.
La Royal Society, riconosciuta ufficialmente da Carlo II nel 1662, è nata fra 1645 e 1655 in un momento particolare della storia inglese: dopo la guerra civile del 1642-1645, nasce la repubblica (1649-1660) durante la quale sono aboliti i roghi per eresia e la censura. Alla repubblica segue la restaurazione monarchica del 1660 con il cit. Carlo II. Nel 1665 la Royal Society pubblica (sino al 1678) la rivista Philosophical Transactions fondata da Henry Oldenburg. (Nello stesso 1665 a Parigi nasce il Journal des Savants, a cui nel 1684 a Lipsia tengono dietro gli Acta eruditorum.)
La lettera (in latino) di Malpighi a Robert Hooke, segretario della Royal Society, descrive amaramente la situazione culturale italiana: «Presso di noi gli studi languiscono tanto che possono trovare conforto con le sole scoperte degli stranieri. Scoperte che ora sia sono rare, sia pervengono tanto tardi alle nostre mani che qui gli studi non progrediscono ma sopravvivono a stento».
Del volume di Barbari inviato da Malpighi, non c’è traccia oggi nella biblioteca della Royal Society, mentre ne esiste un esemplare nella British Library di Londra.
Giovan Domenico Cassini insegna a Bologna dal 1650 sino al 1669. In questi anni grazie a lui la città primeggia in Europa negli studi astronomici. Nel 1669 Cassini è chiamato a Parigi da Luigi XIV per dirigere l’Observatoire Royal appena inaugurato. Secondo un cronista savignanese del XVIII secolo (Giorgio Faberj), Barbari «aveva corrispondenza con li Dottori della Sorbona». La frase, nella sua genericità, rimanda agli ambienti culturali parigini, e quindi allo stesso Cassini.
Bianchi nella lettera a Garampi cita Domenico Guglielmini che fu allievo di Geminiano Montanari e Malpighi. Guglielmini subentra nel 1690 a Geminiano Montanari trasferitosi a Padova nel 1678, amareggiato per la politica del Senato bolognese che faceva correre il rischio allo Studio felsineo di cadere «in mano a’ preti».
Al proposito si può ricordare che Malpighi denuncia la concorrenza dei «Professori claustrali, che hanno rese dozzinali le lettere in ogni angolo, e le hanno avvilite». E che un anonimo difensore dell’università vorrebbe risollevarne le sorti per farne di nuovo il baluardo contro il ritorno alla Scolastica perseguìto da «Preti e Frati».
Un altro riminese è notissimo a Bologna, negli stessi anni in cui vi arriva Barbari. Si tratta di Lodovico Tingoli (1602-1669). Nelle Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi 1672, pp. 308-313) si legge la sua biografia. Tingoli aveva studiato a Bologna nel collegio dei Nobili retto dai Gesuiti. Poi «da adulto apprese in Roma gli studj delle Scienze, e della Filosofia, e della profession legale». A Roma si trovava allora suo zio mons. Cipriano Pavoni (maestro di camera di Paolo V), che diventa vescovo di Rimini alla fine del 1619 (20 novembre).
La biografia di Tingoli illustra bene i rapporti tra nobiltà (derivatagli dalla madre Maddalena Rossi) e potere ecclesiastico.
Rapporti ai quali il nostro Barbari è completamente estraneo. La sua famiglia è borghese, ricca, ma legata alla vita di un piccolo paese come Savignano. Il potere di questa famiglia non supera il confine del Rubicone, al massimo arriva ad un riconoscimento in àmbito diocesano. Dal quale possono essere partite sollecitazioni e raccomandazioni in quel di Bologna, senza per questo permettere al giovane Giuseppe Antonio di essere cooptato nel circolo riservato, ristretto e geloso dell’aristocrazia felsinea.
Lodovico Tingoli è imparentato con la famiglia Gambalunga, un cui discendente vive a Bologna nel periodo che c’interessa. Uno zio di Tingoli aveva sposato Maddalena Gambalunga, sorella di quell’Alessandro fondatore della nostra biblioteca pubblica. Da un altro loro fratello nasce Ermellina Gambalunga che sposa Cesare Bianchetti. Dalla loro discendenza deriva il nipote Cesare Bianchetti Gambalunga (1654-1733) che opera all’interno dell’Accademia dei Gelati di cui nel 1685 diventa «principe».
