PAGINA DEDICATA ALLA BOSNIA






Ho vissuto in Bosnia, a Sarajevo, per tre anni. Dall'autunno del 1998 alla fine dell'estate del 2001. Vi ho lasciato una parte del mio cuore, tanti amici, alcuni progetti realizzati e almeno altrettanti rimasti incompiuti, ma mi sono portato via un'esperienza irripetibile e ricordi meravigliosi.
Non parlerò qui della guerra, né della situazione politica di quel paese... almeno direttamente. Non credo di esserne in grado. Inoltre già esiste un'ampia bibliografia su questi argomenti e molti siti internet, più o meno validi, ad essi dedicati.
Vorrei raccontare la Bosnia sulla base di ciò che ho visto e sentito vivendoci, i panorami, gli odori, i sapori, gli amici, la gente sconosciuta, gli scorci, i modi di dire... Sarà forse un'immagine incompleta e frammentaria di una realtà tanto variegata e a tratti contraddittoria.

Ponti

"Di tutto ciò che l'uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti. I ponti sono più importanti delle case, più sacri, perché più utili dei templi. Appartengono a tutti e sono uguali per tutti, (...), più duraturi di tutte le altre costruzioni, mai asserviti al segreto o al malvagio.(...).

Kozja Cuprija
Ovunque nel mondo, in qualsiasi posto, il mio pensiero vada e si arresti, trova fedeli e operosi ponti, come eterno e mai soddisfatto desiderio dell'uomo di collegare, pacificare e unire insieme tutto ciò che appare davanti al nostro spirito, ai nostri occhi, ai nostri piedi, perché non ci siano divisioni, contrasti, distacchi..." (Ivo Andric, I ponti, in Racconti di Bosnia, tr. di D. Badnjevic Orazi, Roma 1995, pp.156-157).
La prima immagine che mi viene in mente pensando alla Bosnia è un ponte: talvolta l'antico piccolo Ponte della Capra (Kozja Cuprija) sulla Miljacka, a due passi da Sarajevo, più spesso il maestoso ponte sulla Drina a Visegrad, celebrato dal famoso romanzo di Ivo Andric.
La Bosnia si presenta sempre alla mia immaginazione come un paese di ponti. E in verità ce ne sono molti, perché molti sono i corsi d'acqua: non solo fiumi larghi e a tratti impetuosi, come la Drina, la Sava, la Neretva, ma anche gli innumerevoli torrenti e rivi minori, placidi e poco profondi per gran parte dell'anno, ma sempre pronti a gonfiarsi e a travolgere tutto ad ogni repentino disgelo. Ed ecco allora all'improvviso, dopo l'ennesima svolta di una strada tutta curve, il ponte: antico, risalente alla dominazione ottomana, come lo Stari Most di Mostar, città che da lui prende nome, distrutto dai cannoni croato-bosniaci nel 1993, o moderno, in acciaio e cemento come i grandi ponti sulla Sava, verso la Croazia, o i nuovi ponti sulla strada che da Sarajevo porta al mare.
Ma più che a un ponte reale e concreto la Bosnia porta a pensare all'idea stessa di ponte, saldamente ancorato a due sponde lontane, e sospeso sopra correnti ora tranquille ora impetuose. La Bosnia, paese di ponti, è essa stessa un ponte fra due culture, fra Oriente e Occidente, Islam e Cristianesimo, fors'anche fra passato e futuro, tradizione e modernità, arretratezza e progresso.
Il ponte, oltreché un mezzo di comunicazione, è una metafora, un simbolo forte ed immediato. Per questo è anche facile bersaglio di chi vuole distruggere legami e simboli.
Chi intende ritornare a un passato fatto di comunità chiuse e arroccate nella difesa di valori arcaici, perennemente in lotta fra loro, abbatte i ponti, ricostruisce muri e confini. Chi coltiva l'odio per ciò che è diverso, per una società dalle molte facce in cui convivono molteplici culture, si scaglia con violenza contro i simboli della convivenza e contro gli strumenti e le istituzioni, spesso fragili, che garantiscono l'unità, gli scambi, le relazioni: strade, ponti, monumenti. Così è crollato l'antico ponte di Mostar, così è bruciata la biblioteca di Sarajevo.

