LA VERA STORIA DELLA SICILIA "ITALIANA"


1860: NASCITA DI UNA COLONIA. Le Cronache e gli Atti. Tutta la Verità.
Abbasso le bugie, abbasso Garibaldi e questo "passato che non vuole passare"!


1860-1894
LA CONQUISTA DELLA SICILIA

Una pagina di storia ancora oggi proibita nelle scuole italiane, ricostruita in due nostri testi del 1991, Se ne consiglia la diffusione e l'uso autogestito nelle scuole siciliane. No copyright.

LA CRISI ITALIANA

Il "Risorgimento italiano", la formazione dello Stato-Nazione e del "mercato nazionale", costituiscono manifestazioni visibili di un processo storico avviato dalla massoneria e dall'imperialismo inglesi, attraverso generosi avventurieri come Garibaldi e abili diplomatici come Cavour.

Il suo esito (formazione dello Stato Italia) fu reso possibile da vittorie militari straniere (Solferino, Sadowa e Sedan) e consolidato attraverso la rapina coloniale delle risorse finanziarie del Regno delle Due Sicilie, che, se da un lato pagò i debiti delle bonifiche agrarie e delle guerre piemontesi, dall'altro colpí mortalmente le aree di sviluppo industriale del Sud e ne distrusse la manifattura diffusa, mentre con la medesima logica coloniale, ormai strutturata, prima si incorporò il surplus delle colture pregiate meridionali (olio, agrumi...) e poi si taglieggiarono le rimesse degli emigrati... Fino ai giorni nostri, quando l'onesta Milano, via Zurigo, ricicla i danari della sua "Mafia Siciliana", che, autentico cane da guardia del colonialismo italiano, si premura anche di taglieggiare e soffocare ogni seria iniziativa imprenditoriale nell'Isola. Alibi? Provare per credere! Il Sistema Italia non distruggerà mai del tutto la Mafia S.p.A. per una ragione semplice: ne ha bisogno.

Ma questa "storia" non appare sui libri ufficiali, secondo i quali il Nord era già "vocato", per grazia divina, allo "sviluppo", mentre il Sud non poteva che costituire una riserva di braccia, una colonia da saccheggiare, col consenso di ceti urbani parassitari e mafie intrallazziste che rappresentavano già allora il "partito degli àscari", i "nemici interni" della sovranità civile dei popoli meridionali e siciliano sulle proprie Terre di appartenenza e di Vita.

La "rivoluzione fascista", sessantanni dopo la "mala-unità", costituisce il momento piú alto e autonomo del cosiddetto "Risorgimento".

Nel "Ventennio" si sviluppa quel processo ideologico di "nazionalizzazione delle masse" avviatosi oggettivamente nelle trincee della "grande guerra".

Una omologazione di popoli regionali, un minestrone utilitarista che rimarrà superficiale per decenni, fino all'avvento della televisione che ha preteso stritolare, col suo "Carosello", differenze antiche che costituiscono la ricchezza reciproca delle numerose etnie negate con ostinazione dai confini artificiosi di questo effimero e ingiusto Stato-Nazione e di questo desueto e ingiusto "mercato nazionale".

Il quarantennio della "prima repubblica" vede l'accumulo e lo sviluppo logico di tutte le vecchie contraddizioni e l'intreccio -ancora piú fitto- con le nuove, determinate dalla dinamica internazionale.

La collocazione geo-politica del Sistema Italia ne ha fatto una cerniera-frontiera nella contesa Est-Ovest, caratterizzandone il Regime interno in termini di "sovranità limitata".

La frana del capitalismo di stato alla russa, l'impetuoso sviluppo dei "giovani capitalismi" in Asia, la ricollocazione della potenza americana e la controversa prospettiva dell' "unità europea", riaprono il "caso italiano" e portano a maturazione tutti i nodi irrisolti dello sviluppo imperialistico di questa "potenza intermedia". Tra essi, mafia o non mafia, giace anche l'eterna "Questione Siciliana", come problema dell'autodeterminazione e dell'autogo- verno del Popolo Siciliano sulla propria Terra di appartenenza e di vita.

I fattori esterni, ancora una volta, costituiscono il detonatore per l'esplosione delle contraddizioni accumulate nei decenni dal Sistema Italia. Tutte le cambiali dell'ultimo ventennio giungono alla scadenza. Dopo aver alimentato il debito pubblico, stampando tonnellate di carta in titoli e finanziando a pioggia tanto il parassitismo straccione del Sud quanto il parassitismo industrial-finanziario del Nord (la sola MA-FIAT ha incamerato circa 100.000 miliardi: altro che "Irpiniagate"!) si ritrovano ora, sotto il "comando" del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale, autentiche Mafie Globali, a dover "disfarsi" dell'ingente patrimonio strutturale e bancario del capitalismo di stato, pilastro storico del Sistema Italia e ultimo baluardo del "socialismo reale" in versione "cattocomunista". In discussione è il compromesso moderato che ha fornito a questo Stato una base di massa piccolo-borghese, per almeno un ventennio. In discussione è la rete di piccoli diritti trasformati in favori e grandi privilegi ben piú duri a morire.

Oggi, alla vigilia dell'ennesima "finta rivoluzione", lo Stato-Nazione italiano appare agli occhi di molti una prigione di popoli regionali. A poco è servita la propaganda di regime sulla "quinta potenza mondiale" e, chissà come, sulla sua "retrocessione in serie B".

E poco respiro paiono avere ancora le piú recenti ipotesi di "rinazionalizzazione italiana" avanzate dal "partito dei vescovi" mentre già piú concrete appaiono alcune "teorizzazioni federaliste" ispirate dai neosabaudi progressisti del centro studi "Prometeia" (Fiat).

Ma le ideologie, anche se benedette con l'acqua santa e riecheggianti antiche dialettiche tra Papato e Impero, o piú laicamente illuminate dalla famiglia Agnelli, devono fare i conti con le variabili impazzite del trasformismo italiano, perennemente tentate dal Terrore di Stato e, soprattutto, con processi storici che la "mondializzazione" rende ancor piú giganteschi e pesanti sulla costruzione incompiuta di uno Stato senza Nazione, l'Italia, e sulla decostruzione incompiuta di una Nazione senza Stato, la Sicilia.

La via d'uscita, lo sosteniamo da anni, è costituita dalla rifondazione federalista dello "spazio politico" italiano, centrata su "Repubbliche regionali della solidarietà, dell'ecologia e dell'autogestione" e sull'idea di Città-Stato, come luoghi di una nuova democrazia comunitaria informata al principio di sussidiarietà, in cui la sovranità popolare possa esprimersi concretamente e il potere amministrativo dispiegarsi con procedure semplificate, visibili, verificabili, modificabili (attraverso per esempio il diritto alla secessione per tutti i "soggetti del contratto": le unioni hanno senso solo e nella misura in cui "convengono").

Su queste scogliere, prima o poi, l'italietta miope, mediocre e presuntuosa ci sbatterà il muso. Lo farà all'italiana: tra avanspettacolo e trasformismo di massa.

@1991. Mario Di Mauro


L'IMPRESA DEI MILLE

La donchisciottesca spedizione di Garibaldi e dei suoi Mille, come la definisce Mack Smith in Cavour e Garibaldi nel 1860, venne finanziata dal governo inglese con una cassa di piastre d'oro turche (moneta franca nel Mediterraneo del tempo) pari a molti milioni degli attuali dollari.

Le navi militari inglesi, "casualmente" alla fonda in Marsala, con uno stratagemma protessero lo sbarco dei "Mille". Tempo dopo, il cassiere della spedizione, Ippolito Nievo, e i registri contabili, vennero fatti sparire nel nulla.

L'imperialismo inglese puntava a indebolire il Papato e controbilanciare l'egemonia francese sul Mediterraneo. L'occasione gli venne offerta dalla crisi siciliana (l'Isola era in rivolta per l'autonomia da Napoli). Dietro "l'impresa" emerge il disegno della Massoneria, e Londra è da sempre l'Alma Mater di tutte le Logge. Tutti massoni ovviamente: Garibaldi, Cavour ecc. E il povero Nievo fece la stessa "fine" di Calvi e delle carte scottanti del "Banco Ambrosiano", seppur con un Papato a ruoli invertiti.

ANNESSIONE COLONIALE

L'atto di annessione dell'Isola allo Stato di Vittorio Emanuele II nel 1860, come dimostra anche il Mack Smith (1), non fu chiara e libera manifestazione plebiscitaria della volontà dei Siciliani, ma un vero e proprio atto di forza. Garibaldi confessa a varie riprese (2) che il popolo fu sempre assente nel "movimento per l'unificazione italiana", quando non fu decisamente contrario.

Lo stesso Mazzini, rispondendo con uno scritto alla circolare 15 agosto1860 del ministro Farini, nella quale si rivelava la decisione del governo piemontese per l'annessione, spinse deliberatamente a quell'atto, proprio perchè temeva le pesanti riserve dei Siciliani (3) e intendeva tagliar corto alla idea piú sana di una Confederazione Italiana, propugnata dal Gioberti e da diversi patrioti siciliani tra il 1848 e il 1860.

La stessa relazione del Consiglio Straordinario di Stato-istituito in Sicilia dal prodittatore Mordini con decreto 19 ottobre1860 e con il quale, ad annessione avvenuta, i rappresentanti del Popolo Siciliano avrebbero dovuto discutere e proporre gli ordinamenti piú convenienti alla Sicilia per entrare a far parte dello Stato Italiano- non ebbe mai seguito.

Mentre la Luogotenenza -promulgata da Vittorio Emanuele II a Palermo il 1° dicembre1860, in occasione della sua prima visita, ed in base alla quale lo Stato avrebbe avocato a sè soltanto la branca degli Affari esteri e quella della Difesa, lasciando il resto in mano ad amministratori siciliani che avrebbero fatto parte del Consiglio di essa -visse una breve e grama esistenza e fu abolita con un semplice Decreto Reale il 1° febbraio1862.

DIRITTO DI...SACCHEGGIO

Tutto -come ben sappiamo dalla lettura dell'art.4 del "decreto prodittatoriale 9 ottobre1860", con il quale si stabilí l'infame sistema di votazione per il plebiscito- si svolse in un'atmosfera di vera e propria sopraffazione della libera volontà dei Siciliani.

I risultati di quel plebiscito registrarono soltanto 667 "no" su 432.720 votanti, con una percentuale che supera il 99,99% dei cosiddetti "si".Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".

Con una buona dose di ipocrisia.

BOTTINO DI GUERRA

Entrata cosí a far parte del Regno d'Italia, la Sicilia, nel giro di pochi anni si vide spogliata dell'ingente patrimonio di quei Beni Ecclesiastici che fruttarono allo Stato 700 milioni del tempo, della riserva d'oro e d'argento del suo Banco di Sicilia, e vide portato il carico tributario a cinque volte di piú del precedente. Come accertò Giustino Fortunato, mentre per l'anno1858 esso era stato di sole lire 40.781.750 per l'anno1891 le sue sette province registrano un carico di lire 187.854.490,35 (5).

Si inasprirono inoltre i pesi sui consumi, sugli affari, sulle dogane, le tasse di successione che prima non esistevano, quelle del Registro che erano state fisse, quelle di bollo, per cui nel1877 queste tasse erano già pervenute a 7 milioni e nel 1889-90 avevano raggiunto i 20 milioni.

La vendita del patrimonio dello Stato -ossia del demanio dell'ex Regno della Due Sicilie- impinguato dai beni dei soppressi Enti Religiosi e sommato alla vendita delle ferrovie, aveva fruttato allo Stato italiano oltre un miliardo, senza contare il capitale dei mobili, delle argenterie e tutta la rendita del debito pubblico, posseduta dalle Corporazioni religiose, che venne cancellata del tutto. E non erano "beni della Chiesa di Roma", ma frutto dell'accumulazione di famiglie siciliane investito sul "figlio prete"!

CRONACA DI UN MASSACRO

Le terre demaniali che Garibaldi aveva promesso ai contadini ed ai "picciotti" il 2 giugno 1860, con il decreto concernente la divisione dei demani comunali, andarono soltanto ad impinguare i patrimoni dei nobili e dei borghesi, per cui già nel giugno e nel luglio del 1860 si ebbero in Sicilia quelle sollevazioni che assunsero "proporzioni vastissime, poiché i contadini rivendicarono non solo la quotizzazione dei demani ancora indivisi, ma anche la nuova quotizzazione dei demani usurpati o illegalmente acquistati da nobili o borghesi, oppure il ristabilimento su di essi dei vecchi diritti d'uso" (6).

Il risultato di quelle richieste legittime furono le feroci repressioni eseguite da Bixio a Bronte, e dagli altri garibaldini a Caltavuturo, a Modica, e in tanti altri comuni.

"Verso la fine di giugno e nel corso del luglio 1860 la frattura tra governo garibaldino e movimento contadino si venne via via accentuando, non solo per la resistenza popolare alla coscrizione (resa obbligatoria da Garibaldi con il decreto del 14 maggio) ma anche perché le autorità governative e le forze armate garibaldine furono portate sempre piú a schierarsi a favore dei ceti dominanti" (7).

PRIMO STATO D'ASSEDIO

In questo clima di disagio morale, economico, sociale e politico, aggravato dall'imposizione della leva militare che i Siciliani avevano sconosciuto fino allora, il Parlamento Italiano conferí i pieni poteri al Generale Govone nel 1863, al fine di ridurre in Sicilia l'opposizione al servizio militare, consentendogli di tenere dei tribunali militari e di fucilare la gente sul posto.

Gli eccidi consumati allora dalle truppe del Govone, specie a Licata e in tanti altri centri dell'interno dell'Isola, furono denunziati all'opinione pubblica nel dicembre del '63 dal deputato cattolico moderato Vito D'Ondes Reggio e da molti deputati della Sinistra e della Destra al potere, ma come dice con lapidaria frase il Candeloro: "questo gesto clamoroso non modificò peraltro la politica del governo in Sicilia" (8).

Migliaia di arrestati, morti e trucidati, abusi, violenze e atrocità commesse come rappresaglia sulla popolazione civile, prelevamenti di ostaggi nelle famiglie dei renitenti, stato d'assedio per tutta l'Isola, taglio dei viveri e dell'acqua potabile alla città martire di Licata.

1866. UNA RIVOLUZIONE SICILIANA

Quando poi scoppiò il moto palermitano nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1866 con 3.000 uomini armati -per lo piú ex "picciotti" ed ex patrioti del 1848- che, scesi dai monti, attaccarono di sorpresa la città ed instaurarono un Comitato provvisorio, presieduto dal principe di Linguaglossa e da Francesco Bonafede, si parlò di complotto della Chiesa in accordo con i Borboni, ma la verità è che fin dalla prima metà del1865 la Sicilia, per lo stato di abbandono e di maltrattamento inflittogli dall'Italia, era in stato di agitazione e di congiure.

