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domela

di mito

Gillo Dorfles

Giulio De Mitri

dal 500 al 900

 

dal 500 al 900

 

Con “Viaggio in Italia – un corteo magico dal Cinquecento al Novecento” si è inaugurata venerdì scorso, nei labirintici spazi di Palazzo Ducale, un’imponente mostra (corredata da un magnifico catalogo Electa, in b.n. e colori) che contempla cinque secoli di vita caratterizzati da vizi e virtù, miserie e grandezze, testimoniati da eccezionali dipinti, sculture, manoscritti e libri, in tutto circa ottocento opere.

Una mostra che si sviluppa in tortuosi e oscuri passaggi a tunnel (con pareti dipinte di nero) in cui non è facile godere di una piena illuminazione. Effetti voluti probabilmente per suscitare teatralità e incroci di sguardi che si attivano tra l’osservatore e quelli dei ritratti dipinti (emergenti dal buio) stimolando così una ricerca personale, avviata in segretezza, sulle informazioni, ritratti, dati e materiali vari in esposizione (vi è pure una ciocca di capelli di Lucrezia Borgia) per scoprire via, via, efferatezze e grandi eventi, bellezze e orrori che costituiscono il palcoscenico su cui si esibiscono attori, comparse, demiurghi, scrittori e grandi artisti del passato.

Mostra d’arte, dunque, che non vuole però collocarsi nella norma ma, a detta dei curatori Giuseppe Marcenaro e Piero Boragina, si sviluppa secondo un lungo racconto, una ricca narrazione storica dove ciò che è successo tanto tempo fa diventa premessa inscindibile per capire gli sviluppi del contemporaneo e il “senso del nostro tempo”.

Per questo motivo è affidato agli scrittori il compito di introdurre argomentazioni storiche, iniziando proprio da Montagne, sceso in Italia nel 6° secolo alla corte dei Medici, inizialmente per curare i suoi calcoli renali. Con “gli occhi” dello scrittore i visitatori potranno partecipare alle feste medicee e assistere agli spettacoli delle compagnie di teatranti di allora.

Scenderanno da noi altri scrittori, tra cui Goethe, amico della pittrice Angelica Kauffmann che gli farà da guida; tranquilla ma ricca di rimpianti è la Roma di Chateaubrian, ove egli frequenterà lo studio del Canova.

I poeti inglesi Giorgio Byron e Percy Shelley scenderanno invece in Liguria: il secondo vi troverà la morte qui rappresentata da uno splendido dipinto col funerale sulla spiaggia di Viareggio.

Anche Dickens, come Flaubert, s’ispirerà per i suoi racconti a Genova, trascorrendovi un lungo periodo di vacanza, mentre Henry James sceglierà Firenze dove vi ambienterà il suo “Ritratto di signora” e potrà appassionarsi all’opera di Tiziano e Botticelli, ammirati alla galleria di Palazzo Pitti.

Venezia di fine ottocento affascinerà Browwning e James (giunto da Firenze) che parteciperanno a feste grandiose sul Canal Grande riuscendo inoltre a cogliere la travolgente bellezza della pittura di Bellini, Tintoretto, Veronese e Carpaccio. Quel Carpaccio che diverrà il mito di un altro scrittore: Marcel Proust, cantore dello struggente fascino lagunare.

L’aspetto magico-evocativo di questo “lungo Viaggio” viene perciò affidato a quei dipinti capaci di “… promanare l’aura del tempo, che si proietta oltre i tempi, in un continuo rimando di riflessi…specchi di memoria in cui si è fissata un’epoca”.

Eccezionali, sia per numero che per qualità, sono infatti i dipinti esposti, in grado di fornire una complessità di emozioni coinvolgenti diverse categorie mentali.

Tra gli altri, si evidenziano in particolare le splendide coppie di ritratti eseguiti da Raffaello, il celebre ritratto del cardinale Bembo dipinto dal Tiziano, quello fiammeggiante del Pontormo, i precisi disegni di Michelangelo, le algide e classicissime sculture del Canova, il malinconico, dolce personaggio dal capo reclinato del Giorgione, i dipinti del Bronzino, Rubens, Velasquez, Van Dyck, i “Cappuccini attorno al fuoco” del Magnasco, il grandioso S. Sebastiano di Guido Reni, la mobile Vergine col Bambino del Carracci, il bucolico paesaggio di Corot, fino a giungere alle delicatissime nebbie di Turner.

Divisa in 14 sezioni, la prima della mostra è dedicata alle corti italiane del Cinquecento in cui appunto - attraverso la processione dei personaggi dipinti - è possibile comprendere quell’universo fatto di gloria e di conquiste, di tradimenti e di veleni che hanno intessuto le trame della storia, raccontata anche dagli scrittori stranieri che l’ hanno saputa degnamente immortalare.

