Riministoria© Antonio Montanari

L'insonnia di papa Ganganelli

Rimini 1768. Tra gli argomenti di conversazione che appassionano gli intellettuali cittadini, c'è la crisi nei rapporti tra il duca di Parma, Ferdinando, ed il papa Clemente XIII (Carlo Rezzonico). Ferdinando appartiene alla dinastia dei Borboni che ha stretti legami con le principali case regnanti d'Europa. Suo padre Filippo è figlio di Filippo V di Spagna e di Elisabetta Farnese, ed ha sposato Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV di Francia.

Parma e Piacenza sono state assegnate ai Borboni nel 1720. Il primo duca è stato Carlo (zio di Ferdinando dal ramo paterno), passato poi al regno di Napoli nel '34 ed a quello di Spagna nel '59. Il padre di Ferdinando, Filippo, ha ricevuto il titolo nel '48, con la pace di Aquisgrana che conclude la guerra di successione austriaca. Alla morte di Filippo, nel 1765, gli subentra Ferdinando che ha soltanto 14 anni.

Nonostante l'educazione illuministica impartitagli a corte da personaggi come il filosofo Condillac, Ferdinando è un tipo bigotto e retrivo. Su di lui ha influenza il primo ministro Guillome-Léon Du Tillot, un francese non di grande cultura ma assai energico, appassionato alle riforme, che dirigerà la politica di Parma fino al '70, quando la moglie di Ferdinando, Maria Amalia d'Asburgo, autoritaria e conservatrice, sesta figlia di Maria Teresa d'Austria, lo farà licenziare quasi subito dopo le proprie nozze.

Du Tillot nel '68, l'anno di cui stiamo narrando, caccia i Gesuiti da Parma, seguendo la linea inaugurata dal Portogallo (1759), e ripresa da Francia ('64), Spagna e regno di Napoli ('67). Il re di Napoli, dal '59 è un cugino omonimo di Ferdinando, che sposa Maria Carolina, sorella di Maria Amalia e di Maria Antonietta che diventerà la moglie di Luigi XVI di Francia. Chi dirige la politica napoletana, sia con Carlo III sia con il figlio Ferdinando IV, è Bernardo Tanucci che lotta contro i privilegi ecclesiastici, abolisce molti ordini religiosi, ed espelle i Gesuiti, definiti da lui "un vero canchero del genere umano". Tanucci si giustifica invocando l'autorità divina del monarca.

A Parma, Du Tillot (dalla cui parte stanno i numerosi giansenisti, presenti soprattutto a Piacenza), dopo aver ridotto i privilegi fiscali e giurisdizionali del clero, per rispondere alla scomunica papale che lo ha colpito, decreta lo scioglimento della Compagnia di Gesù, ed abolisce l'Inquisizione, anche per reagire alle pretese territoriali della Chiesa, da cui il ducato ha dipendenza feudale sin dal 1545. Il papa con la "bolla" In coena Domini si scaglia contro Ferdinando: dichiara nulla tutta la legislazione parmense dal 1764 in poi. Clemente XIII, sostenitore di una linea filogesuitica, è sul trono di Pietro dal '58. Sono per Roma tempi difficili. Il dispotismo illuminato avanza rivendicazioni giurisdizionalistiche per subordinare la Chiesa allo Stato. In Francia riaffiora la tendenza autonomistica del gallicanesimo. Ci sono poi i fermenti dei giansenisti, contro cui Clemente XI nel 1713 ha lanciato la condanna con la "bolla" Unigenitus. Francia, Spagna e Napoli, ovviamente, si schierano dalla parte di Parma. Contro Du Tillot, la Chiesa attraverso Maria Amalia coagula forze di corte e popolari che portano alla cacciata del francese, e ad una politica conservatrice e clericale.

A Rimini, il caso del ducato emiliano è conosciuto in tutti i particolari. Iano Planco ne scrive in molte lettere al suo ex allievo abate Amaduzzi che lavora a Roma. "Non bisognava fare quel Breve così enfatico contro la corte di Parma", che è tanto ben legata a Napoli, Francia e Spagna, sostiene Planco: "in quel Breve sono molte cose esagerate". E teme che il duca invada le province della Romagna. In città, corre voce che "si pretende che il Papa revochi il Breve contro la Corte di Parma", e che "il gran Mastro di Malta abbia espulsi i Gesuiti col consenso però di Roma". Ipotesi, questa, senz'altro infondata, visto l'atteggiamento favorevole di Clemente XIII verso i "Loyolisti".

