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il Rimino - Riministoria
La formazione di papa Ganganelli
alla scuola di Iano Planco
(bozza senza note,
Studi Romagnoli, 30 ottobre 2005
)

Le biografie dovrebbero essere simili a mappe in cui segnalare la presenza di percorsi che s’intersecano fra loro, secondo una dialettica (tutta umana e quindi sostanzialmente storica), tra istinto o vocazione personali, eredità biologiche e condizionamenti ambientali. Ne risulterebbe un’evidenza elementare: gli itinerari di queste mappe sono frutto di avventure soggettive e di influssi esterni, e non sono mai lineari. Alla fine si scoprirebbe che quanto solitamente a noi appare come un ritratto definito nella sua solenne immobilità, è solamente una sintesi di comodo (per molti versi arbitraria) dell’infinito ed inquieto fermento che costituisce e caratterizza una personalità nel suo divenire. Uno degli itinerari più importanti (e da scandagliare con assoluta priorità da parte dei posteri), è quello dell’apprendistato intellettuale iniziale, e delle sue manifestazioni come dialogo od opposizione rispetto alla figura ed al ruolo del «maestro» con cui ci si confronta od opera. Per gli «ingegni superiori», scrisse Giacomo Leopardi (Zibaldone, n. 265, 6 ottobre 1820), ogni apprendistato intellettuale serve a scegliere il «meglio» (o quello che tale è reputato) dalla scuola frequentata.

Lorenzo Ganganelli il 30 giugno 1759 scrive a Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) di esser stato nominato cardinale, dichiarando che gli dispiacerebbe che apprendesse la notizia da altri piuttosto che da lui stesso. Ganganelli aggiunge: «Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me [...]». Le poche parole che il neo-porporato confida all’antico maestro, in un’occasione così straordinaria, inquadrano il nostro argomento e proiettano una luce particolare su di esso, sottolineando appunto il senso di quell’apprendistato intellettuale di cui parla Leopardi, e che il frate-cardinale romagnolo destinato al soglio di Pietro riconsidera nell’ottica di un bilancio che pone se stesso in rapporto con quella scuola riminese di cui fu uno dei non pochi celebri allievi.

Nel passo che abbiamo citato Ganganelli non fa preciso riferimento al contenuto dell’insegnamento di Bianchi, ma partendo da un confiteor esistenziale in un momento che gli appariva pieno di incognite per le responsabilità nuove che s’affacciavano sulla sua strada, egli riassume tutto in una confidenza che vuol essere riconoscimento del ruolo educativo svolto dal medico riminese sulla sua persona, o per meglio dire personalità. Ruolo educativo che resta il massimo obiettivo di ogni istruzione, che ne sancisce il successo, giustifica l’impegno e ne prospetta o condiziona la valutazione complessiva finale.

Gli influssi che si determinano, le sollecitazioni ricevute, le proposte culturali sperimentate nel corso per quanto elementare o propedeutico di una pedagogia della mente rivolta al vaglio critico delle nozioni consolidate e di quelle che si stanno formando in una maniera che potremmo definire galileiana, cioè per via sperimentale, sono tutti fattori che caratterizzano un apprendistato intellettuale, e si depositano come sostrato di ogni successiva operazione culturale, per cui essi vengono assimilati talmente a fondo che non si è costretti a enumerarli ogni volta (o almeno una volta per tutte), ma diventano un habitus che ci appartiene e del quale siamo consapevoli. Anche se non lo ammettiamo per peccato di orgoglio. Anzi la felicità della loro assimilazione ne precisa bontà ed importanza nell’occasione di ogni nuovo approccio, ogni inedita riflessione, ogni innovativa occasione personale.

