lettera l

Il labirinto secondo Claudio Costa

Studio Leonardi V
Lo Monaco
VILLAGGIO GLOBALE

Stella Lombardo e Cristina Piccardo
Margherita Levo

 

Il labirinto secondo Claudio Costa



I simboli sono immagini numinose che implicano qualcosa che sta di là dall’apparenza. Sono cioè immagini che vanno oltre il loro aspetto figurale perché contengono una vasta quantità di significati altri. 

Immagini quindi come “concentrati di significati”, impossibili da sintetizzare in altri termini.

Perciò una parola o un’immagine è “numinosa” (termine coniato da Rudolf Otto attribuito al sacro e preso in prestito da Jung) quando si riferisce ad una moltitudine di contenuti che vanno oltre al suo mero aspetto letterale o iconico.

Ad esempio il fuoco non è solo la fiamma che brucia ma implica l’ardore, la passione e la vita nella capacità di ardere, scaldare e illuminare, ma anche la morte nella possibilità di incenerire e in questo senso di distruggere. 

I simboli ricorrono spesso nei sogni: l’uomo li usa inconsapevolmente per illustrare quella parte che si esprime sotto alla soglia della coscienza.

Il lavoro di Freud prima, e di Jung dopo, spiega magistralmente la struttura psichica umana governata dai simboli.

Una delle drammatiche caratteristiche dell’uomo moderno, teorizzata dalla psicoanalisi, è infatti quella di sapere di possedere “due nature (altrettanto forti) simili a due personalità all’interno dello stesso individuo quali il conscio e l’inconscio”.

Per leggere la parte d’ombra - quella nascosta ma sicuramente determinata e potente come quella della ragione - viene in soccorso la potenza del simbolo.

Se attraverso la lettura analitica dei simboli concepiti nel sogno è possibile comprendere (in parte) l’attività dell’inconscio, nello stato di veglia i simboli si propongono come chiarificatori ed esplicativi di difficili concetti.

Gli artisti sono grandi produttori di simboli: il loro lavoro sovente è composto di codici simbolici da decifrare e la loro opera si può leggere come metafora visionaria.

Uno tra questi è Claudio Costa che ha teorizzato il valore e l’importanza del simbolo quale imprescindibile mezzo di lettura del mondo.

Il desiderio di diventare artista è nato, per esempio, proprio ammirando un campo di ginestre illuminate dal sole in un mattino di primavera, a Monleone, nella campagna chiavarese. Qui infatti la luce simbolica di questa natura gli profetizza la sua professione: “Voglio illuminare il mondo come la luce di questi fiori illumina la terra…” dice estasiato e l’artisticità diviene per lui un mezzo per illuminare il mondo.

Uno dei suoi primi simboli usati è sicuramente la forma del cervello che visualizza in sé l’immagine del labirinto. I lobi laterali di quest’organo simboleggiano ciascuno un complesso cammino - composto da anse labirintiche - da percorrere prima di giungere all’agognato centro. Che è poi il raggiungimento della conoscenza attraverso un iniziatico e difficoltoso peregrinare. Inoltre il cervello è, per eccellenza, il simbolo della ragione, di quella parte razionale che governa l’uomo e che può condurlo alla (seppur limitata) comprensione dell’universo.

I tratti labirintici delle anse cerebrali, ripiegati su se stessi a spirale, esprimono esemplarmente le allegorie delle difficoltà, dei serpeggiamenti, della confusione, dei vicoli ciechi che il viaggiatore incontra nel difficile cammino della vita. Cammino tortuoso di cui il labirinto ne è il simbolo e che l’eroe deve compiere per raggiungere un importante obiettivo.

Molte leggende narrano di queste presenze paradigmatiche: la più conosciuta è quella dell’eroe Teseo che per uccidere l’uomo-bestia (il Minotauro) deve percorrere un complicato labirinto.

E’ questa una metafora del viaggio, dalla vita alla morte e dalla morte alla rinascita, l’andare in pratica dall’esterno verso il dentro, affondare (morire), e dall’interno verso il fuori, sollevarsi (rinascere).

Ma anche la metafora del trascorrere della vita attraverso prove di crescenti difficoltà superando gli aspetti illusori e secondari del mondo per giungere all’illuminazione o alla conoscenza.