"E' dunque da escludere -come afferma uno storico di parte non sospetta- che la massa di manovra e i capipopolo del1866 intendessero puntare su una restaurazione borbonica, cosí com'è da escludere che si trattasse di un moto puramente brigantesco, due tesi che specialmente il Generale Raffaele Cadorna, inviato poi come commissario straordinario (e a reprimere il moto con il 2° stato d'assedio nell'Isola) volle far passare nella convinzione comune e che furono accettate dalla storiografia moderata. Coloro che furono invece testimoni della settimana infuocata resero ragione della sostanziale disciplina che caratterizzò il comportamento dei rivoltosi e smentirono le voci di spaventose crudeltà che da essi sarebbero state commesse" (9).

Tutti i volantini del tempo, di propaganda autonomista (conservati presso l'Archivio di Stato di Palermo) si soffermano sul sempre piú accentuato distacco tra masse popolari e classi nobiliare e borghese, le quali rappresentavano il piú fermo sostegno interno della dominazione italiana (10).

UN BAGNO DI SANGUE

Poichè l'insuccesso delle prime truppe da sbarco italiane comandate da Emerico Acton fu completo, divenne necessario che giungesse un intero corpo di spedizione sotto gli ordini del Cadorna, per combinare un assalto simultaneo di tutte le forze di terra e di mare, combattere per 36 ore contro circa 40.000 popolani armati, guadagnare una ad una le barricate.

I morti non poterono contarsi: i fucilati in massa furono diverse migliaia, i massacrati senza motivo diverse centinaia; la rivoluzione venne chiamata del "Sette e mezzo" per la durata dei suoi giorni. Moriva ancora una volta la speranza della Sicilia e dei Siciliani. Moriva, annegata ancora una volta nel loro stesso sangue.

LA RESISTENZA SICILIANA

Tenuta nello stato di abbandono... in conto di "regione tropicale"... in mano di sfruttatori e ladri... e di una polizia che giunse all'aperta collusione con la mafia e la delinquenza locale sí da far insorgere perfino il Procuratore Generale di Palermo, Tajani (11), il quale promosse ma non poté ottenere l'incriminazione del famigerato Questore Albanese (12)... senza alcuna iniziativa in fatto di lavori pubblici... nel piú completo analfabetismo... nella miseria contadina piú vergognosa... la Sicilia cominciò a riorganizzare la sua Resistenza nel corso del1867. Quando il generale Giacomo Medici venne ad assumere la prefettura di Palermo.

Sull'onda di quel movimento socialista che era stato fondato sotto il nome di Fratellanza internazionale nel 1864 da Saverio Friscia, Bakunin e Fanelli, ma, soprattutto, alimentata da una fitta rete di "società di mutuo soccorso" e "circoli operai", e, in fin dei conti, nel retrobottega del farmacista, nel salone del barbiere, nello studio dell'avvocato, nei capannelli domenicali col vestito buono, un pò in tutte le kiazze di città e paesi, l'Isola dei Siciliani covava i suoi Fasci e maturava il suo programma: "Terra e Libertà!".

I Fasci Siciliani dei Lavoratori, che sorgeranno nella crisi di finesecolo e, incompresi dalla "sinistra italiana", verranno schiacciati nel sangue dal Governo di Roma.

Ancora una volta le forze progressive dell'Isola dei Siciliani non trovarono, oltre le nuvole, che la notte scura. E tante navi per l'America: tonnellate umane, come quelle dei popoli africani alla cui deportazione contribuí anche l' ancòra "Capitano" Garibaldi, che, sulle rotte sanguinanti della "tratta degli schiavi", commerciava "negri e cavalli". L' Italia era ripassata per le nostre contrade: con le sue truppe, i suoi tribunali speciali, la sua macchina fiscale...La Resistenza Siciliana, massacrata e sconfitta, emigrava a "Brucculinu". E qui, sul tracciato effimero della "nuova frontiera", i Siciliani scrissero alcune tra le pagine piú belle del nascente movimento operaio americano, ma si inventarono anche, e a colpi di mitra, l'organizzazione etno-imprenditoriale piú efficente del secolo: La Cosa Nostra.

©1991. (Terra e Liberazione)

note

(1) Cfr. D. MACK SMITH, Storia della Sicilia medievale e moderna, Bari, Ed. Laterza 1970, pagg. 599-609. Cavour e Garibaldi nel 1860, Torino Ed. Einaudi, 1958, pagg. 463-501.(2) Cfr. G. GARIBALDI, I Mille, Torino, Ed. Camilla e Bertolero, 1874 -Memorie, Bologna Cappelli, Ediz. Naz. degli Scritti.(3) Cfr. G. NICOTRI, Rivoluzioni e rivolte in Sicilia, Torino, UTET, 1910.(4) Cfr. F. GUARDIONE, La Sicilia nella rigenerazione politica d'Italia, Palermo, Reber, 1912, pag. 620(5) Cfr. G. FORTUNATO, Il Mezzogiorno e lo Stato Italiano, Firenze, Ed. Vallecchi, 1911, Vol. II, pag. 125 e segg. (6) Cfr. G. CANDELORO, Storia dell'Italia moderna, Milano, Ed. Feltrinelli, 1971, Vol. IV pag.463.(7) Ibidem, pag. 465.(8) Ibidem, Vol. V, pag. 204.(9) P. ALATRI, Lotte politiche in Sicilia sotto il governo della Destra, Torino, Ed. Einaudi, 1954, pag. 142. Ma vedi pagg. 105-150 per imotivi della rivolta.(10) Questi materiali di propaganda manifestano spesso le tendenze socialiste che si erano venute largamente affermando e diffondendo in Sicilia dopo il '60. Il Brancato ha anzi sottolineato quanto, in quella rivolta di popolo, richiama i precedenti del 1860, del 1848 e del 1820 e anticipa i moti dei Fasci Siciliani del 1893 - Cfr. F. BRANCATO, Origini e carattere della rivolta palermitana del settembre 1866, Palermo, "A.S.S.", serie III, Vol. V. (11) Cfr. P. ALATRI, Op. Cit., Cap. VI, pagg.347-417.(12) Cfr.F. S; MERLINO, Questa è l'Italia, Milano, nuova ediz. 1953.


Chi volesse approfondire l'argomento legga: "L'Unità d'Italia: nascita di una colonia" di Nicola Zitara (L.25.000) e "L'essenza della Questione Siciliana" di Natale Turco (L.40.000), richiedendoli con vaglia postale a <<Terra e LiberAzione>> C.P.367 Catania Centro.



Chi era veramente l'avventuriero dei due mondi ?

GIUSEPPE GARIBALDI


Introduzione
Nel Nuovo Mondo
Nasce la leggenda dell'eroe dei due mondi
Le congiure in Italia
La Repubblica Romana
Obiettivo: Le Due Sicilie
L'invasione
Epilogo
Garibaldi a Palermo

Giuseppe Garibaldi nacque a Nizza il 4 luglio 1807 e morí a Caprera il 2 giugno del 1882. Il personaggio, esaltato come eroe dalla storiografia dell'attuale regime, era in realtà di ben diversa levatura. Per poter far comprendere chi era veramente Garibaldi ho ritenuto di raccontare gli episodi della sua vita piú significativi, quelli cioè a cui viene data piú importanza dai suoi agiografi, solo nei fatti essenziali, senza cioè dedurne alcun commento, lasciando cosí ai lettori di farsene di suoi. Attorno a questi episodi sono state pure inserite le piú significative vicende storiche, durante le quali, e per conseguenza delle quali, quegli episodi avvenivano. In tal modo, mi pare, quegli stessi episodi riescono ad essere compresi e, soprattutto, riescono a delineare una immagine certamente piú realistica della essenza del personaggio, definito dalla storia come "l'eroe dei due mondi", ma che, a mio sommesso parere, fu un uomo, a dir poco, ingenuo, sia pure un avventuriero di diaboliche qualità, manovrato abilmente da un non tanto oscuro burattinaio.

Il 26 dicembre 1832 Giuseppe Garibaldi, affiliato con il nome di "Pane" alla setta "Giovine Italia" fondata da Mazzini, si arruolò come marinaio di terza classe nella marina piemontese con il compito di sobillare e di fare propaganda della setta tra i marinai savoiardi. La tecnica delle sette sovversive, con l'attivazione di episodi di rivolta quasi spesso irrealizzabili, era, infatti, quella di tenere sempre e comunque in stato di tensione i governi e quindi di provocare artatamente la loro reazione. In tal modo esse miravano a convincere, nel corso del tempo, le popolazioni che tutto ciò accadeva a causa dell'oppressione dei sovrani, sia a Napoli, sia negli altri Stati che non si uniformavano alle loro mire.

Il Mazzini, che viveva al sicuro nella Svizzera, progettò inoltre nel 1834 di invadere la Savoia con il generale Girolamo Ramorino a capo di un centinaio di rivoltosi, mentre a Genova Garibaldi avrebbe dovuto far insorgere la città ed occupare il porto. L'inconsistenza dell'azione ed il feroce intervento delle truppe piemontesi fecero fallire l'inutile sommossa. Molti cospiratori catturati furono condannati a morte. Il Mazzini, rimasto sempre in Svizzera (e poi rifugiatosi prudentemente a Londra), ed il Garibaldi, riuscito fortunosamente a fuggire, furono condannati a morte in contumacia. Garibaldi prima si rifugiò per alcuni mesi a Marsiglia, dove venne raggiunto dalla notizia che, il 3 giugno 1834, il Consiglio Divisionario di Guerra lo aveva condannato a morte ignominiosa come "
bandito di primo catalogo", e dopo s'imbarcò sul brigantino mercantile Union, diretto a Odessa, da dove si diresse a Tunisi, per arruolarsi come marinaio nella flotta piratesca di Hussein Bey, Signore di Tunisi. Nel 1834, nella Reggenza di Tunisi,
vivevano all'incirca 8000 europei. Un terzo di loro erano italiani. Provenivano dalle piú disparate parti d'Italia: dalla Sicilia, dalla Campania, dalla Toscana, dalla Liguria. A la Goulette, il porto di Tunisi, morí nel febbraio del 1834 il capitano Paolo Carboso, un ligure originario di Recco. Tra le sue carte si rinvennero lettere e documenti che fecero risalire alla società Carbonara, o meglio alla "Vendita", come si diceva nel gergo segreto, la setta massonica degli "Amis en captivitè" che aveva una sua sede a Malta. Di qui le conclusioni che furono subito tratte e che cioè : "I suoi frequenti viaggi fra Tunisi, Lisbona, Malta, avessero avuto lo scopo di portare dei pieghi in quelle regioni per le pratiche infami della propaganda". In realtà in quel periodo la carboneria, a Tunisi, era venuta perdendo terreno. Al suo posto però aveva già invece gettato radici la "Giovine Italia" con un programma repubblicano per l'unità dell'Italia. In quello stesso mese giunse a Tunisi un altro profugo politico. Si trattava di Antonio Montano di Napoli, che aveva prima partecipato alla rivoluzione costituzionale e poi alla cosiddetta "congiura del monaco" (perché capeggiata dal frate Angelo Peluso). Verso la fine dello stesso anno riparava a Tunisi anche un altro cospiratore: Antonio Gallenga di Parma. Nella "Giovine Italia" di cui era affiliato aveva assunto il nome di "Procida". Mazzini aveva una grande fiducia in lui, anche se egli si era rifiutato di compiere un attentato politico per assassinare Re Carlo Alberto. Tunisi costituí in quegli anni una tra le basi della massoneria piú importanti per la cospirazione contro le Due Sicilie. Dopo qualche mese Garibaldi si portò di nuovo a Marsiglia, dove si imbarcò come secondo sul brigantino Nautonier di Nantes diretto a Rio de Janeiro.

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NEL NUOVO MONDO

Agli inizi dell'estate del 1836 Garibaldi, però, accusato dalle autorità di Rio de Janeiro di loschi traffici, assieme ad altri italiani fuorusciti, ricevette l'ordine di espulsione dal Brasile. L'avventuriero, allora, rubò una barca dal porto e, con gli altri suoi complici, si diede alla pirateria. Braccato dalla Marina brasiliana, si rifugiò nella provincia di Rio Grande presso Bento Gonçalves, capo della rivolta contro la monarchia del Brasile.

Nel 1837, poi, il Garibaldi, inizialmente con una barcaccia da 20 tonnellate (da lui battezzata
Mazzini), successivamente con altre navi catturate, si diede a scorrerie e saccheggi sul Rio Grande contro le navi cattoliche-ispaniche e nei villaggi rivieraschi, protetto dagli inglesi, i quali per suo mezzo raggiungevano cosí lo scopo di assicurare il monopolio commerciale all'impero britannico. Nell'agosto, tuttavia, la sua nave fu intercettata e colpita da molte fucilate, ma il nizzardo riuscí a sfuggire alla cattura con l'aiuto di una nave argentina che la rimorchiò. Tra i molti feriti c'era lo stesso Garibaldi che fu internato e curato in Argentina.

Nel 1838 Garibaldi, lasciato libero dagli Argentini, si diresse a Montevideo e poi ancora nel Rio Grande, dove i ribelli di Bento gli affidarono due navi, catturate qualche mese prima ai brasiliani, per la tratta dei negri. In seguito Garibaldi si diede a veri e propri atti di pirateria nei pressi della laguna Dos Patos, dove assaliva navi mercantili isolate, uccidendo gli inermi marinai delle navi catturate. Molte volte assalivano anche i villaggi interni dei contadini, facendo razzie, rubando oggetti di valore e violentando le donne.
Fu in questo periodo che incominciò a portare i capelli lunghi perché, avendo tentato di violentare una ragazza, questa gli aveva staccato l'orecchio destro con un morso.

Nel 1839 in Cina venne decretato il divieto di importazione dell'oppio da parte della Compagnia inglese delle Indie Orientali dal Bengala, dato lo stato miserevole in cui si era ridotta gran parte della popolazione. Un funzionario cinese, deciso a far rispettare il divieto d'importazione disposto dall'imperatore, requisí e fece distruggere oltre 2.000 casse di droga appartenenti
ai mercanti britannici. L'allora ministro degli Esteri inglese, Lord Palmerston, Gran Maestro della Massoneria, poiché il commercio della droga era una pietra miliare della politica imperiale inglese, per gli enormi guadagni che comportava, ordinò di far sbarcare dei marinai dalla flotta inglese, che sostava nei pressi dell'isola di Hong Kong, con il compito di provocare una rissa nella zona di Kowloon con i residenti cinesi, fingendosi ubriachi. Un cinese venne ucciso e il capitano inglese Elliot si rifiutò di consegnare i colpevoli alle autorità cinesi, che pertanto intimarono alla flotta inglese di abbandonare le coste della Cina. La conseguente azione di forza del modesto naviglio cinese (sulla cui azione contavano gli inglesi) fu facilmente respinta dalle navi militari inglesi. Fu cosí che il governo inglese diede immediatamente l'ordine alla flotta navale, già in precedenza inviata in segreto in quei mari, di minacciare la Cina, costringendola ad accettare la libera importazione dell'oppio ed a pagare alla Gran Bretagna un'indennità di guerra di 20 milioni di dollari. Hong Kong fu occupata dalle truppe inglesi e, in seguito, fu ceduta in affitto alla corona inglese col trattato di Nanchino del 1842. In quello stesso anno gli inglesi fondarono a Hong Kong una loggia massonica. Due anni dopo, dichiarata porto franco, Hong Kong divenne la capitale mondiale della droga sotto la protezione del governo inglese, che ne favoriva segretamente la commercializzazione. Alla fine di agosto il Garibaldi, intanto, conosceva Anita nel piccolo borgo uruguayano di Barra. Allora la donna era già sposata con un tal Manuel Duarte, che abbandonò il 23 ottobre, giorno in cui lo stesso Garibaldi la portò via sulla nave Rio Pardo. Il Duarte dopo qualche giorno morí di crepacuore, molto probabilmente anche a causa delle ferite causategli dai banditi garibaldini. Alla fine dell'anno una squadra navale brasiliana riuscí a intercettare ed a distruggere le navi corsare di Garibaldi. Costui, tuttavia, riuscí ancora a sfuggire, insieme ad Anita ed a pochi dei suoi filibustieri, rifugiandosi ancora una volta presso Bento. Garibaldi, cosí, insieme con Bento, che aveva costituito nel 1840 un folto gruppo di banditi, si diede a compiere ancora rapine e razzie di ogni genere, vanamente inseguito dai reparti governativi. Il 16 novembre, mentre si trovavano in sosta nel paese di Mustarda, Anita diede alla luce Menotti.

