Riministoria - G. C. Amaduzzi

Antonio Montanari

Filosofia e Politica nel pensiero
di Giovanni Cristofano Amaduzzi
(Versione non definitiva)

«Lucido testimone di una intera età». Così Mario Rosa [1] definisce Giovanni Cristofano Amaduzzi, aggiungendo che «non a caso più volte, nel suo lessico illuministico» [2], tra la fine degli anni Settanta e l’inizio di quelli Ottanta, ricorre il termine «crisi» per indicare «il momento risolutivo» del processo storico segnato «dal susseguirsi spesso tumultuoso delle riforme». Sia in Politica sia in Religione, conclude Rosa, Amaduzzi dimostrò sempre la consapevolezza che «una lunga stagione storica si stesse chiudendo e che tutto un mondo si avviasse verso la sua inevitabile fine» [3]. In questo scenario, in cui Amaduzzi «vedeva superato il mondo nel quale egli stesso non aveva creduto», precisa Paola Berselli Ambri, il savignanese «osservò, con l’occhio disincantato del critico e dello studioso, la bufera che travolgeva tutto il vecchio sistema», sperando nello stesso tempo «in una palingenesi» [4].

Amaduzzi approda a Roma nel maggio 1762, a ventidue anni [5], quando la questione giansenista con la Francia è ancora aperta, e soprattutto è diventato papa il gesuitofilo Clemente XIII (Carlo Rezzonico, 1758-1769) che dà alla medesima questione un nuovo indirizzo più energico ed intransigente (quale si dimostra pure il suo segretario di Stato cardinal Luigi Torrigiani [6]), dopo il pontificato di Benedetto XIV (Prospero Lambertini, 1740-1758) «relativamente filo-agostiniano, e nel contempo illuminato e tollerante» [7].

In questa età di «crisi» quando matura l’offensiva anticuriale [8], si collocano fra 1776 e 1786 i tre «discorsi» (Sul fine ed utilità dell’Accademie, La Filosofia alleata della Religione, e Dell’indole della Verità, e delle Opinioni[9]), che hanno meritato ad Amaduzzi tanta fama presso i posteri, e che molte grane da parte dei contemporanei gli hanno amaramente procurato [10], collocandolo nella cosiddetta «generazione dei ribelli» [11]. Essi, com’è stato osservato da Franco Venturi  [12], sono pronunciati dopo la scomparsa di Clemente XIV (Giovanni Vincenzo Ganganelli, 1769-1774) che era stato il magnanimo protettore del giovane Amaduzzi [13].

Il titolo comune di «discorsi» rimanda ad un genere letterario testimoniato in Tasso, Machiavelli e Galilei [14]. Ma gli esempi più vicini sono quelli francesi, il cartesiano Discorso sul metodo (1637) composto in quel secolo che Amaduzzi definisce «filosofico della prima ragione, e delle prime esperienze» [15]; ed i due di Rousseau, Sulle scienze e sulle arti (1750), e Sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza fra gli uomini (1755), fondamentali per comprendere il dibattito culturale settecentesco, in quanto si pongono in contrapposizione dialettica con alcuni princìpi dell’Illuminismo trionfante [16].

Amaduzzi chiama «discorso filosofico» sia il primo sulle Accademie sia il terzo sulla «verità». Il secondo, La Filosofia alleata della Religione, reca invece il sottotitolo «discorso filosofico-politico», con un allargamento ed una precisazione che sono molto utili ai fini della comprensione delle intenzioni del suo autore.

I «discorsi» sono pronunciati in Arcadia con la volontà di portarvi una ventata di rinnovamento. L’Arcadia a cui pensa Amaduzzi non è quella dei «facili verseggiatori di occasione», ma quella caratterizzata da uno stile «informato a spirito filosofico» [17]. Un’Arcadia cioè riformata in base alla «scienza dell’uomo» di cui Amaduzzi parla nel suo primo «discorso» Sul fine ed utilità dell’Accademie[18]. In questa «scienza dell’uomo», la Psicologia, la Morale, la Politica e le Belle Lettere [19] trovano un comune fondamento che Amaduzzi addita agli arcadi citando «come modelli (“de’ quali molto abbiamo pur noi profittato”) Locke, Montesquieu, d’Alembert, Condillac [20], Beccaria» [21].

La battaglia di Amaduzzi era «in gran parte già perduta»: l’ambiente culturale romano è caratterizzato infatti da «una frattura tra la vita intellettuale e la realtà della condizione civile», per cui esso appare estraneo alla «scienza dell’uomo» predicata dal Nostro; fra società e cultura esisteva un diaframma che impediva «un’azione efficace di rinnovamento e di progresso» [22].

Fin dall’inizio del suo soggiorno romano Amaduzzi aveva sperimentato la vita dello Stato della Chiesa, caratterizzata da forti difficoltà economiche e da una grave carestia [23] sviluppatasi tra 1764 e 1766 [24]. I provvedimenti puramente finanziari presi allora dal governo ecclesiastico, ha scritto Venturi, «minarono profondamente la situazione dello stato e delle amministrazioni locali»: «Le tendenze al rinnovamento, alla riforme che si erano espresse, sia pur debolmente, da mezzo secolo ormai, parevano arenarsi tra l’indifferenza e le censure» [25]. Ed intanto la carestia apriva un po’ ovunque in Italia un «iato profondo [...] tra coscienza laica e realtà religiosa» [26].

In quel periodo tramontano «i tentativi di ‘correggere’ il messaggio etico-filosofico elaborato e presentato dall’Encyclopédie». Successivamente si formula la nozione «del ruolo attivo che la Religione avrebbe dovuto assumere nella esperienza umana, cioè in un cristianesimo evangelico, umanitario e solidaristico», e si va così configurando il tema «della società, visto soprattutto nella integrazione tra l’individuo e la collettività e nel rapporto tra diritti naturali e provvidenza divina, cioè in ultima analisi nell’intreccio sempre più stretto tra società e religione» [27]. Questa «filosofia cristiana», va precisato, «tende sempre più a formulare ottimisticamente un discorso sociale e religioso a lungo termine», distinguendo «tra religione e prassi politica», e volgendo «l’attenzione non già sullo Stato e le forme e i modi del potere politico, ma sulla società in generale» [28].

Tuttavia, nello scorcio degli anni Settanta, anche il tema di tale «filosofia cristiana» diventa «più consapevolmente politico», e le «generalizzazioni teoriche» sono calate «nel clima del coevo riformismo». Lo dimostra proprio Amaduzzi, «erudito illuminato, rigorista ed antigesuita», con il «discorso filosofico-politico» La Filosofia alleata della Religione, che «è il punto di arrivo di una linea ideologica che già si era espressa, sempre attraverso l’Amaduzzi, nel Discorso filosoficosul fine ed utilità dell’Accademie, del 1776» [29].

In questo primo «discorso», Amaduzzi considera l’Arcadia come la palestra «d’una gara studiosa e pacifica, cioè d’una sola cospirazione virtuosa, e sia questa diretta al solo bene delle lettere, ed al piacere della società» [30]. In Arcadia Amaduzzi ha come collega quel Luigi Gonzaga a cui egli dedica il medesimo primo «discorso», condividendo le tesi da lui espresse in una dissertazione tenuta nella stessa Arcadia sulla funzione civile del «letterato» [31].

Amaduzzi avverte il fascino e la responsabilità di tale funzione civile del «letterato». Lo dimostra la condanna che esprime di «quell’affettato, e ridicolo ammasso di metafore» del «seicentismo», a cui l’Arcadia per prima si ribellò, assumendo il compito di dissipare i «dominanti errori» [32]. Lo dimostra pure la consapevolezza che scopo delle Accademie, e quindi degli uomini di cultura che le compongono, è quello di far avanzare l’intelletto, perfezionare i mestieri ed accrescere l’«umana felicità» [33]. Questi sono gli obiettivi che si possono raggiungere, mediante una «giusta precisione delle idee» ed un «giudizioso estratto d’un’appurata ragione» [34], che ci sono additati dalla Filosofia. In un successivo passo di questo «discorso», Amaduzzi chiama la Filosofia «divina» ed «augusta», oltre che «dono prezioso del cielo» che ha trasformato la società [35].

Amaduzzi annuncia chiaramente il suo sistema (che si fonda sullo stretto rapporto fra la vita politica e l’attività filosofica), quando scrive che la «divina, augusta Filosofia» ora siede «compagna ai giudici ne’ tribunali»; che essa diffonde «benefica» i suoi «lumi sui mari, sulle campagne, ne’ fondachi, e nelle trincere [36]»; che è divenuta «già donna, e signora de’ cuori di tutti»; e che tutti le «rendono onori, e omaggi».

A questo punto della sua storia intellettuale, Amaduzzi compie un nuovo passo per delineare i termini del rapporto che intercorre tra fede e ragione. Questo è il tema del secondo «discorso»: l’uomo, vi scrive Amaduzzi, è assistito appunto da questi due lumi «amendue sublimissimi», fede e ragione. La ragione «gl’insegna di dubitare, ove bisogna, e d’assicurare, ove fa d’uopo». La fede «gli comanda di sottomettersi, ove al solo suo discernimento deferire non gli lice» [37]. La stessa Religione, aggiunge, ha bisogno della ragione per non divenire «ben presto assurda, e ridicola». La Filosofia, precisa infine, ci mostra «i giusti confini delle divine, e delle umane cose, delle soprannaturali e delle naturali» [38].

La Filosofia a cui pensa Amaduzzi è quella che ha abbandonato con Bacone il vecchio cammino delle «parole volanti» e delle «idee aeree» [39]; che con Cartesio, Galileo e Newton «sbandì tutto il meraviglioso, tolse i prestigi dell’ignoranza, detronizzò la superstizione», e scoprì «le forze della natura», spiegando «gli arcani, e i fenomeni più astrusi». Questa Filosofia è pure quella «che arbitra de’ costumi, delle leggi, e della politica pose in trono l’umanità, e la civil tolleranza, diramazioni legittime della Cristiana carità, rinforzò il patto sociale, abolì i diritti feudali, estinse la disonorante servitù, minorò le atrocità delle pene, e de’ supplici, e poco mancò, che non facesse rientrare l’uomo ne’ suoi primi diritti naturali» [40]. La Filosofia giunge «a conoscere nella natura alcuni rapporti fra gli uomini; da questi rapporti vede derivare alcuni doveri reciproci, e quindi colla scienza di questi rapporti, e di questi doveri viene a formare la più nobil parte di se stessa, che è la moral Filosofia» [41].

In questa parte del secondo «discorso», Amaduzzi esamina accuratamente il rapporto fra l’uomo singolo e la società, entra cioè in quel terreno che è tutto proprio della Politica. Nella società si debbono conservare i diritti individuali e collettivi nello stesso tempo. Questi diritti «dell’uomo in società consistono nell’uso della sua libertà correlativamente alla giustizia, che egli deve ai suoi confratelli, e all’ordine, che deve conservare nella società» [42]. La giustizia regola il patto sociale che impegna tutti al benessere comune ed «alla pubblica felicità» con l’adempiere a precisi «doveri» che, spiega Amaduzzi, «portano i sacri, e preziosi nomi d’umanità, di compassione, di beneficenza, di dolcezza, d’indulgenza, di tolleranza, di gentilezza» [43].

Amaduzzi prosegue spiegando che «queste sociali virtù» inculcate dalla Filosofia, «escludono per conseguenza i delitti, i vizi, e i difetti degli uomini, i quali entrano nella classe di quelle azioni tutte, che turbano l’armonia sociale» [44].