Claudio ha insistito molto sull’uso sapienzale del cervello (simbolo della razionalità e al contempo del faticoso lavorìo del pensiero) da associare a quello del cuore (simbolo dell’istintività irrazionale del sentimento) in modo che l’uno sia equiparato all’altro nel complesso funzionamento sincronico atto a creare “la Maestà dell’uomo”. Secondo il suo enunciato la grandezza e la sapienza dell’uomo (la Maestà) stanno proprio nel saper dosare l’uso del cuore e del cervello, vale a dire dell’amore e della razionalità.

Cuori e cervelli di bronzo e terracotta sono perciò diventati soggetti di molte sue opere.

Esemplari sono anche i tre labirinti che Claudio ha dipinto in Africa (a Malindi in Kenia), sulla sagoma d’una pseudo-pelle d’animale scuoiato (’90), con la terra rossa africana.

Si tratta di un supporto in ferro arrugginito ritagliato a forma di pelle animale su cui ha disegnato tre forme centrali attorno a cui ruotano, circolarmente, brevi segmenti curvilinei secondo un percorso sussultorio e spiraliforme. Tale composizione labirintica è ottenuta con gocce di vinavil su cui è stata fatta cadere “a pioggia” la terra africana e sta forse a significare le complessità e le difficoltà che s’incontrano nell’esplorare terre sconosciute.

Un altro labirinto da lui dipinto è quello dei lobi cerebrali cha fanno ala attorno ad un centro, composto di un favo brulicante d’api: il lavorìo del pensiero è qui metaforizzato dall’incessante attività di questi laboriosi insetti per la fabbricazione della cera e del miele.

Anche qui è messo in luce l’infaticabile operosità di questi insetti (nel labirinto dell’alveare) quali simboli della nascita, morte, risurrezione e regalità.





Miriam Cristaldi


Studio Leonardi V




“Dal non esistente” (mostra a cura di Giovanni Leghissa) all’esistenza, è il filo rosso che collega l’opera degli artisti invitati allo Studio Leonardi V Idea (Piazza Campetto 8 fino al 15 gennaio), partiti da alcune considerazioni fatte dal Leopardi riguardo possibilità di speranza là dove regna desolazione.

Di carattere antropologico è il lavoro fotografico di Gertrude Moser Wagner che prende in esame gli strati di un terreno-discarica in cui i rifiuti si sono trasformati in sostanze nutritive, mentre brani di poesia vengono accostati ad affioranti ciuffi di ginestre.

Stesso motivo nella ricerca fotografica di Elisabeth Woemdl dove accidentati landscape subiscono sanguigni interventi pittorici (soluzioni alla gelatina) per simulare colate laviche e spruzzi di papaveri.

Antonino Bove mostra, con avvincenti strutture plastico-gommose, l’organicità di anse cerebrali quali simboliche forme capaci di originare la “materia viva” del pensiero, ricollegabile a precedenti ricerche condotte sull’<eternità> della sostanza del lievito.

Con Mauro Ghiglione.lo spazio si fa drammatico ed il tempo perde la dimensione lineare: le gigantografie (a distanza di anni ) del volto censurato di due assassini vogliono apparire come obsolete testimonianze che, risorte dall’oblio, possono rigenerare nuova vita attraverso inedite identità.

Miriam Cristaldi





Pubblicato su Repubblica-Il Lavoro il5 gennaio 2002

Lo Monaco

VILLAGGIO GLOBALE

In questo "villaggio globale", termine coniato dal pensatore Mc Luhan che sta a indicare una nuova comunicazione planetaria realizzata attraverso l'uso delle tecnologie più avanzate, noi siamo quotidianamente bombardati da diluvi di immagini digitali, che se da un lato arricchiscono le nostre capacità di segnare e simbolizzare il mondo e ci permettono di conoscere in tempo reale tutto ciò che sta accadendo nell'universo, dall'altro generano comportamenti cognitivi di carattere superficiale in cui non è possibile trovare spazio per una riflessione personale. 

Infatti proprio questi mezzi performativi, causali di immagini elettroniche ininterrotte, impossibili da bloccare, pena la perdita dell'evento visivo in corso, risultano mancanti di pause che possano permettere al "navigatore" del villaggio planetario un'introiezione profonda di tale evento, come invece può avvenire nello spazio temporale della lettura di un libro.