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NASCE LA LEGGENDA DELL'EROE DEI DUE MONDI

Dopo l'estate del 1841, Garibaldi, con 900 bovini razziati nelle campagne, si separò da Bento e si diresse verso Montevideo in Uruguay, ma qui giunse nella primavera successiva con sole trecento pelli, da cui ricavò un centinaio di scudi. Rimasto poi senza denaro e del tutto inadatto a lavorare, fu aiutato da Anita, che per sostenere la famiglia si mise a fare la lavandaia. In quel periodo era, intanto, scoppiata la guerra tra Argentina e Uruguay. Durante questa guerra, a Garibaldi fu affidato, nel gennaio del 1842, da parte del diplomatico inglese William Gore Ouseley, il comando di alcune navi, con le quali costituí una grossa banda formata quasi tutta da italiani, vestiti con una camicia rossa. Questa gente, per lo piú disperata, dedita solo a rapine, si diede a compiere molti atti di violenza, a cui partecipava ben volentieri lo stesso Garibaldi, tanto che, dopo una efferata rapina da lui fatta in casa di un brasiliano, dovette essere destituito e imprigionato. Tra gli italiani vi erano anche dei tipografi settari che pensarono di stampare un giornale che intitolarono "Il Legionario italiano", sul quale inventarono moltissime menzogne di eroismo sul comportamento degli italiani in quella guerra, in modo da attenuare la forte ostilità dei cittadini uruguayani verso le camicie rosse italiane. Il giornale, però, fu anche fatto uscire dai confini dell'Uruguay e con la complicità dei settari fu fatto tradurre in molte lingue, tanto che, riportata da altri giornali, fecero nascere la leggenda sugli "eroici" legionari italiani. In seguito l'avventuriero si iscrisse alla Massoneria Universale e precisamente nella loggia irregolare "L'asilo della Virtú", regolarizzandosi poi in Montevideo il 24 agosto 1844, nella loggia "Gli Amici della Patria", dipendente dal Grande Oriente di Francia. Nel frattempo, l'enorme profitto commerciale che stavano avendo Inghilterra e Stati Uniti con la Cina, attirò anche l'interesse della Francia, che il 24 ottobre costrinse il governo cinese ad un nuovo trattato commerciale a Whampoa, con il quale anche i francesi si misero a vendere oppio ai Cinesi. Nel decennio successivo il consumo di oppio in Cina venne triplicato e la sovranità cinese praticamente eliminata, perché fu consentito all'Inghilterra, alla Francia ed agli Stati Uniti di vendere liberamente nell'immenso territorio cinese qualsiasi prodotto. Dopo varie vicende, il 20 novembre 1847 la flotta anglo &shy; francese sconfisse quella argentina, ponendo in tal modo fine alla guerra tra Uruguay e Argentina. Intanto la leggenda di Garibaldi fu gonfiata oltre misura anche da Mazzini, il quale poi lo invitò a venire in Italia dove "i tempi dell'azione erano ormai maturi". Nel 1848 venne pubblicato il "Manifesto Comunista", elaborato da Marx ed Engels, con il finanziamento dei massoni Clinton Roosevelt e Horace Greely, entrambi membri della Loggia Columbia, fondata a New York dagli Illuminati di Baviera. Successivamente allo stesso Marx, in collaborazione con Mazzini, fu dato dagli Illuminati l'incarico di preparare l'indirizzo e la costituzione della "Prima Internazionale " (Comunista).

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LE CONGIURE IN ITALIA

La successiva mossa dei massoni fu quella di spingere alcuni affiliati, sovversivi duosiciliani, La Farina e La Masa a sbarcare il 3 gennaio 1848 a Palermo, dove, era stato loro detto, si era costituito un Comitato Rivoluzionario. Questo comitato non esisteva, ma vi trovarono invece gli altri massoni Rosolino Pilo e Francesco Bagnasco, che al loro arrivo mobilitarono tutti i loro seguaci per iniziare la rivolta. La Masa, per poter avere l'appoggio delle popolazioni convinse il principe Ruggero Settimo a porsi a capo della rivolta per l'indipendenza della Sicilia. Le titubanze del principe furono presto superate quando Lord Mintho, con la flotta inglese nella rada del porto di Palermo, gli assicurò il suo appoggio. I rivoltosi, poi, certi che il comandante borbonico, il massone De Majo, non avrebbe opposto che una simbolica resistenza, insorsero il 12 gennaio a Palermo, concentrandosi alla Fieravecchia. La gente si chiuse nelle case e le botteghe serrarono le porte. Le truppe, poiché vi erano stati atroci episodi di violenza e di saccheggi, si rinchiusero nel forte di Castellammare e da lí bombardarono gli appostamenti dei rivoltosi. A Napoli, mentre i carbonari facevano espellere i Gesuiti, l'inglese Palmerston, capo del governo inglese, suggeriva al governo napoletano di riconoscere l'indipendenza della Sicilia e nello stesso tempo esaltava la liberazione d'Italia dagli stranieri. Insomma l'Inghilterra voleva unire l'Italia e separare il Regno, per appropriarsi della Sicilia. L'isola, infatti, dopo l'occupazione francese dell'Algeria e la costituzione di una base navale ad Algeri, era diventata per gli Inglesi interessante per controbilanciare l‘accresciuta potenza navale francese nel Mediterraneo. In Austria, nel frattempo, i massoni il 13 marzo approfittarono per promuovere una grave insurrezione a Vienna, tanto che l'imperatore Ferdinando I fu costretto a concedere la costituzione. La setta, tuttavia, continuò nei suoi intrighi fomentando disordini in Boemia, in Ungheria e nel Lombardo-Veneto. A Milano, infatti, appena giunta la notizia dell'insurrezione di Vienna, vi fu l'episodio delle Cinque Giornate che durò dal 18 al 22 marzo. Anche a Venezia il giorno 17 vi furono delle sommosse, tanto che le truppe austriache furono costrette a rifugiarsi nelle fortezze di Peschiera, Mantova, Legnago e Verona sotto gli ordini di Radetzky. Insomma si ripeteva in tutta l'Europa cattolica, tranne cioè nei paesi protestanti, quanto era successo con le rivolte in Sicilia. I massoni (secondo le direttive inglesi) fomentavano le rivolte al solo scopo di sconvolgere l'equilibrio della politica europea ai danni delle potenze conservatrici : Due Sicilie, Austria, Prussia e Russia, garanti dello statu quo nato dalla Santa Alleanza. Fu cosí che, mentre Garibaldi, chiamato da Mazzini, partiva il 15 marzo da Montevideo, imbarcandosi con 150 uomini sulla nave Speranza, Carlo Alberto, spinto dalla setta, dichiarò il 24 marzo la guerra all'Austria. Poi i massoni, con la complicità dei governi liberali, che erano riusciti a insediare negli altri Stati italiani, costrinsero questi ad inviare dei corpi di spedizione contro l'Austria. A Roma il 27 venne da Torino il conte Rignon per chiedere al Papa un appoggio materiale e morale per la guerra. Pio IX inviò le truppe pontificie al comando del generale Durando e di d'Azeglio, ma con l'ordine di fermarsi sul Po e solo
per scopo difensivo. In quanto all'appoggio morale,
egli affermò il 29 aprile che non avrebbe mai dichiarato una guerra offensiva. Il Rignon si recò anche a Napoli, dove già erano all'opera gli arruolamenti di volontari da parte dei liberali. Ferdinando, tuttavia, aveva già deciso cosa fare. Egli, infatti, si era reso conto che il movimento, non avendo l'appoggio del popolo, si sarebbe esaurito da solo nelle gravi agitazioni che esso stesso provocava. Concluse che l'unico modo per vincerlo, era quello di accelerarne gli effetti. Dichiarò cosí inaspettatamente il 7 aprile guerra all'Austria e concesse 16.000 uomini al comando del generale Guglielmo Pepe, che il 4 maggio partí, anche lui con l'ordine di attestarsi sul Po. Le truppe piemontesi, che avevano adottato una nuova bandiera con i colori verde, bianco e rosso, che erano i colori che identificavano la massoneria dell'Emilia, ebbero il 30 maggio 1848 un primo successo a Goito contro gli Austriaci, grazie alla resistenza delle truppe napolitane e dei volontari toscani che li avevano fermati a Curtatone e a Montanara. Gli Austriaci cosí furono costretti a ritirarsi verso il quadrilatero, fatto che consentí ai liberali l'annessione di Milano ai Savoia e a Venezia la proclamazione della repubblica. Numerose furono le decorazioni e le onorificenze concesse ai Napolitani, ma nell'obelisco, eretto nei luoghi della battaglia, vi sono solo i nomi dei toscani, mentre quelli dei Napolitani furono deliberatamente omessi. Ferdinando II, tuttavia, dovette richiamare in Patria il corpo di spedizione napolitano per ragioni di ordine pubblico. In Calabria, infatti, la massoneria aveva fomentato alcune sommosse, approfittando del fatto che l'esercito borbonico era impegnato in Lombardia. La diplomazia inglese, inoltre, aveva spinto il governo rivoluzionario della Sicilia ad offrire la corona al savoiardo duca di Genova, che però declinò l'offerta, non sentendosi sicuro di mantenerla. In giugno, in esecuzione dell'ordine del Re Ferdinando, tutte le truppe napolitane rientrarono a Napoli, tranne il traditore Pepe e circa mille soldati che, plagiati dai settari, si recarono a Venezia. Nel frattempo, Garibaldi dopo essere sbarcato il 21 giugno a Nizza con i suoi avventurieri, si era recato il 5 luglio a Roverbella, nei pressi di Mantova, per offrirsi volontario al re Carlo Alberto, che però lo respinse. Allora il nizzardo si recò a Milano, dove il governo provvisorio lombardo, presieduto dal conte massone Casati, lo nominò il 14 luglio generale di brigata. I piemontesi, tuttavia, senza l'aiuto delle truppe napolitane, vennero ignominiosamente sconfitti a Custoza il 25 luglio dalle poche truppe austriache e furono costretti a firmare il 9 agosto un armistizio a Salasco con Radetzky. Alle battaglie avevano tentato di partecipare anche i volontari di Garibaldi, ma il 4 agosto, senza neanche affrontare le avanguardie austriache incontrate a Merate, i piú incominciarono a disertare e i rimanenti con Garibaldi, travestito da contadino, riuscirono a giungere in Svizzera, dove, come sempre, il prudente Mazzini si era già rifugiato . Tranne la città di Venezia, rimasta assediata, tutto il territorio occupato dai savoiardi ritornò all'Austria. A queste vicende non vi fu alcuna partecipazione popolare. Anzi le masse erano per lo piú favorevoli agli Austriaci, come dimostrarono le manifestazioni della maggior parte del popolo che, al loro ritorno, aveva gridato "Viva Radetzky".
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LA REPUBBLICA ROMANA