Amaduzzi tratta poi del «diritto delle genti» finalizzato a regolare i rapporti internazionali finanche nelle guerre, per le quali «debbono proporsi certi limiti» rivolti a temperare «l’atrocità delle armi». Ed esamina i comportamenti di giustizia che debbono ispirare in egual misura sia il principe sia il popolo: ai doveri del suddito corrispondono infatti i doveri di chi governa, al fine di realizzare uno Stato che miri al miglioramento della società ed al progresso economico.

Amaduzzi proclama la necessità di abbandonare «una tortuosa politica, difficile, e disonorante pe’ sovrani egualmente, che pe’ popoli» [45]. Per convincere i suoi ascoltatori che le sue parole non erano astratte rievocazioni di pagine tratte da «volumi poco studiati d’un freddo pensatore», Amaduzzi ricorda «i progetti de’ moderni Filosofi, ed i stabilimenti de’ moderni Regnanti»: il nuovo modo di governare ha portato ad esempio ad eliminare la schiavitù, a far «a poco a poco» estinguere i diritti feudali («invenzioni prepotenti, ed oppressive d’una barbara aristocrazia»), sviluppare i commerci e l’economia, migliorare la salute pubblica [46].

In questo «discorso», è sviluppata una problematica comune ad altri autori cattolici, per i quali sia sul piano filosofico generale sia su quello strettamente politico «non vi era contraddizione tra l’accettazione di certe proposte dei ‘lumi’ e l’adesione al cattolicesimo»: Amaduzzi dichiara compatibile [47] con un Cristianesimo ripulito dal «giogo indegno della superstizione e dell’ignoranza», «tutta la serie – o quanto meno una gran parte – dei diritti naturali» [48].

Sullo sfondo delle «rivoluzioni» di Corsica e d’America, il «discorso» amaduzziano segna «uno dei punti di arrivo di uno sforzo collettivo da parte di un riformismo religioso ottimistico e animoso, in bilico ormai, nello scorcio degli anni settanta, tra la conclusione di una svolta e l’avvio di qualcosa che si andava avvertendo sempre più come nuovo e sovvertitore nella politica del dispotismo illuminato» [49].

In una lettera di Amaduzzi a Gregorio Fontana [50], si legge come si stessero approntando allora (1777) «i materiali di una rivoluzione di sentimenti anche fra noi»; sei anni dopo sempre con Fontana, Amaduzzi registrava «la rivoluzione felice [...] operata nella politica e nelle scienze» a Napoli e in Lombardia [51]. Nello stesso 1783 la Chiesa mette all’Indice la Storia della decadenza e caduta dell’impero romano di E. Gibbon, pubblicata a partire dal 1776, di cui il Nostro è attento lettore [52]. Nel 1783, ancora a Fontana, il savignanese confida: «Questo secolo di rivoluzioni [53] Dio sa da quali avvenimenti dovrà essere coronato» [54].

Il terzo «discorso» (che reca la significativa dedica al conte Giovanni Giuseppe Wilzeck [55], ministro plenipotenziario d’Austria nel governo della Lombardia, e Gran Maestro della Gran Loggia Provinciale di Milano) [56], permette ad Amaduzzi di compilare un bilancio della cultura della quale si sente espressione, ed in cui avvertiamo un influsso indubbiamente vichiano quando egli scrive che «grandi spazi» separano la «vecchia» dalla «nuova Filosofia» [57], i «tempi eroici» [58] della favola dal secolo «clamoroso, ed incoerente» in cui egli vive [59].

Di derivazione galileiana è invece il principio secondo il quale alla cultura, per uscire dai propri errori e stabilire «un grado di vera scienza», occorre un «corredo di esperienze sufficienti» [60]. Tocca alla storia poi ricostruire le vicende accadute in quei «grandi spazi» tra l’ieri e l’oggi, grazie al lavoro della «critica» [61] che permette di rintracciare la verità «negli scritti degli antichi storici» [62].

Le enunciazioni amaduzziane provocano uno scandalo che si riassume nella Lettera d’un viaggiatore istruito (1789) del direttore del «Giornale ecclesiastico di Roma», abate Luigi Cuccagni, che il Nostro considerava «prete ignorante, vano, ed ambizioso» [63]. Il savignanese risponde l’anno successivo con la Rimostranza umile al trono Pontificio[64] diretta a Pio VI (Giovanni Angelo Braschi, 1775-1799), il quale assolve il suo conterraneo sostenendo che «conveniva lasciare una certa libertà ai letterati» su alcune questioni. Nella Rimostranza Amaduzzi rivendica la sua fedeltà alla Chiesa in materia teologica ed il diritto ad avere opinioni politiche diverse da quelle del papa, convinto che il Santo Padre non sarebbe stato giammai per fargliene «un delitto», perché l’uomo non può essere privato del diritto a ragionare.

Già in precedenza papa Braschi aveva salvato Amaduzzi quando questi aveva dedicato nel 1781 al vescovo Scipione De’ Ricci [65] l’edizione a stampa delle Omelie di san Cesario. Pio VI ricorse ad un cavillo: la prefazione di Amaduzzi era anteriore al «breve» pontificio (del 30 maggio 1781) con cui De’ Ricci era stato severamente biasimato, per cui il Nostro non poteva essere accusato di nulla.

Nel 1778 Amaduzzi era stato denunciato all’Inquisizione dopo la pubblicazione del secondo «discorso». Lo aveva salvato la protezione del conterraneo padre Agostino Giorgi, allora consultore del Santo Uffizio [66]. Di quei momenti Amaduzzi ci ha lasciato una preziosa testimonianza, scrivendo ad Aurelio De’ Giorgi Bertòla [67]: «Io ho esperimentato in me que’ stessi tristi effetti che io mostrai nascere dalla superstizione, e dall’ignoranza mascherata dal zelo, e cangiata in fanatismo. Ma quella Filosofia, che mostrai tutrice della Religione, e della verità, è stata pure tutrice della mia Orazione Arcadica, e della mia innocenza. In somma io fui accusato all’Inquisizione con una formal delazione firmata da vari contesti, e passata in mano dello stesso Pontefice, il quale la rimise indi al Tribunale dell’inquisizione. Ivi si è agitato l’affare senza bisogno di mia particolare difesa, e senza la menoma mia saputa. I miei riscontri estragiudiziali sono, che questa calunnia mi sia stata più proficua, che dannosa, giacché un Cardinale a me incognito, ed incaricato della verificazione dell’affare, come pure l’Assessore dell’Inquisizione fecero le più forti rappresentanze per mia giustificazione» [68].

Nella lettera Amaduzzi prosegue: «Un ministro di Corte estera avvisato di questo segreto fermento per la connessione, che avea con altre sue mire, mi avvertì opportunamente, ond’io mercé i suoi aiuti, e consigli potei porre in salvo tutte le stampe già compite, e preparate alla pubblicazione, a scanso d’ogni ulteriore inquietudine, o di sfregio maggiore. In appresso il Commendatore d’Almada sentendo un cicaleccio sordo che annunciava mille miei disastri già pendenti, mandò due volte da me un suo Famigliare con sua carrozza ad oggetto di poter porre a coperto quanto avessi voluto sottrarre dalla prepotenza».

Conclude il suo racconto, Amaduzzi, con queste parole: «La mia innocenza mi incoraggiava, ma lo spirito minaccevole al buon senso, ed all’Anti-Loyolitismo, che a me si attribuisce, mi poteva far temere anche sopra di me quelle stesse misure, che si sono prese sopra vari altri innocenti [69]. L’incertezza dell’affare, ed una farragine di avvisi, e di consigli pieni di cautela, e di prudenza mi suscitarono per qualche momento quel timore, che cade sopra un uomo costante. Che ci fareste? Io son già quieto, e godo più di questa tranquillità, che di qualunque gloriola amareggiata da calunnie, e da pensieri apologetici. Questo sistema pacifico, e moderato mi ha deciso per la suppressione ultronea di questa stampa, quale però darò a voi da portare in Pietroburgo [70] [...]». In una successiva epistola a Bertòla, Amaduzzi torna sull’argomento per precisare: «Io non pensò più alle mie passate persecuzioni, e mi consolo più sull’ignoranza de’ miei calunniatori, che sul paragone del Galileo, da cui sono estremamente lontano» [71].

Ma il passo autobiografico più importante circa il secondo «discorso» arcadico, è questo, contenuto in altra lettera (15 aprile 1778) a Bertòla: «Riceverete in breve dal Signor Abate Zarrillo [72] un mio plico, entro il quale troverete quattro esemplari della Orazione Arcadica, di cui uno è per voi, ed il secondo per il Sig. Duca di Belforte [73]. Vi parlerò degli altri in appresso. Questa stampa stà ancora in occulto non so, se per prudenza, o per troppa cautela. Comunque sia, io sono contento di mostrarmi docile ai consigli degli amici. Per altro siccome non deve mai essere, che fanatici, ed ignoranti mi abbiano a sovverchiare in un punto così ragionevole, così io mi vado munendo di saldi presidi contro la stessa prepotenza. Sentite cosa ho fatto. Ho mandato un esemplare della mia Orazione agli Eminentissimi Banditi, e Bandi, e questi mi hanno in seguito scritto lettere di piena commendazione, ed il primo in ispecie si esprime con tale effusione di bontà, che arrossisco di dover forse far uso per mia difesa di cosa, che insidia la mia modesta». Come apprendiamo da altra, successiva epistola, Amaduzzi pubblica immediatamente [74] le risposte degli «Eminentissimi» Francesco Banditi [75] e Giovanni Carlo Bandi (1709-1785).

Riprendiamo dalla lettera amaduzziana del 15 aprile 1778: «Per quanto queste lettere fossero sufficienti a pormi al coperto da ogni pubblico insulto, pure amerei per mia maggiore sicurezza armare una decisione pressoche conciliare, come appunto sarebbe il giudizio di alcuni Vescovi i più dotti. Dunque per questo mio intento, che non và manifestato, io ho bisogno di voi. Ho pensato mandare una copia di questa mia Orazione al vostro Monsignor Pignatelli Arcivescovo di Capua [76], e nel piego ho perciò acclusa una lettera per lui. Mi sono preso l’ardire di presentarmi a lui sotto i vostri auspici, e quindi toccherebbe a voi a gravarvi del recapito, quando non siavi cosa a me ignota, che ve lo impedisca. Vorrei anche mandarne altra copia a Monsignor Filingeri Arcivescovo di Napoli [77], per il quale pure accludo altra lettera. L’esser io incerto sulla persona, che potesse gravarsi di presentare questa stampa al ragguardevole Prelato, ha fatto, che io mi sia spiegato in generale; ma pure è necessario rinvenire qualche persona autorevole, perché l’enunciativa da me fatta sussista. Forse a voi non manca mezzo per conseguire un fine così facile, ma in ogni caso conferite di ciò col nostro egregio Signor Duca di Belforte, persuaso, che per la bontà, che egli si degna mostrarmi, si unirà con voi per la mia onesta soddisfazione».

Aggiunge Amaduzzi: «Le lettere sono scritte in fretta, come la penna aspettava, giacché l’occasione incalzava, e non v’era tempo da differire per meglio riflettere. Da ciò pur nasce la mancanza d’ogni ornamento esteriore, tanto più, che la cautela pur voleva, che io mi guardassi dall’affidare la stampa a verun Legatore di libri, e vedessi di cucirla io medesimo alla meglio. Questo però è un male, che si può facilmente rimediare, e quindi pregherei voi a caricarvi del pensiero di far legare costì più pulitamente queste stampe, mentre io vi rimborserei esattamente della spesa. Ecco i miei desideri, ecco altrettanti imbarazzi per voi. Però: la vostra bontà non ve ne farà sentire tutto il peso, ed io sarò sicuro di tutta la vostra più premurosa cooperazione. Quando avrò un qualche numero di queste lettere, le farò stampare, e saranno una vanguardia di difesa per la mia calunniata Orazione, e resterà così scornata l’invidia, e domata la prepotenza medesima».