Odio

"Sì, la Bosnia è la terra dell'odio: questo è la Bosnia" (Ivo Andric, Lettera del 1920). Così si esprime Maks Levenfeld, il protagonista del racconto di Andric, nella sua lettera al narratore, che della novella è la parte più intensa e significativa.
Il narratore (Andric stesso) aveva incontrato poche settimane prima il suo vecchio compagno di liceo Maks, giovane Sarajevese appartenente a una benestante famiglia di origine ebraico-sefardita, in una stazione bosniaca di provincia.
Sarajevo: Begova Dzamija e Sahat Kula
Erano alcuni anni che i due non si vedevano ed ora Maks era in procinto di lasciare per sempre la Bosnia ed il neonato regno di Iugoslavia. Il narratore/Andric, perplesso, chiede all'amico il motivo di una decisione così drastica, ma non ottiene subito una risposta chiara.
Alcune settimane dopo però, da Trieste, Maks gli scrive per spiegare le ragioni della sua fuga. La Bosnia è una terra pervasa dall'odio. Il miscuglio di razze e di fedi che popolano la Bosnia solo apparentemente vive in pace ed armonia. In realtà le varie genti restano estranee quando non ostili fra loro e "i fossati che separano le diverse confessioni sono così profondi che soltanto l'odio riesce qualche volta a superarli (...); i vecchi istinti e lo spirito di clan restano nascosti in fondo alle anime".
Tutto questo spinge Maks Levenfeld, uomo colto e sensibile, "medico e figlio di medico", ad abbandonare per sempre il paese che lo ha visto nascere e la città di Sarajevo, che pure ama profondamente. "Tutto ciò che potete avere di più sacro si trova al di là di monti e valli, mentre l'oggetto del vostro disgusto e del vostro odio è qui, vicino a voi. Amate ardentemente la vostra terra natale, ma in tre o quattro modi che si escludono a vicenda e si scontrano frequentemente, con un fervore che genera un'ostilità senza tregua".
Maks Levenfeld da Trieste si sposterà a Parigi, dove si guadagnerà la fama di medico-filantropo presso gli emigrati jugoslavi. Anni dopo il narratore sarà raggiunto dalla notizia della sua tragica fine, avvenuta in Spagna, durante la guerra civile. Maks era morto nel 1938, mentre prestava servizio come medico volontario in un ospedale dell'esercito repubblicano bombardato dagli aeroplani nazi-fascisti, "in una piccola cittadina aragonese della quale nessuno dei nostri riusciva a pronunciare correttamente il nome. Questa - conclude Andric - fu la fine di colui che aveva rifuggito l'odio."
La fuga dall'odio del dottor Levenfeld si configura quindi come una sconfitta, come una scelta perdente: l'odio è dovunque e dovunque i giusti e gli innocenti possono esserne sopraffatti. Ma è in Bosnia e più in generale nei Balcani che l'evidente mescolanza e contaminazione di culture e di religioni può facilmente essere sfruttata per favorire rivalità e scontri, per riattizzare antichi odii altrimenti sopiti. Due sono le condizioni perché l'odio prevalga: l'ignoranza e la povertà. Non è un caso che l'ultima terribile guerra (1992-1995) abbia assunto l'aspetto dell'urbicidio, dell'attacco violento e irrazionale di uomini di campagna poveri e culturalmente arretrati contro cittadini colti e cosmopoliti; ciò è potuto accadere in una situazione socio-economica prossima al disastro, con inflazione e disoccupazione in vertiginoso aumento, dopo il relativo benessere conosciuto da quasi tutta la Jugoslavia negli anni '70. Abili signori della guerra, coadiuvati da bardi e cantori, hanno saputo trarre profitto da questo stato di cose per trasformare la diversità in rivalità, la diffidenza in odio, il senso di appartenenza ad un gruppo in contrapposizione etnica.






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