ANESTETIZZATI DA UNA SITUAZIONE DI APPARENTE SICUREZZA
Riflessioni a margine dei lavori della Convenzione per l'Avvenire dell'Europa

 

È noto che in questo momento fra gli eurofederalisti esistono due posizioni distinte: quella di coloro che ritengono che il perno della nostra azione debba essere la pressione sulla Convenzione varata a Laeken e quella di coloro che invece pensano che ci si debba concentrare sul tentativo di far nascere un gruppo di iniziativa composto da un numero ristretto di Paesi (il nucleo federale).
A queste posizioni sono associate opinioni diverse sul ruolo dei governi nel processo.

La Convenzione.
Molti federalisti ritengono che la Convenzione rappresenti un'opportunità storica per l'Europa.
Essa segnerebbe la crisi del metodo intergovernativo e farebbe nascere contraddizioni che potrebbero trasformarla addirittura in un'assemblea costituente.

Si tratta peraltro di un orientamento che assume articolazioni diverse.

Alcuni pensano che dai lavori della Convenzione potrebbe scaturire la costituzione di una Federazione a quindici (o a venticinque) che essa, sulla spinta di una sua pretesa legittimazione popolare, imporrebbe successivamente all'adozione e alla ratifica degli Stati membri.

Altri ritengono che la Convenzione potrebbe essere il luogo della nascita di un nucleo federale, o per decisione unanime dei Paesi che vi parteciperanno e di quelli che non vi parteciperanno, o come risultato di una rottura.

Altri ancora credono che un forum nel quale si parlerà di Europa possa attirare l'attenzione dell'opinione pubblica e far maturare la coscienza europea di un certo numero di parlamentari,
eventualmente realizzando avanzamenti istituzionali parziali, ma in grado di scatenare in seguito una dinamica costituente.

La nostra opinione tiene certamente conto del fatto che la Convenzione esiste e che nei suoi dibattiti si parlerà d'Europa.
I federalisti dovranno quindi far sentire comunque la propria voce.
Ma è chiaro che il contenuto e il tono del loro messaggio sarà molto diverso a seconda che si ritenga che la Convenzione sia o non sia destinata ad avere un ruolo decisivo.

Se si pensa che lo sia, la Convenzione dovrà essere l'interlocutore principale dei federalisti e la loro azione nei suoi confronti dovrà assorbire tutte le loro energie.

Se si pensa che non lo sia, essa dovrà essere uno dei loro numerosi interlocutori, e non il principale, e il loro impegno nei suoi confronti dovrà essere commisurato all'importanza del suo ruolo.

Noi pensiamo che non lo sia, siamo convinti che il quadro a quindici (e domani a venticinque) sia strutturalmente incapace di esprimere la forte volontà politica comune senza la quale è impensabile fondare uno Stato federale europeo e pensiamo che il processo non possa essere rilanciato senza l'iniziativa di una relativamente piccola avanguardia (i sei Paesi fondatori, o cinque di essi qualora la deriva antieuropea del governo italiano si dovesse confermare).

La crisi.
E' forse possibile indicare la radice, o comunque una delle principali radici, di questa differenza di opinioni in due diversi orientamenti sul carattere nodale del concetto di crisi, che è essenziale per la strategia del nucleo e non lo è per quella della Convenzione.

Bisogna mettere subito in chiaro che quando si parla di crisi in questo contesto non ci si riferisce ad una crisi storica, cioè ad una crisi strisciante e di lunga durata, come quella che gli Stati nazionali europei stanno vivendo dalla fine della Seconda guerra mondiale e che è stata all'origine del processo di unificazione europea e della stessa nascita dei movimenti federalisti.

Oggi il problema sul quale ci dividiamo non è quello di capire perché il processo ha avuto inizio.
Su questo siamo tutti d'accordo.
Si tratta piuttosto di capire quali sono le condizioni nelle quali il processo si può concludere con la cessione della sovranità dagli Stati nazionali ad uno Stato federale europeo.