A Lodovico Tingoli è dedicato il volume che esce a Bologna nel 1668, intitolato «Giornale de Letterati di Bologna», che è semplicemente la copia di quello che usciva a Roma. Il termine di «Letterati» non richiama soltanto la Letteratura, indica bensì l’insieme dei vari rami del sapere per cui rimanda anche alla conoscenza scientifica, come documentano le recensioni presenti sullo stesso «Giornale».
Tra gli amici bolognesi di Lodovico Tingoli c’è uno studioso oggi del tutto dimenticato, Giovan Francesco Bonomi, autore molto prolifico. A noi preme qui ricordare soltanto un suo piccolo testo, che è un discorso accademico forse letto nella stessa Accademia dei Gelati. Si tratta del Il patrocinio d’Epicuro (1681). Sulla scia di quanto aveva fatto in Francia Pierre Gassendi Bonomi opera la rivalutazione di un pensatore considerato anticristiano per eccellenza. Secondo Gassendi, l’atomismo di Epicuro poteva fornire una base più adeguata alla nuova Scienza.
Epicuro era stato riscoperto da Erasmo da Rotterdam, secondo cui «il cristiano è il migliore discepolo di Epicuro». Epicuro infatti non era ateo. In un suo scritto (Lettera a Meneceo, 123, in Lettere, Milano 1994, p. 143) spiega al proposito: «Gli dei esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li concepiscono, perché non conservano la nozione che hanno».
Bonomi su Epicuro sostiene: «I suoi insegnamenti sono sani, i suoi costumi furono religiosi […]. Diedero occasione a far mal concetto di lui gl’invidiosi del suo sapere, vedendo tutta la gioventù affollata per ascoltare la di lui Filosofia, abbandonate affatto le scuole altrui» (pp. 118-119).
Un altro illustre bolognese, l’arcidiacono Anton Felice Marsili, invece, negli stessi anni (1671) definisce Epicuro «il più empio de’ Filosofi». Anton Felice è il fratello di Luigi Ferdinando Marsili.
L’arcidiacono Anton Felice ha avuto come maestro l’abate benedettino Vitale Terrarossa (1623-1692), allora lettore di Filosofia nello Studio felsineo, che lo ha aiutato ad elaborare le sue prove universitarie (1668-1669), nelle quali l’idea di Democrito di un mondo composto «e atomis casu congregatis», è riaffermata come non contraria alla religione cristiana. Marsili nelle sue «tesi» spiega che i professori cattolici, così come hanno potuto accogliere Aristotele, possono allo stesso modo seguire Democrito ed insegnare l’atomismo, senza timore che esso implichi la negazione di Dio.
Su Democrito, l’arcidiacono ritorna nel suo scritto del 1671 con cui accusa Epicuro. Marsili propone la riabilitazione di Democrito, per toglierlo «dal catalogo degli Ateisti, mostrandolo genuflesso a gli altari conoscitore della Deità». Questo scritto del 1671, intitolato Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare, appare Prose de’ Signori Accademici Gelati di Bologna.
L’arcidiacono Marsili nel 1687 tiene a battesimo nella propria abitazione due accademie: una «per le materie ecclesiastiche», l’altra per «le filosofiche sperimentali», come si legge nel programma apparso immediatamente sul «Giornale de’ letterati» che padre Benedetto Bacchini pubblicava a Parma dall’anno precedente. A Rimini le idee di padre Bacchini ed i programmi dell’arcidiacono Marsili del 1687, arrivano attraverso i Padri Teatini, nella cui biblioteca si conservavano i tre volumi del «Giornale de’ letterati» del periodo 1686-1689, ora in Gambalunghiana.