Come ad esempio Goethe, che di Napoli ha descritto le personalità in vista del tempo: il vulcanologo Sir Hamilton, ambasciatore d’Inghilterra, con la bellissima moglie (amante di Nelson), divina musa di artisti, cortigiana e avventuriera. In questa città il ”poeta di Weimar” è rimasto affascinato dalle fiamme del Vesuvio (visibili in dipinti in mostra), innamorandosi soprattutto della bellezza della natura e -spostatosi in seguito in Sicilia – andrà poi alla ricerca della “pianta originaria” da cui trarrà la discendenza del regno vegetale.

Agitato invece il viaggio del marchese De Sade che, inseguito dalla polizia francese, giungerà in Italia per comporre una specie di diario in cui elencherà molte opere d’arte. Tra queste, rimane incantato da alcuni dipinti del Caravaggio, Guido Reni, Domenichino così a “…sottolineare una passione che lo induceva verso la contemplazione di opere di forte sensualità”.

Nella terza sezione troviamo il pittore Rubens che da Mantova arriva nella nostra città: qui scoprirà i severi e aristocratici palazzi di via Garibaldi e del centro storico che raccoglierà nel libro “I Palazzi di Genova” sollecitando i suoi concittadini di Anversa a fare altrettanto.

A illustrare ciò stanno i ritratti che egli ha dipinto di Nicolò Pallavicino e Ambrogio Spinola in cui, nella perfezione delle vesti, si stagliano morbide mani e volti luminosi dagl’intensi sguardi.

Questa grande mostra, nata da un progetto comune dei curatori e realizzata nel tempo di qualche anno, non è stata pensata per il G8 ma, di fatto, ne diventa il fiore all’occhiello: essa considera -attraverso la rarità degli scritti dell’epoca e dei manoscritti di Machiavelli, Guicciardini, Ariosto, Aretino, Bembo, Tasso - le tradizionali corti di Ferrara, Mantova, Parma e Piacenza, Roma, Firenze, Genova, Venezia, Milano e Urbino ed è rappresentata da opere giunte dai più importanti musei del mondo.

La mostra, da non perdere, si concluderà il 29 luglio 2001 e sarà accompagnata da una serie di manifestazioni collaterali nelle specificità di percorsi guidati (anche in battello con letture e interventi recitati), concerti, attività didattiche, conferenze, seminari.





Miriam Cristaldi
Giulio De Mitri





La poesia del frammento, il frammento della storia, la sfibrata stratificazione della materia pittorica che Giulio De Mitri fa interagire con altra materia, sono le costanti care all’artista che oscilla nel dualismo trasformazione/conservazione per sottolineare il meccanismo di difficili processi cognitivi: ora oscillanti nella direzione simbolico-sacrale (di natura mentale), ora in quella corporale (di natura fisica).

Legni, pietre, schegge di vetro, fili d’oro, piume, reliquie del passato, scarti di una cultura materiale, segnano lo scorrere di un tempo antropologico nella dimensione d’una spazialità percepibile come deriva di un trascorso da superare nella condizione di ultima frontiera, di ultima conseguenza, per poi entrare in un’atemporalità dove l’agire diventa meditazione, spiritualità.

Per questo - nel lavoro appartenente alla collezione “Franco Spaggiari” - la forma arcuata di un’icona al nero si fa sacrale supporto di friabili sedimentazioni cartacee (interagenti col derma pittorico) su cui spiccano due tronchi lignei: qui il richiamo alla natura si fa simbolo di una sospensione in grado di alitare sul presente l “anima mundi”, quell’essenza che è sorgente di vita e che si pone come allegoria della ricostruzione di qualcosa che si è perduto e che si è ritrovato.

Un lavorare, quello di De Mitri, che se tende ad evidenziare un’esperienzialità dolce (morbidità piumate, gonfiori d’ovatta, turgidità cartacee…) sa anche visualizzarne una amara (lame vitree, chiodi, ferraglie arrugginite…) nel tentativo di incarnare l’eterna oscillazione esistente tra gli opposti, speculazione che concerne il tema della dualità come l’alternarsi della luce e ombra, sacro e profano, reale e virtuale, vita e morte.

Questo, attraverso un’operosità tattile suggestiva che si ripropone anche nel Libro, posto in centro ai piedi dell’opera, quale elemento oggettuale comune, capace però di suggerire contenuti singolari.

La scarsa ricerca dell’effetto, un poverismo di base, le tonalità ctonie, la naturalità delle paglie, abbinati a un sottilissimo raffreddamento del reale (con la sofisticata azione dell’ordine compositivo), tutto conduce a un passaggio linguistico, a una liaison che collega l’artista ai luoghi dell’infanzia (la campagna tarantina) con una riflessione su se stesso, sul contesto in cui si è formato e sulla cifra antologica, che è poi la sua carta d’identità.





Miriam Cristaldi
Gillo Dorfles



QUATTRO ELEMENTI NELL’OPERA DI CLAUDIO COSTA





Un’opera criptica – e al tempo stesso solare – come quella di Claudio Costa non poteva trovare un’esegesi piu’ limpida e partecipe di quella che Miriam Cristaldi gli ha dedicato nel volume ‘Claudio Costa attraverso i quattro elementi’.