Noi siamo convinti che una trasformazione storica di enorme portata come questa non possa comunque essere realizzata in una situazione nella quale l'opinione pubblica e i politici sono anestetizzati da una situazione di diffuso benessere e di apparente sicurezza.

Perché essi escano dall'anestesia è quindi necessaria una crisi acuta, o una sua minaccia concreta e immediata: quindi una situazione paragonabile a quella che ha portato alla fine dell'Unione Sovietica o a quella che sta scuotendo l'Argentina.

Si deve sottolineare che le crisi non si risolvono da sole per una sorta di dinamica interna: esse sono i momenti della scelta, cioè quelli in cui si manifesta la libertà nella Storia, quando l'azione umana consapevole può decidere se in certo luogo viene imboccata la strada della promozione dei grandi valori politici e sociali o quella della decadenza e del caos.

Ne discende che la convinzione dell'inevitabilità della crisi non comporta affatto che si debba rimanere inerti ad aspettare, ma esige al contrario che ci si impegni a fondo per preparare la classe politica e l'opinione pubblica a reagire nel modo storicamente adeguato, e quindi si porti avanti un lavoro paziente e difficile di analisi, di sensibilizzazione e di mobilitazione.

E' vero che nessuno può prevedere se la crisi giungerà in tempo utile. Se ciò non accadrà, il processo sarà giunto al capolinea. Ma l'imprevedibilità di questa evenienza ci mette comunque di fronte alla necessità di preparare il momento della decisione, se e quando esso si presenterà.

Il quadro della crisi.
Il concetto di crisi consente di fare giustizia dell'equivoco secondo il quale chi porta avanti la strategia del nucleo partirebbe dal presupposto che all'interno dei Sei esiste fin da ora la volontà di unirsi con un vincolo federale.
E poiché questo non è vero, il contesto dei Sei non sarebbe diverso da quello dei Quindici (o dei Venticinque), che peraltro è assai più accettabile per tutti perché è quello dell'Unione attuale (o di quella futura), e quindi non esclude nessuno.

Ma in realtà il problema è un altro.
Non si tratta di stabilire in quale quadro esiste oggi la volontà di fondare uno Stato federale.

Si tratta di stabilire in quale quadro è realistico pensare che la crisi si produrrà e riceverà una risposta adeguata: se nell'ambito dei quindici o dei venticinque Paesi dell'Unione (con le loro differenze di collocazione geopolitica, di condizioni economiche e sociali e di orientamento dell'opinione pubblica) o non piuttosto in quello di un gruppo assai più ristretto, reso omogeneo dalla vicinanza geografica, da una stretta interdipendenza creata da una lunga storia di integrazione e da ricordi comuni di forte valenza simbolica, e nel quale il numero limitato degli attori renda più facile dare alla crisi una risposta
comune.

Non si tratta di un problema di lana caprina, ma del punto decisivo per l'azione di preparazione che costituisce l'essenza del nostro compito, dal quale dipende la natura delle nostre analisi, la formulazione dei nostri slogan e l'individuazione dei nostri interlocutori.

Natura pattizia della fondazione della Federazione europea.
Il concetto di crisi consente anche di fare chiarezza sulla natura degli attori della trasformazione rivoluzionaria in cui consiste la fondazione della federazione europea.

I federalisti hanno sempre indicato nel metodo intergovernativo l'ostacolo da superare.
Ma una cosa è il metodo intergovernativo come modo di governo dell'Unione, un'altra il ruolo dei governi in quel radicale sovvertimento della situazione di potere che comporta la creazione di uno Stato federale europeo.

Se infatti è vero che la fondazione della Federazione, una volta realizzata, comporterà il superamento del processo decisionale basato sul compromesso tra i governi degli Stati membri e l'instaurazione di un governo che abbia un legame democratico con i cittadini, ciò non significa che per creare la Federazione europea si possa prescindere dall'intervento decisivo dei governi, perché per cedere potere bisogna possederlo.