Uno dei mezzi per aiutare a riflettere attraverso immagini che escano da questa logica di "cascata visiva ininterrotta" è quello dell'artisticità con cui alcuni operatori provano a fornire icone fortemente simboliche ed isolate nella loro contesto di unicità.

Nello spazio "Contaminazione" gestito da giovani artisti genovesi e curato da Clarco Giuria, in vico Colalanza 12r, tutti i giorni dalle 14,30 - 19,3O fino a metà marzo, Matteo Lo Monaco e Valeria Di Mito presentano il loro lavoro basato su immagini digitali e fotografiche.

Lo Monaco, nato nel '72, di professione fotografo pubblicitario, unisce la tecnica tradizionale della fotografia a quella digitale del computer: le foto scattate dall'artista, tutte a colori, vengono manipolate con tecniche di sfasamento, di sovrapposizione (con applicazioni di campiture cromatiche), di solarizzazione con risultati effettuali di immagini stranianti e decodificate dal mezzo.

Particolarmente felice è l'opera dal titolo "Marta Castagna", del '99 , in cui uno svelto e al contempo classico profilo di ragazza - dalle preziosità di un Pisanello- si staglia nitido su fondo nero e il cuoio capelluto , con abilissima tecnica computerizzata, appare rivestito da un verde casco di ricci di castagna, capaci di simulare un'ispida capigliatura riccioluta rifacentesi al nome.

Valeria Di Mito, nata nel '63, anche attrice teatrale, presenta opere fotografiche in bianco e nero: il colore viene mortificato per evidenziare il gesto e il segno che costruiscono l'intensità espressiva e formale dei volti stampati, di cui alcuni esempi abbiamo potuto vedere nella selezione dei giovani artisti italiani esposta in "Arti visive 2" a Palazzo Ducale lo scorso anno.

Significative appaiono quelle immagini dove Valeria agisce tra fotografia e pittura gestuale: laddove sulla carta sparge col pennello il liquido per impressionare l'immagine, risultano gestualità permissibili della formazione di frammenti fotografici che interagiscono con le tracce "pittoriche" corrispondenti. In questo senso il processo sperimentale diventa distintivo mezzo arricchente del linguaggio artistico.

Stella Lombardo e Cristina Piccardo,

La fotografia si basa sul procedimento fisico-chimico capace di registrare le immagini proiettate su materiale sensibile alla luce; la luce è quindi fondamentale protagonista di tale operazione. Ma oggi è anche protagonista indiscussa sia dello scenario tecnologico della civiltà elettronica che del panorama artistico visivo.

Infatti, più che mai ora assistiamo a edizioni di Documenta Kassel, a biennali veneziane e alle fiere internazionali d'arte dove la fotografia e il linguaggio luminoso del video ne sono i principali referenti.

Stella Lombardo e Cristina Piccardo, con la mostra a quattro mani "Davanti il mare, dietro la città " (Centro culturale Satura, piazza Stella 8, fino al 8 novembre) si sono, con ragione, appropriate del linguaggio fotografico costruendo immagini scolpite nella luce attraverso sedimentazioni d'ombra. Anzi, entrambi le fotografe d'arte cercano di eliminare i passaggi chiaroscurali e cioè le gradazioni dei grigi, per sparare immagini forti, cariche di tensione e di incisive "presenze", in grado di generare inquietanti chiasmi formali in cui i bianchi accecanti disputano coi neri-velluto.

Stella Lombardo se accentua i contrasti di luce-ombra coi raggi infrarossi per ottenere effetti di sgranatura dell'immagine, al contempo dirige la sua attenzione verso la figura umana, in questo caso alla compagnia genovese della CULM che da generazioni lavora in porto: i dettagli delle merci che caricano i camalli forniscono anche delucidazioni sulla loro provenienza-destinazione mentre gli attrezzi di lavoro denunciano un cambiamento epocale del lavoro stesso; non più basato sulla fatica fisica, bensì sulla tecnologia delle macchine.

Con lo stesso soggetto, ma rivolta alle costruzioni architettonico-impiantistiche del porto, Cristina Piccardo mette a fuoco gli elementi compositivi (orizzontali, verticali , oblique) attraverso dinamiche fughe prospettiche o intricati giochi lineari così da tessere una griglia strutturale affinché forme luminescenti , quasi auratiche, possano stagliarsi, incisive, nell'oscurità spaziale.