Il 7 giugno 1758 a Planco, Ganganelli ha ricordato con «affetto» la città di Rimini («sono uno de’ suoi abitanti»). Il 15 settembre 1763 gli scrive: «non passa forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor Bianchi, e che non abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino». Il 25 maggio 1769 tocca a Bianchi prendere la penna per congratularsi con l’antico scolaro salito al soglio pontificio. L’epistola latina che compone con scrupolosa attenzione (ne ho contate tre stesure ) ha la gravità diplomatica di una corrispondenza ufficiale, ma essa gronda intimamente di una cordialità che conferma un solido rapporto d’intelligenza, e che porta l’attempato medico a confessarsi riprendendo un discorso avviato tre anni prima, domenica 21 settembre 1766 durante quel soggiorno a Roma (dal 20 settembre al 10 ottobre) che gli aveva permesso di ritrovare Ganganelli «post fere dimidium saeculum», nel corso di un lungo viaggio intrapreso il 9 agosto e concluso il 3 dicembre allo scopo di ricreare «Animum Corpusque». Dolcemente accolto da Ganganelli, Bianchi avrebbe voluto da tempo scrivergli per ringraziarlo anche dei colloqui che «suaviter» aveva avuto con lui. Il dottore riminese adesso deve giustificare il suo silenzio, chiedendo venia: e per farlo ha un sussulto di dignità che si traduce nella confessione sincera che è l’unica maniera di trovare ascolto non soltanto in un sacerdote, ma soprattutto in un discepolo che lo conosceva bene da lungo tempo: «Id quidem, ut facerem compescuit semper pudor meus quidam subrusticum». Questo «pudor» assume la dignità di autorevole conferma di un carattere difficile che non doveva misurarsi in quell’occasione con una polemica di un suo contrario, ma esprimere un debito di riconoscenza non manifestato prima, il che poteva apparire allo stesso Bianchi un segno d’ingratitudine ancora più grave perché misurato non su beni materiali, ma sul tesoro prezioso di un rapporto con il quale il vecchio maestro doveva riallacciare l’importanza del presente con la confidenza del passato. E qui la retorica di una scrittura elegante parte dall’annuncio dell’elezione di Ganganelli per ribadire (e superare) l’imbarazzo personale dovuto agli aspetti negativi del suo comportamento, con quel pudore e quella verecondia che erano stati i sigilli di un silenzio, ora finalmente cessato davanti alla comune esultanza della città lieta che un suo conterraneo fosse stato scelto a guidare la Chiesa romana. Quella città dove il giovinetto Ganganelli aveva appreso «prima bonarum Artium et Disciplinarum Rudimenta apud nos».

Nel giornale di viaggio Bianchi aveva annotato che lui ed i suoi due discepoli Giovanni Cristofano Amaduzzi ed Epifano Brunelli (che lo stava accompagnando nelle varie tappe), appunto domenica 21 settembre 1766 si erano recati ai «Santi Apostoli dal Sig. Cardinale Ganganelli, che ci ricevé con somma cortesia e famigliarità, ci diede il Cioccolato e si discorse per due ore di varie cose, e indi ci licenziammo». La scena sembra una delle tante che si susseguono con la consueta speditezza negli appunti che quotidianamente Bianchi stende, ma possiamo immaginare come essa abbia avuto una certa solennità radunando in un’occasione eccezionale tre scolari accanto al maestro in un momento che era di bilancio per tutti.

Ganganelli è stato allievo della prima ora nella scuola privata aperta da Bianchi a Rimini nel 1720. Nato nel 1705, egli si trattenne a Rimini sino al diciottesimo anno, cioè sino al 1723 circa. Amaduzzi, come da sua dichiarazione, attese «per sette anni allo studio della Filosofia e Lingua Greca sotto la disciplina del Ch: Dott. Giovanni Bianchi», cioè dal 1755 al 1762, quando Planco lo avvia a Roma , dove è preso in consegna proprio da Ganganelli. Bianchi, citando i favori ricevuti da Clemente XIV, ricorda i due incarichi attribuiti ad Amaduzzi: la cattedra di Greco alla Sapienza, e la Soprintendenza della Stamperia di Propaganda Fide. L’abate Epifanio Brunelli era figlio del Bibliotecario gambalunghiano Bernardino (in carica dal 1748 al 1767), al quale subentrerà dal 1767 al 1796. Anche altri due suoi fratelli erano stati allievi di Planco, Cesare ed il dottor Giambattista.