A Napoli il 1° febbraio del 1849 vennero riaperte le Camere. Nel frattempo erano affluiti a Roma i piú importanti capi massoni, tra cui anche Garibaldi e Mazzini, che il 5 febbraio proclamarono la Repubblica Romana. Il 9 febbraio fu formata l'assemblea costituente che proclamò la repubblica e la fine del Papato. L'assassinio fu l'ordinario espediente della setta per contenere la popolazione col terrore, le cui vittime furono preti, cittadini, ufficiali e perfino il ministro Pellegrino Rossi. Nessun assassino fu punito, nemmeno il Zambianchi, colonnello delle Guardie di Finanza, che fece uccidere tanti innocenti nel quartiere di S. Callisto. Anche in Ancona furono commessi degli efferati omicidi, per ordine sempre del sanguinario Mazzini. A questo governo il primo ministro inglese, il massone lord Palmerston, dichiarò di essere pronto a portare qualsiasi aiuto. Il 20 marzo Carlo Alberto, disdetto l'armistizio, attaccò nuovamente gli Austriaci, che in soli tre giorni sconfissero i piemontesi a Novara. Vi fu un intervento "moderatore" inglese sull'Austria, che impedí al generale Radetsky di invadere il Piemonte dopo la vittoria ed indusse l'Austria a contentarsi di una semplice "indennità di guerra", pur se di notevole importo per l'epoca: 75 milioni. Carlo Alberto abdicò in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che fu spinto a nominare Presidente dei ministri il massone Massimo d'Azeglio. A Genova alla notizia dell'armistizio di Vignale il popolo cercò di ribellarsi dall'opprimente dominazione piemontese e nei tumulti furono uccisi due ufficiali piemontesi. La rivolta venne, però, sanguinosamente soffocata il 4 aprile con un feroce e devastante bombardamento della città da parte del cinico La Marmora, che comandava un esercito di sedicimila soldati piemontesi inviati nella città per la repressione. Il bombardamento durò tre giorni e causò la morte di 500 genovesi. Seguirono poi feroci repressioni e tra i numerosi condannati a morte vi fu anche il generale Ramorino, che fu fucilato, come capro espiatorio, il 22 maggio. Con queste atrocità iniziava il suo regno il "re ... galantuomo". Il Papa, nel frattempo, aveva lanciato un appello a tutte le nazioni cattoliche, tranne al Piemonte, per essere restaurato sul trono di Roma. Lo raccolse per prima la Francia di Luigi Bonaparte, che inviò il 25 aprile 1849 un corpo di spedizione a Roma, comandato dal generale Oudinot, facendo credere che ci andava per fare da paciere tra il Papa e il governo rivoluzionario. In realtà Luigi Bonaparte mirava ad essere fatto re e voleva, per questo, assicurarsi il favore dei cattolici di Francia, oltre che eliminare l'influenza del repubblicano Mazzini, che con le sue idee contrastava gli accordi con i Savoia. Intanto anche l'Austria e, successivamente, la Spagna, che stava approntando una spedizione navale, avevano raccolto l'appello del Papa. Napoli, pur se ancora alle prese con la riconquista della Sicilia, inviò il 28 aprile le poche truppe di cui poteva disporre, ma abbondava di cannoni, che dovevano servire per aiutare i Francesi. Al rifiuto del Mazzini ad intavolare qualsiasi trattativa, i Francesi attaccarono Roma il 30 aprile con seimila uomini, ma a causa della mancanza di artiglieria che non consentiva loro di superare le grosse mura, si ritirarono in attesa dei cannoni. A questa battaglia partecipò, tra i rivoluzionari, anche il massone Carlo Pisacane, disertore dell'Armata Napolitana. Nei giorni successivi, invece, tra il 7 e 9 maggio, le truppe napolitane comandate dal generale Lanza e attestate a Palestrina, sgominarono facilmente un attacco di tremila uomini comandati dal massone Luciano Manara. Intanto in Sicilia, dopo una brillantissima campagna militare, elogiata da tutta la stampa estera, il 14 maggio, fu liberata Palermo ed il Filangieri, comandante della spedizione, come da disposizione reale, promulgò l'amnistia per tutti, tranne per i capi della rivolta. Il 15 maggio tutta l'isola era pacificata, esattamente un anno dopo dal giorno della rivolta a Napoli. Alle milizie straniere, polacchi, francesi e nizzardi, che avevano combattuto contro l'esercito napolitano fu concesso magnanimamente di rimpatriare. Successivamente, il 17 maggio, si ebbero dei contrasti con Oudinot, che si era opposto alla presa di Roma mediante l'aiuto di Napoli e dell'Austria, in quanto aveva ricevuto dal Lesseps, deputato dell'Assemblea Nazionale francese, l'ordine di non operare con le truppe del governo napolitano e di quello austriaco, considerati reazionari. Tali affermazioni, indussero lo sdegnato Ferdinando II a spostare le sue truppe nella campagna romana, nella zona di Velletri. Poiché Oudinot aveva fatto da solo un armistizio con la Repubblica Romana, tutto l'esercito repubblicano, composto da undicimila uomini e dodici cannoni, approfittando della tregua con i Francesi, assalí il 19 maggio l'esercito napolitano, formato da diecimila uomini e da quattro batterie di artiglieria. Rosselli, che comandava i repubblicani, credeva di sconfiggere i Napolitani sorprendendoli durante la fase critica del movimento, ma venne violentemente respinto ed ebbe moltissime perdite. Qui c'era anche il Garibaldi che tentò un assalto, ma fu sconfitto dal 2° battaglione cacciatori del maggiore Filippo Colonna. Anche questa volta le bande settarie vennero messe in fuga e lo stesso Garibaldi, sbalzato da cavallo, si salvò a stento. Il 27 maggio sbarcò a Gaeta il contingente spagnolo forte di circa novemila uomini. Cessate le operazioni in Sicilia, furono inviate altre brigate napolitane al comando del generale Nunziante, che si uní il 7 giugno alle truppe spagnole. Mentre Napolitani e Spagnoli provvedevano a liberare i territori a sud di Roma, proteggendo l'ala destra delle truppe francesi, Oudinot riuscí finalmente a entrare in Roma il 3 luglio, ristabilendo il potere temporale del Papa. Anche questa volta Mazzini e Garibaldi riuscirono a scappare. Mazzini si rifugiò a Londra, mentre Garibaldi, rifugiatosi a S. Marino, dopo aver tentato avventurosamente di raggiungere Venezia, s'imbarcò il 16 settembre a Genova per la Tunisia. La sera del 19 settembre 1849 a bordo della regia nave Tripoli, arrivò nella rada di Tunisi. Tuttavia questa volta Ahmed Bey si rifiutò di farlo sbarcare e Garibaldi fu costretto a lasciare Tunisi il giorno dopo, imbarcandosi su un'altra nave diretta verso gli Stati Uniti d'America.
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OBIETTIVO: LE DUE SICILIE

Il Piemonte, nel frattempo, aveva iniziato a concretizzare un piano politico per la conquista del resto dell'Italia, approfittando della Conferenza per la pace fissata in febbraio del 1856 a Parigi. Il 27 marzo il governo piemontese emise una Nota al governo di Francia ed Inghilterra lamentando truffaldinamente la condizione "deplorevole" dello Stato Pontificio e di quello delle Due Sicilie. L'otto aprile, dieci giorni dopo la firma della pace al Congresso di Parigi, d'accordo con Napoleone III, il Cavour fece sollevare pubblicamente la "questione italiana", con una feroce accusa fatta fare dal conte Walewsky (figlio bastardo di Napoleone I) contro il Governo Napolitano e quello del Papa. A tali proclami fece eco, come convenuto, anche il governo di Londra con il Clarendon, che accusò inoltre anche l'Austria di opprimere gli Italiani del Lombardo-Veneto. Al 20 di aprile, per accentuare le accuse, l'emissario francese e l'ambasciatore inglese Lord Clarendon chiesero al Governo Napolitano una larga amnistia per i detenuti politici ed una larga riforma giudiziaria. Alla ferma risposta di Ferdinando, che giustamente ritenne la pretesa una illegittima ingerenza nella sovranità di Napoli, i due governi ritirarono i propri rappresentanti, Brenier e Temple, che lasciarono in seguito Napoli a fine ottobre. Il 4 maggio vi fu un incontro segreto a Parigi tra Cavour e Clarendon per definire l'accordo sulle modalità di invasione delle Due Sicilie. Gli ambasciatori inglesi, James Hudson a Torino e Henry Elliot a Napoli, furono informati dei progetti ed ebbero opportune disposizioni per attuarli. Il 24 maggio gli Austriaci si ritirarono dalla Toscana e lo stesso giorno il Garibaldi rientrò in Italia dagli U.S.A., dove si era rifugiato. In luglio il Cavour iniziò a riarmare occultamente l'esercito e il 13 agosto chiamò segretamente il Garibaldi a Torino, che allora era diventata una vera e propria capitale del terrorismo con circa 30.000 fuorusciti sovversivi di tutti gli Stati. Tra di essi vi erano i massoni La Farina, Paleocapa, Scialoja, De Sanctis, Spaventa, Medici, Pallavicino, Amari, Fanti e Cialdini. In novembre il Mazzini, a proseguimento dell'azione diplomatica francese ed inglese, diede il via a Palermo ed a Cefalú ad alcune rivolte dimostrative, affidandone l'organizzazione al massone barone Bentivegna. Le rivolte, che diedero luogo a saccheggi delle casse pubbliche ed all'assalto alle carceri, si esaurirono praticamente da sole, pur avendo l'appoggio della goletta inglese Wanderer venuta da Malta. L'8 dicembre il Mazzini organizzò un attentato al Re Ferdinando II, facendone affidare l'incarico a un soldato di origine albanese, arruolato nel 3° battaglione cacciatori, Agesilao Milano. Costui, mentre il Re passava in rivista a cavallo i reggimenti schierati sul campo di Marte a Capodichino, uscí dai ranghi e vibrò a Ferdinando un colpo di baionetta, che venne deviato però dalla fondina della pistola. Ferdinando, benché ferito, assistette impassibile fino alla fine della sfilata. Il Milano, sottratto a stento dal linciaggio, dopo essere stato processato, venne giustiziato il 13 dicembre. Il piú accanito sostenitore della pena capitale fu il generale massone Alessandro Nunziante, aiutante di campo di Ferdinando II. Il motivo di tanto accanimento sembra sia stato quello di far chiudere per sempre la bocca del regicida, per paura che questi potesse fare delle compromettenti rivelazioni. Ma il Mazzini non dava tregua al Governo Duosiciliano, organizzando altri attentati. Il 17 dicembre fece esplodere un deposito di polveri situato nell'arsenale a Napoli, ove vi furono diciassette morti. Il 4 gennaio del 1857 fece saltare in aria nel porto di Napoli la fregata a vapore Carlo III, carica di armi e munizioni, causando la morte di trentotto persone. Tutti questi episodi non avevano altro scopo che quello di provocare la reazione poliziesca da parte del Governo borbonico, in modo da avere non solo l'opportunità di screditarlo continuamente di fronte all'opinione pubblica mondiale, ma anche per far apparire alla gente napolitana e siciliana il loro Sovrano come un oppressore del popolo, aiutato in questo dalla stampa massonica. Il truce Mazzini, in seguito, spinse il massone Carlo Pisacane, approfittando della sua ingenua ed esaltata personalità, a tentare uno sbarco in Calabria, dove gli aveva assicurato, con la sua sola presenza, si sarebbe scatenata la rivoluzione. Il 25 giugno il Pisacane s'imbarcò con altri ventiquattro sovversivi, tra cui Giovanni Nicotera e Giovan Battista Falcone, sul piroscafo di linea Cagliari, diretto a Tunisi. Impadronitosi della nave durante la notte, con la complicità dei due macchinisti inglesi, si diresse verso Ponza, dove liberò 323 detenuti comuni, aggregandoli quasi tutti alla spedizione. Il 28 sera i congiurati sbarcarono a Sapri, ma furono assaliti proprio dalla stessa popolazione, che li costrinse alla fuga. Il 1° luglio, a Padula vennero circondati e 25 di essi furono massacrati dai contadini. Gli altri vennero catturati e consegnati ai gendarmi. Il Pisacane ed il Falcone si suicidarono con le loro pistole, mentre quelli scampati all'ira popolare furono poi processati nel gennaio del 1858, ma, condannati a morte, furono graziati dal Re, che tramutò la pena in ergastolo. I due inglesi, per intervento del loro governo, furono dichiarati fuori causa per ... infermità mentale. Garibaldi, poi, fu convocato in Inghilterra per organizzare una piú decisa azione contro le Due Sicilie. Gli inglesi, infatti, erano convinti dall'insuccesso di Pisacane, che senza una destabilizzazione interna, soprattutto da attuare con la complicità dei vertici civili e militari, mai ne sarebbe stato possibile la conquista da parte del Piemonte. Dopo alcuni accordi preliminari con la massoneria inglese, Garibaldi partí da Liverpool con il vapore Waterloo, sbarcando a Staten Island il 30 luglio. A New York fu ospitato in casa del massone Antonio Meucci (prima che questi inventasse il telefono), dove aprí una fabbrica di candele allo scopo di mascherare la sua presenza negli U.S.A., che aveva solo lo scopo di ottenere aiuti finanziari e militari dai nord americani. Il 1° agosto a Torino venne fondata la setta carbonara "Società Nazionale", sotto la presidenza del massone Daniele Manin, che faceva capo al siciliano Giuseppe La Farina ed al lombardo marchese Giorgio Pallavicino, ma a reggerne le fila era il Cavour che agiva secondo le direttive inglesi. Essa aveva il fine di organizzare segretamente azioni terroristiche e di rivolta dovunque fossero necessarie al fine di annettere tutta l'Italia al Piemonte. Ad essa aderirono i piú noti massoni, tra i quali in seguito anche Garibaldi che ne divenne il capo. I principali comitati sovversivi erano a Torino, Genova, Milano, Venezia, Roma, Firenze, Napoli e Palermo, che dipendevano direttamente da Londra e da Parigi. La prima attività, sovvenzionata dagli illimitati fondi massonici, fu quella di plasmare l'opinione pubblica attraverso la pubblicazione di menzogne con il fine di screditare i governi d'Austria, del Papa, del Re delle Due Sicilie e degli altri piccoli Stati italiani. I principali giornali massoni europei di quel periodo erano: Siècle, Presse, Messager, Times, Morning-Post, Unione, Independance Belge. Tali menzogne sono ancora oggi riportate in Italia in tutti i libri di storia e fatte studiare come vere. Nell'anno 1857 in India, dopo che si erano combattute ben otto guerre per impedire il dominio della Compagnia Britannica delle Indie, l'intero popolo indiano si ribellò al ferreo dominio inglese. La rivolta venne spietatamente soffocata nel sangue : milioni di persone furono barbaramente mutilate, assassinate, giustiziate,