Il tipografo delle Prose dell’Accademia dei Gelati è Manolessi, lo stesso che nel 1678 pubblica L’iride di Barbari. Si tratta di Emilio Maria ed Evangelista Manolessi, figli di quel Carlo Manolessi, libraio-tipografo, che nel 1644 era stato condannato a tre tratti di corda ed a tre anni di carcere per aver tenuto nella sua bottega libri proibiti; e che nel 1655-56 ha curato fra mille difficoltà la prima edizione delle Opere di Galileo, priva però della Lettera a Cristina di Lorena e de Il dialogo dei massimi sistemi. Nella Lettera a Cristina di Lorena del 1615, Galileo sostiene la separazione fra Scienza e Fede. L’anno dopo la Chiesa condanna la teoria copernicana, ed ingiunge a Galileo di non insegnarla. Il dialogo, uscito a Firenze nel 1632, provoca la condanna nell’anno successivo.
Il libro di Barbari contiene nella prima parte un vero e proprio “discorso sul metodo” che riassume l’ampio dibattito filosofico del tempo. L’arcidiacono Marsili nel testo del 1671 parla di due modi di filosofare: «Molti giurano in un Filosofo, e voglion quello per guida», cercando di «accozzare al vero l’autorità». Altri invece «voglion esser condotti dalla esperienza», partendo soltanto «dal vero».
Barbari sembra riprendere le parole dell’arcidiacono Marsili, quando scrive che esistono due modi di filosofare. Da una parte ci sono i «giurati mantenitori delle opinioni di chi che sia». Dall’altra, quanti pongono come «fondamento d’ogni umano discorso» la «verità del fatto», le «esperienze sensate». Galileo ha usato l’espressione «sensate esperienze» nella Lettera a Cristina di Lorena.
Rispetto a Marsili ed allo stesso Galileo, Barbari aggiunge un’osservazione: «l’esperienze sensate, e le apparenze corrispondenti à qual si sia cognizione non possono essere in tanto gran numero, che bastino per conchiuderne la necessità».
Con un contributo originale, Barbari indaga sul concetto di esperienza per mostrarne tutta la complessità e debolezza nel pretendere d’arrivare a conclusioni certe e generali. Sembra di leggere il passo di una lettera di un discepolo galileiano, Benedetto Castelli, scritta nel 1639 e uscita a stampa trent’anni dopo: «mi pare che sia troppo gran temerità il pretendere d’intendere perfettamente et assolutamente le cose della natura».
Secondo Barbari esiste «una terza maniera di filosofare», se non rifiuteremo né «approveremo alla cieca le speculazioni, e le fatiche degli antichi, mà facendone essame diligentissimo, cimenteremo li loro detti qualche volta falsi, con l’opere della Natura sempre veritiera».
Barbari non accetta il dogmatismo dell’ipsedixit dei cosiddetti aristotelici come il cesenate Scipione Chiaramonti (1565-1652), strenuo oppositore di Galileo. Da Galileo Chiaramonti è stato citato nel Dialogo per bocca di Simplicio, filosofo aristotelico di stretta osservanza. Chiaramonti nel 1654 ha pubblicato un trattato sempre sull’iride. Barbari definisce Chiaramonti «gran Filosofo Peripatetico», con un’ironia che gli serve per prenderne le dovute distanze.
Barbari rilegge Aristotele allo scopo di dimostrare che «falsamente è stato interpretato» (Iride, p. 97). Barbari segue così l’esempio galileiano di usare Aristotele contro gli aristotelici. Nel Dialogo Filippo Salviati, difensore del sistema copernicano, dice: «non dubito punto che se Aristotile fusse nell’età nostra, muterebbe oppinione».
Nel contempo Barbari compone un elogio del proprio secolo e della nuova Scienza: «Al nostro secolo anche per altri capi memorabile, e glorioso si deve finalmente il vanto di haver restituita la libertà alla Filosofia, e resala di serva, e schiava ch’ell’era dominante, e padrona. Al famosissimo Galileo, e altri bellissimi spiriti Italiani, e stranieri, dobbiamo la gloria di haver liberata e sciolta la Natura stessa da que’ ceppi strettissimi, ne’ quali per l’adulazione, ò più tosto scempiaggine di moltissime delle sentenze d’Aristotele, e d’altri ell’era stata imprigionata, e infelicemente ristretta».
La Filosofia è «padrona» in quanto non è più «ancilla» della Teologia, come avevano teorizzato Pietro Damiano e Tommaso d’Aquino. E perché, dopo Galileo, la Filosofia non deve più dipendere dall’«autorità di luoghi delle scritture» (Lettera a Cristina di Lorena).