Alle felicitazioni di Bianchi per l’elezione al soglio di Pietro, Ganganelli fa rispondere con una lettera su cui il medico riminese annota nei propri diari sotto la data di lunedì 25 settembre 1769 mattina da «Santarcangiolo» : Clemente XIV «mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù». La stessa sera, a Savignano in casa di Pietro Borghesi, Bianchi ai presenti legge due sue lettere inviate a Clemente XIV, «dove nella seconda io gli dico che egli trae la sua prima origine da Verucchio, dove la trassero i Malatesti, essendo stato concepito il Papa dalla madre in Verucchio, e poi partorito in Santarcangelo, e studiò la Gramatica, l’Umanità, la Rettorica in Rimino ed anche la Filosofia vestendo l’abito religioso di San Francesco in Mondaino, o sia in Monte Gridolfo, dove andava nelle vacanze a villeggiare N. S. quando era giovinetto».

Nelle «Novelle» fiorentine del 27 luglio 1770 (I [XXXI], 30, coll. 471-474), Bianchi ricorda la benevolenza usatagli dal papa: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della Filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente». Questa notizia ha un retroscena che Bianchi non conosceva e che apprendiamo da una lettera di Amaduzzi a Aurelio Bertòla del 3 gennaio 1776 (Planco era scomparso il 3 dicembre 1775):



Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua gloriosa vita dalla bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si compiacque a fare della sua virtù, e della sua celebrità l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà sempre nel mio cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione nella mente. Egli il dichiarò uno de’ custodi della sua salute, onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto, ed in tale occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua mediazione perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed insieme glielo duplicasse, come infatti seguì.



Il papa intervenne a favore di Bianchi attraverso il Legato di Ravenna cardinal Vitaliano Borromeo che il 23 agosto 1769 scrisse alla Municipalità di Rimini, mettendo in moto la procedura burocratica. La decisione di confermare Bianchi come medico primario della città «vita durante» e di raddoppiargli lo stipendio da 200 a 400 scudi annui, è presa dal Consiglio di Rimini il 28 agosto 1769 come risulta dal relativo verbale che si conclude con questa espressione: «Congregati unanimes […] acclamarunt fiat, fiat, fiat». Immediatamente si scrive al papa, facendo riferimento alla comunicazione inoltrata dal Legato di Ravenna che aveva informato della nomina di Bianchi ad «Archiatro», e che aveva trasmesso «le premure» papali «perché venisse confermata sua vita durante» la carica di medico primario al dottor Bianchi, «coll’aumento del solito annuo stipendio». Si assicura il pontefice che il «Generale Consiglio» di Rimini ha accettato il «comando» papale confermando nella sua carica Bianchi «sua vita durante» e raddoppiandogli lo stipendio annuo. La lettera al papa è inoltrata tramite il riminese abate Giulio Cesare Zollio, al quale si scrive lo stesso 30 agosto. Zollio era a Roma. Di tale lettera al papa si parla anche in altra missiva all’abate Giacomo Diotallevi che pure lui abitava a Roma e che come Zollio era riminese.

Ganganelli raccoglieva i conterranei in casa propria in una conversazione del venerdì mattina in cui intervenivano anche gli abati Stefano Galli riminese, Costantino Ruggieri e Gaetano Marini santarcangiolesi, ed il sammaurese padre Agostino Giorgi. Simpatie verso i cosiddetti giansenisti univano Amaduzzi, Galli, Ruggieri e Giorgi. L’ingresso di Amaduzzi nella Stamperia di Propaganda Fide incontrò l’opposizione del suo prefetto, cardinal Giuseppe Maria Castelli (futuro Camerlengo del Sacro Collegio), che lo riteneva antigesuita, per cui aveva già respinto un precedente intervento a favore del savignanese fatto da Ganganelli. Marini è campione massimo dell’«erudizione nuova». Ruggieri nel 1766 è protagonista di uno «spietato suicidio» come lo definì Amaduzzi con Bertòla , conseguente ad una mania di persecuzione. Stefano Galli come Marini ed Amaduzzi proviene da quella scuola che possiamo chiamare «setta dei Bianchisti», usando una definizione che ricaviamo da lettere di suoi ex alunni. Dopo un tirocinio assieme a Garampi presso la biblioteca civica riminese Gambalunga come aiutante del bibliotecario Lodovico Bianchelli, alla cacciata in esilio di questi, Galli lo sostituì nel 1748 dal 28 giugno al 6 dicembre, prima che le raccomandazioni del Legato portassero alla scelta di Bernardino Brunelli, il padre di Epifanio che ritroviamo con Bianchi a Roma dove era giunto nell’estate del 1751.