Ritorniamo al terzo «discorso». Approfondendo le enunciazioni filosofiche contenute nel secondo, Amaduzzi lo conclude così: «Grazie ai nostri lumi scentifici non può ora prevalere la norma politica, che vi sieno verità, che rese manifeste a tutti addivenir possono pericolose, anzi perniciose» [78]. Amaduzzi sigilla la sua attività arcadica con questa massima aurea che cancella due secoli di machiavellismo in nome di quelle «verità» che debbono reggere il mondo in quanto sono «sacre» filiazioni dell’unica, vera Religione, e provengono dalla ragione che Dio ci ha dato per meglio governare la società. In nome di queste «verità», Amaduzzi rifiuta tutta quella parte del pensiero politico moderno che si rifaceva al Principe, e che ricalcava il tema della «golpe» e del «lione» come maschere e strumenti dell’agire politico, ed enunciava la regola del «non partirsi dal bene, potendo, ma sapere intrare nel male, necessitato» [79]. Il bene comune, secondo Amaduzzi, dev’essere la regola prima dell’attività politica in cui (come s’è visto) vanno espresse e realizzate «l’umanità, e la civil tolleranza, diramazioni legittime della Cristiana carità».

Il legame che Amaduzzi ipotizza fra Religione, Filosofia e Politica non è un circolo virtuoso che permetta uno scambio dialettico fra loro. Anche se la Filosofia è detta necessaria per liberare il Cristianesimo dal «giogo indegno della superstizione e dell’ignoranza», essa non può elaborare autonomamente il proprio cammino ma derivarlo dalla Religione, allo stesso modo in cui la Politica può soltanto imparare dalla Filosofia, e non può insegnarle nulla, dovendo da essa dipendere.

Questa impostazione è formulata da Amaduzzi proprio nel momento in cui più si avverte, come egli stesso testimonia già nel secondo «discorso», la necessità di separare la Filosofia passata (ovvero aristotelica) dall’«appoggio della Religione» [80] che ne aveva garantito la legittimità, con tutte le conseguenze che vi erano state sul piano storico. La diffusione della Politica di Aristotele nel corso del XIII secolo aveva infatti dato «autonomia scientifica al discorso politico», offrendo «un’alternativa alla concezione diarchica che, nel Medioevo, poneva ai vertici della società la compresenza dell’autorità civile (imperatore e re) e dell’autorità della Chiesa (papa e vescovi)», ed aveva provocato «una crisi del sistema politico medievale» con la teoria, poi ripresa da san Tommaso, della necessità di ridurre ad unum l’ordinamento dell’organizzazione sociale. Per questo motivo, si era fatto «vivacissimo lo scontro fra i sostenitori della teocrazia papale e i fautori dell’autorità civile» [81]. Gli effetti di questo scontro si proiettano nelle età successive con la ricerca di una concezione laica del potere politico, completamente autonomo e separato dallo spirituale.

L’errore logico del Tomismo era stato quello di appoggiare, per via di Religione, un sistema filosofico anteriore alla Rivelazione cristiana. Amaduzzi rovescia la formulazione teorica del Tomismo: prima viene la Religione, e da essa discende la Filosofia che non è una somma di regole dogmatiche ma elaborazione razionale utile alla stessa Religione. In tal modo, la Filosofia e la Politica (che da essa discende) non hanno nessuna autonomia nel determinare le proprie modalità operative per il raggiungimento dei loro fini (che debbono attingere dalla Religione). La preoccupazione di non cadere in affermazioni classificabili come eretiche, trattiene Amaduzzi dal rivendicare per la Politica un’indipendenza che poteva mutuare dal principio illuministico di quella tolleranza [82] religiosa di cui, come si è ripetutamente visto, egli parla considerandola una diramazione legittima «della Cristiana carità».

Non c’è in Amaduzzi la mancanza di consapevolezza del problema, ma semplicemente la volontà di adottare una specie di scorciatoia che sul terreno pratico rendesse più facile la realizzazione del suo progetto, senza andare a riproporre quei princìpi che gli avrebbero potuto provocare accuse di contiguità con opinioni condannate dalla Chiesa. Montesquieu aveva già avvertito che le guerre di Religione erano state provocate non dalla molteplicità delle fedi, ma dallo «spirito d’intolleranza che animava quella che si riteneva la dominante» [83]. Amaduzzi non poteva non concordare, ma contemporaneamente non viveva in condizioni oggettive tali da poter riproporre le parole di Montesquieu.

La Filosofia, scrive Amaduzzi sempre in questo secondo «discorso», è «umile, e docile ancella» della Religione. E, precisa immediatamente, «mentre appalesa le forze della natura, ci fa rispettare quella della grazia» [84]. Già il vocabolo di «ancella» dimostra il rapporto di subordinazione rispetto alla «domina»: è questo il varco non superato da Amaduzzi per addivenire ad una Filosofia nuova che sapesse trovare nella sua funzione non un senso di orgoglio negatore della Religione, ma la consapevolezza di una autonomia che potesse servire per rifiutare l’ateismo degli illuministi, senza rinunciare alla capacità ed alla dignità dell’intelletto nella ricerca delle leggi (o presunte tali) non eterne, ma terrene nei vari campi del sapere umano [85]. Per comprendere la distanza che separa Amaduzzi dagli spiriti della cultura francese, basti ricordare che il frontespizio del primo tomo dell’Encyclopédie illustrava una diversa gerarchia delle conoscenze: «la Verità, avvolta da un velo, emana una luce che dissipa le nubi, mentre a destra Ragione e Filosofia le tolgono il velo e, ai piedi, la Teologia riceve la luce dall’alto. Tutt’attorno una piccola folla incarna con figure simboliche le Scienze, la Storia, le Arti e le Professioni» [86].

Sempre nel secondo «discorso» c’è una specie di «captatio benevolentiae» verso i suoi possibili censori laddove egli cita Locke come il pensatore che ha provato «che da ciò, che sentiamo in noi medesimi, arriviamo alla cognizione certa, ed indubitabile, che vi ha un Essere eterno, potentissimo, intelligentissimo» [87]. Sono i tempi in cui Amaduzzi vive, a costringerlo a precostituire ad ogni passo una difesa della Religione perché il suo pensiero doveva passare attraverso il fuoco incrociato dell’intolleranza del tradizionalismo teologico avverso alla ricerca sperimentale da una parte, e dall’altra della negazione dei valori spirituali ridotti dagli avversari della Religione medesima ad espressione di princìpi che nella Storia avevano prodotto situazioni obiettivamente intollerabili ed inaccettabili come il processo a Galileo.

Testimonianza di questo quadro che abbiamo brevemente delineato, è in quel luogo del terzo «discorso» dove Amaduzzi sostiene: non siamo più ai tempi barbari, quando le verità non erano «tutte collegate insieme, e sistemate», ma nei «tempi illuminati» che hanno svelato gli «errori, e li hanno separati dalle verità». Con l’idea di una superiorità dei tempi nuovi rispetto agli antichi, Amaduzzi rovescia le teorie di Rousseau spiegando che la vera età dell’oro ci sarà soltanto quando i lasciti dei tempi barbari saranno definitivamente cancellati [88]. Ma contemporaneamente Amaduzzi porta acqua al mulino di quanti criticano la storia della Chiesa, sia dal fronte che per comodità chiameremo materialistico, sia da quello cattolico non conservatore, ovvero giansenista secondo l’accusa che accomunava i veri ed i presunti seguaci di questa corrente teologica.

Al proposito torna utile ricordare che, secondo Nicolò Rodolico, quelli come Amaduzzi che a Roma frequentavano il «Circolo dell’Archetto» fondato nel 1749 a palazzo Corsini da Giovanni Gaetano Bottari (1698-1775), «non erano Giansenisti, erano sinceramente cattolici». Essi, oltre a disapprovare «la condotta ostinata dei Giansenisti, come qualsiasi atto che significasse opposizione al Papato, e che minacciasse l’unità della Chiesa cattolica», disapprovavano pure [89] «le condanne e le persecuzioni». Erano insomma soltanto «cattolici dotti e tolleranti che si adoperavano per la conciliazione dei Giansenisti col Papato» [90]. Bottari fu «animatore di quel partito antigesuita, filogiansenista, filoilluminista, che colse qualche successo e non pochi consensi, pure nelle alte gerarchie curiali, contribuendo fra l’altro alla creazione di quel clima che portò poi, insieme a determinanti fattori internazionali, alla soppressione dell’Ordine dei Gesuiti»: la cultura religiosa del «Circolo dell’Archetto» anche in seguito «costituì di fatto un’alleanza oggettiva degli altrettanto variegati schieramenti riformisti» [91] che si agitavano allora e non solamente nella città di Pietro.

Con i suoi amici Bottari rappresenta in Italia quello che avviene con il riformismo cattolico nell’Austria di Maria Teresa e di Giuseppe II, cioè una reazione contro il «cattolicesimo barocco», la quale da noi ha «uno dei suoi massimi rappresentanti nel Muratori [92], maestro anche a molti cattolici austriaci, tedeschi, boemi, ecc.» [93]. Al «centro di una vasta rete di corrispondenti filogiansenisti, che si sentivano da lui sostenuti, od a lui si raccomandavano fidando nel suo impegno battagliero», Bottari «non è principalmente od esclusivamente uno studioso di problemi teologici, ma è anzitutto un erudito, un filologo, un intenditore di arte e di letteratura» [94]. In campo teologico merita di esser citato un suo giudizio su sant’Agostino, al cui sistema «la pura ragione non arriva, essendovi un pezzetto di mistero, che non si salva se non colla Fede» [95]. Se da un canto «fu toccato assai poco dal fervore del pensiero del secolo, diversamente dai giansenisti dei successivi decenni» [96], Bottari dall’altro si mostrò severamente critico verso la «crassissima ignoranza» e la «sommissima presunzione di grande scienza» di chi aveva «le redini in mano», che provocavano decadenza nella Roma di Benedetto XIV, nonostante le simpatie del pontefice per la cultura e gli uomini dotti del suo tempo [97].

Nel secondo «discorso» Amaduzzi dimostra realistica consapevolezza delle difficoltà che potevano incontrare le sue enunciazioni lungo una strada in cui non mancavano i «fanatici», gli «imbecilli» e gli «zelanti» che facevano «l’abuso forse più pernicioso» della Religione, confondendo «le cose del Cielo con quelle, che sono dell’ordine naturale», e credendo «di far la causa della Religione coll’usar l’arti da essa non conosciute, la pratica cioè delle delazioni, e l’imputazione delle false conseguenze, surrogate alla dolcezza della fraterna correzione, e all’equità d’un discreto giudizio» [98]. Questo quadro fosco che Amaduzzi delinea riguarda la storia della Chiesa, non l’essenza della Religione, ma dimostra che la seconda non poteva andare disgiunta dalla prima, essendo sempre ogni idea incarnata negli uomini, ed essendo sottoposto al loro giudizio (o spesso al loro pregiudizio) ogni passo che si compie anche sul cammino della fede. C’è tutto il tormento anche autobiografico, in queste sue espressioni, che rendono viva e palpitante la sua ricerca teorica la quale conclude il suo cammino (lo abbiamo già visto), enunciando massime politiche che hanno la loro giustificazione nei princìpi religiosi, come leggiamo in un altro passo del medesimo secondo «discorso» in cui Amaduzzi parla del rapporto che lega «il divino precetto» dell’amore fraterno e della tolleranza al bene della società di cui l’uomo è parte [99].