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massacrate, migliaia di villaggi furono incendiati e rasi al suolo. In Inghilterra chi decideva queste atrocità era Lord Palmerston, diventato primo ministro, mentre ministro degli esteri era John Russell e ministro per le Colonie era Bulwer Lytton (autore del famoso romanzo "Gli ultimi giorni di Pompei" e che aveva rilanciato il culto di Iside "come supporto ideologico della diffusione della droga"). Il Palmerston in quel periodo aveva organizzato una serie di associazioni segrete e di banche che basavano la loro fortuna su operazioni finanziarie illegali, sul traffico dell'oro, di diamanti e di stupefacenti. Mentre l'Inghilterra "pacificava" l'India, continuando a vendere l'oppio ai cinesi, la Francia occupava Saigon in Indocina. L'India, che prima dell'occupazione inglese era ricca di industrie e di derrate agricole, con un attivissimo commercio, cadde in uno stato di profonda prostrazione economica. La Compagnia inglese delle Indie Orientali, infatti, apportò un devastante capovolgimento nelle condizioni economiche di quel paese con la monopolizzazione del commercio, con il divieto delle industrie e con il fissare d'autorità il prezzo di vendita delle derrate agricole, tanto che la miseria dilagò in quelle campagne un tempo felici. Il Mazzini, intanto, dopo aver diabolicamente plagiati i sovversivi, non sempre riusciva a controllarli. Esemplare fu il caso dell'Orsini, anche lui carbonaro reduce dai moti di Roma del 1848. Costui, infatti, convinto nella sua esaltazione che l'artefice della perdita della Repubblica Romana era stato Napoleone III, la sera del 14 gennaio 1858 lanciò, insieme ad altri tre complici, tre bombe sotto la carrozza di Napoleone III e dell'imperatrice Eugenia, che si recavano all'Opera. I sovrani rimasero incolumi. Gli scoppi provocarono però 8 morti e 150 feriti tra la gente. Tra i complici di Orsini vi era anche un sovversivo siciliano, il massone Francesco Crispi, anche lui in possesso di bombe per l'attentato, ma che non fu scoperto. Il Cavour, consultatosi rapidamente con Napoleone III, fece scrivere una lettera nobilissima che venne attribuita fraudolentemente all'Orsini. Nella lettera, appositamente diffusa in migliaia di copie quale testamento del condannato a morte, costui chiedeva all'imperatore di aiutare l'Italia a liberarsi dagli stranieri. I due compari, il Cavour e Napoleone III, il 13 marzo, si liberarono definitivamente dello scomodo Orsini, facendolo cinicamente ghigliottinare in maniera spettacolare. Il 23 aprile l'Austria intimò al Piemonte il disarmo immediato dell'esercito piemontese, che era stato schierato provocatoriamente lungo le frontiere. L'arrivo il 26 aprile (e quindi già predisposto) delle forze francesi in Piemonte costrinse l'Austria a varcare il 29 aprile il Ticino con un suo esercito, comandato dal generale Gyulai, in modo da attaccare i piemontesi prima che i due eserciti si congiungessero. Ferdinando II dichiarò neutrale il Regno. Intanto i sovversivi si erano scatenati il 26 aprile in Toscana, ove scacciarono da Firenze Leopoldo II. Il Piemonte ne approfittò subito per inviarvi un commissario, il massone Bettino Ricasoli, per "ristabilire" l'ordine e per rapinare le casse pubbliche di 56 milioni, che furono inviati in piemonte "per sostenere la causa italiana". Il 20 maggio vi fu un primo scontro a Montebello tra Austriaci ed i Franco-piemontesi. Dopo la sconfitta di Gyulay il 30 maggio a Palestro, il 4 giugno gli Austriaci vennero sconfitti dai Francesi anche a Magenta e si ritirarono nel Veneto. Le truppe e il comando piemontese durante la battaglia si trovavano a 12 chilometri di distanza dagli avvenimenti e non ebbero nemmeno un ferito. L'8 giugno i Franco-piemontesi occuparono Milano. Il Garibaldi, intanto, rientrato dagli U.S.A, dove era riuscito a trovare gli aiuti richiesti, e fatto generale dal re Vittorio, era calato verso Bergamo con le sue bande di tremila volontari chiamati "cacciatori delle Alpi". L'11 giugno, organizzate dal Piemonte, furono fatte scoppiare, ad opera dei settari massoni che aiutarono carabinieri piemontesi in borghese, delle rivolte a Fano, Senigallia, Faenza e Ferrara. Il 12 a Bologna, Ravenna, Imola e Perugia. La pronta reazione delle guardie e del popolo mise però in fuga verso la Toscana i sovversivi. Il 16 giugno a Napoli il Filangieri, insensatamente concesse una larga amnistia, facendo rientrare nel Regno circa 200 dei piú accaniti cospiratori, che non persero tempo a tessere le loro trame di destabilizzazione. Intanto la guerra tra l'Austria ed i Franco-piemontesi continuava fino all'episodio delle vittorie dei Francesi (non dei piemontesi come falsamente sostiene l'agiografia savoiarda) il 24 giugno a S. Martino e Solferino. Inaspettatamente, però, senza badare al Cavour, Napoleone III firmò un armistizio con l'Austria l'11 luglio a Villafranca, probabilmente perché temeva una invasione dalla Prussia, ma anche perché la Francia non aveva alcun interesse alla creazione di un forte regno ai suoi confini. L'Austria cosí cedeva la Lombardia alla Francia, che la donò al Piemonte, mantenendo il possesso del Veneto. Alla Francia il piemonte dovette rimborsare una parte delle spese di guerra per circa 50 milioni di franchi. Nello stesso luglio i piemontesi inviarono due reggimenti di bersaglieri ed altri "volontari" al comando di d'Azeglio nelle Romagne, ove occuparono Bologna, Ravenna, Forlí e Ferrara, che non erano riuscite a prendere con le rivolte. Anche qui vi furono le solite rapine e fu dichiarato decaduto il potere del Papa. Il commissario piemontese Paoli si appropriò personalmente di 13 milioni di lire. Pio IX inviò numerose proteste alle potenze europee, chiedendo la nullità degli atti dell'Assemblea Nazionale costituita a Bologna e presieduta da Minghetti, ma rimase inascoltato. In Francia, tuttavia, la reazione dei cattolici fu abbastanza forte da indurre Napoleone III a proporre, ma solo per acquietare gli animi, a Vittorio Emanuele la creazione di una confederazione italiana presieduta dal Pontefice. Il 7 luglio, intanto, era avvenuta in Napoli una rivolta di circa 300 soldati svizzeri appartenenti al 3° e 4° reggimento. La rivolta fu rapidamente sedata dagli stessi svizzeri rimasti fedeli. Addosso ai morti ed ai prigionieri furono trovate moltissime monete d'oro. Dalle indagini risultò che erano stati sobillati da emissari piemontesi allo scopo di far mancare la fiducia del Re su questi reggimenti. Contemporaneamente il Cavour aveva fatto pressioni sul governo svizzero per il ritiro da Napoli di quelle truppe. Il Filangieri approfittò dell'incidente (causato appositamente) e fece sciogliere quel corpo militare che sicuramente era la maggior forza operativa dell'Armata Napolitana. In agosto carabinieri piemontesi travestiti sollevarono altre sommosse a Modena e a Parma,

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costringendo alla fuga Francesco IV e Maria Luisa Borbone. Nelle due città si ripeterono le stesse atrocità e ladrocini commessi in Toscana. Anche qui prontamente "l'accorto" Cavour inviò dei rapaci commissari. A Modena arrivò il Farini, che non solo si appropriò della cassa e degli oggetti preziosi, ma finanche dei vestiti del duca. A Parma furono compiuti anche feroci delitti. Nelle due città in pochi giorni furono dilapidati circa 10 milioni di lire. Tutto quanto era di metallo prezioso fu fuso e trasformato in lingotti. La spia piemontese Antonio Curletti, che era stato incaricato dell'operazione, non seppe quale fine fecero quei lingotti, ma i savoiardi accusarono i sovrani scacciati di essere scappati via con l'argenteria e i tesori di Stato. In settembre fu costituita una lega, con a capo Farini, Garibaldi e Fanti, per organizzare un plebiscito truccato in Toscana, Modena, Parma e nelle Romagne per l'annessione al Piemonte. Il Papa protestò, ma le truppe francesi, che erano nello Stato Pontificio per "proteggerlo", non si mossero. A Palermo, il 27 novembre, fu accoltellato il responsabile della polizia per la Sicilia, Salvatore Maniscalco, uomo temutissimo e rispettato da tutti. L'attentatore, un tale mafioso Vito Farina, trovato con seicento ducati d'oro, aveva tentato di eliminare il principale ostacolo ai preparativi per l'invasione garibaldina. Gli inglesi avevano trovato, dunque, i loro alleati in terra siciliana. Il 5 gennaio 1860 Garibaldi, con il consenso del governo piemontese, diede incarico ai massoni Giuseppe Finzi ed Enrico Besana di organizzare una raccolta di Fondi per un milione di fucili. Fu raccolta la somma di oltre due milioni di lire soprattutto presso la borghesia piemontese, che puntava ad impossessarsi del mercato e delle ricchezze delle terre napolitane. Il materiale bellico acquistato fu sistemato nella caserma S. Teresa di Milano. Il 24 gennaio Garibaldi, mentre stava per sposarsi con la contessina Giuseppina Raimondi, fu informato poco prima della cerimonia dal conte Giulio Porro Lambertenghi che la contessina era rimasta incinta dal garibaldino Luigi Càroli. L'eroe, che aveva deciso di sposarsi per "riparare" una "sua" presunta paternità, avuta conferma dalla stessa sposina che era stato cornificato, se ne scappò immediatamente a Genova. A quell'epoca il cornuto Garibaldi, di bassa statura e con le gambe arcuate, era pieno di reumatismi e per salire a cavallo aveva bisogno dell'aiuto di due persone che lo sollevassero. Il giorno 11 marzo si ebbero le farse dei plebisciti truccati in Emilia ed in Toscana, che vennero ufficialmente annesse al Piemonte. Le Romagne erano state già annesse con l'occupazione militare, nonostante la protesta del Papa, al quale venne proposto da Napoleone III di prendere in cambio ... gli Abruzzi, che erano territorio napolitano. Il Filangieri chiese le dimissioni proprio l'11 marzo e Francesco II lo sostituí con il principe di Cassaro, che aveva ottant'anni, il quale nominò ministro della Guerra il generale Winspeare, che ne aveva ottantadue. Poi lo stesso Napoleone propose a Francesco II, che rispose negativamente, di sostituire le truppe francesi con truppe napolitane per la difesa del Papa, in modo da sguarnire di soldati il territorio napolitano. Napoleone III, intanto, manteneva 50.000 uomini in Lombardia per costringere il Piemonte a cedere Nizza e Savoia, che furono poi annesse alla Francia il 24 marzo. Quel giorno, infatti, a seguito degli accordi segreti tra i due governi, furono indetti plebisciti a Nizza e in Savoia per l'approvazione da parte del popolo dell'annessione alla Francia. Il giorno precedente le truppe francesi erano state fatte entrare nelle province per il "controllo" delle elezioni che, abilmente manipolate, risultarono favorevoli all'annessione. Nei bandi per le elezioni, per ancor piú suggestionare il popolo, la parola "annessione" era stata sostituita dal Cavour con la parola riunione.

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L'INVASIONE

Nel frattempo il Garibaldi si incontrava a Genova con Gerolamo Bixio, detto Nino, iscritto con tessera numero 105 alla loggia massonica "Trionfo Ligure", con l'avvocato massone Francesco Crispi, e con numerosi altri avventurieri, con i quali incominciarono a progettare l'invasione della Sicilia, secondo le direttive inglesi. L'Inghilterra, infatti, aveva vari motivi per eliminare il governo borbonico: un primo motivo era l'eccessiva fede cattolica di quel governo, cosí fedele al papa; poi, la continua persecuzione fatta contro le sette massoniche ed, infine, forse, il piú importante motivo, essa vedeva con preoccupata apprensione l'avvicinamento dei Borbone all'impero russo che stava tentando di avere uno sbocco nel Mediterraneo. La situazione politica, inoltre, stava cambiando anche per la prossima apertura del canale di Suez e i porti duosiciliani avrebbero avuto una posizione strategica, tenuto conto anche del fatto che gli inglesi avevano dei forti interessi in Sicilia, non ultimi quelli riguardanti l'estrazione dello zolfo. Marsala sembrava quasi una colonia inglese, tanto che la popolazione inglese era piú numerosa di quella locale. E fu in quei giorni che Garibaldi ricevette dai massoni inglesi di Edimburgo del danaro in piastre turche, pari a una somma equivalente a circa 3 milioni di franchi (che riferito ad oggi avrebbero un valore di molti milioni di dollari). A quella somma avevano contribuito anche i massoni U.S.A e quelli del Canada. L'oro venne custodito dal massone Ippolito Nievo e sarebbe servito poi per "convertire" i generali borbonici alla causa carbonara. Il 10 aprile a Messina, complice l'intendente traditore Artale, sbarcarono Rosolino Pilo, Giovanni Corrao e, poco dopo, il massone Francesco Crispi per "ammorbidire" le reazioni al prossimo sbarco di Garibaldi. I congiurati si recarono presso i capi della delinquenza locale di Carini, Cinisi, Terrasini, Montelepre, S. Cippirello, S. Giuseppe Jato, Piana degli Albanesi, Corleone, Partinico, Alcamo, Castellammare del Golfo e Trapani. In questi paesi si accordarono con "i picciotti" perché accorressero spontaneamente a dare una mano alle camicie rosse dopo lo sbarco. Il 13 aprile vi furono altri moti insurrezionali nelle campagne palermitane per preparare favorevolmente la popolazione all'arrivo di Garibaldi. Il 6 maggio Garibaldi partí con 1.089 avventurieri da Quarto sui vapori Piemonte e Lombardo, concessi dal procuratore della compagnia di Raffaele Rubattino, il massone G.B. Fauché, affiliato alla loggia "Trionfo Ligure" di Genova. Le due navi erano state acquistate con un regolare atto segreto stipulato a Torino la sera del 4 maggio alla presenza del notaio Gioachino Vincenzo Baldioli tra Rubattino, venditore, e Giacomo Medici in rappresentanza di Garibaldi, acquirente. Garanti del debito furono il re Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour per il successivo pagamento, come da accordi avvenuti il giorno prima a Modena con Rubattino, presenti anche l'avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi e che avevano avuto l'incarico dall'Ufficio dell'Alta Sorveglianza Politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio. La spedizione era, dunque, organizzata consapevolmente e responsabilmente dal governo piemontese. I "mille" provenivano per la metà dal Lombardo-Veneto, poi, in ordine decrescente, vi erano toscani, parmensi, modenesi, tra costoro vi erano 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti. Quasi tutti stavano scappando da qualcuno o da qualcosa, spinti soltanto dal desiderio di avventura. Per quanto riguarda le presenze straniere, anche queste spesso depennate dalla storia ufficiale e dai testi scolastici, inglese era il colonnello Giovanni Dunn, cosí come inglesi furono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell'italiano Specchi). Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody. Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La legione ungherese divenne preziosa per l'occupazione della Sicilia e per tante battaglie. La "forza" dei "volontari" polacchi aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i turchi spicca Kadir Bey. Fra i bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza si deve ricordare Wolff, al quale fu affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone. Il giorno 7 Garibaldi arrivò nel porto di Talamone, vicino Orbetello, dove venne rifornito dalle truppe piemontesi, comandate dal maggiore Giorgini, di 4 cannoni, fucili e centomila proiettili. Sbarcarono anche 230 uomini, comandati da Zambianchi, con il compito di promuovere una sommossa negli Abruzzi, ma subito dopo Orvieto, a Grotte di Castro, furono messi in fuga dai decisi gendarmi papalini. L'8 maggio Garibaldi fu costretto a ordinare che tutti rimanessero a bordo, dopo gli episodi di saccheggi e violenze che i garibaldini avevano fatto in Talamone. Successivamente, dopo aver imbarcato circa 2.000 "disertori" piemontesi, carbone e altre armi a Orbetello, scortato dalle navi piemontesi, ripartí il 9 maggio e sbarcò a Marsala il giorno 11. Le due navi garibaldine furono avvistate con "ritardo" dalle navi borboniche. Erano in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il brigantino Valoroso, la fregata a vela Partenope ed il vapore armato Capri. Avvistarono i garibaldini la Stromboli e il Capri. Quest'ultima era comandata dal capitano Marino Caracciolo che, volutamente, senza impedire lo sbarco, aspettò le evoluzioni delle cannoniere inglesi Argus (comandata dal capitano Winnington-Inghram) e Intrepid (comandata dal capitano Marryat), che erano in quel porto per proteggere i garibaldini. Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, venne affondato a cannonate, mentre il Piemonte, arenato per permettere piú velocemente lo sbarco, venne catturato e rimorchiato inutilmente a Napoli.
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[Epilogo]

La nostra narrazione termina qui, perché il resto della storia è noto e la figura di Garibaldi, a questo punto, è abbastanza evidente. Senza entrare nei dettagli, del resto già descritti nei precedenti numeri di Nazione Napoletana, è necessario ricordare le false vittorie di Garibaldi in Sicilia (dovute piú ai tradimenti dei comandanti militari borbonici che all'eroismo garibaldino), le violenze, le rapine e gli assassini commessi dai garibaldini, soprattutto emblematici quelli di Bronte, di cui il Garibaldi fu il principale responsabile. Da ricordare anche lo sbarco avvenuto in Sicilia, subito dopo quello dei "mille", di circa 22.000 soldati piemontesi fatti "disertare" e che l'unica vera battaglia fatta dai garibaldini fu quella sul Volturno, dove solo l'insipienza del comandante borbonico impedí che tutta quella teppaglia fosse spazzata via. Del resto lo stesso savoiardo Vittorio Emanuele, subito dopo il presunto incontro di Teano, indica chiaramente qual era il personaggio, quando scrisse (in francese) al Cavour : "... come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi, sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile, né cosí onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l'affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l'infame furto di tutto il danaro dell'erario, è da attribuirsi interamente a lui che s'è circondato di canaglie, ne ha eseguito i cattivi consigli e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa".

E in ogni angolo delle Due Sicilie gli hanno fatto monumenti, dedicate piazze e strade ...

