Garibaldi, da santo a quasi terrorista
La parabola di un'icona

L'800 adorava il condottiero, ora il dileggio leghista

Sui palazzi si scriveva: «Dormì qui per due ore». E si vendeva la pasta con il suo nome.

Sergio Rizzo, Gianantonio Stella (Corriere della Sera, 24 aprile 2010)

«Così ho trasformato il Sud da terza potenza mondiale in povera colonia italiana: eravamo solo mille... ma siamo stati sufficienti ad arraffare tutto l'oro del Meridione, a smontare le industrie del Sud che davano lavoro a migliaia di operai e a trasferire queste ricchezze al misero Nord». Sono parole messe in bocca a Giuseppe Garibaldi in una cartolina della serie «Garibaldi? No grazie», con tanto di barra di traverso diffusa dai nostalgici del Regno delle due Sicilie.

Direte: questa poi! E quando mai è stato il Mezzogiorno la «terza potenza mondiale »? A metà dell'Ottocento? Davanti o dietro gli Stati Uniti? Davanti o dietro l'impero francese? Davanti o dietro l'impero britannico? E dov'erano in classifica, per dire, l'Olanda che controllava immensi possedimenti coloniali o l'impero ottomano? Uno storico sicuramente non filo-unitario come Mario Costa Cardol ricorda che «nel 1860 il Piemonte contava 803 chilometri di strade ferrate, la Lombardia 202, il Veneto 298, la Toscana 256 (...) e infine veniva l'ex regno napoletano, con 98» peraltro non al servizio dei cittadini ma dei Borboni perché potessero raggiungere più comodamente le sontuose residenze reali di Portici e Caserta? Chissenefrega: abbasso Garibaldi!

Il tentativo di trasformare il protagonista del Risorgimento che all'epoca, secondo lo storico inglese Denis Mack Smith, era «la persona più conosciuta e amata del mondo» in una specie di «delinquente, terrorista, mercenario» (definizione di uno pseudo-saggio che dilaga online) non è nuovo. Basti rileggere I napoletani al cospetto delle nazioni civili scritto da un anonimo e pubblicato senza data né luogo di stampa perché clandestino sotto il nuovo regno d'Italia: «Briganti noi, combattendo in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi, venuti qui a depredare l'altrui? Il padrone di casa è il brigante o non piuttosto voi, venuti a saccheggiare la casa?» Negli ultimi anni, però, c'è stata un'accelerazione.

Che il culto antico di Garibaldi fosse a volte esagerato fino al ridicolo, non si può negare. Il catalogo della mostra «Garibaldi nell'immaginario popolare» curato da Franco Ragazzi e Claudio Bertieri, trabocca di oggetti incredibili: caraffe garibaldine, bottiglie garibaldine, sardine garibaldine, maccheroni garibaldini, ginseng garibaldini e poi spille e poltrone, divani e fermagli, ventagli e statuette di ceramica, bottoni e fazzoletti. Per non dire dei ritratti. Dei busti. Dei monumenti equestri sparsi per le contrade del mondo. E poi film, romanzi, saggi. Nel 1970 lo studioso Anthony Campanella contò non meno di 16.141 libri dedicati all'eroe. Da allora, sarebbero almeno raddoppiati.

Uno lo ha scritto una studiosa genovese, Franca Guelfi. Si intitola «Dir bene di Garibaldi » e raccoglie 155 epigrafi sparse per l'Italia. «Altro che Che Guevara!», commenta nell'introduzione Luciano Cafagna. Alcune sono strepitose. Come quella sul Palazzo Alliata di Villafranca a Palermo: «In questa illustre casa il 27 maggio 1860 per sole due ore posò le stanche membra Giuseppe Garibaldi. Singolare prodezza fra l'immane scoppio delle micidiali armi da guerra sereno dormiva il genio sterminatore d'ogni tirannide ». O quella a Lunano, Pesaro: «Inseguito da orde straniere, sostava qui con la fedele coorte tra l'agguato e l'ansia e gli batteva accanto il cor d'Anita». O quella a Palazzo Grignani di Marsala: «In questa casa per ore sessanta fu Garibaldi, qui nel 19 luglio 1862 la prima volta tuonò o Roma o morte». O ancora quella a Colle di Gibilrossa (Palermo): «Da questa rupe rivolgendosi a Bixio diceva le fatidiche parole, Nino domani a Palermo».