Amaduzzi sperava di aver sanato il contrasto tra Politica e Religione, tra Stato e Chiesa, tra fede e ragione, in nome di un elemento unificante che permettesse, al di là della fede religiosa che lo ispirava e condizionava, un sistema civile o laico che però da solo non poteva né reggersi né giustificarsi senza richiamarsi alla premessa ontologica che diviene pure una teleologia della Storia. Nel suo entusiasmo, e pressato dall’ambiente romano surriscaldato contro ogni novità, Amaduzzi trascurava il suggerimento evangelico di separare i tributi dovuti a Cesare da quelli riservati a Dio [100]. Prendiamo ad esempio il tema del «patto sociale», spiegato come scelta del «non fare ad altri ciò che non si vorrebbe per se medesimo». Amaduzzi spiega: «ed ecco, come un ragionamento dedotto coi lumi della Filosofia dalla natura dell’uomo è in perfetto accordo col divino precetto del Vangelo».

Amaduzzi doveva ovviamente differenziarsi dagli enciclopedisti atei che definivano il filosofo «un onest’uomo che in tutto si lascia guidar dalla ragione» [101], precisando meglio i contorni di quella ragione intesa non soltanto come forza umana bensì quale dono divino. Allo stesso modo, egli non poteva dar ragione al Voltaire dissacratore del Dictionnaire Philosophique che elencava i tanti nemici dei filosofi: «il rigido luterano, il selvaggio calvinista, l’orgoglioso anglicano, il fanatico giansenista, il gesuita che sogna di dominare anche nell’esilio e a due dita dalla forca, il sorbonista che si crede sempre di diventar deputato di un Concilio, e quei poveri stupidi che si lasciano guidare da costoro» [102]. Tutta gente che, aggiungeva Voltaire, fa «stampare ogni giorno dei pastrocchi di teologia filosofica». Per Amaduzzi occorreva riscoprire o svelare nella ragione i segni divini della sua origine allo scopo di prendere le giuste distanze dal miscredente filosofo di cui parlava Voltaire, anche se poi alla fine, la conclusione dell’articolo del Dictionnaire Philosophique non poteva altro che trovare consenso: «Preti di Roma, la filosofia vi ha fatto il favore di obbligarvi a sopprimere la vostra bolla In coena Domini, quel monumento di impudenza e di follia!» [103]. Ma tutto questo non basta per non far sentire quell’«odore di zolfo» che quando parla Amaduzzi «dilaga ben oltre la sala del Serbatoio di Arcadia» [104].

Una posizione che supera i termini di un «illuminismo cattolico» come quello amaduzziano, è espressa da Antonio Niccolini il quale con il suo «relativismo religioso» scrive: i cattolici imparano «solamente la religione rivelata e i suoi dogmi, non il ragionare» [105]. Questa posizione è ovviamente impensabile in Amaduzzi perché rovescia i termini del problema assunti dal savignanese: Niccolini infatti sostiene che il ragionare «dee adoprarsi con tutti gli uomini, laddove la religione rivelata non serve che per chi cerca la religione rivelata e per i credenti, numero assai ben ristretto nell’indefinito del genere umano, cui se potesse assuefarsi a ben ragionare forse più facilmente diverrebbe credente» [106].

Amaduzzi avrebbe potuto derivare da Locke il concetto della laicità dello Stato che è fondamentale nel filosofo inglese il quale però visse in un contesto del tutto differente rispetto a quello italiano in generale e romano in particolare dove il savignanese si trova a consumare amaramente i suoi giorni. E’ buona regola di collocare sempre il pensiero politico di ogni autore nella realtà a cui egli appartiene. Essa vale anche per Amaduzzi: e ci obbliga a considerare quanto egli fosse condizionato dalla situazione dello Stato ecclesiastico, per cui quelli che a noi possono apparire limiti o contraddizioni dei suoi scritti, sono invece per lui le uniche strade percorribili al fine di superare od evitare gli ostacoli più difficili che si opponevano ad un miglioramento della Politica contemporanea. La poca luce di una candela in una giornata di sole, scompare alla nostra vista, ma nella notte più nera anche quella debole fiamma ci restituisce il senso della speranza di poter compiere il nostro cammino.

Un efficace giudizio sulla situazione culturale in cui vive Amaduzzi, è in queste parole di Antonio Niccolini: «In Roma non regna gusto di filosofar, la cognizione delle leggi quanto vi è massima nel diritto privato, altrettanto vi è limitatissima per diritto pubblico, e per ciò che forma la legislatura. Per la cultura dello spirito colà vi è tutta fuori che quella che riguarda la parte necessaria allo Spirito delle Leggi [107], cioè le notizie intorno all’uomo di tutti i tempi e di tutti i paesi, e intorno ai vari sistemi di governo sì civilizzato che barbaro...» [108].

Il pensiero amaduzziano è legato da un canto al primato del Cristianesimo sul piano religioso, e dall’altro al primato dell’Europa su quello politico, anche se c’era già stata una rivoluzione al di fuori del nostro continente nelle Colonie inglesi d’America, risoltasi peraltro come regolamento di conti tra sudditi e Madrepatria. Non c’è traccia dell’allargamento del mondo al di fuori dell’Europa, di cui ebbe invece coscienza Rousseau parlando del «buon selvaggio» che, per i contemporanei e soprattutto per i posteri, resta simbolo rimosso di tutto quanto non rientrava negli schemi mentali e politici dei bravi pensatori europei.

La fiducia in quel razionalismo scientifico che aveva cambiato la vita materiale del tempo con le sue enunciazioni, porta Amaduzzi a credere che anche una Politica razionalmente concepita secondo le linee da lui indicate, potesse essere rivolta soltanto al bene generale degli uomini. Ma gli eventi politici degli anni immediatamente successivi smentiranno questa sua convinzione, facendo crollare come un castello di carte tutta la perfetta costruzione che gli aveva accuratamente ideato sulla scia del pensiero illuministico, a dimostrazione che la realtà è, come l’uomo, quel «segno di contraddizione» in cui sta forse la condanna biblica o il limite razionale della nostra dimensione storica.

Un altro aspetto va preso in considerazione. Amaduzzi propone il suo sistema ideale per una riforma della società sulla scia dei grandi pensatori dei quali dice di avere «profittato». Di fronte a questo atteggiamento è necessario chiedersi: si possono trapiantare le esperienze storiche in un terreno diverso da quello in cui esse si sono sviluppate? Quanto, per scendere nel concreto, è valido il discorso ‘all’inglese’ ispirato a Locke in una realtà diversa da quella che aveva conosciuto la «gloriosa e pacifica rivoluzione», che aveva maturato una vicenda non preoccupata da istante teologiche come era invece si era dimostrata la Chiesa di Roma la quale aveva anche conosciuto il processo a Galileo ed aveva sacrificato ogni evidenza all’altare del sistema aristotelico-tomista? Roma non poteva non chiudersi le orecchie davanti alle istanze di tolleranza che inevitabilmente nascono nella cultura inglese ed in quella francese. Le istanze di Locke teorizzano il passaggio dallo stato di natura in cui vige un diritto limitato (e non illimitato come in Hobbes), al contratto sociale; pongono la sovranità nel popolo, rifiutano la monarchia assoluta; teorizzano il diritto del popolo stesso di rovesciare il governo con mezzi rivoluzionari quando esso vien meno al proprio còmpito; e delineano con oltre mezzo secolo di anticipo su Montesquieu la tripartizione dei poteri, formulando quello che è chiamato il moderno costituzionalismo.

Il potere politico di cui parla Locke è completamente separato dalla Religione e dalla Chiesa. Il ‘compromesso’ ideato da Amaduzzi di far derivare dalla Religione quelle verità che poi occorre trapiantare e coltivare nella vita politica, da un canto lo allontana dal pensiero moderno fino ad allora espresso in Inghilterra e Francia, e dall’altro lo incanala verso le accuse di essere un pericoloso giansenista che metteva in dubbio la Verità della Religione. Questo è il dramma storico (non soltanto individuale di Amaduzzi), che si vive all’interno dello Stato della Chiesa, e che vivrà anche lo Stato italiano quando nascerà dai princìpi di libertà risorgimentali intesi da Roma come vulnus all’ordine costituito.

Dai compilatori dell’Enyclopédie era venuta a tutta l’Europa dei Lumi la grande lezione che dimostrava l’indubbio primato della Filosofia sulla Politica. La classificazione delle idee e degli argomenti da loro operata, è la prova che per conoscere il mondo, operarvi e cambiarlo, occorre una conoscenza che sia riflessione sulla Storia, sul ruolo che in essa vi ha avuto l’uomo, e sulle finalità delle nostre azioni. Ma questa riflessione sulla Storia, dicono i compilatori dell’Enyclopédie, deve usare dimostrazioni matematiche per addivenire ad una certezza senza la quale si resta nel campo delle probabilità [109]. Dall’Enyclopédie emerge così un discorso sul metodo che precorre l’azione pratica. Ne abbiamo un esempio a proposito dei diritti naturali: la loro conoscenza filosofica ne permette il riconoscimento giuridico. La Politica in quanto attività pratica è per l’Enyclopédie l’applicazione di princìpi che la Filosofia stessa deve elaborare e fornire. In ciò si esprime l’illusione illuministica che la Ragione potesse determinare il corso degli eventi. Illusione che ritroviamo, mutatis mutandis, anche in Amaduzzi.

Nel Discorso preliminare di D’Alembert, la Politica è definita «una specie di morale di genere particolare, superiore», che deve penetrare negli ingranaggi degli Stati e individuare «ciò che può conservarli, fiaccarli o distruggerli» [110]. Rispetto alla Filosofia politica rinascimentale (che ricorre a princìpi d’autorità derivati dagli esempi storici di personaggi illustri come avviene in Machiavelli e nella sua teoria della «realtà effettuale»), questa Filosofia illuministica dell’Encyclopédie non vuole dettare regole ma condurre alla «riflessione» (Rousseau) da parte di tutti gli uomini. Non è normativa, ma descrittiva. Amaduzzi riserva tale «riflessione» al filosofo, avvertendo lo spirito sovvertitore di quell’enunciazione degli enciclopedisti. E finisce così per schierarsi non dalla parte dei popoli, ma da quella dei governi, sulla linea del riformismo che deriva la sua prima spinta dal dispotismo illuminato.

Gli autori a cui Amaduzzi fa ricorso dichiarando apertamente, come si è visto il proprio debito («de’ quali molto abbiamo pur noi profittato») erano stati tutti, tranne Condillac [111], messi all’Indice. Locke il 19 giugno 1734 per il Saggio sull’intelletto umano, Montesquieu per lo Spirito delle leggi [112] il 3 marzo 1752, D’Alembert in quanto componente della compagnia dell’Encyclopédie, condannata il 5 marzo 1759 da Clemente XIII [113], con l’aggiunta di una scomunica per i suoi lettori [114]; Cesare Beccaria il 3 febbraio 1766 per il Dei delitti e delle pene[115]. Il che basta ed avanza per testimoniare il suo spirito anticonformista, comune alle «tendenze giansenistiche o giansenisteggianti o genericamente antigesuitiche» che «isolavano una parte del mondo cattolico dalle componenti maggiori del pensiero del secolo e rendevano più aspro il dibattito all’interno e fuori della Chiesa, drammaticamente isolata e dilacerata» per tutta la seconda metà del secolo [116], anche se in Amaduzzi non troviamo quel «carattere intrinsecamente antilluminista del giansenismo italiano settecentesco» [117].