Anche Malpighi parla di una «filosofia libera» che è alla base della nuova Medicina. Muratori inserisce nelle Riflessioni sopra il buon gusto (1703), a proposito nell’aristotelismo questo apologo: «…narrava Marcello Malpighi, gloria de’ nostri tempi, che tutti i filosofi da molti secoli sino al Cartesio erano stati rinchiusi dentro un’ampia o sala o galleria o prigione (ché in ciò non ben s’accordano gli storici), dove continuamente passeggiavano, combattevano, talora eziandio venendo daddovero alle mani, e sempre quivi standosene schiavi d’Aristotele, senza sapere che altro paese ci fosse al mondo. […] ora i più saggi van cauti di molto, guardandosi di lasciarsi confinare in quel tal recinto» (p. 302, ed. Arezzo 1768).
La natura «liberata» di cui parla Barbari, è quella teorizzata un secolo prima da Bernardino Telesio che avvia la Fisica sulla strada di una rigorosa ricerca autonoma, sganciandola da ogni tipo di presupposto metafisico.
Guglielmini sembra riprendere l’Iride di Barbari dieci anni dopo, nel 1688 sul «Giornale de’ Letterari» di Parma, quando scrive circa l’impossibilità di giungere a conclusioni certe e generali sulle cause dei fenomeni naturali. Mancano «ancora tante osservazioni», precisa Guglielmini, onde «formare un sistema» che spieghi il rapporto causa-effetto delle «cose» esistenti. Fra «qualche secolo», conclude Guglielmini, ci si arriverà.
Barbari non lascia ai posteri il compito di affrontare il problema della conoscenza scientifica. Suggerisce di ricorrere al metodo dell’analogia, anche se è consapevole che neppure questo è «abile a farci conseguire una cognitione certa, e scientifica delle cose». Tuttavia «almeno in una tal maniera si cerca di dimostrare alcune cose men note, e più dubbie per mezzo d’altre più cognite, e più certe».
«In fine», avverte Barbari, questo è il «metodo, col quale hanno filosofato Platone, Aristotele, Democrito, Epicuro, e gli altri migliori Filosofi». Tra i quali troviamo Bacone che aveva parlato di un sistema rivolto ad «intendere le cose ad analogiam mundi, collocandole nel loro stato naturale, magari per mezzo di esperimenti». Ed ai quali dobbiamo aggiungere lo stesso Malpighi il quale scrisse che «le cose della natura», benché appaiano «tanto disparate», se le consideriamo con esattezza e maturità, «si trovano non così disgiunte, che non si osservi una concatenazione, et uniformità d’operare, e però vicendevolmente vengono illustrate».
La modernità di Barbari sta nella consapevolezza dei limiti della conoscenza umana. Per questo fatto, ed a buon diritto, lo possiamo inserire tra gli esponenti di quel «galileismo» che è critico verso il passato, non dogmatico nella ricerca delle cause dei fenomeni e consapevole appunto dei limiti della Scienza. Un «galileismo» che ha abbandonato la sicurezza che lo stesso Galileo aveva avuto nei confronti del suo sapere matematico ritenuto infallibile nel leggere il libro della Natura.
Autore nel 1611 di un trattato di ottica in cui parla anche dell’arcobaleno, il De radiis visus et lucis in vitris, perspectivis et iride, fu l’arcivescovo di Spalato Marco Antonio De Dominis (1560-1624). Per aver ipotizzato una Chiesa universale nella quale far convivere varie confessioni cristiane, De Dominis fu incarcerato a Castel Sant'Angelo con l’accusa di essere un eretico relapso. Avendo già abiurato, egli era in serio pericolo di essere giustiziato sul rogo. Morto prima del processo, l’8 settembre 1624 sotto quell’Urbano VIII che condanna Galileo nel 1633, il suo cadavere è bruciato assieme ai suoi manoscritti a Campo dei Fiori il 21 dicembre dello stesso anno.
E De Dominis è l’unico autore che, a proposito degli studi sull’iride, Barbari non cita.

Antonio Montanari


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