Planco critica Tanucci per l'espulsione della Compagnia da Napoli: "…né mi fa spezie il fatto del Marchese Tanucci, che prima assicurò i Gesuiti, e che dopo improvvisamente gli cacciò", per ordine ricevuto dalla Spagna. I Gesuiti reagiscono all'atteggiamento nei loro confronti con delle "Imposture, raccontando il fatto di quella Madonna… di Maiorca… che avea le mani giunte, e che dopo l'espulsione de' Gesuiti le ha spalancate; ma gli Spagnuoli loro hanno reso la pariglia mettendo fuori la Profezia del Venerabile Palafax che confermava con un altro prodigio la giusta loro espulsione".

Planco è un ex allievo della Compagnia, come Amaduzzi, e come lui non è per nulla benevolo verso di essa: "…è un mistero, come i Gesuiti, che sono espulsi dapertutto, nel solo Stato nostro facciano delle reclute. (…) Forse penseranno d'impadronirsi dello Stato nostro col piantare in esso la loro Monarchia, che non hanno potuto piantare, e stabilire altrove", nemmeno nei "paesi di Mamalucchi". Non di questa monarchia gesuitica ha bisogno oggi la Chiesa, pensa Planco, ma di riforme nel proprio Stato, "se non vorrà vedere tutto rovinato" in campo economico dalle vecchie regole feudali.

La Roma di Clemente XIII (1758-69), è descritta da Amaduzzi a vari corrispondenti: il papa viene presentato incredulo davanti alle notizie che gli forniscono contro i Gesuiti. Il pontefice difende la Compagnia, quando in Francia cacciano i "Loyolisti". L'espulsione dalla Spagna fa osservare ad Amaduzzi che Roma ha "una protezione fanatica… per i Gesuiti", e che il re di Spagna si è mosso contro di loro "per promuovere il buon costume e la sana dottrina".

Amaduzzi dimostra apertamente il suo antigesuitismo e la sua simpatia verso le corti borboniche in varie epistole. Tuttavia, riconosce gli eccessi dei sovrani, ma critica pure il "cattivo stile" della Chiesa con le corti straniere, suggerendo moderazione, discrezione, equità. Il cardinale Ganganelli, scrive Amaduzzi, prova "il più vivo rammarico" per l'atteggiamento filogesuitico del riminese Giuseppe Garampi, nunzio a Vienna.