I governi, soleva dire Spinelli, sono insieme gli ostacoli sulla strada dell'unificazione politica dell'Europa e gli strumenti della sua realizzazione.

Il concetto di crisi consente di capire quando essi giocano il primo di questi due ruoli e quando giocano il secondo: essi sono ostacoli nei periodi normali, quando il loro potere è stabile, e nei quali quindi
essi sono i naturali presidi dello statu quo.
Ma diventano strumenti nei momenti di pericolo, quando il loro potere è gravemente minacciato, e quindi difendere lo statu quo non ha più alcun senso.

L'illusione dell'assemblearismo.
I giudizi sul ruolo della Convenzione sono spesso viziati da un'ideologia assemblearistica che è essenziale demistificare.

La creazione di un potere europeo e il trasferimento ad esso delle sovranità nazionali non sarà l'opera di un'assemblea, comunque costituita.

Lo Stato federale europeo sarà creato - come si è detto - attraverso un accordo tra governi, che, come tutti i trattati, sarà stipulato - con evidenza lapalissiana - all'unanimità degli Stati che ne faranno parte (mentre chi non sarà d'accordo non resterà in minoranza, ma resterà fuori).
Un'assemblea costituente sarà convocata a cose fatte, per dare una veste costituzionale e una legittimità
democratica al nuovo Stato.
Ma il momento del trasferimento della sovranità sarà quello in cui un certo numero di governi deciderà di spogliarsene.

Natura della Convenzione.
E' opportuno sottolineare che la Convenzione rimane un gadget intergovernativo.
Infatti non si può non convenire su alcuni incontrovertibili dati di fatto.
In particolare:
· la convenzione ha il solo compito di preparare il terreno per i lavori di una Conferenza intergovernativa, alla quale è riservato, come non poteva non essere, il potere di decidere;
· i rappresentanti dei governi saranno presenti anche nella Convenzione e vi eserciteranno un'influenza decisiva, in quanto agiranno per conto di coloro che comunque avranno l'ultima parola;
· i deputati, europei e nazionali, che ne fanno parte hanno come loro referenti i governi e le oligarchie dei partiti.

Non siamo più nell'800, quando aveva un senso contrapporre ad un esecutivo di nomina regia i rappresentanti del popolo e attribuire a questi ultimi un ruolo potenzialmente rivoluzionario.

Oggi, a causa dell'onnipresenza dei partiti, i parlamentari rispondono al governo in carica o a personaggi che si trovano all'opposizione, ma che puntano a costituire e a guidare un nuovo governo, e che quindi sono condizionati da tutti i vincoli che condizionano i governi.

Del resto, nel concreto, scorrendo l'elenco dei membri dalla Convenzione di provenienza parlamentare (europea e nazionale), si possono trovare cinque o sei timidi e incoerenti amici della prospettiva dell'unificazione politica dell'Europa.
Ma è tutto.
Gli altri sono decisamente contrari, o comunque rappresentano visioni dell'Europa che hanno come presupposto essenziale il mantenimento della sovranità nazionale.

Excursus sul voto a maggioranza.
Qualcuno pensa che gli inconvenienti insiti nella struttura della Convenzione possano essere aggirati chiedendo che essa voti a maggioranza.
Ma si tratta di una scappatoia soltanto apparente.

Il voto a maggioranza è importante quando serve per prendere decisioni.
La Convenzione non decide.

Se nel suo seno emergeranno posizioni diverse, essa potrà presentare opzioni, tra le quali la Conferenza intergovernativa potrà scegliere indipendentemente dal fatto che esse siano state espresse da una maggioranza o da una minoranza (o potrà respingerle tutte e adottarne altre).