Terra, acqua, aria, fuoco, sono appunto indissolubilmente alla base d’ogni ricerca alchemica e l’artista se ne e’ valso sin dagli anni ’69, nella costruzione di opere – anzi di espressioni – che sfociano sempre in una complessa presenza di materiali appartenenti ad ognuno dei quattro elementi, identificabili per l’affinità della loro sostanza con quella trasfigurata dall’operazione artistica.

E, davvero, chi legge e mediti le pagine dedicate dall’autrice al racconto di come gli elementi primordiali s’incarnino nei materiali – spesso ‘trovati’, anzi ‘cercati’ – dall’artista, non può non rimanere colpito per il fatto che quasi sempre – una volta ultimati – questi lavori assumano una perentorietà che solo attraverso un ‘opus magnum’ (recondito forse allo stesso autore) poteva realizzarsi.

Miriam Cristaldi analizza con molta efficacia e anche molto pathos, le diverse fasi di questo lavoro: quella soprattutto appartenente ai periodi dedicati all’aria e al fuoco (che vanno dall’85 al ’95, anno della scomparsa dell’artista) e – proprio per la sua partecipazione alle diverse fasi lavorative – e’ in grado di dare alle stesse un quadro , non solo minuziosamente descrittivo, ma anche esemplicativo dell’impegno e della capacità euristica con la quale Costa riusciva a ‘inventare’ (nel senso etimologico del ‘trovare’) i materiali spesso nascosti e segreti sui quali lavorare.

E’ cosi’ che viene descritta la ricerca di brandelli perduti nei casolari liguri, oppure l’installazione di opere concluse negli ambienti espositivi e viene chiarita la ragione per cui l’operazione dell’artista assume sempre la qualita’ di un processo misterioso – e forse misteriosofico – ma decisamente ‘reale’ e materico nella sua definitiva incarnazione.

Il libro, in definitiva, costituisce un indispensabile strumento ermeneutico per chi voglia accostarsi alle difficili opere di Costa senza rimanere sconcertato dalla loro cripticità e imparando per contro a capirne - e a ‘viverne’ - l’intima e misteriosa qualita’ espressiva.



di mito

VILLAGGIO GLOBALE

In questo "villaggio globale", termine coniato dal pensatore Mc Luhan che sta a indicare una nuova comunicazione planetaria realizzata attraverso l'uso delle tecnologie più avanzate, noi siamo quotidianamente bombardati da diluvi di immagini digitali, che se da un lato arricchiscono le nostre capacità di segnare e simbolizzare il mondo e ci permettono di conoscere in tempo reale tutto ciò che sta accadendo nell'universo, dall'altro generano comportamenti cognitivi di carattere superficiale in cui non è possibile trovare spazio per una riflessione personale. 

Infatti proprio questi mezzi performativi, causali di immagini elettroniche ininterrotte, impossibili da bloccare, pena la perdita dell'evento visivo in corso, risultano mancanti di pause che possano permettere al "navigatore" del villaggio planetario un'introiezione profonda di tale evento, come invece può avvenire nello spazio temporale della lettura di un libro.

Uno dei mezzi per aiutare a riflettere attraverso immagini che escano da questa logica di "cascata visiva ininterrotta" è quello dell'artisticità con cui alcuni operatori provano a fornire icone fortemente simboliche ed isolate nella loro contesto di unicità.

Nello spazio "Contaminazione" gestito da giovani artisti genovesi e curato da Clarco Giuria, in vico Colalanza 12r, tutti i giorni dalle 14,30 - 19,3O fino a metà marzo, Matteo Lo Monaco e Valeria Di Mito presentano il loro lavoro basato su immagini digitali e fotografiche.

Lo Monaco, nato nel '72, di professione fotografo pubblicitario, unisce la tecnica tradizionale della fotografia a quella digitale del computer: le foto scattate dall'artista, tutte a colori, vengono manipolate con tecniche di sfasamento, di sovrapposizione (con applicazioni di campiture cromatiche), di solarizzazione con risultati effettuali di immagini stranianti e decodificate dal mezzo.

Particolarmente felice è l'opera dal titolo "Marta Castagna", del '99 , in cui uno svelto e al contempo classico profilo di ragazza - dalle preziosità di un Pisanello- si staglia nitido su fondo nero e il cuoio capelluto , con abilissima tecnica computerizzata, appare rivestito da un verde casco di ricci di castagna, capaci di simulare un'ispida capigliatura riccioluta rifacentesi al nome.

Valeria Di Mito, nata nel '63, anche attrice teatrale, presenta opere fotografiche in bianco e nero: il colore viene mortificato per evidenziare il gesto e il segno che costruiscono l'intensità espressiva e formale dei volti stampati, di cui alcuni esempi abbiamo potuto vedere nella selezione dei giovani artisti italiani esposta in "Arti visive 2" a Palazzo Ducale lo scorso anno.

