Riministoria © Antonio Montanari Nozzoli

Filosofia e politica nel pensiero
di Giovanni Cristofano Amaduzzi

Accademia dei Filopatridi
Centro Studi Amaduzziani
Giornata Amaduzziana, 30 marzo 2003

Giovanni Cristofano Amaduzzi è stato «lucido testimone di una intera età», quella in cui si conclude la stagione delle riforme.

Così osserva lo storico Mario Rosa. Il quale ricorda come «non a caso più volte», nel «lessico illuministico» di Amaduzzi ricorra il termine di «crisi», per indicare «il momento risolutivo» di tutto un mondo avviato verso la sua inevitabile fine.

Era lo stesso mondo in cui Amaduzzi aveva creduto, come testimoniano i tre «discorsi» da lui pronunciati fra 1776 e '86, durante questa «età di crisi» (e soprattutto dopo la scomparsa di Clemente XIV [1774]).

Essi gli hanno meritato comprensibile fama presso i posteri, e molte grane presso i contemporanei.

Amaduzzi chiama «discorso filosofico» sia il primo (Sul fine ed utilità dell'Accademie) sia il terzo (Dell'indole della Verità, e delle Opinioni).

Il secondo (La Filosofia alleata della Religione, 1778) reca invece il sottotitolo: «discorso filosofico-politico», con un allargamento ed una precisazione che sono utili per comprendere le sue intenzioni.

Quei «discorsi» sono pronunciati in Arcadia, con la volontà di portarvi una ventata di rinnovamento.

L'Arcadia a cui pensa Amaduzzi non è quella dei verseggiatori di occasione, ma quella informata a spirito filosofico e riformata in base alla «scienza dell'uomo» di cui Amaduzzi parla nel primo «discorso», quello sulle Accademie.

In questa «scienza dell'uomo», psicologia, morale, politica e belle lettere trovano un comune fondamento che Amaduzzi indica agli arcadi, citando come modelli Locke, Montesquieu, d'Alembert, Condillac e Beccaria. Di questi pensatori, aggiunge, «molto abbiamo pur noi profittato». (Gli autori a cui Amaduzzi fa ricorso dichiarando apertamente, come si è visto il proprio debito («de' quali molto abbiamo pur noi profittato») erano stati tutti, tranne Condillac (condannato nel 1836), messi all'Indice. Locke il 19 giugno 1734 per il Saggio sull'intelletto umano, Montesquieu per lo Spirito delle leggi il 3 marzo 1752, D'Alembert in quanto componente della compagnia dell'Encyclopédie, condannata il 5 marzo 1759 da Clemente XIII, con l'aggiunta di una scomunica per i suoi lettori (il 3 settembre dello stesso 1759 papa Clemente XIII mise in guardia tutti i cattolici che possedevano l'Encyclopédie: se non l'avessero fatta bruciare da un sacerdote, sarebbero incorsi nella scomunica); Cesare Beccaria il 3 febbraio 1766 per il Dei delitti e delle pene.

L'Arcadia si sentiva però estranea alla «scienza dell'uomo» predicata da Amaduzzi. L'ambiente culturale romano era caratterizzato da «una frattura tra la vita intellettuale e la realtà della condizione civile». Per questo motivo, la battaglia di Amaduzzi era «in gran parte già perduta» [V. E. Giuntella].

Amaduzzi era giunto a Roma nel maggio 1762 a ventidue anni, ed aveva sperimentato direttamente la vita dello Stato della Chiesa, caratterizzato da forti difficoltà economiche e da una grave carestia tra 1764 e '66.

I provvedimenti puramente finanziari presi allora da Roma, ha scritto Franco Venturi, «minarono profondamente la situazione dello stato e delle amministrazioni locali».

Aggiunge Venturi: «Le tendenze al rinnovamento, alla riforme che si erano espresse, sia pur debolmente, da mezzo secolo ormai, parevano arenarsi tra l'indifferenza e le censure».

In quel periodo, leggiamo in Mario Rosa, tramontano «i tentativi di 'correggere' il messaggio etico-filosofico elaborato e presentato dall'Encyclopédie».

Successivamente si formula la nozione «del ruolo attivo che la religione avrebbe dovuto assumere nella esperienza umana, cioè in un cristianesimo evangelico, umanitario e solidaristico», e si va così configurando il tema «della società, visto soprattutto nella integrazione tra l'individuo e la collettività e nel rapporto tra diritti naturali e provvidenza divina, cioè in ultima analisi nell'intreccio sempre più stretto tra società e religione».

Questa «filosofia cristiana», aggiunge Rosa, «tende sempre più a formulare ottimisticamente un discorso sociale e religioso a lungo termine», distinguendo «tra religione e prassi politica», e volgendo «l'attenzione non già sullo Stato e le forme e i modi del potere politico, ma sulla società in generale».

Tuttavia, nello scorcio degli anni Settanta, anche il discorso di questa «filosofia cristiana» diventa «più consapevolmente politico», e le «generalizzazioni teoriche» sono calate «nel clima del coevo riformismo».