In ogni caso, se i membri della Convenzione si divideranno, essi si divideranno su punti di dettaglio, e comunque su problemi del tutto diversi da quello della fondazione di uno Stato federale europeo.

Ma di fatto la tendenza della Convenzione sarà quella di procedere per consenso, cioè di elaborare posizioni di compromesso su tutti i punti più importanti, che in particolare trovino l'accordo unanime dei rappresentanti dei governi.

A ciò si aggiunga che il compromesso dovrà risultare accettabile anche per i Paesi candidati, che considerano la loro sovranità appena conquistata come il più prezioso dei beni, e che sarebbe insensato invitare, seppure come osservatori, con l'intenzione di non tenere conto delle loro opinioni.

Si deve notare infine che l'idea del voto a maggioranza parte dall'assunto che all'interno della Convenzione esista - almeno in potenza - una maggioranza decisa a battersi perché dai suoi lavori esca la costituzione di uno Stato federale europeo.

Ma questa maggioranza non esiste, né in atto né in potenza.

Per essere precisi, non esiste nemmeno una minoranza che sia disposta ad andare al di là delle giaculatorie di rito.

Il popolo.
L'idea di crisi consente infine di individuare il secondo attore fondamentale del processo.

Si tratta del popolo che, accordando o sottraendo il proprio consenso ai governi, ne fonda il potere o ne determina la crisi.

La crisi di cui si parla avrà quindi le sue origini in contraddizioni di natura politica, economica o sociale, ma si manifesterà, come è accaduto in Unione Sovietica e in Argentina, nell'evaporazione del consenso popolare, che indurrà i governi, se avranno la lucidità necessaria per cogliere il momento propizio, a correre ai ripari costituendo una nuova piattaforma di potere.

La storia e il tempo.
Il dissenso che esiste fra i federalisti circa l'inevitabilità della crisi ha a sua volta la sua radice in concezioni diverse del processo storico e dell'effetto del passaggio del tempo; e in giudizi diversi sulla natura dello stadio attuale del processo di unificazione europea.

Va da sé che tutti fra di noi pensano alla Storia come al cammino dell'emancipazione del genere umano, che ha come proprio veicolo l'aumento dell'interdipendenza.

Senza questa convinzione fare politica non avrebbe altro scopo che quello della ricerca e del mantenimento del potere.

Il punto sul quale invece vi è disaccordo è quello che riguarda la natura lineare o dialettica di questo percorso: non certo nella fase che sta alle nostre spalle, la cui natura tragica e violenta sta davanti agli occhi di tutti, ma in quella che stiamo vivendo.

In particolare noi pensiamo che la cosiddetta "globalizzazione" non sia che una delle infinite fasi della storia nelle quali si è avuta un'accelerazione dell'aumento dell'interdipendenza del genere umano; e che, come le altre fasi che l'hanno preceduta, essa presenti due facce, una delle quali è la creazione di nuove istituzioni della solidarietà e il rafforzamento di quelle già esistenti, la diffusione delle conoscenze, l'intensificazione dei commerci e l'aumento della ricchezza; mentre l'altra è l'estensione delle superfici di attrito tra gli Stati, le classi o le etnie, il carattere sempre più distruttivo delle guerre e la rapidità con cui si diffondono le crisi finanziarie internazionali.

Anche nella fase attuale inoltre, come in quelle che l'hanno preceduta, il ritmo dell'approfondimento e
dell'allargamento dell'interdipendenza non coincide con quello con cui la politica crea le istituzioni capaci di governare il processo.

Questo sfasamento dà spesso luogo a periodi, anche lunghi, di stagnazione e di riflusso e provoca guerre e sommovimenti interni, con i massacri, le distruzioni e le sofferenze che li accompagnano, che possono investire milioni di esseri umani e lasciare le loro tracce nefaste per più generazioni.