Significative appaiono quelle immagini dove Valeria agisce tra fotografia e pittura gestuale: laddove sulla carta sparge col pennello il liquido per impressionare l'immagine, risultano gestualità permissibili della formazione di frammenti fotografici che interagiscono con le tracce "pittoriche" corrispondenti. In questo senso il processo sperimentale diventa distintivo mezzo arricchente del linguaggio artistico.

domela

Il movimento d'avanguardia De Stijl, detto anche neo-plasticismo, fondato da Mondrian e Van Doesburg nasce ufficialmente in Olanda nel 1917 in contrapposizione alle violenze irrazionali della prima guerra mondiale e come testo teorico che condanna le azioni di potere e di sopraffazioni della cultura tedesca. 

Rientra nellle sue intenzioni il desiderio di evitare contaminazioni con i germi nazionalisti e di esprimere forme "pure" con nuove teorie sulla "geometria nello spazio" riportando l'arte al punto zero. 

Nel 1924 entra nel gruppo anche Cesar Domela, artista nato ad Amsterdam (1900, 1992), che qui ha compiuto i primi passi verso la geometrizzazione per uscirne l'anno seguente e intraprendere una personalissima strada : quella di rappresentare la terza dimensione ovvero la profondità servendosi del collage attuato con materiali industriali accostati a forme elaborate del disegno.

In occasione del 3O° anno di attività, la galleria Martini & Ronchetti dedica a questo artista una preziosa e rara esposizione composta da 50 opere realizzate tra il '34 e il '92, con relief, gouache, collage, fotomontaggi e disegni (Via Roma 9, fino a tutto febbraio).

Cesar Domela alle forme geometriche pure introduce una libera geometria basata sulla circolarità della linea veicolando così un processo dinamico estraneo alla staticità del neo-plasticismo. Ai colori fondamentali preferisce una meditata elaborazione delle varie cromie; realizza superfici pittoriche con speciale materiale cartaceo così da evidenziare complesse texture cromatiche in virtù della loro stessa pregnanza plastico-ambientale. 

Secondo questi intendimenti di pensiero nessuna forma esiste in sé a priori, ma nasce con l'atto del mettere insieme, del costruire. Importantissimi sono i progetti eseguiti a tavolino prima della realizzazione dell'opera.

Su scala ridotta nascono scioltezze formali saldamente strutturate nella griglia sintattica.

Le forme possono avere una loro "psicologia" come oggetto in uno spazio architettonico, uno spazio da considerare a misura d'uomo. Ciò non toglie che la linea curva, sovente intrecciata con la geometria tagliente del triangolo, si slanci sinuosa in espansioni per poi richiudersi implosiva generando risucchi ed estoflessioni nel campo visivo-percettivo.

Sovente alla linea, al piano e al colore si sovrappongono interattivi gli elementi della costruzione, i materiali industriali che costituiscono il volume, l'ossatura dell'opera.

Diverse generazioni di artisti si sono riferiti alle opere di Domela, ad es. A. Gallatin, G. Morris o ancora C. Biederman negli Stati Uniti, prima del '39. 

Dopo il '45 sia gli artisti sudamericani del gruppo MADI che le nuove generazioni di artisti europei quali N. De Stael e J. Deyrolle attingeranno a queste esperienze. Oggi eccellenti personalità artistiche tra cui John Armleder con mobili fissati a parete secondo specifici schemi mentali e Richard Deacon dalle grandi , essenziali forme curvilinee realizzate con materiali industriali si dichiarano figli di tale maestro.



Miriam Cristaldi



In concomitanza con la mostra antologica "L' ordine rovesciato delle cose" inaugurata a Villa Croce e dedicata alla figura di Claudio

 

delle piane

Col titolo "Beppe Dellepiane, Metafore, metonimie, trasmutazioni" si è inaugurata al museo di Villa Croce (fino al 13 settembre) la mostra antologica, con opere dagli anni '60 ad oggi, dell'originale artista genovese nato nel '37 a Bolzaneto.La curatrice Sandra Solimano.ha organizzato con precisione e competenza l'esposizione corredata di bel catalogo a colori e b. n. edito Schira.

Di natura schivo e appartato, ironico e dissacratore, al limite dell'ingenuità, Dellepiane è stato nella vita particolarmente provato da vicissitudini familiari che lo hanno costretto dall''84 in poi a non esporre più pubblicamente e a vivere un lungo periodo di isolamento e di riflessione.

Solo da poco ha realizzato una superba serie di disegni , sciolti e disinibiti, con figurazioni arcaicizzanti alle soglie di un graffitismo rupestre, reso col lucido da scarpe raschiato da spazzole metalliche.

Beppe Dellepiane è sicuramente un personaggio inconfondibile, un navigatore solitario nel panorama artistico ligure: pur rivelando evidenti parentele con massimi artisti contemporanei come Duchamp, 

Rauschenberg, Beuys, Christo, Manzoni, Burri, Kosuth e col ligure ligure Scanavino (i suoi catrami) è riuscito, con una certa grevità d'espressione, a comporre un immaginario viscerale di natura fortemente espressionistico nell'ambito dell' universo pop. Si è servito di un linguaggio poverista che seleziona oggetti naturali o industriali estratti dal loro contesto abituale per diventare forme simboliche ricche di valenze evocative.