Importante appare un’osservazione di Rosa sul «sincero e spontaneo, e talora persino ingenuo ideale di progresso e di ‘rischiaramento’ politico-religioso» presente in Amaduzzi: questo ideale «poteva sfociare, come in effetti sfociò, nell’enfasi democratica del cattolicesimo patriottico e rivoluzionario e nei vari movimenti di coscienza nazional-patriottici» [118]. In questo senso è pure utile ricordare quanto Paola Berselli Ambri scrive sul ruolo di Amaduzzi: «Indubbiamente, egli lasciò tracce profonde nel pensiero cattolico italiano, preludendo, per molti aspetti, a quel cattolicesimo liberale che di lì a pochi decenni avrebbe dato anche in Italia frutti copiosi» [119].

Invece gli atteggiamenti curiali e ‘gesuitici’ di un altro autore dell’Arcadia come Nicola Spedalieri (1740-1795) tralasciano, scrive Rosa, il provvidenzialismo della Filosofia cristiana, ed accettano «l’esigenza razionale di una comune ricerca della felicità», e soprattutto si preoccupano del «difficile ed instabile rapporto tra governanti e governati, con la conseguente ricerca delle norme che al di là degli ‘orrori’ di un malvagio governo facciano meglio gustare le ‘dolcezze’ di una ben ordinata repubblica», anche se poi esortano i sovrani a non lasciarsi «intenerire dalle esclamazioni di quei filosofi, che trasportati dall’entusiasmo, dettano le leggi per l’uomo in astratto, che poi mal si adattano all’uomo reale»; e li invitano ad usare, come precisa lo stesso Spedalieri, il bastone che «forma il bruto» e che «deve correggere l’uomo brutale» [120].

Sulla linea opposta a quella di Amaduzzi incontriamo anche il domenicano Tommaso Maria Mamachi [121], critico del riformismo e teorizzatore dell’intolleranza della Chiesa per «seguire gli ordini» di Cristo [122]. Mamachi, come spiega Venturi, «potrebbe essere detto il primo suscitatore di quel mito che alla fine del secolo prenderà il nome di Santa Fede, col suo tentativo di unire attorno alla Chiesa i nobili e la plebe contro i riformatori, i sognatori d’eguaglianza, i programmatori di una nuova società civile» [123].

Nel momento stesso in cui Amaduzzi completa il suo itinerario teoretico invocando ancora il nome di Locke soprattutto per quanto riguarda la questione gnoseologica, la Filosofia europea ha già collocato queste enunciazioni nel guardaroba delle idee superate. Immanuel Kant nel 1781 ha manifestato con la Critica della ragion pura il suo «invito alla ragione di [...] erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento» [124]; e tre anni dopo si è chiesto Was ist Aufklärung?, rispondendo che «illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso» [125].

Sullo sfondo c’è un mondo che Amaduzzi nel 1790, l’anno della Rimostranza, definisce ormai «in combustione» ed in cui «v’è solo da sospirare per tutti» [126]. Nello stesso anno, scrive a Bertòla, dopo aver ricordato il «fanatismo romano»: «sono così vacillante sulla sorte di tutti i luoghi della nostra storia, non che dell’Europa tutta» [127].

Amaduzzi, è stato osservato da Berselli Ambri, fu un cittadino delle Legazioni ammiratore di Montesquieu, «che vide la Rivoluzione dilagare, che vide superato e travolto il mondo nel quale egli stesso non aveva creduto, che osservò, con l’occhio disincantato del critico e dello studioso, la bufera che travolgeva tutto il vecchio sistema e che sperò in una palingenesi. [...] Ed allo scoppio della Rivoluzione è tra coloro che la seguono con occhio favorevole [128], sperando in un radicale rinnovamento, [...] plaudendo alla costituzione civile del clero ed all’esito infausto della fuga di Varennes» [129].

Amaduzzi muore il 21 gennaio 1792. Proprio un anno dopo, il 21 gennaio 1793, la condanna a morte di Luigi XVI votata dalla Convenzione, dimostra che non esistono «rivoluzioni felici» come quelle che lui aveva creduto di veder realizzate a Napoli e in Lombardia. Gli entusiasmi illuministici di un’intera generazione finiscono prima nel sangue poi nell’avventura bonapartista.



NOTE AL TESTO


[1] Cfr. M. Rosa, Settecento religioso. Politica della Ragione e religione del cuore, Venezia 1999, p. 147. Qui l’autore riprende le considerazioni già presentate nella sua Introduzione all’Aufklärung cattolica in Italia, «Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano», a cura dello stesso Rosa, Roma 1981, pp. 1-47.

[2] A proposito di quest’osservazione sul «lessico illuministico» di Amaduzzi, e quindi su quanto a quel lessico conduce, riportiamo da una lettera del savignanese al poeta riminese Aurelio De’ Giorgi Bertòla (1753-1798), questa semplice ma interessante osservazione: «Un puro Antiquario è difficile, che stia perfettamente a livello collo spirito illuminato del secolo» (Roma, 24 dicembre 1776, Fondo Piancastelli, Biblioteca Saffi di Forlì [FPS], n. 8.290). In queste parole s’intravede lo sforzo di novità a cui Amaduzzi vuole ispirare il proprio procedere per uscire dalla secche di una cultura che rischiava di essere improntata a valori di un’erudizione «all’antica», ben diversa da quella «di gusto moderno, sul tipo scientifico, [...] legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna»: cfr. E. Raimondi, I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano 1989, cap. «Ragione ed erudizione nell’opera di Muratori», pp. 79-97 (ripubblicato in Id., I sentieri del lettore, ii, Dal Seicento all'Ottocento, Bologna 1994, pp. 133-150). Nella stessa lettera a Bertòla, Amaduzzi scrive: «Faccio ora stampare la mia Dissertazione Arcadica sul fine, ed utilità delle Accademie, e voi ne avrete alcuni esemplari a prima occasione». (Su tale «Dissertazione», cfr. infra alla nota 9.)

[3] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 148.

[4] Cfr. P. Berselli Ambri, L’opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 58-59. Utile è la recensione di questo studio, presente in M. Rosa, Sulla condanna dell’«Esprit des lois» e sulla fortuna di Montesquieu in Italia, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XIV, 3, pp. 411-428. Rosa ricorda che «Amaduzzi va ben oltre le posizioni montesquieuiane facendo propri, in quell’ansia di riforma che contraddistingue i giansenisti degli ultimi decenni del Settecento, orientamenti che l’Encyclopédie e l’opera rousseauiana avevano immesso nella più aperta cultura illuministica italiana» (p. 412).

[5] Sulla formazione giovanile di Amaduzzi, cfr. A. Montanari, G. C. Amaduzzi e la scuola di Iano Planco, nel III volume di questa Collana Amaduzziana, Viserba di Rimini, 2003, pp. 13-36.

[6] Nato nel 1697, fu elevato alla porpora il 26 novembre 1753 da Benedetto XIV, fu segretario di Stato dal dicembre 1758, e morì nel 1777: cfr. pp. R. Ritzler-P. Sefin, Hierarchia Catholica Medii et recentissimi Aevi, VI, 1730-99, Padova 1958, p. 17. Qui si legge: «Torrigiani (Torregiani)».

[7] Cfr. E. Passerin d’Entrèves, La riforma «giansenista» della Chiesa e la lotta anticuriale in Italia nella seconda metà del Settecento. 1. Gli anni di preparazione (1750-1765), «Rivista storica italiana», 71, II, Napoli 1959, pp. 227-228. Sia a Clemente XIII sia al cardinal Torrigiani (definiti da Bernardo Tanucci «i due papi»), «importava colpire coloro che ormai facevano fronte comune col “partito” antigesuitico ed anticurialista, piuttosto che definire precisi atteggiamenti teologico-culturali» (ibid., pp. 210, 230, nota 45). Passerin d’Entrèves ricorda che Tanucci «non è soltanto un accanito difensore dei diritti del suo sovrano, della monarchia illuminata contro l’ambiziosa Corte di Roma, ma è anche il fautore della riforma “giansenista” della Chiesa, e non ignora le premesse teologiche delle “novità” moliniste e gesuitiche» (p. 234). Il molinismo, secondo Antonio Niccolini (1701-1769), ebbe come conseguenza politica il dispotismo; Niccolini inoltre considera Clemente XI, autore della «bolla» Unigenitus (1713) di condanna del giansenismo, come «il fonte di ogni male di Roma» e dell’Italia (ibid., p. 232).

[8] Con questa «offensiva anticuriale», la «collaborazione tra riformatori filogiansenisti della Chiesa e riformatori anticuriali, al servizio dello Stato [...] si trasforma in una solidarietà, in un’opera comune»: cfr. Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 210. Sui legami fra posizioni anticuriali ed offensiva giurisdizionalistica dei sovrani e dei ministri riformatori, cfr. ibid., p. 232.

[9] Cfr. G. C. Amaduzzi, Sul fine ed utilità dell’Accademie (Torchi dell’Enciclopedia, Livorno 1777), La Filosofia alleata della Religione (ibid., 1778), e Dell’indole della Verità, e delle Opinioni (Pazzini Carli, Siena 1786). Il primo discorso fu pronunciato il 23 settembre 1776 e pubblicato l’anno successivo. Gli altri due furono tenuti nello stesso anno della stampa.

[10] Su questo aspetto ritorneremo in seguito.

[11] La definizione è di C. A. Jemolo. La riprendiamo da Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 210. Nel 1769 erano apparsi a Ferrara gli Opuscoli di Anselmo Desing, un monaco benedettino della Baviera, in cui si legge che la politica dei «disadattati e sciocchi riformatori» (messi qui sotto accusa assieme a «naturalisti» e razionalisti»), rischiava di portare gravi conseguenze in Italia, come il gettare «primamente nel Tevere il papa con una macina al collo», e lo «sbandir [...] tutti i chierici» in Siberia o nella recentemente scoperta penisola di «Kamtzcatka»: cfr. F. Venturi, Settecento riformatore, II. La Chiesa e la repubblica dentro i loro limiti. 1758-1774, Torino 1976, p. 200.

[12] Cfr. Venturi, Settecento riformatore, II, cit., p. 340. Quando papa Ganganelli sopprime l’ordine dei Gesuiti il 21 luglio 1773, Amaduzzi è considerato l’ispiratore della «bolla» Dominus, ac Redemptor con cui il provvedimento è sancito.

[13] Cfr. il cit. Amaduzzi e la scuola di I. Planco, p. 22.

[14] Rispettivamente si tratti dei Discorsi del poema eroico, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, e del Discorso intorno alle cose che stanno in sull’acqua.

[15] Cfr. Sul fine ed utilità dell’Accademie, p. 11.

[16] Il primo discorso di Rousseau «è costruito intorno all’intuizione fondamentale della contraddizione insita nella civiltà e nei suoi valori apparentemente meno discutibili». Il secondo «si organizza intorno a tre nuclei fondamentali: l’idea di natura originariamente buona [...]; il concetto di causalità appropriato all’agire sociale e alla spiegazione delle principali istituzioni [...]; la critica del diritto naturale e degli altri princìpi con cui si cerca di legittimare l’ordine sociale»: cfr. T. Magri, L’ordine sociale, «Storia della filosofia. 4. Il Settecento», a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Bari 1996, pp. 371, 373. Amaduzzi non accetta queste posizioni, come risulterà evidente dal sèguito del nostro esame del suo pensiero.

[17] Cfr. V. E. Giuntella, Roma nel Settecento, Bologna 1971, pp. 133-134.

[18]Ibid., p. 135. (Cfr. nel primo «discorso» amaduzziano a p. 25.)

[19] Sui gusti letterari di Amaduzzi, è rivelatrice questa confessione che egli fa in una lettera a Bertòla: «Io sono un disgraziatissimo uomo, che vinto da inquietudine non ho mai potuto continuare più d’una mezzora la lettura d’Ariosto», Roma 16 febbraio 1779, FPS, n. 8.317.