L’esemplare vicenda amaduzziana (l’aiuto che l’abate di Savignano riceve da Ganganelli tramite Bianchi, e l’aiuto che da Ganganelli ottiene per il comune maestro) compendia alcuni caratteri essenziali di una società chiusa, che forse non è delimitabile al solo «antico regime», e nella quale la reciproca testimonianza d’amicizia è attuata con protezioni e favori che fanno migliorare la vita di persone che però non appartenevano alle classi dominanti e che nello stesso tempo erano degne di ogni attenzione per la loro capacità intellettuale.

I riminesi di Roma nel corso dei due decenni posti a cavallo della metà del secolo XVIII, hanno due punti di riferimenti in Ganganelli e Giuseppe Garampi approdato alle rive del Tevere alla fine del 1746 , chiamato da quel Benedetto XIV che era in rapporto d’amicizia con Giovanni Bianchi. Nel 1769 Ganganelli lo invia Nunzio apostolico in Polonia, facendogli proseguire una carriera diplomatica iniziata nel 1761 con Clemente XIII che lo aveva fatto partecipare alla Dieta di Augusta. Anche Garampi proveniva dalla «setta» di Bianchi. Amaduzzi arriva a Roma nel 1752 quando Ganganelli è cardinale da tre anni e lavora in Vaticano da dodici.

Nel giornale di viaggio del 23 settembre 1766 (c. 531r) Bianchi racconta della visita compiuta a San Pietro con Amaduzzi e Brunelli «coi quali tornai a considerare le cose di quel gran Tempio, che io avea vedute più di 40 anni sono, e poi salij da Mons. Garampi, che mi condusse nella Libreria Vaticana […]».

Nel gioco dei rimandi tra presente e passato, possiamo inserire un ricordo di Giovanni Antonio Battarra. Anch’egli dopo l’elezione a papa di Ganganelli gli scrive, «avendolo conosciuto qui da ragazzo, contando uno schiaffo che mi diede in giorno nell’andare a scuola». Pure Battarra ha una risposta tramite la burocrazia vaticana (dal segretario di Stato Pallavicini), «una lettera molto gentile con espressioni per me onorifiche».

Particolare curioso: nell’elenco che Bianchi pubblica nel 1751 dei propri scolari «che più si sono distinti», manca proprio il nome di Ganganelli. A noi non resta che formulare la timida ipotesi del rispetto che l’antico maestro voleva dimostrare appunto con il silenzio verso un protagonista del mondo francescano, in momenti che per Bianchi stesso sono particolarmente inquieti a causa dell’ambiente religioso cittadino nel quale si preparano le premesse per il colpo grosso della condanna all’Indice di Planco, emessa il 4 luglio 1752 contro la sua dissertazione sull’Arte comica recitata ai Lincei riminesi l’11 febbraio dello stesso anno, «ultimo venerdì di carnovale», quando l’Accademia tenne un’adunanza straordinaria e «solenne» con musica ed esibizione della «venusta» cantante ed attrice Antonia Cavallucci in Celestini.