Epifaniche sono le installazioni che l'artista ha realizzato negli anni '7O - '80, assemblando sedie, ombrelli, bottiglie, nature morte, panneggi, uccelli impagliati, stracci, calze di nylon imbottite, bastoni, maschere, in un primo momento ibernati sotto una coltre di vernice bianca, più tardi ammantati da uno spettrale bitume nerastro.

L'uomo è qui presente nella scomposizione drammatica di gambe o braccia tronche, nascenti da sagome indefinite per assumere effetti scenico-teatrali in cui gli arti si fondono in magico surrealismo con visionarie forme d'ala o giganteschi fiori-megafoni.

Suggestiva e pungente è l'opera "Epanolessico boy, boy, boy" ('82), dove ad una croce nera è appesa una pseudo figura umana piegata in avanti composta da sacchi e stracci neri , simbolicamente capace di materializzare un'umanità sofferente schiacciata dal peso di lutti indicibili.

Le masse si compongono in un armonico equilibrio proiettando il dramma in suggestioni visive di carattere più sinergicamente universale quale mondo-spettacolo ricco di apparizioni visionarie...



Miriam Cristaldi


degli abbati

Il lavoro di Gigi degli Abbati rispecchia la complessità dell'intelletto umano che si trova continuamente ad oscillare tra tecnologie invasive e arcaiche visionarietà , tra globalismo intercomunicativo e tracciati rupestri, tra storia fondatrice di miti e un presente che ha scacciato la memoria, altalenando funambolicamente da visioni tragiche ad aspetti comico-grotteschi del vivere quotidiano.

Questo artista genovese, nato nel '44 e che ha soggiornato per diversi anni a Milano, ha iniziato il suo percorso negli anni '70 col linguaggio canonico della pittura attraverso cui rivisita gli stili del passato avvicinandosi alle istanze del nascente pensiero postmoderno di quegli anni. 

Ma contemporaneamente se ne discosta per mezzo di una sintesi interpretativa attraverso cui egli applica una decodifica ai vari riferimenti culturali del novecento per ricomporli secondo una personale sintassi linguistica. 

Infatti nella sua pittura se si possono trovare rimandi a Picasso nella scomposizione cubista, a Klee nelle magiche cromie e astrattizzazioni formali o a Chagall nelle immagini levitanti da sogno e ancora a Magritte nella lucida ironia di certe composizione figurali, tuttavia ciò viene assorbito dall'unicità di una cifra strutturale che definisce la prassi operativa di Gigi degli Abbati. 

L'artista sa unire la sua anima di architetto a quella del pittore: la formazione culturale lo porta a creare spazi prospettici entro cui si muovono sciolte figuralità, lettere e numeri, rasentanti qualche volta la logica del fumetto, in qualche caso adiacenti a certe interpretazioni del milanese Tadini.. 

Le forme geometriche a cui spetta il compito di definire concentriche e rigide spazialità sono date nella realtà fisica come coordinate entro cui si muovono flessibili ed elastiche le forme nell'istante in cui esse si organizzano dando origine a consecutive alternanze tra astrazioni geometriche e valori formali di carattere figurativo.

E allora , nella sua pittura, possiamo vedere ad esempio l'immagine dei portici di Sottoripa in cui possenti arcate abbracciano frettolosi e svagati passanti, resi quasi al limite della caricatura, identificati nelle diverse razze con fogge eccentriche di carattere metropolitano. 

Questi personaggi agravitazionali, dipinti attraverso una sapiente capacità pittorica, ora con pennellate sciolte e veloci, ora con campiture piatte e uniformi dalle calde e pastose cromie, sembrano cogliere l'incombere del terzo millennio sul franare di un recente passato nella realtà fisica di un presente che sa scivolare nella leggerezza del sogno. 


dorfles

Gillo Dorfles (Trieste 1910), "il papa italiano dell'arte" compie 90 anni e Genova, attraverso l'iniziativa del circolo culturale "Buonavoglia" di Gianna Schelotto, lo festeggia calorosamente all'auditorium Montale del teatro Carlo Felice il prossimo venerdì 17 alle ore 20,30.

Notissimo critico d'arte, ex professore universitario di estetica, fortemente impegnato nella divulgazione delle espressioni d'arte d'avanguardia, lo si vede, già nel '48, fondatore del MAC (Movimento d'Arte Concreta) insieme a Soldati, Munari e Monnet: gruppo di cui egli stesso fa parte, da artista, attraverso una costante e quasi nascosta pratica pittorica (i suoi dipinti vengono esposti nel '90 alla galleria genovese "Il Vicolo").