[20] Con Condillac, «la metafisica diventava la raccolta ordinata dei fatti e la loro reciproca spiegazione, diventava epistemologia di un sapere che intendeva riferirsi, sulla scia di Newton e Locke, ai problemi della conoscenza della natura e dell’uomo»: cfr. F. Abbri, La prosa filosofica, «Manuale di letteratura italiana. Storia per Generi e Problemi. 3. Dalla metà del Settecento all’unità d’Italia», Torino 1995, p. 613.

[21] Cfr. Giuntella, op. cit., p. 135. A proposito di Beccaria va ricordato che egli indicava Montesquieu come uno dei suoi maestri, tra cui troviamo pure il Rousseau del Contrat social, da cui Beccaria «aveva assunto il principio secondo cui la società nasce da una parziale rinuncia (la minore possibile) alla libertà individuale in vista dell’utile comune (il maggiore possibile»): cfr. G. Ravasi, Contro l’omicidio di Stato, «Domenica, Il Sole-24 Ore», 23 marzo 2003, n. 81, p. 29.

[22] Cfr. Giuntella, op. cit., p. 135.

[23] Con questa carestia comincia la catastrofe finanziaria dello Stato della Chiesa che culmina nel triennio 1793-96 quando Pio VI esaurisce completamente l’«Erario sanziore» voluto da Sisto V, e già intaccato da Clemente XIII: cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, I, Le origini del Risorgimento 1700-1815, Milano 1956, pp. 134-135. Il disavanzo dei bilanci dello Stato della Chiesa nel 1764 supera i settanta milioni di scudi contro i sessanta ereditati da Clemente XII (Lorenzo Corsini, 1730-1740), la punta massima registrata sino ad allora. Quattro anni dopo, sotto Clemente XIII (1758-1769), si studia un piano di riforma doganale che prevede tra le altre cose l’accollo alla Camera Apostolica dei debiti comunitari per passaggio di truppe estere e carestie. Su questi aspetti, cfr. G. L. Masetti Zannini, Il movimento riformatore nello Stato Pontificio nel secolo XVIII, «Roma economica», 1960, nn. 1, 3. Clemente XII nel 1730 sottopose a processo l’arcivescovo di Benevento cardinal Niccolò Coscia (1681-1755), il prelato preferito di Benedetto XIII (Pierfrancesco Orsini, 1724-1730), che fuggì da Roma e dopo oltre un anno di pubbliche polemiche molto simili a trattative, vi ricomparve per essere condannato a dieci anni di reclusione per falsificazione, disonestà, simonia: cfr. C. Marcora, Storia dei Papi, IV, Milano 1966, p. 532. (Sul cardinal Coscia, cfr. The Cardinals of the Holy Roman Church, Biographical Dictionary, Pope Benedict XIII (1724-1730), Consistory of June 11, 1725 (IV), a cura di S. Miranda, <www.fiu.edu/~mirandas/bios1725.htm>.) Da ricordare che alla carestia seguirono «lunghe e inconcludenti sommosse» popolari, come quella dell’inverno 1773-1774: cfr. Venturi, Settecento riformatore, II, cit., p. 331. Qui, a p. 332, leggiamo inoltre che Clemente XIV finì «col trovarsi in una situazione non dissimile da quella della nobiltà decaduta e immiserita, ovunque pullulante in Italia, quella stessa nobiltà che riempiva tribunali, conventi e chiese».

[24] Drammatiche sono le conseguenze della carestia pure in Romagna, «dove il clero nulla aveva sacrificato, per soccorrere gli affamati» (cfr. Venturi, Settecento riformatore, II,cit., p. 194). Il cronista riminese Ernesto Capobelli scrive che nel 1764 a Roma concorrono «milliaia di poveri», ospitati a spese dell’Erario in due «serragli»: alle Terme sono raccolti gli uo­mini, ed alla Bocca della Verità in Campo Vaccino, le donne. Tra queste ultime serpeggia un’epidemia di vaiolo. Tre anni dopo, in sede di bilancio degli eventi, Capobelli conclude che «il Pontefice non pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi, dispensò soltanto tesori spirituali»: cfr. G. Capobelli, Commentari delle cose accadute nella Città di Rimino e in altri luoghi, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, SC-MS. 306, pp. 36, 233. Giuseppe Garampi, che agiva a Roma per mandato della sua città, nel 1767 comunica ai Consoli di Rimini quanto gli è stato spiegato dalla Congregazione del Buon Governo: cioè, che per i «40 giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città tanto sprovvi­sta, quanto si rappresenta, e che intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali sup­plire a qualche defi­cienza di Pane». Commenta Garampi: «In somma nulla è da sperarsi. [...] Compiango vivamente la pre­sente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita». (Cfr. A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, «Pagine di Storia & Storie», V, 11, supplemento a «Il Ponte», Settimanale cattolico riminese, XXIV (1999), 11, pp. 1-8; e cfr. Id., Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, «Romagna, arte e storia», 56, 1999, pp. 5-26.)

[25] Cfr. F. Venturi, Elementi e tentativi di riforme nello Stato pontificio del Settecento, «Rivista Storica Italiana», LXXV (1968), pp. 790-791.

[26] Cfr. Venturi, Settecento riformatore, II, cit.,p. 194. Qui a p. 196 è cit. un testo del tempo, di S. Spiriti, dove si legge che i veri poveri sono «quei campagnoli ed artigiani che da mattino a sera sudano, per mangiare un tozzo di pane, con recar utile allo stato», e non «quei che cantano in coro, o che recitano quattro salmi, o pur quei che van pitoccando per le case».

[27] Cfr. Rosa, Settecento religioso, pp. 160-164 e 176-178.

[28]Ibid., p. 176.

[29]Ibid., pp. 177-178.

[30] Le parole amaduzziane, riprese da Rosa, Settecento religioso, p. 179, sono a p. 31 di questo «discorso».

[31] Cfr. D. Menozzi, Letture politiche della figura di Gesù nella cultura italiana del Settecento, «Cattolicesimo e lumi nel Settecento italiano», cit., p. 146. Le «istanze di rinnovamento della seconda Arcadia» sono «espresse in modo paradigmatico dal titolo di un discorso del principe Luigi Gonzaga di Castiglione, Il letterato buon cittadino»: cfr. G. Cantarutti, L’«Antologia romana» e la cultura tedesca in Italia, «Il Settecento tedesco in Italia. Gli italiani e l’immagine della cultura tedesca nel XVIII secolo», a cura di G. Cantarutti, S. Ferrari e P. M. Filippi, Bologna 2001, p. 277. In tale saggio è dato ampio spazio ad Amaduzzi, cfr. ad indicem.

[32] Cfr. p. 23 del primo «discorso». Anche alle p. 9, 12 si legge che lo scopo principale delle Accademie è quello di distruggere o «detronizzare gli errori dominanti».

[33]Ibid., p. 22.

[34]Ibid., p. 9.

[35]Ibid., p. 21.

[36] Il termine indicava qualsiasi tipo di lavoro fatto con scavi nel terreno.

[37] Cfr. il secondo «discorso», p. 6.

[38]Ibid.,p. 7.

[39]Ibid.,p. 10.

[40]Ibid.,pp. 10-11.

[41]Ibid.,p. 25.

[42]Ibid.,p. 28.

[43]Ibid.,pp. 28-29.

[44]Ibid.,p. 29.

[45]Ibid.,p. 31.

[46]Ibid.,pp. 32-35.

[47] Questa dichiarazione di compatibilità dei diritti naturali con un Cristianesimo ripulito dal «giogo indegno della superstizione e dell’ignoranza», sottintende una specie di compromesso fra Religione e Nuovo Pensiero, tra la Fede ed una Politica sottomessa alla Religione medesima, al punto che viene legittimo chiedersi: nel caso in cui tale compatibilità non fosse stata ammessa o riconosciuta, sarebbe stato necessario evitare in toto il discorso sugli stessi diritti naturali per quanto riguarda l’organizzazione della società e dello Stato? Nello stesso tempo però, la stessa dichiarazione di compatibilità porta a ritenere necessario per la «Religione» di correggersi su quel piano di applicazione dei princìpi primi, che coinvolge Teologia e Storia della Chiesa, con la consapevolezza che proprio in tale campo l’erudizione protestante aveva portato a «dar ad intendere che da’ Cattolici si moltiplicassero le superstizioni», come aveva avvertito Benedetto Bacchini (cfr. in Raimondi, I lumi dell’erudizione, cit., cap. «I Padri Maurini e l’opera del Muratori», p. 9). Questo aspetto richiede un’analisi che non è però possibile svolgere nel presente lavoro.

[48] Cfr. D. Menozzi, op. cit., p. 145.

[49] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 142.

[50] Gregorio Fontana (1735-1803), docente di Matematica infinitesimale nell’Università di Pavia, Scolopio e massone, fu uno degli «amici e corrispondenti più cari» di Amaduzzi: cfr. G. Cantarutti, Le sorprese di un ritratto, Collana Amaduzziana, III, cit., p. 42. Qui leggiamo che l’«appartenenza al clero e, insieme, alla massoneria, oggi sconcertante, era allora la norma», e che Fontana presentava dalla Lombardia ad Amaduzzi «riflessioni» che «a metà degli anni Ottanta a Roma non si potevano esporre pubblicamente». Sul tema affrontato in questo saggio, cioè i rapporti «fra italiani e oltremontani» («molto più intensi di quanto si ritenga comunemente», p. 43), va ricordato un altro lavoro della prof. Cantarutti, «Doctus Italus, Amadutius». Con documenti su Corilla e gli ‘Oltremontani’, «Corilla Olimpica e la poesia del Settecento europeo. Atti del Convegno di Pistoia, 2000», Pontedera 2002, pp. 69-85: Amaduzzi «è parte di quella che con un termine moderno si chiamerebbe scientific community e che vede nel secondo Settecento ormai da tempo in posizione di forza non più l’Italia, ma gli oltremontani, in particolare del Nord» (p. 74).

[51] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 143. A Napoli, dopo la cacciata di Bernardo Tanucci e l’ascesa del partito filoasburgico e antispagnolo, era nato «uno Stato di polizia, riflesso di un corrotto governo della pubblica amministrazione»: cfr. F. Lomonaco, Introduzione ad A. Bertòla, Filosofia della storia (1787), Napoli 2002, p. XI.

[52] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 148. (Su Gibbon e la cultura storico-politica del secondo Settecento italiano, cfr. Lomonaco, op. cit., passim.)

[53] Amaduzzi, «amico dei livornesi rieditori dell’Enciclopedia», fin dal 1774 aveva preveduto «fatti strepitosi che avrebbero trasformato tutto il sistema d’Europa»: cfr. D. Cantimori, Illuministi e giacobini, «La cultura illuministica in Italia», Torino 1957, p. 272. L’attenzione ai fatti del suo tempo che troviamo nel savignanese, manca invece nel Bertòla della Filosofia della Storia, un trattato noioso e pedante, in cui spiega che i governi del tempo avrebbero potuto mantenere «per un giro di secoli» la loro forza e prosperità, perché ormai le «rivoluzioni ordinarie» erano «assai più rare, gagliarde assai meno». Bertòla non tratta mai analiticamente del periodo che va dalla rivolta dei Paesi Bassi (1566-1581) alla Di­chiarazione d’Indipendenza americana (1776). Soltanto nel secondo discorso massonico di Milano del 1788, Bertòla accenna alle «rivoluzioni im­provvise che sono già accadute» (per colpa delle «miserie altrui», cioè dei non massoni), ed a quelle «onde siamo mi­nacciati»: «È un nembo che s’avanza rapidamente […]; noi lo vedremo avvicinarsi senza temerlo; e lo ve­dremo dileguarsi senza averlo provato». Cfr. A. Montanari, Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. Morelli, Firenze 2000, p. 389; e Id. Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997), Cesena 2000, p. 550.