La concezione lineare del processo storico.
Altri pensano invece che, grazie al fatto che l'umanità è diventata una sola comunità di destino, la Storia sia ormai una sorta di fiume maestoso, le cui acque procedono in modo talvolta rapido e talvolta lento, ma sempre sostanzialmente lineare, verso lo sbocco dell'unificazione politica del genere umano.

E' chiaro che questi amici non possono non vedere i milioni di morti, le devastazioni e la miseria che anche oggi l'inadeguatezza della politica provoca.

Ma essi tendono a considerare gli eventi che li determinano come increspature della superficie dell'acqua, come incidenti di percorso secondari, che comunque hanno la funzione positiva di accelerare il processo rendendone più visibili le contraddizioni.

E' chiaro che, a seconda che si condivida l'una o l'altra concezione, cambia radicalmente la natura dell'impegno politico delle minoranze consapevoli.

Se si condivide la prima di esse, che vede nella crisi un elemento intrinsecamente inerente al processo storico, l'azione critica e propositiva di una piccola minoranza autonoma, come si è già detto, può far da detonatore e far pendere la bilancia, nei momenti di pericolo, dalla parte del progresso anziché da quella del caos e della dittatura.

Se si condivide la seconda, e si concepisce la storia come un processo di avanzamento sostanzialmente lineare, non resta che lasciarsi trascinare dalla corrente, rinunciando a priori ad esercitare un ruolo decisivo.

Lo stadio attuale del processo di integrazione europea.
Queste due diverse concezioni della storia si riflettono in due diverse interpretazioni della natura dello stadio attuale del processo di integrazione europea.

I suoi primi cinquant'anni hanno indubbiamente costituito una fase nella quale gli aspetti positivi dell'aumento dell'interdipendenza hanno prevalso su quelli negativi.
Ma il fatto di avere alle spalle mezzo secolo di pace e di collaborazione ha indotto molti ad estrapolare la tendenza all'infinito e a pensare che quello dell'unificazione europea sia un processo che nessun evento potrà più interrompere, e che si tratta soltanto di accompagnare verso la sua conclusione.

L'occasione storica.
Viene in questo modo dimenticato l'ammonimento di Luigi Einaudi, secondo il quale l'occasione storica nella quale è possibile fare l'Europa ha una durata limitata, e quindi deve essere colta finché si presenta perché, se essa viene mancata, il destino degli Stati europei diventa quello degli Stati italiani del Rinascimento.

Molti federalisti sembrano aver perso il senso dell'urgenza drammatica della nostra lotta, perché pensano che ormai abbiamo vinto, che il processo abbia oltrepassato la soglia dell'irreversibilità, e che quindi il tempo lavori per noi.

La stessa idea che la Convenzione, anche se non è destinata a trasformarsi in un'assemblea costituente, avrà comunque l'effetto di far maturare le coscienze e di fare in modo che nel giro di qualche decennio ciò che oggi è impossibile diventi possibile ha la sua radice nella stessa convinzione.

Costoro non sembrano rendersi conto del progressivo deterioramento dell'equilibrio internazionale che è seguito alla fine della Guerra fredda, e che è destinato a travolgere l'Europa, se l'Unione non si trasformerà rapidamente in uno Stato federale, capace di garantire la propria sicurezza e di dare stabilità alla parte del mondo che le è geograficamente più vicina.

Essi non sembrano cogliere la drammatica novità del fatto che l'Unione Europea, dopo cinquant'anni di stabilità, ha visto riapparire alle sue frontiere lo spettro della guerra, e sembrano considerare con indifferenza il decadimento della democrazia, che si manifesta ovunque nel crescente distacco dei cittadini, e dei giovani in particolare, dalla politica e che in Italia ha dato luogo per la prima volta in questo dopoguerra ad un governo antieuropeo, attraversato da tentazioni razziste e autoritarie.

Il tempo e l'Europa.
Tutto ciò può significare che ormai l'occasione storica di Einaudi è stata già mancata e che il processo di unificazione europea è giunto al capolinea, perché ormai non esistono più in Europa energie capaci di affrontare e risolvere la crisi con l'unità politica.
 