Conosciuto in Europa e in America, attento alle codificazioni dei fenomeni artistici contemporanei, ha scritto numerosi saggi tradotti in varie lingue tra i quali si possono citare: "Ultime tendenze dell'Arte di oggi" del '63, Feltrinelli, Milano; "Il divenire delle arti" '76 Einaudi, Torino; "Le oscillazioni del gusto" '71 Einaudi, Torino; "Il kitsch" '72 Mazzotta, Milano; ""Nuovi riti e nuovo miti" '77 Einaudi, Torino; "I fatti loro", '83 Feltrinelli, Milano; "Fatti e fattoidi" '98 Feltrinelli, Milano

Per questa felice occasione l'editore Francesco Pirella presenterà il suo "anti-libro" "Araund Dorfles" (=intorno a Dorfles) mentre il compositore Luciano Berio gli dedicherà una sua opera comunicando da uno schermo poiché impossibilitato a presenziare. Marta Vincenzi offrirà un premio da parte della Provincia di Genova; Enrico Baj insieme a Edoardo Sanguineti coordineranno la serata.

Saranno inoltre presentate le sue pagelle scolastiche trovate per caso fortuito nella scuola Giano Grillo di salita delle Battistine a Genova: Dorfles vive a Milano ma, figlio di madre genovese, ha potuto frequentare nella nostra città (dal '15 al '18) alcune classi elementari

d'angelo

Con la mostra "Monitor" la fondazione Ellequadro (fino all 3O ottobre) ha inaugurato la stagione artistica ponendo l'attenzione su giovani artisti italiani.

Davide Bramante usa il linguaggio fotografico per proporre immagini a colori che tendono a rappresentare un viaggio all'interno di esperienze personali: la sua opera deriva dalla prestazione del servizio civile in una casa di cura per anziani. 

Le immagini di volti sofferenti scavati nei solchi della vecchiaia concentrano un frammento di realtà quotidiana, mentre lo sguardo si sofferma su cromìe luminose e negativi sovrapposti che compongono un unico, grande riquadro.

Monica Cavallari, unica genovese, presenta modellati di figure femminili classicheggianti che da un involucro di massa petrigna si evolvono in nuclei figurali come se dalla materia bruta si dilatassero forme nello spazio.

I corpi plastici si offrono nell'atmosfera con relazioni luministiche; la luce scivola sul cotto brunito a smalto evidenziando strutture ammorbidite in volute barocche, capaci di fondersi con tendenze al giganteggiare di memoria michelangiolesca.

Le foto di Silvia Grandi sono il frutto "di un approccio graduale, cresciuto con l'artista che si considera autodidatta". I viaggi che l'autrice ha compiuto nei vari continenti vivendo per mesi negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Belgio ecc. , hanno contribuito a creare un vissuto nomade collegato dal filo conduttore della fotografia. Partendo da una ricerca di elementi naturali come lo studio di paesaggi e di animali, si è oggi direzionata su soggetti metropolitani pervenendo a un'interattiva fusione con le tecniche del disegno e della fotocopia.

Nicola D'Angelo pratica segni pittorici che si offrono come narrazione affabulata dove la metafora del gioco svela l'inesauribile ripetersi dei cicli vitali : il progetto è una lunga carta srotolata che si adatta al luogo e l'interpretazione è data dai simboli sempre efficaci dell'"uovo" e della "gallina".


darbo

"Dio è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza è in nessun luogo", afferma l'alchimista medievale Ermete Trismegisto, senza contare che l'immagine del cerchio è simbolicamente associabile alla figura numinosa del sole (potere maschile) , così come a quella dell'anima e del circolare infinito, entrambi equiparabili al "principio femminile materno". In pratica, questa forma geometrica rappresenta le espressioni di tutte le possibilità dell'esistenza, nella simultaneità e nella perfezione originaria.

Di fatto, nella mostra personale "Quinto al sole" di Giannella Darbo (centro Culturale Satura, piazza Stella 5, fino al 18 ottobre) l'immagine sferica è presente in quasi tutti i lavori come elemento inscindibile dell'operare, quasi a sottolinearne l'unità celeste nel suo roteare al di fuori del tempo e dello spazio in una corsa senza fine.

Inoltre, quest' artista genovese, a livello ideologico e pratico, cerca di recuperare quell'arcaica componente manuale-artigianale del fare, specifica del lavoro umano, oggi così totalmente disancorata dalle prassi quotidiane di un'epoca post-industriale integralmente affidata alle tecnologie avanzate.

E allora, nella creazione dell'opera, vengono rimessi in circolazione, forniti di senso nuovo, elementi in disuso tratti da reperti di un mondo artigianale in estinzione, abbinati a polveri dorate, a sabbiette sottili, a gemme luminescenti, oppure a fogli traslucidi ologrammati (posti retrostanti a fori di superfici metalliche) nell'atto di apparire alla percezione visiva come splendidi brillanti incastonati nel rame o nell'ottone.

Il passaggio dalla natura all'artefatto è tipico dello schema mentale umano e fa parte di un'inquietudine risultante da un problematico rapporto col reale: rapporto che Giannella Darbo risolve con un corpo a corpo con la superficie metallica per piegarla (nel duro lavoro a sbalzo) a metafore nuove, di nuove identità, rivolte all'universo del mito.