Sempre al Centro Culturale Satura si è contemporaneamente inaugurata la personale del pittore ligure Guido Morelli in cui leggere e delicate immagini floreali, o silenziosi paesaggi dai toni sommessi, vengono assorbiti da una luce diffusa, capace di rievocare certe modulate e vibratili atmosfere morandiane. Una pittura, questa, dalle cromie morbide, dolci, brumose, ora asciutte ora più dense, evocatrici di una dimensione spirituale, di armonie interiori e che, spiega Eleonora Belli, "...rappresenta l'idea, l'essenza d'un pensiero, di uno stato o di un dialogo che agita il cuore...".

Miriam Cristaldi


Margherita Levo

Margherita Levo è un'artista che preferisce creare spazi e itinerari visivi nuovi da attraversare per gestire condizioni percettive che alludano ad ambienti assoluti, piuttosto che programmare di riempirli con oggetti: tale processo mette in scena nuove rappresentazioni in cui la realtà assume differenti codici di lettura, uscendo dai campi dell'immanenza e della finitezza per entrare in quello del possibile, del virtuale e del simbolico.

Molti suoi lavori sembrano indagare il conflitto esistente nei rapporti tra interiorità ed esteriorità, tra materialità e trascendenza, tra sanità e malattia, tra vita e morte dove ciascun osservatore può intervenire con una personale soluzione.

In questa mostra intitolata "Traduzioni", realizzata con Sandro Pastorino al circolo culturale Leonardi V _ Idea (piazza Campetto 8, fino al 20 marzo), curata da Marisa Vescovo, entrambi gli artisti lavorano nel principio della riduzione oggettuale per favorire campi allargati di indagine in cui l'ambiente sfonda nella dimensione di algida epifania che svela e ri-vela spazi percettivi ridefiniti . In questo senso si scoprono suggerimenti per chi vuole partecipare alla rivelazione dell'opera.

Il lavoro di Margherita Levo intitolato "La stanza dei bottoni", risulta particolarmente significativo nella realizzazione di quel "particolare" in cui uno spazio illusorio viene "incorniciato" da lesene di stucco, capaci di aprire uno scorcio di spazio attraverso effetti ottico-percettivi: infatti il pavimento "virtuale" di tale sito è ricavato da uno specchio triangolare riflettente il pavimento "reale" della galleria.

Nell'alzato di questo ambiente un grande bottone (ricostruito con materiale radiografico), banale oggetto d'uso quotidiano, campeggia isolato sulla parete bianca, richiamandone altri sparsi nell'area circostante. Nasce così una fulgida metafora della "porta-bottone" -a forma di cerchio come simbolo della sfera celeste - quale soggetto/oggetto capace di schiudere o bloccare accessi che possono condurre all'"interiorità" dell'essere umano" per procedere, in un secondo momento, in un percorribile processo d' illuminazione.

Attraverso varie tecniche di distorsione, Sandro Pastorino interviene su forme primarie ed oggetti industriali contraddicendoli nella loro stessa costituzione per far sì che il frammento smentisca l'intero, la precarietà le certezze, allo stesso modo come il particolare si oppone all'universale.

Nel disordine del cosmo, l'artista cerca un ordine, ma la ragione è continuamente perforata dall'accidente della casualità così come l'immanente evoca il trascendente e il profano ciò che è sacro.

Nel grande lavoro a parete intitolato "Quadrato bianco", dagli evidenti richiami all'azzeramento formale compiuto da Malevic, Pastorino usa l'oggetto industriale dei bastoni da tenda, dipinti di bianco, posti parallelamente in orizzontale , entro cui si dispongono verticalmente altri bastoncini più piccoli , in modo da comporre visivamente la forma del quadrato. Nella purezza delle forme, nella geometria delle soluzioni , nei giochi ottici prodotti dall'intersezione delle ombre, si possono riscontrare chiari riferimenti a Malevich, a Mondrian e alle ricerche visive optical, ma queste ascendenze vanno a braccetto con il pensiero duchampiano in cui l'oggetto tolto dal contesto assume altre connotazioni: come nella rarefatta e selettiva operazione compiuta dall'artista genovese in questo spazio espositivo.








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