L'eroe dei due mondi, ha scritto Ragazzi, «era visto dal popolo come un santo liberatore. A Palermo era considerato "parente" di Santa Rosa così come a Napoli lo divenne di San Gennaro, in una stampa popolare era raffigurato con un gesto benedicente (...) In un calendario del 1863 era elevato alla gloria degli altari, il busto-reliquiario con tanto di aureola posto su un altare fra baionette, cannoni e munizioni al posto dei ceri. L'epigrafe era vero manifesto dell'anticlericalismo: "figli d'Italia, se asciugar volete / di Venezia e di Roma il lungo pianto / poco v'importi se non canta il prete / queste son le candele, questo è il santo"».

Troppo? Certo che era troppo. Ma è troppo forte anche il passaggio dal peana al dileggio. Sostiene la storica cattolica Angela Pellicciari: «Il suo mito è stato costruito ad arte dalla Massoneria, di cui Garibaldi era illustre esponente. Come del resto il Risorgimento: un fatto massonico contro la popolazione italiana, definita oscurantista perché in stragrande maggioranza cattolica ». Tutto qui? Davvero il Risorgimento può essere liquidato, citiamo a caso Giancarlo Padula, «giornalista, scrittore e cantautore », come «una vera e propria rapina del ricco e colto, all'epoca, Meridione»? Davvero è «normale» che un uomo che perfino il burbero Indro Montanelli trattò con qualche rispetto («S'imbarcò alla chetichella e, delle personalità piemontesi, il solo Persano venne a dirgli addio. La grettezza di Vittorio Emanuele, il livore di Cavour e la meschinità di Farini gli avevano reso, in fondo, un enorme servigio. A confronto di tali ometti, egli sembrava, senza esserlo, un gigante») possa essere liquidato come uno che «si lasciò crescere i capelli perché in Sud America violentò una ragazza che gli mozzò un orecchio con un morso»?

Si è sentito di tutto, in questi anni. Di tutto. Il torinese Mario Borghezio ha tuonato che Garibaldi «è solo una montatura. Mica per altro piaceva tanto a Craxi. Era solo un esaltato innalzato dalla retorica nazionalista. Ma non valeva un'unghia di Emanuele Filiberto». Il catanese Raffaele Lombardo che «è tempo che l'intera nazione prenda coscienza del male che ci ha fatto Garibaldi: l'unità ci ha portato sottosviluppo, immigrazione, e un genocidio chiamato brigantaggio, con gli insorti impiccati, bruciati vivi e denigrati come banditi. La conquista savoiarda ha depredato le casse del Banco di Sicilia e ha impedito la nascita di uno Stato federale sotto il coordinamento di un sovrano, magari del Papa». Il bergamasco Roberto «Pota» Calderoli che certe ricorrenze risorgimentali sono «un lutto»: «L'azione di Garibaldi e dei Savoia ha fatto il male della Padania e del Mezzogiorno che stavano benissimo come stavano». E mentre il sindaco siciliano di Capo d'Orlando spaccava a martellate la targa di Piazza Garibaldi («un feroce assassino al servizio della massoneria e dei servizi inglesi») il bossiano Francesco Bricolo sparava: «Era un traditore, un mercenario, un massone, un nemico della Chiesa, un negriero, un truffatore, un ladro di bestiame e un criminale di guerra ». Quello che dicono i fanatici borbonici come lo «storico» Antonio Ciano, tabaccaio a Gaeta e fondatore del Partito del Sud, che svetta su YouTube con filmati tipo: «Il regno delle due Sicilie e le trame della massoneria », «Garibaldi: eroe o cialtrone?» «La più grande rapina della storia» e così via…

Tutte tesi che hanno sdoganato i blogger. Eccitati al punto da fare un casino pazzesco, come un certo «Salux» che su www.riflessioni.it/forum scrive: «Pio IX definì Garibaldi: “un metro cubo di letame”» No, guardi, fu il contrario. Va ben, che sarà mai… Uno dice una cosa, uno un'altra… Lo storico Mario Isnenghi sostiene che nossignori, non si può fare la storia «fai da te» e che «gli avvenimenti storici si sono svolti in una certa maniera e non in un'altra» e comunque certe tesi vanno provate? Uffa, il solito parruccone...


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