Ma di questo nessuno può essere sicuro, perché di fatto un alito di spirito europeo esiste ancora nei governi, tra i politici e nell'opinione pubblica, quantomeno dei sei Paesi fondatori.

Ciò di cui si può essere sicuri è invece che, se la finestra di opportunità non si è ancora chiusa, il problema dell'unità politica dell'Europa si pone comunque in termini urgenti, e che sarebbe del tutto irresponsabile confidare nel beneficio del tempo, come fanno coloro che, in modo più o meno consapevole, pensano che l'evoluzione in senso europeo della mentalità dei governi, della stampa e dell'opinione pubblica di tutti i Paesi dell'Unione dipenda soltanto da una lunga e paziente opera di convinzione, in un contesto di lento ma continuo aumento dell'integrazione.

La verità è che il tempo lavora contro l'Europa, e che la sola possibilità di sottrarre il continente alla prospettiva dell'egemonia tedesca e del ritorno del nazionalismo e dell'intolleranza razziale è quella di impegnarsi a fondo per rilanciare il processo in tempi brevi nel quadro in cui questo è possibile.

Si tratta di un'impresa difficile, ma possibile.
Anzi, essa è possibile solo ora, cioè in un momento nel quale l'Europa si trova alla soglia di una crisi che mette seriamente in questione il suo processo di unificazione, proprio perché i grandi eventi che segnano le tappe cruciali del processo di emancipazione del genere umano si possono realizzare soltanto nei momenti di pericolo, quando si pone in termini concreti la scelta tra il ricupero e la negazione dei valori-cardine di una civiltà.

Sono quelli i momenti in cui è possibile che compaiano sulla scena uomini politici che, anche grazie all'azione pionieristica di un'avanguardia consapevole, si rendano conto dalla gravità del momento storico e delle opportunità che questo offre e sappiano mobilitare le energie della classe politica e dei cittadini proponendo un grande progetto di avvenire.

L'ambiguità e il rigore.

Negli ultimi tempi si è rafforzata la tendenza a fare crescenti concessioni agli orientamenti e al linguaggio di un certo europeismo ufficiale, quasi che molti nostri amici si fossero convinti che, se la montagna non va a Maometto, non resti altra scelta per Maometto che quella di andare alla montagna.

In questa prospettiva devono essere valutate, tanto per fare degli esempi, la reticenza di molti nostri amici ad usare, negli slogan e nei documenti ufficiali, il termine "Stato" riferito all'Europa, la diffusa tendenza a sostenere modelli istituzionali ibridi (federali per quanto riguarda l'economia e confederali per quanto riguarda la politica estera e la difesa) o la tolleranza nei confronti di espressioni equivoche e contraddittorie come quella di "Federazione di Stati nazionali".

Anche queste preoccupazioni hanno il loro fondamento nella convinzione, consapevole o inconsapevole, che quello dell'unificazione politica dell'Europa sia un processo lento ma irreversibile, e in quanto tale compatibile con qualsiasi compromesso istituzionale e con qualsiasi ambiguità terminologica.

Se invece si pensa che l'occasione storica stia per sfumare e che il tempo lavori contro l'Europa, non si può non vedere nello scandalo - e quindi nel rigore che dello scandalo è il padre - il solo modo per dare una scossa alla coscienza degli Europei e per invertire la tendenza, che si sta facendo sempre più evidente, all'indebolimento dell'Unione.

Perché il processo di unificazione europea non finisca ingloriosamente esso deve ritrovare lo slancio ideale delle sue origini.
Certo è possibile che l'Unione Europea si trasformi in un area di libero scambio.

Non dobbiamo però dimenticare che il rilancio dell'Europa dipende anche da noi.

(tratto da un testo di Francesco Rossolillo)

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