Antonio Pagano
Direttore di Due Sicilie (già Nazione Napoletana-Due Sicilie). Dal n. 15- 09/1998

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 I NOVANTA GIORNI DI GARIBALDI IN SICILIA
LA PARTENZA DA QUARTO

Il 6 maggio Garibaldi partí con 1.089 avventurieri da Quarto sui vapori Piemonte e Lombardo, concessi dal procuratore della compagnia di Raffaele Rubattino, un tale G.B. Fauché, affiliato alla loggia "Trionfo Ligure" di Genova.

Le due navi erano state acquistate con un regolare atto segreto stipulato a Torino la sera del 4 maggio alla presenza del notaio Gioacchino Vincenzo Baldioli tra Rubattino, venditore, e Giacomo Medici, in rappresentanza di Garibaldi, acquirente. Garanti del debito furono il re Vittorio Emanuele II e Camillo Benso conte di Cavour, come da accordi avvenuti il giorno prima a Modena con Rubattino, presenti anche l’avvocato Ferdinando Riccardi e il generale Negri di Saint Front, appartenenti ai servizi segreti piemontesi e che avevano ricevuto l’incarico dall’Ufficio dell’Alta Sorveglianza Politica e del Servizio Informazioni del presidente del Consiglio. La spedizione era, dunque, organizzata consapevolmente e responsabilmente dal governo piemontese. I "mille" provenivano per oltre la metà dalla Lombardia e dal Veneto, poi, in ordine decrescente, vi erano toscani, parmensi, modenesi. Tra costoro vi erano 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 possidenti. Quasi tutti stavano scappando da qualcuno o da qualcosa, spinti soltanto dal desiderio di avventura e di saccheggi.

Il giorno 7 Garibaldi arrivò nel porto di Talamone, vicino ad Orbetello, dove venne rifornito dalle truppe piemontesi, comandate dal maggiore Giorgini, di 4 cannoni, alcune centinaia di fucili e centomila proiettili. Sbarcarono anche 230 uomini, comandati da Zambianchi, con il compito di promuovere una sommossa negli Abruzzi, ma subito dopo Orvieto, a Grotte di Castro, furono messi in fuga dai decisi gendarmi papalini.

L’8 maggio Garibaldi fu costretto a ordinare che tutti rimanessero a bordo, dopo gli episodi di saccheggi e violenze che i garibaldini avevano fatto in Talamone. Successivamente, dopo aver imbarcato circa 2.000 "disertori" piemontesi, carbone e altre armi a Orbetello, scortato dalle navi piemontesi, ripartí il 9 maggio e sbarcò a Marsala il giorno 11.

LO SBARCO A MARSALA

Le due navi piemontesi furono avvistate con "ritardo" dalle navi borboniche. Erano in servizio in quelle acque la pirocorvetta Stromboli, il brigantino Valoroso, la fregata a vela Partenope (comandata dal traditore capitano Guglielmo Acton) ed il vapore armato Capri. Avvistarono i garibaldini la Stromboli e il Capri. Quest’ultimo era comandato dal capitano Marino Caracciolo che, volutamente, senza impedire lo sbarco, aspettò le evoluzioni delle cannoniere inglesi Argus (capitano Winnington-Inghram) e Intrepid (capitano Marryat), che erano in quel porto per proteggere i garibaldini. Solo dopo due ore il Lombardo, ormai vuoto, fu affondato a cannonate, mentre il Piemonte, arenato per permettere piú velocemente lo sbarco, venne catturato e rimorchiato inutilmente a Napoli. A Marsala parte della popolazione si chiuse in casa, altri fuggirono nelle campagne. I garibaldini, accolti festosamente solo dagli inglesi, per prima cosa abbatterono il telegrafo, poi alcuni si accamparono nei pressi della città praticamente vuota, mentre Garibaldi, temendo la reazione popolare si rifugiò con altri nella vicina isola di Mozia. Il governo borbonico, tramite il ministro Carafa, protestò il giorno 12 a Torino contro quell’inqualificabile atto di pirateria sostenuto dal Piemonte. Cavour dichiarò sulla Gazzetta Ufficiale che il governo piemontese era del tutto estraneo alle azioni dei "filibustieri garibaldini".

Intanto in tutto il Piemonte, con l’appoggio proprio del governo sardo, erano state attivate le società operaie di mutuo soccorso, le dame della Torino bene e altre logge per raccogliere fondi per "l’eroica impresa garibaldina".

LA BATTAGLIA DI CALATAFIMI

Il giorno 13 Garibaldi, entrato in Salemi, dove il barone Sant’Anna aveva affiancato i suoi "picciotti" all’orda garibaldina, si proclamò dittatore della Sicilia. Nel frattempo il governatore Castelcicala spingeva all’azione le forze duosiciliane, comandate dal generale Landi. Costui, con circa tremila uomini ai suoi ordini, inviò da Alcamo il giorno 14 un solo battaglione verso Calatafimi, con l’ordine di non attaccare il nemico e, se attaccato, di ... ritirarsi.

Il maggiore Sforza, comandante dell’8° Cacciatori, con sole quattro compagnie, incontrò il giorno 15 i garibaldini e non poté fare a meno di assalirli. I garibaldini, che ebbero trenta morti, vennero sgominati e tentarono di rifugiarsi sulle colline, ove furono inseguiti dallo Sforza. In quel mentre il generale Landi, invece di inviare altre forze per il completamento del successo, ordinò la ritirata senza neanche avvisare lo Sforza, il quale avendo terminate le munizioni fu costretto a riportare i suoi verso il grosso che si stava incredibilmente allontanando. Ne seguí un caos indescrivibile, un po’ perché la truppa non riusciva a capire il motivo della ritirata, un po’ perché qualche sfrontato garibaldino, tornato indietro, si era messo a sparare sulla retroguardia duosiciliana.

Il giorno 17 il Landi, dopo aver fatto fare inutili giri alle sue truppe, si ritirò incomprensibilmente in Palermo. Ad Alcara Li Fusi i sovversivi scatenarono una violenta rivolta, durante la quale furono depredati ed assassinati molti civili. Garibaldi, per scopi demagogici e per calmare la situazione, decretò l’abolizione della tassa sul macinato e sui dazi.

Il comportamento del Landi fu comprensibilissimo, quando si scoprí che aveva ricevuto dagli emissari carbonari una fede di credito di quattordicimila ducati come prezzo del suo tradimento. La cosa piú incredibile fu che al Landi non fu mosso alcun rilievo e fu solo sostituito nel comando dal generale Lanza.

L’INGRESSO A PALERMO

Il porto di Palermo, intanto, si affollava di navi straniere, tra cui il vascello inglese Annibal che arrivò il giorno 20 con a bordo l’ammiraglio Rodney Mundy. Questi ebbe molti colloqui con il Lanza nei giorni successivi. Lo stesso giorno Garibaldi istituí il "Comitato per il sequestro dei fondi per le esattorie" a cui avrebbero dovuto far capo tutti i sequestri di danaro necessario per alimentare le sue bande.Nel frattempo i continui solleciti di Francesco II per assaltare gli invasori costrinsero il Lanza all’azione. Inviò il giorno 21 due colonne militari, una formata dal 3° battaglione estero, comandata dal maggiore Von Meckel, e l’altra formata dal 9° Cacciatori, comandata dal maggiore Ferdinando Beneventano del Bosco (nella figura a fianco), per un totale di tremila uomini e quattro obici da montagna.

Un primo scontro avvenne verso Partinico, ove circa mille "filibustieri" furono rapidamente messi in fuga dal Meckel. In questo scontro vi morí Rosolino Pilo. Il resto delle bande garibaldine, con lo stesso Garibaldi, si rifugiò sul monte Calvario, due miglia sopra il Parco, ove si trincerò. Il Meckel invece di attaccare subito, aspettò inopinatamente per due giorni l’arrivo d’altre truppe, chieste al Lanza, per circondare completamente i ribelli. Arrivarono, invece, e solo il giorno 23, appena due battaglioni al comando del colonnello Filippo Colonna.

Il giorno successivo, al primo attacco dei borbonici, le orde del Türr si sbandarono e Garibaldi, quasi circondato, fuggí fortunosamente nella notte con il resto verso Corleone.

I garibaldini poi si divisero in due gruppi al quadrivio di Ficuzza, uno con il Garibaldi si diresse per Palermo, ove sarebbero stati sicuramente protetti dal Lanza e dalle predisposte sommosse carbonare, l’altro al comando di Orsini prese la strada per Corleone. Ad inseguire Garibaldi furono i reparti di Von Meckel, mentre le truppe di Bosco inseguirono l’Orsini.

L’Orsini si era attestato con i suoi a Corleone, ove fu immediatamente investito dal Bosco che, con un rapido e violento assalto, disintegrò le bande, eliminandole definitivamente dalle operazioni belliche. Il Meckel, intanto, aveva inviato velocemente parte delle sue truppe con il Colonna a posizionarsi al ponte delle Teste, poco fuori Palermo, per tagliare la strada ai filibustieri.

A Palermo, il Lanza, che aveva lasciate a bella posta praticamente sguarnite le porte S. Antonino e Termini, ordinò al Colonna, che non aveva ancora fatto in tempo a posizionarsi, di entrare in città e di acquartierarsi, cosicché quegli ingressi rimasero difesi solo da 260 reclute.

Garibaldi, rinforzate le sue bande con altri tremila e cinquecento uomini raccolti nella delinquenza siciliana, nella notte tra il 26 ed il 27 maggio assalí Palermo proprio attraverso la porta S. Antonino, prevalendo facilmente sulle poche truppe borboniche. Il quel momento il Lanza disponeva di circa sedicimila uomini, i quali su suo ordine erano stati rinchiusi nei forti di Quattroventi, Palazzo, Castellammare e Finanze. All’ingresso dei garibaldini nella città, le truppe duosiciliane, invece di essere impiegate a massa, furono impiegate a piccoli gruppi che furono facilmente sopraffatti, anche perché disturbati dal cecchinaggio dei sovversivi palermitani.

L’ARMATA DI MARE DELLE DUE SICILIE

Nel porto di Palermo in quei giorni l’Armata di Mare Duosiciliana era formata da quattro fregate a vapore ed una a vela in prima fila; in seconda fila una corvetta a vapore, tre avvisi ed una pirofregata con tre vapori armati; in terza fila dodici bastimenti mercantili.

All’alba del 28 da Napoli giunsero in rada il 1° ed il 2° battaglione esteri inviati da Re Francesco II, a seguito di richiesta dello stesso Lanza. Le truppe erano già pronte per entrare in azione, ma il Lanza le lasciò incredibilmente sui bastimenti fino al giorno 29, quando diede ordine di farle sbarcare e di rinserrarle nel palazzo reale. Nel frattempo a tarda sera del 28 era arrivato il grosso delle truppe del Von Meckel a Villabate, tre miglia distante da Palermo.

Per tutta la giornata del 28, la pirofregata Ercole, comandata dal capitano di fregata Carlo Flores, aveva bombardato la città con i suoi obici paixhans calibro 68, provocando inutili danni. Il giorno 29 vi fu anche una ribellione da parte dei cittadini di Biancavilla contro i soprusi dei garibaldini che si erano acquartierati nella cittadina.

L’Armata di Mare aveva collaborato in modo del tutto inefficace alle forze di terra, limitandosi a scortare i convogli ed al trasferimento di truppe da un porto all’altro. Gli ufficiali erano ormai quasi tutti votati al tradimento, mentre i marinai nella stragrande maggioranza erano rimasti fedeli alla Patria. Nel porto vi erano anche navi piemontesi che impunemente rifornivano i garibaldini di armi e munizioni. Garibaldi, praticamente indisturbato, s’impossessò del palazzo Pretorio, designandolo a suo quartier generale. Poi liberò circa mille delinquenti comuni dal carcere della Vicaria e dal Bagno dei condannati, aggregandoli alle sue bande che assommavano cosí a circa cinquemila persone.

VON MECKEL ATTACCA PALERMO

Le truppe del Von Meckel, dopo essersi organizzate, all’alba del 30 attaccarono i garibaldini, sfondando con i cannoni Porta di Termini ed eliminando via via tutte le barricate che incontravano. L’irruenza del comandante svizzero fu tale che arrivò rapidamente alla piazza della Fieravecchia. Nel mentre si accingeva ad assaltare anche il quartiere S. Anna, vicino al palazzo di Garibaldi, che praticamente non aveva piú vie di scampo, arrivarono i capitani di Stato Maggiore Michele Bellucci e Domenico Nicoletti con l’ordine del Lanza di sospendere i combattimenti perché ... era stato fatto un armistizio. La rabbia dei soldati fu tale che vi furono episodi di disobbedienza con il proposito di combattere comunque nella notte, ma vennero fermati dal colonnello Buonopane per il fatto che "non era finita la tregua" .

Il Garibaldi ed il Türr, insieme agli emissari borbonici Letizia e Chretien, si recarono il 31 maggio sul vascello inglese Annibal, ove, presenti anche ufficiali americani, conclusero i patti dell’armistizio. Il Garibaldi, il giorno dopo, annunciò boriosamente che aveva concesso la tregua per umanità. Tra gli accordi, però, pose come condizione che venisse consegnato al Crispi il denaro del Banco delle Due Sicilie di Palermo e scambiati i prigionieri. I garibaldini si impossessarono cosí di oltre cinque milioni di ducati in oro e argento. Tale somma, che successivamente venne impiegata in parte per la "conversione" di altri ufficiali duosiciliani, fu distribuita ai garibaldini, compresi i capi.

SCONTRI A CATANIA

Il 31 maggio a Catania, i garibaldini, dopo aver fatte molte barricate, assalirono anche alcuni soldati. Comandante di tutte le truppe duosiciliane concentrate a Messina era il maresciallo Clary, il quale, tuttavia, si sentiva le mani legate perché aveva avuto l’ordine dal ministro Pianell di stipulare una convenzione con Garibaldi per l’abbandono della Sicilia da parte di tutte le truppe.

Alla forzata inazione del Clary, reagí di sua iniziativa il tenente colonnello Ruiz de Ballestreros che in sole sette ore sgominò i banditi, liberando Catania. Il giorno successivo, tuttavia, il Clary, costretto dagli ordini del traditore Pianell, fece sgombrare la città, portando tutte le truppe verso Messina, unitamente ai rinforzi comandati da Afan de Rivera. In Sicilia le truppe borboniche presidiavano in pratica soltanto Siracusa, Augusta, Milazzo e Messina. A Catania i garibaldini, entrati nelle casse comunali, s’impossessarono di 16.300 once d’oro, una vera fortuna.

NUOVI SBARCHI PIEMONTESI

Il 1° giugno la nave piemontese Governolo sbarcò a Messina altri agitatori con il compito di organizzare una rivolta antiborbonica sulle due sponde dello stretto. Lo stesso giorno arrivò a Marsala il vapore Utile, che era partito da Genova con un carico di circa 5.000 fucili e relative munizioni. Questo stesso vapore, rientrato a Genova, ripartí il giorno 9 avendo a rimorchio il clipper nordamericano Charles & Jane con a bordo 930 "volontari" del Medici. Alla sera del 10 le navi furono intercettate dalla pirofregata borbonica Fulminante che li rimorchiò a Gaeta, dove arrivò il giorno 11. Il rapido e deciso intervento del console U.S.A. a Napoli, Joseph Chandler, fece liberare le navi, che successivamente furono condotte a Genova. Questi "volontari" ripartirono poi per la Sicilia il 14 luglio con la nave Amazon.