Così, i "soli" irradianti d'ottone patinato ("caldo") si contorniano allora da vitree galassie fumé ("freddo") mentre il fulgido ''albero della vita" dialoga con legni combusti e fuligginosi carboni - installati a terra - come a voler suggerire il "pulvis es et pulverem reverteris".

Che è poi l'eterno ciclo: dalla vita nasce la morte e dalla morte la vita...



da vinci

"Mirror's Edge" (= ai confini della finzione) è il titolo della mostra in corso al Castello di Rivoli con cui il nigeriano Enwezor, curatore della prossima edizione di Documenta Kassel, propone ai suoi artisti un affondo sull'ossimoro, oggi più che mai esplosivo, sulla <realtà-fiction>. Indagine, questa, calzante anche per i giovani artisti genovesi, in volo verso l'oriente per la mostra "Mixed media, ovvero trasmigrazioni dei linguaggi " promossa dalla Plaza Gallery di Tokjo (21 ottobre, 28 novembre), appoggiata dal Museo di Villa Croce.

Infatti, i quattro operatori scelti, Lino Di Vinci, Loredana Galante, Renza Tarantino, Alberto Timossi, già vincitori di precedenti selezioni, col loro lavoro sembrano lanciarsi verso la conquista di uno spazio-tempo dove l'assillo d'un immaginario mediale di carattere fantastico-virtuale si fonde con la domestica, silenziosa, spicciola, quotidianità attraverso un esercizio di giornaliera autoanalisi, di riflessione mentale che investe il proprio vissuto, la memoria personale estendendo il reticolo delle terminazioni nervose in dilatate percezioni sensoriali, alla ricerca di nuove frontiere.

Se Lino Di Vinci altera spazi psichici servendosi della luce, una luce protagonista , non più rappresentata sulla tela ma giocata sulla violenza del segno che scuote campi pittorici riflettenti algide lumeggiature metalliche, Loredana Galante coglie invece del reale l'aspetto percettivo musico-sonoro conducendolo con echi giocosi da un'autobiografia privata a narrazioni mobili illimitate, secondo cui la materialità di piccoli oggetti-trash deborda in microcosmi immaginari verso condizioni di pensiero.

Con Renza Tarantino l'aspetto tecnico del reperto fotografico si carica di manualità pittoriche acide, psichedeliche, aggressive, dove tracce di archeologie industriali si fanno reliquie, sindoni, eventi corrosivi capaci di ri-creare eccellenti scenari della mente.

Alberto Timossi lancia nello spazio sottili frammenti tubolari metallici che se da un lato lo definiscono, dall'altro lo negano per via di fili invisibili che fanno da ponti di collegamento tra loro in un reale-virtuale gioco chiuso tra sinergiche spinte e controspinte.



di cristina

"Il doppio; l'altro come parte di sè" è il titolo della mostra che Italo Di Cristina presenta negli spazi del centro culturale Satura (piazza Stella 5, fino al 1O febbraio) con l'esposizione di opere che vanno dagli anni '8O ad oggi. Si coglie l'intento di una piccola antologica che permette al visitatore di comprendere il cammino sperimentale compiuto dall'artista attraverso ricerche, saggi pittorici -arricchiti da interventi di natura concettuale- e l'uso di specifici materiali .

Oggi, con la caduta delle ideologie , la smaterializzazione dell'opera e la perdita di un rapporto dialettico con la storia, si favorisce, nella scena dell'arte, la sfera del privato spesso sviluppando motivazioni interiori attraverso un linguaggio simbolico che rende comprensibili verità altrimenti nascoste nel segreto dell'inconscio.

Elisabetta Rota, curatrice della mostra , a proposito dell'autore scrive in catalogo: "La ricerca che Italo Di Cristina porta avanti da anni, rivendicando il diritto alla disomogeneità e al continuo cambiamento, è comunque unitaria nella sua globalità di processo di autorealizzazione, caratterizzato da un continuo interesse per gli aspetti simbolici e mitici e da un lavoro sull'inconscio e sugli archetipi leggibilissimo soprattutto alla luce della psicologia del profondo..."

Infatti i simboli archetipali come " la creazione dell'uomo", " narciso", "la venere" ecc. sono spesso presenti in queste opere e sovente sovrapposti a significati contemporanei , per interagire con immagini della tradizionee e dell'attualità mediante materiali eterocliti quali ritagli di giornali, arguti giochi di parole, stampe d'arte, ologrammi, oggetti tecnologici, ecc. intrecciati ad esiti pittorici.

Nasce una lettura complessa, in alcuni casi disarmonica, a volte dissacratoria in cui si evidenziano differenze stilistiche al limite dell'irriconoscibilità, anche se il filo conduttore dell'intero percorso è riscontrabile nello sconfinamento consapevole tra le differenti espressioni linguistiche

Se i primi lavori si connotano con un linguaggio pittorico che tiene conto della tradizione figurativa - pure con attraversamenti di tipo concettuale - basato sul rapporto tra uomo , natura ed energia vitale , in seguito si assiste ad una contaminazione ibrida tra vortici di una pittura distruttrice , oggetti tecnologici ed artifici metaforici. 