[54] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 148.

[55] Sul significato di questa dedica, cfr. Cantarutti, Le sorprese di un ritratto, cit., pp. 41-42.

[56] Anche questa terza orazione mostra chiaramente come «la posizione di Amaduzzi venga sempre maggiormente scoprendosi nel momento di forza del movimento episcopale-regalista e dell’offensiva leopoldina e giuseppina nei confronti di Roma, per rimanere però priva di difesa di fronte all’ira papale e agli attacchi sempre più virulenti dei curialisti, quando comincerà a delinearsi il fallimento del tentativo ricciano e [...] il riflusso regalista dei sovrani, anche in concomitanza con gli avvenimenti francesi»: cfr. M. Caffiero Trincia, Cultura e religione nel Settecento italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione De’ Ricci, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», XXVIII, 1, Roma 1974, pp. 94-126; e XXX, 2, pp. 405-437. La cit. è ripresa dalle pp. 409-410.

[57] Cfr. a p. 54 di questo terzo «discorso».

[58] A pag. 44 di questo stesso «discorso», Amaduzzi parla dell’«originale ignoranza» dell’uomo.

[59] Le citt. sono riprese dalle pp. 33 e 56 dello stesso «discorso».

[60]Ibid., p. 48.

[61] Qui Amaduzzi sembra riflettere quel passo della Scienza Nuova di Vico dove si parla dell’importanza del lavoro filologico per avere la «coscienza del certo», differenziandosi così dal Bertòla della Filosofia della storia, il quale non si cura di accertare le ragioni degli scrittori del passato «con l’autorità» della filologia, convinto com’è a priori di un primato dei modelli classici.

[62] Cfr. a p. 32 del terzo «discorso».

[63] Cfr. A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», cit., p. XXVIII, nota 7. Pronunciato il terzo «discorso», Amaduzzi scrive a Girolamo Pompei, il 4 febbraio 1786 (Manoscritti n. 28, Biblioteca Filopatridi Savignano), che ha intenzione di stampare la sua dissertazione, «senza assoggettarla alle mutilazioni di Frati superstiziosi, e fanatici».

[64] Il testo è in G. Gasperoni, Settecento italiano (Contributo alla storia della cultura), I. L’ab. Giovanni Cristoforo Amaduzzi, Padova 1941, pp. 319-343. Il brano cit. è alle pp. 325-326.

[65] Mons. De’ Ricci, dal 1780 nominato vescovo di Prato e Pistoia, aveva frequentato casa Bottari. Con lui, Amaduzzi fu in fitta corrispondenza. Il «Circolo dell’Archetto» di Bottari «è l’incubatrice dove è stato allevato il vero giansenismo toscano»: cfr. P. Alatri, Profilo storico del Cattolicesimo liberale in Italia, I, Il Settecento. Giansenismo, filogiansenismo e Illuminismo Cattolico, Palermo 1950, p. 45. Sul gruppo ricciano, qui cfr. alle pp. 48-54, 65-72. Sul tema, cfr. i citt. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, e Caffiero Trincia, Cultura e religione nel Settecento italiano. Caffiero Trincia sostiene che in Amaduzzi esiste una evoluzione «dalle posizioni originarie [...], in un primo tempo favorevoli al Papato nelle sue lotte con i principi, verso atteggiamenti schiettamente regalisti e anticuriali, evoluzione che avviene parallelamente a quella subita da tutta la politica dello Stato Pontificio col passaggio del potere da Clemente XIV a Pio VI» (ibid., p. 122). Nel saggio di Caffiero Trincia si esaminano anche i rapporti fra Amaduzzi e Giuseppe Garampi, del quale si sottolinea l’«estrema cautela» («non si lasciò mai coinvolgere» nelle dispute e nei contrasti fra Roma e la Toscana, cfr. ibid., pp. 117-118). In una lettera a Scipione De’ Ricci, Amaduzzi così scrive il 2 febbraio 1788: «Ella riconoscerà la pusillanimità del Cardinale [Garampi, n.d.r.], che fa precedere le etichette cardinalizie ai giusti doveri ecclesiastici, e sacrifica la verità alla politica» (ibid., pp. 118-119). Sui rapporti fra Amaduzzi e Garampi, cfr. ibid. pure alle pp. 430-431.

[66] Padre Agostino Giorgi (1711-1797), agostiniano originario di San Mauro, fu teologo, orientalista, prefetto della Biblioteca Angelica, procuratore generale del suo Ordine. Militò contro i Gesuiti al pari di Amaduzzi. Cfr. E. Pollini, Padre Agostino Antonio Giorgi nel 180° anniversario della morte, «Quaderno XI (1997), Rubiconia Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone», pp. 41-60.

[67] Per una sua breve ed aggiornata biografia, cfr. Montanari, Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», cit., pp. 389-398. Sui rapporti fra Bertòla ed Amaduzzi, cfr. Id., Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Rimini 1998, pp. 21-28.

[68] Cfr. lettera da Roma 4 marzo 1778, FPS, n. 8.256.

[69] Questo giudizio è importante per comprendere il clima romano e l’atteggiamento di quanti pensavano come Amaduzzi in materia di Religione: al proposito, cfr. infra ciò che scrive Rodolico (essi «disapprovavano le condanne e le persecuzioni» dei Giansenisti, non erano Giansenisti).

[70] Circa questo viaggio di Bertòla, mai avvenuto, Amaduzzi gli scrive il 14 marzo 1778, FPS, n. 8.318: «Vorrei però, che il vostro viaggio al Baltico si intorbidasse, ed io non troverei il vostro disdoro nel retrocedere da un’impresa sempre equivoca, ed incerta riguardo ai vostri vantaggi, ed alla vostra salute, tanto più, se la sospensione non nascesse da vostra premura, e ricevesse altro compenso».

[71] Si tratta della cit. missiva del 14 marzo 1778, FPS, n. 8.318. L’accenno a Galileo riassume molto bene la ‘vivacità’ delle discussioni attorno ai temi trattati da Amaduzzi.

[72] Mattia Zarrillo (1729-1804) «fu dotto in archeologia»: cfr. F. Polidori, Indice biografico, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», cit., p. 374.

[73] Antonio Di Gennaro duca di Belforte (1718-1791), mediocre poeta napoletano ma uomo equilibrato ed erudito, fu in stretti rapporti con Bertòla. Cfr. A. Montanari, Lumi di Romagna. Il Settecento a Rimini e dintorni, Rimini 1992, p. 48.

[74] La lettera è datata Roma 2 giugno 1778, FPS, n. 8.311. Vi leggiamo: «Nel corrente foglio delle Notizie del Mondo di Firenze sono inserite due lettere de’ Cardinali Banditi e Bandi in commendazione della mia Orazione Arcadica, quali ho fatto il conto che potranno bastare per coprirmi da ogni ulteriore persecuzione».

[75] Francesco Banditi (1705-1796) era un Padre teatino riminese.

[76] Gennaro Pignitelli visse dal 1728 al 1785 (Hierarchia Catholica, cit., ad indicem).

[77] Serafino Filangeri (e non «Filingeri» come scrive Amaduzzi) visse dal 1713 al 1782 (ibid., ad indicem).

[78] Cfr. nel terzo «discorso», p. 60. Qui Amaduzzi aggiunge: i «tempi illuminati» hanno svelato gli errori, separandoli dalle verità che poi sono state «collegate fra loro».

[79] Cfr. il XVIII cap. del Principe.

[80] Cfr. nel secondo «discorso», p. 9.

[81] Cfr. G. C. Alessio, La trattatistica, «Manuale di letteratura italiana. Storia per Generi e Problemi. 1. Dalle origini alla fine del Quattrocento», Torino 1993, pp. 917-919.

[82] Su questo tema, cfr. G. Benrekassa, Tolleranza, etica, politica: la filosofia sociale dell’Illuminismo oggi, «L’età dei Lumi. Saggi di cultura settecentesca», a cura di A. Santucci, Bologna 1998, pp. 231-261.

[83] La citazione è ripresa da Che cos’è l’illuminismo. I testi e la genealogia del concetto, Milano 1997, pp. 205-206.

[84] Cfr. nel secondo «discorso», p. 49.

[85] Nel secondo «discorso» Amaduzzi (p. 50), come vedremo, critica quanti facevano «l’abuso forse più pernicioso» della Religione, confondendo «le cose del Cielo con quelle, che sono dell’ordine naturale».

[86] Cfr. Ravasi, op. cit.

[87] Cfr. nel secondo «discorso», p. 44.

[88] Cfr. nel terzo «discorso», p. 60.

[89] Abbiamo già visto che Amaduzzi, nella lettera a Bertòla del 4 marzo 1778, FPS, n. 8.256, definisce «innocenti» quanti erano accusati di filogiansenismo («lo spirito minaccevole al buon senso, ed all’Anti-Loyolitismo, che a me si attribuisce, mi poteva far temere anche sopra di me quelle stesse misure, che si sono prese sopra vari altri innocenti»).

[90] Cfr. N. Rodolico, Gli amici e i tempi di Scipione dei Ricci. Saggio sul Giansenismo italiano, Firenze 1920, pp. 4-5. In Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 417, si legge che Bottari «fu toccato assai poco dal fervore di pensiero del secolo, diversamente dai giansenisti dei successivi decenni».

[91] Cfr. R. Merolla, Lo Stato della Chiesa, «Letteratura italiana. Storia e geografia. L’età moderna. II/2», Torino 1988, p. 1076. Anche in Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 230-231, si parla di «filogiansenismo, piuttosto che di giansenismo», per definire l’«ambigua posizione» di Bottari e dei «suoi più audaci corrispondenti».

[92] A metà del Settecento italiano, «quei gruppi che [...] potremmo definire “muratoriani”, aperti alle esigenze culturali, e a una “sana critica” del passato, specie nel settore delle scienze ecclesiastiche, portati ad una “regolata devozione”, spezzavano l’equilibrio che la personalità del Muratori aveva saputo mantenere e accentuavano la tensione riformatrice e i fermenti di critica e di discussione»: cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 414.

[93] Cfr. Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 233, nota 49.

[94]Ibid., pp. 211-213.

[95]Ibid., p. 213: la citazione è tolta da una lettera al ricordato Niccolini (1759), a proposito di Celestino Galiani, definito qui «troppo matematico e troppo metafisico per abbracciare il sistema» agostiniano. Galiani, in quanto lettore di Locke, fu considerato oltre che giansenista pure eretico ed ateo, con una significativa intercambiabilità di termini per delineare l’unico concetto di seguace della nuova Filosofia: cfr. A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, «Storia d’Italia», V/II, Torino 1973, p. 1486-1487. Sul tema, cfr. A. Montanari, Tra erudizione e nuova scienza. I Lincei riminesi di Giovanni Bianchi (1745), «Convegno sulle Accademie romagnole», Studi Romagnoli, Forlì 2000, di prossima pubblicazione, ma già disponibile su Internet nel sito «Riministoria», all’indirizzo: <http://digilander.libero.it/monari/lincei/lincei.687.html>; e Id., Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2001, pp. 35-54. Circa il sistema agostiniano, merita di essere ricordato uno scritto di Amaduzzi dove leggiamo che a Roma spesso si era trovato nel caso di doverlo «vendicare [...] per conto delle dottrine teologiche dai ben noti contrari attacchi». Amaduzzi aggiunge che, giacché era «incerto della futura» sua sorte, ed era premuroso di non mancare di un presidio, che una volta gli potesse essere necessario», riputò allora conveniente accingersi anche agli studi teologici dei quali successivamente non si sarebbe «mai pentito» nonostante il suo stato «tuttora profano». Lo scritto amaduzziano è l’elogio in memoriam del proprio maestro Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), inviato ad Aurelio De’ Giorgi Bertòla il 3 gennaio 1776 (copia autografa in Miscellanea Manoscritta Riminese, Amaduzzi G. C., Biblioteca Gambalunghiana di Rimini). Di tale elogio abbiamo già trattato nel cit. G. C. Amaduzzi e la scuola di Iano Planco.