Tutti quelli che venivano chiamati "volontari", erano in realtà soldati piemontesi ufficialmente fatti congedare o disertare, come si rileva dalla circolare nr. 40 del Giornale Militare del Piemonte del 12.8.1861 (per i "volontari") e dalla Nota nr. 159 del G. M. del 5.9.1861 (per i "disertori"), le quali prescrivevano per essi l’iscrizione a matricola della "campagna dell’Italia meridionale 1860 in Sicilia e nel Napoletano". I "disertori", inoltre, vennero in seguito amnistiati "opportunamente" con decreto reale del 29.11.1860.

Ai primi di giugno Garibaldi inviò a Marsiglia Paolo Orlando e Giuseppe Finzi per l’acquisto di tre vapori ribattezzandoli Washington, Oregon e Franklin, sotto bandiera americana. Il contratto d’acquisto venne perfezionato l’8 giugno a Genova presso il console americano W.L. Patterson e vi figurò acquirente un cittadino U.S.A., William de Rohan, che pagò il prezzo in buoni del tesoro piemontesi, coperti da una parte dell’oro rapinato in Sicilia e inviato a Torino.

Il 2 giugno Garibaldi emanò un decreto con il quale autorizzava la divisione delle terre demaniali, assegnandone la maggior parte ai combattenti garibaldini, cioè ai Siciliani che avessero voluto arruolarsi con lui. Il 4 giugno vennero assassinati i capi della rivolta antigaribaldina scoppiata a Biancavilla con la farsa di un processo popolare.

L’ARMATA ABBANDONA PALERMO

L’8 giugno le truppe duosiciliane, composte da oltre 24.000 uomini, lasciarono Palermo per recarsi ai Quattroventi per imbarcarsi, tra lo stupore della popolazione che non riusciva a capire come un esercito cosí numeroso si fosse potuto arrendere senza quasi neanche avere combattuto. La rabbia dei soldati la interpretò un soldato dell’8° di linea che, al passaggio a cavallo di Lanza, uscí dalle file e gli disse "Eccellé, o’ vví quante simme. E ce n’avimma î accussí?" Ed il Lanza gli rispose : "Va via, ubriaco!".

Mentre l’Armata Napoletana procedeva alle operazioni d’imbarco, la Washington e l’Oregon partirono il 10 giugno da Cornigliano, imbarcando circa 2.000 uomini comandati dal Medici, ed arrivarono il 17 a Castellammare del Golfo. L’altra nave, la Franklin, imbarcò a Livorno 838 "volontari" comandati da Malencini, sbarcandoli a Favarotta qualche giorno dopo.

Il 13 giugno il Garibaldi sciolse alcune squadre di volontari siciliani, i quali, resisi conto che è per l’annessione al Piemonte, e non per l’indipendenza della Sicilia, il motivo per cui combattevano, avevano incominciato a ribellarsi. In quegli stessi giorni il Nizzardo fu accettato nella Loggia massonica di Palermo ed in seguito elevato al grado di Maestro e poi di Gran Maestro.

MASSACRI E SACCHEGGI A PALERMO

Il 16 giugno fu il giorno piú atroce per Palermo, dove Garibaldi diede carta bianca alle sue orde che commisero violenze, stupri e saccheggi d’ogni genere. Moltissimi poliziotti e le loro famiglie furono assassinati in modo veramente barbaro e sotto gli occhi dell’indifferente e del tutto consenziente Garibaldi Il 19 giugno terminarono le operazioni d’imbarco delle truppe borboniche che arrivarono nel golfo di Napoli il 20. Il Lanza con il suo Stato Maggiore, per ordine del Re, fu posto agli arresti e confinato ad Ischia per essere sottoposto a giudizio da una commissione militare. Garibaldi, nel frattempo, formato un governo siciliano, ordinò l’emissione di altri buoni del tesoro per quattrocentomila ducati, portando il debito pubblico siciliano a circa sedici milioni di ducati. Furono confiscati tutti i beni ed il danaro del clero, in particolare dei Gesuiti che vennero espulsi.

Nel frattempo, l’accozzaglia di gente al seguito del Garibaldi continuava a scatenarsi con delitti, saccheggi e stupri. Veramente atroci quelli commessi da un certo Mele e dal La Porta, che Garibaldi aveva addirittura nominato ministro della sicurezza pubblica.

LA LEGIONE STRANIERA GARIBALDINA

Furono arruolati numerosi avventurieri francesi, inglesi, tedeschi, ungheresi, polacchi, americani e perfino africani, insomma la feccia giunta da tutte le nazioni. Numerose, infatti, furono le presenze straniere al servizio della spedizione dei Mille, anche queste spesso volutamente dimenticate dalla storia ufficiale e dai testi scolastici. Inglese era il colonnello Giovanni Dunn, cosí come inglesi furono Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell’italiano Specchi). Numerosi gli ufficiali ungheresi: Turr, Eber, Erbhardt, Tukory, Teloky, Magyarody, Figgelmesy, Czudafy, Frigyesy e Winklen. La legione ungherese divenne preziosa per l’occupazione della Sicilia e per tante battaglie. La "forza" dei "volontari" polacchi aveva due ufficiali superiori di spicco: Milbitz e Lauge. Fra i turchi vi era anche il famoso avventuriero Kadir Bey. Fra i bavaresi ed i tedeschi di varia provenienza si deve ricordare Wolff, al quale fu affidato il comando dei disertori tedeschi e svizzeri, già al servizio dei Borbone. Vi fu pure l’apporto di battaglioni di algerini (Zwavi) e di Indiani, messi a disposizione di Garibaldi dal Governo di Sua Maestà britannica.

FRANCESCO II RIPRISTINA LA COSTITUZIONE

A Napoli, il Re Francesco II, fraudolentemente consigliato, decretò a Portici il 25 giugno il ripristino della Costituzione del 1848, con ampia amnistia. Tra i consiglieri favorevoli alla concessione vi furono il Conte d’Aquila e il Conte di Siracusa, zii del Re, che avevano avuto tali suggerimenti da Napoleone III a seguito della missione diplomatica di Giacomo De Martino a Parigi. I contrari furono i ministri Troya, Scorza e Carrascosa. Quest’ultimo anzi affermò che: "la Costituzione sarà la tomba della Monarchia". In occasione del ripristino della Costituzione queste furono le parole di Francesco II: "Desiderando dare a’ Nostri amatissimi sudditi un attestato della nostra Sovrana benevolenza, ci siamo determinati di concedere gli ordini costituzionali e rappresentativi nel Regno, in armonia co‘ principii italiani e nazionali in modo da garentire la sicurezza e la prosperità in avvenire, e da stringere sempre piú i legami che Ci uniscono a‘ popoli che la Provvidenza Ci ha chiamati a governare". Ma la concessione della costituzione fu veramente inopportuna in quel frangente, perché contribuí a creare ancora piú disordine, in quanto permise a molti pericolosissimi fuoriusciti di rientrare nel Regno e di occupare molti incarichi importanti nell’amministrazione del governo.

In quei frangenti l’avvocato Liborio Romano s’incontrò a Napoli nel Palazzo Salza, alla Riviera, con il conte Brenier console francese a Napoli.

Il 26 giugno, ancora su consiglio del suo governo, il giovane re Francesco II stabilí, inoltre, che la nuova bandiera nazionale fosse quella tricolore, rossa, bianca e verde, conservando nel mezzo le armi della dinastia borbonica.

IL PIEMONTE INVIA ALTRE TRUPPE

Nel frattempo, ad iniziare proprio dal 26 giugno, partirono da Genova, La Spezia e Livorno per la Sicilia numerose navi, con una media di una ogni tre giorni, che fino al 21 agosto trasportarono in Sicilia altri 21.000 "volontari" piemontesi.

NASCITA DELLA CAMORRA DI STATO

Francesco II il 27 giugno nominò Capo del Governo Antonio Spinelli, che diede l’incarico di prefetto di polizia al leccese Liborio Romano, già in combutta con la camorra per preparare l’ingresso di Garibaldi in Napoli, cosí come era avvenuto a Palermo con l’aiuto della delinquenza locale.

Fu, dunque, proprio con l’invasione piemontese che la delinquenza fece un salto di qualità, trovando terreno fertile nell’alleanza con la nuova classe politica che si andava affermando soprattutto attraverso le speculazioni. Il conte d’Aquila venne nominato comandante supremo dell’Armata di Mare. Il Ministero della guerra, a cui era preposto l’onesto e anziano Ritucci, venne affidato al generale Giuseppe Salvatore Pianell, che lasciò il Comando Territoriale degli Abruzzi al generale De Benedictis.

Per effetto del ripristino della costituzione, il 1° luglio vennero nominati in ogni provincia nuovi intendenti, quasi tutti massoni .

Il Cavour, intanto, allo scopo di intavolare defatiganti trattative con il governo borbonico, aveva inviato a Napoli il diplomatico Visconti Venosta. Subito dopo, il 3 luglio, si ebbero le prime manifestazioni contro i "galantuomini" e la guardia nazionale a Salerno e ad Avellino, dove significativamente il popolo manifestava al grido di "Viva ‘o Rre Francesco" contro la costituzione.

Per lo stesso motivo anche a Vasto si ebbero violente sommosse da parte di alcune centinaia di contadini armati di sole falci.

IL TRADIMENTO DELL’ARMATA DI MARE

Il giorno 5 luglio il capitano di fregata Amilcare Anguissola, al ritorno da una missione per il trasporto di 800 uomini del 1° reggimento da Messina a Milazzo, invece di rientrare a Messina, proseguí per Palermo, dove consegnò la pirofregata Veloce al contrammiraglio piemontese Carlo Pellion di Persano. Questi la cedette a Garibaldi, che la fece ribattezzare Tuckery, ma su 144 uomini di equipaggio i traditori che aderirono ai garibaldini furono solo 41.

Il Re Francesco, allora, ordinò al capitano di vascello Rodriguez al comando della pirofregata Tancredi di catturare la nave, dandogli di rinforzo altre tre pirofregate, ma il conte d’Aquila fece fallire tale decisione con defatiganti disposizioni.

Nacque da questi episodi di tradimento l’esclamazione tipica dei napoletani: "mannaggia ‘a Marina" che ancora oggi è diffusissima.

COSTITUZIONE DELLA GUARDIA NAZIONALE

In Messina, intanto, si concentravano oltre 24.000 soldati inviati dagli Abruzzi e da Gaeta. Nella parte continentale del Regno, invece, per effetto del ripristino della Costituzione, fu organizzata la Guardia Nazionale in tutti i comuni, formandola con gli elementi liberali piú facinorosi. A causa dell’atmosfera politicamente malsana e dei disordini verificatisi in Napoli, la Regina madre decise di rifugiarsi a Gaeta.

Fino a questo periodo, nel Regno delle Due Sicilie non vi erano stati che trascurabili episodi di delinquenza comune. La marea della delinquenza piú pesante incominciò a montare con l’avvento dei garibaldini. La stessa Sila, che divenne in seguito il perenne ricettacolo del banditismo, fino al 1860 si poteva liberamente percorrere senza tema d’incontrarne.

LA BATTAGLIA DI MILAZZO

Nonostante i ripetuti ordini del Re di inviare truppe verso Barcellona (Messina), dove si erano concentrati 4.000 piemontesi e circa 600 ribelli, il Clary adduceva inutili pretesti per tenere fermi i reggimenti. A Barcellona e a Milazzo la maggior parte degli abitanti abbandonò le proprie case. Alla colpevole inerzia del Clary si oppose Beneventano del Bosco, nel frattempo promosso colonnello, che riuscí ad ottenere un minimo di tre battaglioni del 1°, 8° e 9° Cacciatori per un totale di circa 2.600 uomini per proteggere Milazzo, ma con l’ordine di non attaccare per primo. Il Bosco uscí da Messina il 14 luglio con le sue truppe, dirigendosi verso Milazzo.

A Napoli nel frattempo giunsero il 16 luglio molti agenti provocatori inviati da Cavour allo scopo di fomentare sommosse. Fu cosí che la camorra iniziò a scatenarsi, protetta e addirittura inquadrata nella polizia da Liborio Romano.

Il giorno 17, in Sicilia, vi fu un primo scontro sulla strada costiera per Barcellona, dove furono catturati circa cento piemontesi, trovati con il foglio di congedo in tasca. Ad Archi vi fu un altro scontro vittorioso contro i garibaldini del Medici, che furono dispersi. Radunati tutti i suoi uomini, il Bosco si accinse alla difesa di Milazzo. La decisa azione del Bosco, che aveva respinto una richiesta d’abboccamento, spaventò il Medici che il giorno 18 chiese soccorso a Garibaldi. Costui arrivò il giorno 19 con oltre 4.000 piemontesi, sbarcando a Patti, mentre il Clary, che teneva inutilizzate oltre 22.000 uomini in Messina, rispose negativamente alle pressanti richieste di truppe da parte del Bosco, che era sicuro di poter sgominare facilmente le bande garibaldine.

Il 20 luglio vi fu una cruenta battaglia, dopo la quale i valorosi soldati duosiciliani, che ebbero solo 120 caduti, mentre i piemontesi ne ebbero 780, furono costretti per il mancato invio dei rinforzi, dato il numero preponderante degli assalitori, a ritirarsi nel forte di Milazzo. Eroici, e da ricordare, furono i valorosi comportamenti del Tenente di artiglieria Gabriele, del Tenente dei cacciatori a cavallo Faraone e del Capitano Giuliano, che morí durante un assalto. Il forte, intanto, era mitragliato dalle navi garibaldine, che tuttavia furono tenute distanti per le efficaci cannonate dell’artiglieria organizzata rapidamente dal Bosco.

Un’altra incredibile occasione persa, per la incredibile incapacità militare (o tradimento) del Clary, di sgominare definitivamente le orde garibaldine che si erano tutte concentrate a Milazzo e che, quindi, sarebbero potute essere circondate e certamente battute dalle numerosissime truppe lasciate inoperose a Messina. Questo episodio è la dimostrazione concreta che Garibaldi aveva assaltato Milazzo sicuro che nessuno lo avrebbe assalito alle spalle.

Il giorno 22 fu intimato al Bosco di cedere il forte, ma alla sua sprezzante risposta, Garibaldi si rivolse direttamente al comando dell’Armata di Mare a Napoli. Cosí furono inviate da Napoli tre fregate col colonnello di Stato Maggiore Anzani, che, dopo aver concordato rapidamente una capitolazione del Forte, fece imbarcare le eroiche truppe del colonnello Bosco per trasferirle a Napoli.