La vicenda relativa alla condanna all’Indice, e le sollecitazioni amorevoli di papa Ganganelli affinché, come abbiamo visto, Bianchi continuasse «a promuovere li buoni studi di Filosofia» («della Filosofia tutta»), ed a tirare avanti i suoi studi e le sue stampe, sono due aspetti strettamente correlati fra loro, e da considerare inscindibili ai fini soprattutto del nostro discorso sulla formazione giovanile di Clemente XIV alla scuola riminese di Planco. L’incoraggiamento che Ganganelli esprime al maestro, non deve apparirci una formula generica ed occasionale, ma la sintesi di un atteggiamento che ha duplice valenza. Da un lato Ganganelli si dimostra favorevole agli studi «della Filosofia tutta», non obbligando a considerarla secondaria se non inutile in quanto sottomessa alla Teologia, anzi ritenendola fondamentale per una formazione pedagogica completa e solida. D’altro riconosce dignità e correttezza all’insegnamento di Bianchi, che non era mai stato gradito né approvato dagli ambienti ecclesiastici ufficiali riminesi. Proprio da questi ambienti partono nel 1752 le «illustrissime, e reverendissime insolenze» contro Bianchi, delle quali parla un suo corrispondente romano, Giuseppe Giovanardi Bufferli. E delle quali possiamo trovare l’antefatto razionale ed emotivo nell’avversione che tali ambienti nutrivano verso la pedagogia planchiana , basata non sullo studio dei princìpi della Scolastica, ma su quello delle manifestazioni di una Natura che non è ordinato ed armonico sistema secondo l’ortodossia di derivazione tomistico-aristotelica, bensì il drammatico scontrarsi di misteri ed errori, nonché di orrori come quei «mostri» dei quali Bianchi tratta in una dissertazione ai suoi Lincei il 28 febbraio 1749, poi pubblicata in due edizioni a Venezia. Bianchi dà per scontato che la perfezione naturale, presupposta dai filosofi scolastici, sia smentita da questi fenomeni. Il papa che esorta Bianchi a continuare nei «buoni studi di Filosofia», conosceva per esperienza personale la metodologia scientifica del maestro e, di certo, le implicazioni che essa aveva non sul piano strettamente dottrinale ma su quello dei rapporti con l’ambiente cittadino in cui Planco viveva osteggiato dalla curia locale. Prima del vescovo Alessandro Castellini per la dissertazione sull’Arte comica, altri presuli avevano contrastato Bianchi a partire dal 1726, quando Giovanni Antonio Davìa aveva rinunciato alla carica, facendogli venir meno un appoggio fondamentale. Una pausa di respiro Bianchi ebbe nel 1745 quando ottenne da Benedetto XV il permesso «di fare le sezioni dei cadaveri» quale studioso di Anatomia (materia che aveva insegnato a Siena dal 1741 al 1744). I contrasti dovettero poi riprendere se il vescovo Francesco Castellini non voleva nel 1777 che fosse stampato l’elogio funebre di Bianchi, scritto dal suo ex allievo e sacerdote Giovanni Paolo Giovenardi.

Nonostante tutto, Bianchi fu chiamato a dettare l’iscrizione che, per i sacri riti celebrati in cattedrale per l’elezione di papa Ganganelli, fu posta «sopra la porta del Duomo dalla parte di dentro» come si legge nella «Gazzetta di Rimino» del 5 giugno 1769. La notizia è inedita e me la fornisce il prof. Giuseppe De Tiberiis curatore dell’edizione delle lettere di Romualdo De Sterlich allo stesso Planco. L’iscrizione diceva:

CLEMENTI XIV GANGANELLIO
PONTIFICI O. M. PATRICIO ARIMINENSI
ET BONARVM LITTERARVM FAVTORI
QUOD
AD PONTIFICATVM MAXIMVM FAVSTE
FELICITERQVE FVERIT INAVGVRATVS EVECTVSQVE
FRANCISCVS DE COMITIBVS CASTELLINIS EPISCOPVS
ET CANONICORVM DIVAE COLVMBAE
S. ECCLESIAE ARIMINENSIS COLLEGIVM
SACRIS PER TERNARIV DIEM SOLEMNITER INDICTIS
PLAVDVNT
POSTRIDIE KAL. JVNIAS ET SEQVENT.
ANNO A CHRISTO NATO MDCCLXIX.

Antonio Montanari


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