[96] Cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 417.

[97] Cfr. Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 233.

[98] Cfr. nel secondo «discorso», p. 50.

[99]Ibid., pp. 48-49.

[100] Va ricordato che in Italia il Giansenismo «si mette a capo dell’opera di laicizzazione della coscienza pubblica e notevolmente contribuisce a trasformare il vecchio regime»: queste parole di E. Rota sono riportate in P. Alatri, Profilo storico, cit., pp. 7-8. Secondo E. Codignola, «il lievito di ribellione coltivato negli animi dei giansenisti non si può identificare con quello più radicale diffuso dal razionalismo illuministico, come fa il Rota, ma finì col rivelarsi anch’esso molto fecondo e col guadagnare, alla fine alla causa della libertà e della rivoluzione larghe cerchie di credenti e di sacerdoti, sui quali l’illuminismo razionalistico non avrebbe mai avuto alcuna presa» (ibid., p. 14).

[101] Cfr. Enciclopedia 1751-1772, II, Milano 1966, p. 340.

[102] Cfr. Voltaire, Dizionario filosofico, Milano 1962, p. 512.

[103]Ibid., p. 517. Sulla «bolla» In Coena Domini, così chiamata perché solennemente proclamata ogni anno il Giovedì Santo («feria V in Coena Domini»), e contenente il catalogo delle scomuniche riservate al papa sino al 1869, cfr. la relativa voce in The Catholic Encyclopedia, Volume VII: «A papal Bull, so called from the feast on which it was annually published in Rome, viz, the feast of the Lord's Supper, or Maundy Thursday. The ceremony took place in the loggia of St. Peter's in the presence of the pope, the College of Cardinals, and the Roman Court. The Bull was read first in Latin by an auditor of the Sacred Roman Rota, and then in Italian by a cardinal-deacon. When the reading was over the pope flung a lighted waxen torch into the piazza beneath. The Bull contained a collection of censures of excommunication against the perpetrators of various offences, absolution from which was reserved to the pope. The custom of periodical publication of censures is an old one. The tenth canon of the Council of York (1195) orders all priests to publish censures of excommunication against perjurers with bell and lighted candle thrice in the year. The Council of London (1200) commands the yearly publication of excommunication against sorcerers, perjurers, incendiaries, thieves, and those guilty of rape. The first list of censures of the "Bulla Cœnæ" appeared in the fourteenth century, and was added to and modified as time went on, until its final revision under Urban VIII in the year 1627, after which it remained practically unchanged till its formal abrogation in the last century. Under Urban V (1363) the list contained seven cases; under Gregory XI (1372) nine; under Martin V (1420) ten; under Julius II (1511) twelve: under Paul III (1536) seventeen; under Gregory XIII (1577) twenty, and under the same pontiff in the year 1583 twenty-one; under Paul V (1606 and 1619) twenty; and the same number in the final shape given to it by Urban VIII. The main heads of the offences struck with excommunication in the Bull are as follows: (1) Apostasy, heresy, and schism. (2) Appeals from the pope to a general council. (3) Piracy in the papal seas. (4) Plundering shipwrecked vessels, and seizure of flotsam and jetsam. (5) The imposition of new tolls and taxes, or the increase of old ones in cases where such was not allowed by law or by permission of the Holy See. (6) The falsification of Apostolic Briefs and Bulls. (7) The supply of arms, ammunition or War-material to Saracens, Turks, or other enemies of Christendom. (8) The hindering of the exportation of food and other commodities to the seat of the Roman court. (9) Violence done to travellers on their way to and from the Roman court. (10) Violence done to cardinals. (11) Violence done to legates, nuncios, etc, (12) Violence done to those who were treating matters with the Roman court. (13) Appeals from ecclesiastical to secular courts. (14) The avocation of spiritual causes from ecclesiastical to lay courts. (15) The subjection of ecclesiastics to lay courts. (16) The molestation of ecclesiastical judges. (17) The usurpation of church goods, or the sequestration of the same without leave of the proper ecclesiastical authorities. (18) The imposition of tithes and taxes on ecclesiastics without special leave of the pope. (19) The interference of lay judges in capital or criminal causes of ecclesiastics. (20) The invasion, occupation, or usurpation of any part of the Pontifical States. There was a clause in the older editions of the Bull, ordering all patriarchs, archbishops, and bishops to see to its regular publication in their spheres of jurisdiction, but this was not carried out, as we learn from a letter of Pius V to the King of Naples. The efforts of this pope to bring about its solemn publication in every part of the Church were foiled by the opposition of the reigning powers. Philip II, in the year 1582, expelled the papal nuncio from his kingdom for attempting to publish the Bull. Its publication was forbidden in France and Portugal. Rudolf II (1576-1612) likewise opposed it. In spite of the opposition of princes it was known to the faithful through diocesan rituals, provincial chapters of monks, and the promulgation of jubilees. Confessors were often ordered to have a copy of it in their possession; St. Charles Borromeo had a copy of it posted up in every confessional in his diocese. In Rome its solemn publication took place year after year, on Holy Thursday, until 1770, when it was omitted by Clement XIV and never again resumed.» (John Prior. Transcribed by D. J. Potter. Online Edition, © 2003 by Kevin Knight, <http://www.newadvent.org/cathen/07717c.htm>.)

[104] Cfr. Berselli Ambri, op. cit., p. 62.

[105] Cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 418.

[106]Ibid.

[107] Il riferimento è, ovviamente, all’opera di Montesquieu.

[108] Cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., pp. 420-421. Sul ruolo di A. Niccolini, cfr. Passerin d’Entrèves, op. cit., pp. 214 segg.

[109] Cfr. Enciclopedia 1751-1772, II, cit., p. 567.

[110] Cfr. D’Alembert-Diderot, La filosofia dell’Encyclopédie, Bari 1966, p. 73.

[111] «In 1755 he published his Traité des animaux, a sequel to the Traité des sensations (1754); and then his Cours d'études which includes Grammaire, L'Art d'écrire, L'Art de raisonner, L'Art de penser, L'histoire générale des hommes et des empires, edited in 13 vols., Parma, 1769-1773. This was placed on the Index in 1836.» (Cfr.: G. M. Sauvage, Condillac, The Catholic Encyclopedia, Volume IV. Online Edition Copyright © 2003 by Kevin Knight, <http://www.knight.org/advent/cathen/04210b.htm>.)

[112] Bottari cercò di salvare dall’Indice l’Esprit des Lois di Montesquieu (cfr. Passerin d’Entrèves, op. cit., p. 219, nota 23). Montesquieu «godeva di appoggi ufficiali e di stima»: cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 416.

[113] Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 413. Circa la condanna dell’Encyclopédie, cfr. R. Darnton, Il Grande Affare dei Lumi, Storia editoriale dell’Encyclopédie 1775-1800, Cremona 1998, p. 22.

[114] Il 3 settembre dello stesso 1759 papa Clemente XIII mise in guardia tutti i cattolici che possedevano l’Encyclopédie in questi termini: se non l’avessero fatta bruciare da un sacerdote, sarebbero incorsi nella scomunica (cfr. Darnton, op. cit., ibid.).

[115] Cfr. R. Zorzi, Cesare Beccaria. Il dramma della giustizia, Milano 1966, p. 105.

[116] Cfr. Rosa, Sulla condanna..., cit., p. 414.

[117]Ibid., nota 8.

[118] Cfr. Rosa, Settecento religioso, p. 182.

[119] Cfr. Berselli Ambri, op. cit., p. 60. Caffiero Trincia (op. cit., p. 426) parlando del ruolo di Amaduzzi a Roma, osserva che alla fine egli fu un personaggio «isolato», «anche se, come nota il Passerin d’Entrèves, può essere interessante considerare la presenza e la permanenza nella Roma di Pio VI di una figura ‘illuminata’ e aperta come la sua».

[120] Cfr. Berselli Ambri, op. cit., pp. 180-181.

[121] «Chi a Roma si rese conto con maggiore consapevolezza dell’importanza di una reazione di tipo propagandistico agli attacchi dei giansenisti fu Tommaso Maria Mamachi, fedelissimo servitore dei papi da Benedetto XIV a Pio VI, sempre pronto ad una intransigente difesa degli interessi culturali e della gerarchia ecclesiastica»: cfr. G. Pignatelli, Le origini settecentesche del Cattolicesimo reazionario: la polemica antigiansenista del «Giornale ecclesiastico di Roma», «Studi storici», XI (1970), IV, p. 762. (Direttore del «Giornale ecclesiastico di Roma» fu, come si è già visto, un avversario di Amaduzzi, Luigi Cuccagni.) Mamachi (ibid., p. 782, nota 86) definiva giansenisti «tutti quei che resistono all’autorità delle Bolle», e Giansenismo «tutte quelle dottrine, che combattono i diritti del Papa e della Chiesa in genere». Pignatelli ricorda (p. 782), che nel «Giornale» romano si addossarono ai giansenisti «gravi responsabilità nello scoppio e nello svolgimento della Rivoluzione», lanciando loro «accuse di giacobinismo». Contro tali accuse si schierò il sacerdote Giovanni Marchetti, uno dei redattori dello stesso «Giornale» (ibid., p. 782, nota 86). Cuccagni considerava «tutti gli avvenimenti di Francia come opera del diavolo»: cfr. Alatri, Profilo storico, cit., p. 34.

[122] Mamachi condanna il «filosofante partito», utilizzando contro i philosophes persino Rousseau (poi censurato per le sue idee democratiche). I «nostri pretesi filosofi», scrive, sono stati «capi di sedizione» ascoltati da aristocratici e borghesi, non dal popolo. Cfr. Venturi, Settecento riformatore, II,cit.,pp. 188-189. (Però in nome della Religione, Mamachi difende i privilegi di nobiltà e clero: ibid., p. 192.)

[123]Ibid., p. 197. Qui Venturi ricorda che la polemica di Mamachi e le risposte dei suoi avversari resero sempre più netti gli schieramenti contrapposti. Da una parte il domenicano tenta «di unire attorno alla chiesa i nobili e la plebe contro i riformatori, i sognatori d’eguaglianza, i programmatori d’una nuova società civile». Dall’altra, c’è «la truppa guidata dalla giustizia e dalla ragione», ci sono gli uomini «nudi e sprovvisti», che «continuano a protestare contro i privilegi della chiesa e dell’aristocrazia».

[124] Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Bari 1966, p. 7. Nella Prefazione alla I ed. [1781], Kant ricorda la «fisiologia dell’intelletto umano (per opera del celebre Locke)» (p. 6). Per altri passi in cui è cit. Locke, cfr. ad indicem, pp. 764-765.

[125] Cfr. I. Kant - B. Constant, La verità e la menzogna. Dialogo sulla fondazione morale della politica, Milano 1996, p. 13.

[126] Cfr. Montanari, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, cit., p. XXXVIII. Si tratta di una lettera del 12 giugno 1790.

[127] Cfr. lettera del 10.7.1790, FPS, n. 8.350.

[128] A giudizio di Caffiero Trincia (op. cit., p. 426), non bisogna «concedere eccessiva e spropositata eco alle sue positive riflessioni di fronte ai primi passi della rivoluzione francese».

[129] Cfr. Berselli Ambri, op. cit., pp. 58-59, 61.

Antonio Montanari


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829/9.9.2003 con note automatiche