DEPRETIS NOMINATO PRODITTATORE

Il 22 luglio, su richiesta dello stesso Garibaldi, sbarcò in Sicilia il deputato piemontese Agostino Depretis, spedito da Cavour in sostituzione del La Farina, con il quale Garibaldi era entrato in forte contrasto. Il giorno dopo, incontratosi con Garibaldi, questi lo nomina Prodittatore con un decreto.

L’ARMATA ABBANDONA LA SICILIA

Il 24 luglio, senza nemmeno aver accennato a combattere, il Clary dichiarava impossibile la "difesa" della città e concordava con il Garibaldi la resa delle truppe, che avrebbero evacuata la Sicilia, tranne per la cittadella militare di Messina. Appresa la strabiliante notizia, vi furono episodi di sommossa di alcuni soldati contro il Clary, che dovette nascostamente fuggire a Napoli.

Il giorno 27, la flotta del siciliano Vincenzo Florio si pose al servizio di Garibaldi per il trasporto delle sue bande lungo la costa siciliana e d’altri "volontari" da Genova. Intanto nel Napoletano avvenivano numerose manifestazioni contro le nuove istituzioni nate dalla concessa costituzione: guardie nazionali e i nuovi esponenti dell’amministrazione.

Furono sgombrate il 28 luglio anche le fortezze di Augusta e Siracusa, dove si recò per l’esecuzione il generale Briganti. La Cittadella di Messina fu affidata al valorosissimo e fedele generale Gennaro Fergola. La guarnigione della Cittadella era formata da oltre 4.000 soldati e 200 ufficiali, che occupavano anche i forti S. Salvatore, La Lanterna ed il Lazzaretto.

I TRADITORI SI RIVELANO APERTAMENTE

Nel frattempo, il 29 luglio, Cavour, dopo aver organizzato con Ricasoli una spedizione di armi e denaro nel Napoletano, ricevette a Torino l’avvocato napoletano Nicola Nisco. Costui gli annunciò che poteva fare pieno affidamento su Liborio Romano, che mediante il controllo sulla polizia avrebbe facilmente fatto sollevare la popolazione al momento opportuno e instaurato un governo provvisorio. Al Cavour consegnò anche una lettera del generale Alessandro Nunziante, che, avendo grande influenza sull’esercito, si dichiarava disponibile a mettere la sua spada ai piedi del sovrano sabaudo. Cavour, ormai sicuro di poter agire all’interno stesso del governo borbonico, diede opportune disposizioni all’ammiraglio Persano. Costui doveva partire da Palermo con la nave Maria Adelaide e recarsi a Napoli, con la scusa di proteggere la principessa sabauda moglie del conte di Siracusa, ma in realtà per mettersi in contatto con il marchese Villamarina, ambasciatore piemontese in Napoli, che aveva costituito una buona rete di agenti incaricati di sollevare disordini al momento opportuno.

ALTRI MASSACRI IN SICILIA

Nell’interno della Sicilia, ormai abbandonata a se stessa, col pretesto di perseguitare i funzionari del governo, molti sovversivi, a cui si erano aggiunti numerosi delinquenti liberati dalle carceri, commisero le piú truci nefandezze. In Trecastagni, S. Filippo d’Argirò e Castiglione, nella provincia di Catania, vi furono efferati omicidi e saccheggi. Cosí pure nella provincia di Messina, a Mirto, Alcara e Caronia, dove i garibaldini e i piemontesi si scatenarono in violenze, omicidi e saccheggi. Furono saccheggiati anche tutti i monasteri, vennero imposte taglie e rapinato ogni genere di vettovaglie.

L’ECCIDIO DI BRONTE

In Bronte, il 1° agosto vi fu il primo esempio di come agivano i "liberatori" piemontesi. A Bronte esisteva la Ducea di Nelson, una specie di feudo di 25.000 ettari concesso da Ferdinando I all’ammiraglio Nelson, come ricompensa per gli aiuti forniti al Reame nel 1799. Alle notizie delle avanzate garibaldine, i contadini insorsero contro i padroni delle terre, aizzati dai settari che, dovendo sollevare comunque dei tumulti, promettevano loro le terre secondo i proclami garibaldini.

Essi insorsero il 2 agosto, commettendo violenze nei confronti dei notabili, saccheggiando e bruciandone le case. Furono uccisi una decina di "galantuomini". Cosicché il 4 agosto furono inviati a Bronte ottanta uomini della guardia nazionale, comandati dal questore Gaetano de Angelis, i quali però fraternizzarono con gli insorti, addirittura consentendo che venissero uccisi nella località detta Scialandro altri quattro "galantuomini".

Garibaldi fu immediatamente sollecitato, con numerosi dispacci, dal console inglese che gli intimava di far rispettare la proprietà britannica della Ducea, e anche perché erano iniziate delle rivolte simili a Linguaglossa, Randazzo, Centuripe e Castiglione, confinanti con le proprietà inglesi. Fu cosí che per non danneggiare gli inglesi, Garibaldi preoccupatissimo inviò il 6 agosto sei compagnie di soldati piemontesi e due battaglioni cacciatori, l’Etna e l’Alpi, al comando di Nino Bixio.

Queste orde circondarono il paese, ma poiché i rivoltosi erano già scappati, Bixio fece arrestare l’avvocato Nicolò Lombardo, ritenendolo arbitrariamente il capo dei rivoltosi e poi facendolo passare anche per reazionario borbonico, mentre invece era stato l’unico che aveva cercato di pacificare gli animi di tutti. Lo stesso giorno 6 agosto Bixio emise un decreto con il quale intimava la consegna di tutte le armi, l’esautorazione delle autorità comunali, la condanna a morte dei responsabili delle rivolte e una tassa di guerra per ogni ora trascorsa fino alla "pacificazione" della cittadina.

Bixio si rivelò in questa vicenda un feroce assassino. Per terrorizzare ulteriormente i cittadini, uccise personalmente a sangue freddo un notabile che stava protestando per i suoi metodi. Nei giorni successivi raccolse piú di 350 tipi di armi e incriminò altre quattro persone, tra le quali un insano di mente. Il giorno 9 vi fu un processo farsa che condannò a morte i cinque imprigionati, che erano del tutto innocenti e che fece fucilare spietatamente il giorno successivo.

Per ammonizione, all’uso piemontese, i cadaveri furono lasciati esposti al pubblico insepolti. Bixio ripartí il giorno dopo portando con sé un centinaio di prigionieri presi indiscriminatamente tra gli abitanti.

La Sicilia, nel frattempo, venne posta praticamente in stato d’assedio dalla flotta piemontese, con l’aiuto delle navi francesi ed inglesi, che effettuarono un blocco dei porti e delle coste, causando il crollo dei commerci marittimi e di ogni altra attività produttiva dell’isola.

NAVI PIEMONTESI A NAPOLI

Nel frattempo, il 3 agosto, una squadra navale piemontese con a bordo circa tremila soldati, agli ordini dell’ammiraglio Carlo Pellion di Persano, era entrata nella rada di Napoli - ove si trovavano già navi francesi, inglesi e spagnole - con la scusa di proteggere la contessa di Siracusa, nata Savoia-Carignano, come ordinato da Cavour. A Napoli era arrivato anche il Nisco che fece appena in tempo a parlare con Nunziante, il quale, essendo stato scoperto del suo tradimento, la sera stessa abbandonò Napoli, facendo perdere le sue tracce. Il Nisco, tuttavia, con l’appoggio del Liborio Romano, riuscí a far sbarcare dal piroscafo Tanaro alcune casse contenenti tremila fucili e relative munizioni, necessarie per la rivolta.

LA SICILIA VIENE ANNESSA AL PIEMONTE

Lo stesso 3 agosto in Sicilia il Depretis, fatto prodittatore da Garibaldi, emanò un decreto con il quale impose lo Statuto piemontese quale legge fondamentale per tutta l‘isola. Venne imposto a tutti i pubblici funzionari di giurare fedeltà a Vittorio Emanuele, pena il licenziamento. Nell’isola intanto la forza occupante era arrivata ad ammontare a circa 36.000 uomini. La maggior parte di essi erano stranieri (vi erano addirittura indiani), circa 18.000 erano "volontari o disertori" piemontesi, qualche migliaio di traditori siciliani. Insomma la feccia dei popoli.

Il 5 agosto il conte di Siracusa, zio di Francesco II, si recò a bordo della Maria Adelaide, dove apertamente (con disgusto degli stessi ufficiali savoiardi) si pronunziò a favore dei Savoia.

PREPARATIVI PER LO SBARCO IN CALABRIA

Nei giorni precedenti lo sbarco di Garibaldi sul continente , nelle Calabrie erano stanziati circa ventimila soldati borbonici divisi in quattro brigate: il generale Ghio in Monteleone (Vibo Valentia), il generale Cardarelli in Cosenza, il generale Marra in Reggio ed il generale Melendez con vari reparti scaglionati nella provincia di Reggio. Comandante di tutte le forze era il generale Giambattista Vial, barone di Santa Rosalia, che senza alcuna ragione militare aveva disseminate le truppe in ampie zone. Successivamente, a seguito di contrasti tra il generale Marra, comandante della 3ª Brigata, che accusava il Vial di incapacità, il Ministro della guerra, il massone Pianell, fece sostituire il Marra con il generale Fileno Briganti, anch’egli massone. Nel frattempo tutte le autorità civili delle Calabrie erano state destituite dal Liborio Romano, che al loro posto aveva nominati esponenti carbonari.

Il 6 agosto Garibaldi lanciò un proclama e incominciò a prepararsi per lo sbarco nelle Calabrie, facendo approntare circa 200 barcacce dietro il Capo di Milazzo per il trasbordo delle sue orde. Il generale Melendez avvisò di questi preparativi il ministro Pianell, che non prese alcun provvedimento.

L’8 agosto circa 150 garibaldini sbarcarono a Cannitello, dove, scambiata qualche fucilata con alcuni soldati borbonici, riuscirono a rifugiarsi nei boschi, protetti da elementi della Guardia nazionale, rivelatisi cosí già ostili.

Il giorno 9 in Sicilia furono imposte le leggi sarde sulla marina mercantile.

Il 12 agosto Garibaldi s’imbarcò sul Washington per recarsi in Sardegna allo scopo di farsi assegnare circa 9.000 uomini, che erano agli ordini del Pianciani, il quale li aveva destinati ad invadere i territori pontifici. Intanto, avvenivano altri modesti sbarchi a Bianco e a Bovalino, mentre le fregate Fulminante e Ettore Fieramosca, che incrociavano quel tratto di mare, ‘non videro’ alcun movimento di battelli. Il comportamento del comandante del Fieramosca, capitano Guillamat, indignò profondamente l’equipaggio, che lo chiuse nella stiva insieme ad altri ufficiali, dirigendo poi la nave verso Napoli. Ma qui gli ufficiali traditori furono liberati, mentre i fedeli marinai furono rinchiusi nel Castel S. Elmo come insubordinati.

Nelle Puglie si ebbero dei moti popolari. Particolarmente gravi furono quelli a Ginosa e a Laterza contro esponenti liberali, verso cui i contadini reclamavano la restituzione delle terre demaniali e l’abolizione della Costituzione.

ASSALTO FALLITO NEL PORTO DI NAPOLI

La notte del 13 agosto, su ordine di Persano, la nave Tüköry, piena di 150 garibaldini al comando di Piola Caselli, partita da Palermo il giorno prima, entrò furtivamente nel golfo di Napoli. Il Caselli, in accordo col capitano massone Vacca, comandante del vascello Monarca, tentò di abbordare quest’ultimo con alcune barche per impossessarsene. Scoperto il movimento dalle sentinelle, che reagirono con un fuoco infernale, una sola barca riuscí a stento a rientrare sul Tüköry che si allontanò approfittando del buio della notte, ma lasciando numerosi assalitori morti.

Il traditore Vacca trovò rifugio sulla nave piemontese Maria Adelaide ferma nella rada. A Napoli, in quei giorni, furono stampati e diffusi apertamente numerosi fogli antiborbonici con evidenti inviti alla rivolta, senza che dalla polizia fosse preso alcun provvedimento .

Il 15 agosto un battaglione di bersaglieri piemontesi fu fatto arrivare segretamente nel porto di Napoli e tenuto sotto coperta per essere impiegato al momento opportuno.

Il 16 agosto in Basilicata, a Corleto Perticara, alcuni settari manifestarono a favore dell’unità d’Italia, contemporaneamente anche a Catanzaro furono organizzate manifestazioni a favore dei garibaldini.

In Potenza, il comandante dei gendarmi, capitano Salvatore Castagna, ebbe da un prete, don Rocco Brienza, l’offerta di duemila piastre e il grado di maggiore se avesse riconosciuto un governo provvisorio rivoluzionario. Per il suo diniego fu poi perseguitato e dovette rifugiarsi tra i monti, unitamente ai suoi gendarmi.

NASCE LA PRIMA RESISTENZA ORGANIZZATA

Il 17 agosto in Sicilia furono emanati dei decreti, come quello del corso legale della moneta piemontese, che in pratica significavano l’annessione dell’isola al Piemonte.

In quel giorno fu ucciso a Pantelleria il collaborazionista Antonio Ribera, comandante della guardia nazionale, della cui morte i garibaldini accusarono i giovanissimi nipoti perché filoborbonici. Questi riuscirono tuttavia a sfuggire ai traditori e formarono da quel momento, unitamente ad altri legittimisti, la banda insorgente dei fratelli Ribera. A causa dei continui rastrellamenti, tuttavia, la banda Ribera dopo qualche tempo dovette lasciare l’isola per rifugiarsi a Malta.

SBARCO IN CALABRIA

Rientrato a Palermo, la sera del 18 Garibaldi fece rotta per Giardini, vicino Messina, sul piccolo piroscafo Franklin, mentre Bixio era sul piroscafo piú grande, il Torino.

Le due navi trasportavano circa duemila uomini provenienti da Genova e che furono fatti sbarcare la mattina dopo sulla spiaggia di Rombolo, presso Melito di Porto Salvo. La località era stata scelta perché alcuni traditori del luogo, i massoni Tommaso Nardella, giudice, ed il sedicente colonnello Antonino Plutino, avevano provveduto a far occupare l’ufficio telegrafico e gli uffici comunali, dove nei giorni precedenti erano state depredate le casse comunali, con alcuni garibaldini sbarcati il giorno 8 agosto. Il comando di quei predoni era stato sistemato nel Casino Ramirez, già approntato dai traditori il giorno prima.

Dopo lo sbarco arrivarono le navi duosiciliane Fulminante e l’Aquila, comandate dal Capitano Salazar. Questi, incontrato il Franklin (battente bandiera americana) che si recava al Faro per chiedere aiuto per il Torino, arenatosi accidentalmente sulla spiaggia, lo lasciò passare, vedendolo vuota (ma a bordo c’era il Garibaldi).

In seguito, visto sulla spiaggia il vuoto Torino, si limitò a incendiarlo ed a cannoneggiare i garibaldini che si erano accampati nella pianura di Rombolo. Garibaldi, avendo udito i colpi da lontano, si diresse nuovamente verso Melito, dove sbarcò per ricongiungersi ai suoi.

Antonio Pagano
Direttore di Due Sicilie. Dal numero di Gennaio 2001


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