Quando muore Clemente XIII, Amaduzzi scrive a Planco che "nessun rincrescimento" dimostrò la gente, "eccetto alcuni pochi suoi familiari e i benevoli suoi Gesuiti". ("L'infelice pontificato di Clemente XIII", osserverà nell'83, "consistette in cozzare coi sovrani ed in proteggere i Gesuiti. A questo impegno egli associava talento e sveltezza… ed anche cabala ed intrigo che aveva appreso nella scuola gesuitica e nella Curia romana"). L'elezione di Ganganelli, che assume il nome di Clemente XIV (18. 5. 1769), gli appare "improvvisa e inaspettata". Planco esulta per il nuovo papa, suo ex alunno pure lui, che definisce un «signore di buona mente», capace di risolvere le «differenze» tra Roma e alcune corti cattoliche.
Ganganelli è nato a Santarcangelo il 31 ottobre 1705 in via Pio Massani n. 38: suo padre, che proveniva da S. Angelo in Vado, era medico condotto del paese. Al Battesimo in Collegiata, gli fu posto il nome di Giovanni Vincenzo. Adolescente, venne messo a studiare presso i Gesuiti nel Collegio di Rimini. A 18 anni si fece frate conventuale, prendendo il nome del padre già morto: Lorenzo. (1)
Amaduzzi scrive a Planco, nel settembre '69: «La soppressione dei Gesuiti seguirà senza meno, come sicure illazioni ci fanno sperare», e sarà «intera ed universale». «Genìa inquieta e tumultuante», definisce la Compagnia. Clemente XIV teme ribellioni dei Gesuiti nello Stato della Chiesa, è afflitto e angosciato, e soffre d'insonnia: intanto, inizia a maneggiare «tacitamente» il problema. A Roma, si parla di una «bolla» di sospensione dei «Solissi» (la definizione deriva dal sole che appare nello stemma della Compagnia), «ma il gran scoppio si dovrà sentire tutto ad un tratto».
Ci si avvicina al botto conclusivo. Il papa «è portato di domare, senza parere di farlo, il più scaltro, il più politico ed il più animoso uomo del mondo. Tant'esso è padrone di sé, indipendente da tutti e superiore ad ogni cosa», scrive Amaduzzi nel febbraio '72. Aprile '73: il papa non è più afflitto. «Segno della sua sicurezza e tranquillità», è il suo aspetto «florido, ilare e brillante». Chiusi i seminari gesuitici, seguono perquisizioni ai loro conventi ed archivi. (Un nipote del papa, il gesuita Girolamo Fabbri, il 19.6.1773 scrive all'abate Battarra: «Il mondo Gesuitico credo che ormai sia moribondo, il suo giudizio finale e la eterna condanna non deve tardar molto a farsi sentire»).
Planco risponde ad Amaduzzi: «I gesuiti hanno torto col pretendere che non si possa spegnere il loro ordine dal papa». Intanto a Bologna (nel giugno '73), si proibisce loro di confessare e predicare: «Ora non si vede perché la sola Bologna abbia da soffrir questo, e non tutto lo stato nostro. Qui si dice che i gesuiti che sono qui si vadano preparando alla partenza e che si siano partiti i danari tra di loro». E poi: «Qui ancora s'erano sentite le varie vicende de' Loyolisti sul ferrarese, dove si procede con le sbirraglie… Qui dicono che i nostri vendono tutte le loro entrate, e che mandino i denari fuori, il che io non so se facciano bene, e che non s'attirino un [giudice] criminale contro… Li gesuiti spagnoli pensano ad andare alla villeggiatura, onde stanno meglio degl'italiani che non sanno il loro destino». La lettera è del 22 luglio 1773. La sera prima, il papa ha firmato la «bolla» Dominus, ac Redemptor: è la fine per i Gesuiti.
Amaduzzi ne scrive trionfante a Planco il 7 agosto: «L'estinzione gesuitica va avanzandosi a gran passi… Finalmente si comincia a veder chiaro…». Amaduzzi è addentro alle segrete cose: se non è stato lui l'autore del «breve», secondo i suoi biografi certamente vi ha avuto gran parte. Amaduzzi definisce «moderato e circospetto» il provvedimento: infatti non impedisce ai Gesuiti di confessare e predicare, cosicché non vengono dispiaciute quelle corti che li proteggono, mentre sono state accontentate quelle che li avversavano. Il documento papale, aggiunge, «dà la vera idea di una grande e saggia politica».
Bianchi informa dalla Romagna: per gli esproprî si dice che si comincerà da Ravenna «e in fine si verrà a Rimino, dove essi [i Gesuiti] hanno più d'ogni altro luogo…, giacché i nostri Riminesi non hanno voluto esser meno sciocchi degli altri».
Dopo la morte di Clemente XIV (22. 9. 1774), circolano voci che essa sia frutto di un avvelenamento. Planco è scettico, Amaduzzi ne è convinto. I Gesuiti intanto inondano Roma di satire contro il pontefice defunto. Narra Amaduzzi che essi «ardiscono perfino asserire» che la causa del decesso sta in una «lucceltica» e in «una celeste maledizione».
Quando Bertola pubblica nel novembre '74 la prima delle tre Notti Clementine dedicate al pontefice defunto, Amaduzzi scrive al poeta riminese, dicendogli che considera l'opera come «un conforto agli onorati animi ributtati dal lezzo di tante infamità». Le infamità erano i «parti informi ed oscuri di vipere vendicatrici», cioè gli scritti che i Gesuiti diffondevano contro la memoria di Clemente XIV, e che erano stati bruciati davanti alla colonna Antonina. (2)

Note al cap. 6
(1) Cfr. don S. Tamagnini, Santarcangelo alta e ridente, Ghigi, Rimini 1991, pp. 46-47. Sulla facciata del vecchio palazzo in cui nacque il pontefice, è stata posta una lapide a ricordo dell'evento, il 20 maggio 1972. È del 1860 l'iscrizione all'interno dell'arco eretto (tra 1772 e '75) in onore di Ganganelli: essa ricorda che Clemente XIV «sopprimendo la Compagnia di Gesù bene meritò della religione e della civiltà». Commenta don Tamagnini: «Peccato» che la lapide «profani il mistico significato di questo arco… Ma è necessario capire i tempi» (ibidem, p. 36).
(2) Le lettere riprodotte in questo capitolo, sono tratte dai citati volumi di G. Gasperoni, Settecento italiano, e La Storia e le Lettere. Soltanto la parte finale (con le due lettere di Amaduzzi a Bertola) è ripresa da A. Piromalli, A. B. nella letteratura del Settecento, cit., p. 21. Il «Venerabile Palafax», citato a pag. 59, è Giovanni da Palafax, vescovo messicano di Angelopoli, che aveva fatto profezie sgradite ai Gesuiti, di cui era stato oppositore. (Cfr. E. Pollini, Padre Agostino Antonio Giorgi nel 180° Anniversario della morte, Quaderno XI-1977, Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone, p. 50).

Da Antonio Montanari, "Lumi di Romagna" (1992-93), pp. 57-62