Lo dimostra, conclude Rosa, proprio Amaduzzi, «erudito illuminato, rigorista ed antigesuita», con il suo secondo «discorso filosofico-politico», La Filosofia alleata della Religione, che «è il punto di arrivo di una linea ideologica che già si era espressa, sempre attraverso l'Amaduzzi, nel Discorso filosofico sul fine ed utilità dell'Accademie, del 1776».In questo primo «discorso», Amaduzzi considera l'Arcadia come la palestra «d'una gara studiosa e pacifica, cioè d'una sola cospirazione virtuosa [...] diretta al solo bene delle lettere, ed al piacere della società».

In Arcadia, Amaduzzi ha come collega quel Luigi Gonzaga a cui egli dedica il «discorso» sulle Accademie, condividendo le tesi da lui espresse in una dissertazione tenuta (nella stessa Arcadia) sulla funzione civile del «letterato».

Amaduzzi avverte il fascino e la responsabilità di questa funzione civile del «letterato».

Lo dimostra la condanna che esprime di «quell'affettato, e ridicolo ammasso di metafore» del «seicentismo», a cui l'Arcadia per prima si ribellò, assumendo il compito di dissipare i «dominanti errori».

Lo dimostra la consapevolezza che, scopo delle Accademie, e quindi degli uomini di cultura che le compongono, è quello di far avanzare l'intelletto, perfezionare i mestieri ed accrescere l'«umana felicità».

Questi sono gli obiettivi che si possono raggiungere, mediante una «giusta precisione delle idee» ed un «giudizioso estratto d'un'appurata ragione», che ci sono additati dalla Filosofia.

In un successivo passo di questo discorso, Amaduzzi chiama la Filosofia «divina» ed «augusta», oltre che «dono prezioso del cielo», che ha trasformato la società.

Amaduzzi qui annuncia chiaramente il suo sistema che si fonda sullo stretto rapporto che unisce la vita politica all'attività filosofica, quando scrive che questa «divina, augusta Filosofia» ora siede «compagna ai giudici ne' tribunali»; che essa diffonde «benefica» i suoi «lumi sui mari, sulle campagne, ne' fondachi, e nelle trincere»; che è divenuta «già donna, e signora de' cuori di tutti»; e che tutti le «rendono onori, e omaggi».

A questo punto della sua storia intellettuale, Amaduzzi compie un nuovo passo, per delineare i rapporti che intercorrono tra Fede e Ragione.

Questo è il tema del secondo «discorso»: l'uomo, scrive Amaduzzi, è assistito appunto da questi due lumi «amendue sublimissimi».

La ragione «gl'insegna di dubitare, ove bisogna, e d'assicurare, ove fa d'uopo». E la Religione «gli comanda di sottomettersi, ove al solo suo discernimento deferire non gli lice».

La stessa Religione ha però bisogno della ragione, per non divenire «ben presto assurda, e ridicola».

La Filosofia ci mostra «i giusti confini delle divine, e delle umane cose, delle soprannaturali e delle naturali».

La Filosofia a cui pensa Amaduzzi è quella che ha abbandonato con Bacone il vecchio cammino delle «parole volanti» e delle «idee aeree». Che con Cartesio, Galileo e Newton «sbandì tutto il meraviglioso, tolse i prestigi dell'ignoranza, detronizzò la superstizione», e scoprì «le forze della natura», spiegando «gli arcani, e i fenomeni più astrusi».Questa Filosofia è pure quella «che arbitra de' costumi, delle leggi, e della politica pose in trono l'umanità, e la civil tolleranza, diramazioni legittime della Cristiana carità, rinforzò il patto sociale, abolì i diritti feudali, estinse la disonorante servitù, minorò le atrocità delle pene, e de' supplici, e poco mancò, che non facesse rientrare l'uomo ne' suoi primi diritti naturali».

La Filosofia, spiega Amaduzzi, giunge «a conoscere nella natura alcuni rapporti fra gli uomini; da questi rapporti vede derivare alcuni doveri reciproci, e quindi colla scienza di questi rapporti, e di questi doveri viene a formare la più nobil parte di se stessa, che è la moral Filosofia».

In questa parte del secondo «discorso», Amaduzzi esamina accuratamente il rapporto fra l'uomo singolo e la società. Entra cioè in quel terreno che è tutto proprio della politica.

Nella società si debbono conservare i diritti individuali e collettivi nello stesso tempo.

Questi diritti «dell'uomo in società consistono nell'uso della sua libertà correlativamente alla giustizia, che egli deve ai suoi confratelli, e all'ordine, che deve conservare nella società».

La giustizia regola il patto sociale che impegna tutti al benessere comune ed «alla pubblica felicità», con l'adempiere precisi «doveri» che, scrive Amaduzzi, «portano i sacri, e preziosi nomi d'umanità, di compassione, di beneficenza, di dolcezza, d'indulgenza, di tolleranza, di gentilezza».

Amaduzzi prosegue spiegando che «queste sociali virtù» inculcate dalla Filosofia, «escludono per conseguenza i delitti, i vizi, e i difetti degli uomini, i quali entrano nella classe di quelle azioni tutte, che turbano l'armonia sociale».

Amaduzzi tratta poi del «diritto delle genti» finalizzato a regolare i rapporti internazionali finanche nelle guerre, per le quali «debbono proporsi certi limiti» rivolti a temperare «l'atrocità delle armi».

Ed esamina i comportamenti di giustizia che debbono ispirare in egual misura sia il principe sia il popolo.

Ai doveri del suddito corrispondono infatti i doveri di chi governa, per realizzare uno Stato che miri al miglioramento della società ed al progresso economico.

Amaduzzi proclama la necessità di abbandonare «una tortuosa politica, difficile, e disonorante pe' sovrani egualmente, che pe' popoli».

Per convincere i suoi ascoltatori che le sue parole non erano astratte rievocazioni di pagine tratte da «volumi poco studiati d'un freddo pensatore», Amaduzzi ricorda «i progetti de' moderni Filosofi, ed i stabilimenti de' moderni Regnanti».

Il nuovo modo di governare, egli dice, ha portato ad esempio ad eliminare la schiavitù, a far «a poco a poco» estinguere i diritti feudali («invenzioni prepotenti, ed oppressive d'una barbara aristocrazia»), sviluppare i commerci e l'economia, migliorare la salute pubblica.La problematica di questo secondo «discorso» è comune ad altri autori cattolici, per i quali sia sul piano filosofico generale sia su quello strettamente politico «non vi era contraddizione tra l'accettazione di certe proposte dei 'lumi' e l'adesione al cattolicesimo» [D. Menozzi].

Amaduzzi dichiara compatibile con un cristianesimo ripulito dal «giogo indegno della superstizione e dell'ignoranza», «tutta la serie ­ o quanto meno una gran parte ­ dei diritti naturali».

Sullo sfondo delle «rivoluzioni» di Corsica e d'America, osserva Rosa, questo secondo «discorso» amaduzziano segna «uno dei punti di arrivo di uno sforzo collettivo da parte di un riformismo religioso ottimistico e animoso, in bilico ormai, nello scorcio degli anni settanta, tra la conclusione di una svolta e l'avvio di qualcosa che si andava avvertendo sempre più come nuovo e sovvertitore nella politica del dispotismo illuminato».

In una lettera di Amaduzzi a Gregorio Fontana, si legge come si stessero approntando allora (1777) «i materiali di una rivoluzione di sentimenti anche fra noi».

Sei anni dopo, nel 1783, sempre con Fontana, Amaduzzi registra «la rivoluzione felice [...] operata nella politica e nelle scienze» a Napoli e in Lombardia.

Nello stesso 1783 la Chiesa mette all'Indice la Storia della decadenza e caduta dell'impero romano di E. Gibbon, pubblicata a partire dal 1776, di cui Amaduzzi è lettore.

Sempre nel 1783, e ancora a Fontana, il savignanese confida: «Questo secolo di rivoluzioni Dio sa da quali avvenimenti dovrà essere coronato».

Il terzo «discorso», in cui Amaduzzi approfondisce le enunciazioni filosofiche del secondo, si conclude con questa affermazione: «Grazie ai nostri lumi scentifici non può ora prevalere la norma politica, che vi sieno verità, che rese manifeste a tutti addivenir possono pericolose, anzi perniciose».

Amaduzzi sigilla la sua attività con questa massima aurea che cancella secoli di machiavellismo in nome di quelle «verità» che debbono reggere il mondo perché provengono dalla Ragione che Dio ci ha dato per meglio governare tutta la società.

Ma, nel momento stesso in cui egli completa il suo itinerario invocando ancora il nome di Locke, la Filosofia europea ha già collocato queste enunciazioni nel guardaroba delle idee superate.

Immanuel Kant nel 1781 ha manifestato con la Critica della ragion pura il suo «invito alla ragione di [...] erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento».

Amaduzzi, è stato osservato da Paola Berselli Ambri, fu un cittadino delle Legazioni ammiratore di Montesquieu, «che vide la Rivoluzione dilagare, che vide superato e travolto il mondo nel quale egli stesso non aveva creduto, che osservò, con l'occhio disincantato del critico e dello studioso, la bufera che travolgeva tutto il vecchio sistema e che sperò in una palingenesi».

Allo scoppio della Rivoluzione, Amaduzzi «è tra coloro che la seguono con occhio favorevole, sperando in un radicale rinnovamento, [...] plaudendo alla costituzione civile del clero ed all'esito infausto della fuga di Varennes».

Amaduzzi muore il 21 gennaio 1792. Un anno dopo, il 21 gennaio 1793, la condanna a morte di Luigi XVI votata dalla Convenzione, dimostra che non esistono «rivoluzioni felici» come quelle che lui aveva creduto di veder realizzate a Napoli e in Lombardia. Gli entusiasmi illuministici di un'intera generazione finiscono prima nel sangue poi nell'avventura bonapartista, alla conclusione di quel secolo che Amaduzzi definisce «clamoroso, ed incoerente».

Antonio Montanari
30 marzo 2003

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784/31.03.2003