Nell'ultima fase si assiste ad una virata di bordo a 36O gradi: l'opera si identifica unicamente con la luce; piccole forme luminose al neon descrivono un alfabeto misterioso nella semioscurità dell'ambiente. Lo specifico dell'arte viene così negato: una scenografia spaziale tenta di dare corpo a nuove identità...



de ferrari

Nella splendida cornice dell'antica abbazia di San Nicolò del Boschetto sulle alture di Cornigliano, fondata nel 13oo dai Grimaldi e diventata in seguito cenobio per opera dei monaci Benedettini, si è inaugurata la mostra di pittura "Pensieri in libertà" (fino al 6 aprile, tutti i giorni dalle I3 alle 18,3O), organizzata dal centro cattolico d'arte LA SPIGA, composta da opere realizzate da giovani e meno giovani che hanno in comune una creatività risolta in termini figurativi.

Gli oli di Federica Fusco propongono un linguaggio consapevole e immediatamente comunicativo, capace di avvalersi di esperienze storiche morandiane o impressioniste, creando osmosi continue tra la concretezza strutturale della natura morta e lo spazio in cui essa vive. Il tempo dell'esistenza si accompagna in questo senso al tempo del vissuto: i registri freddi dei toni variano la frequenza delle proprie onde luminose in rapporto alle forme che si aprono nello spazio secondo arcuate e seducenti fattezze.

Raffaella Bisio si esprime con la tecnica della pirografia su legno per incarnare processi metamorfici condotti sulle trasformazioni della figura umana evolventesi in corpi di animali e di vegetali, processi propri di simbologie popolari e mitologiche suggerenti un metaforico abbraccio tra le infinite energie cosmiche della creazione.

Nicoletta Arcella nel passato recente indagava sulla figura umana partendo dallo studio sull'immagine fotografica riproposta in pittura: oggi l'attenzione si sposta nell'universo scientifico del microcosmo riflettendo sui rapporti cromatici e cromosomici del magmatico mondo biologico.

Tra gli artisti meno giovani si distinguono: Marcella De Ferrari per la singolare e delicatissima incisione su ardesia raffigurante fantastiche composizioni segniche capaci di accendere candidi paesaggi nel buio della materia; Dirce Bigazzi che tratta la ceramica creando un repertorio iconografico altamente simbolico dove la lucentezza degli smalti sottolineano gli stati dell'essere come la vita e la morte, la gioia e il dolore, l'infanzia e la vecchiaia, la guerra e la pace; Elsa Cebocli in grado di materializzare visionari paesaggi ad olio provocatoriamente giocati su registri cupi, richiamanti atmosfere incombenti nell'atto di risucchiare lo spazio esterno in dimensioni più propriamente intime; Giuliana Petrolini per la scelta linguistica dell'inchiostro a spruzzo con cui sa allacciare rapporti preferenziali con seducenti immagini femminili (in questo caso raffiguranti le stagioni rese nella tecnica della fotografia serigrafata) e con paesaggi liguri, liberati dal peso della gravità per dare luogo a sottili giochi di trasparenze e di leggerezza.

Altrettanto bravi gli artisti presenti: Vasco Luppi, Leonardo Caruso Rosalba Niccoli, Dario Re, Giorgio Malveni, Ivo Vassallo, Carla Costellano, Carlo Pedivella in arte Delisa, Giuseppina Mancuso e Gimmi.


delisa

Nella splendida cornice dell'antica abbazia di San Nicolò del Boschetto sulle alture di Cornigliano, fondata nel 13oo dai Grimaldi e diventata in seguito cenobio per opera dei monaci Benedettini, si è inaugurata la mostra di pittura "Pensieri in libertà" (fino al 6 aprile, tutti i giorni dalle I3 alle 18,3O), organizzata dal centro cattolico d'arte LA SPIGA, composta da opere realizzate da giovani e meno giovani che hanno in comune una creatività risolta in termini figurativi.

Gli oli di Federica Fusco propongono un linguaggio consapevole e immediatamente comunicativo, capace di avvalersi di esperienze storiche morandiane o impressioniste, creando osmosi continue tra la concretezza strutturale della natura morta e lo spazio in cui essa vive. Il tempo dell'esistenza si accompagna in questo senso al tempo del vissuto: i registri freddi dei toni variano la frequenza delle proprie onde luminose in rapporto alle forme che si aprono nello spazio secondo arcuate e seducenti fattezze.

Raffaella Bisio si esprime con la tecnica della pirografia su legno per incarnare processi metamorfici condotti sulle trasformazioni della figura umana evolventesi in corpi di animali e di vegetali, processi propri di simbologie popolari e mitologiche suggerenti un metaforico abbraccio tra le infinite energie cosmiche della creazione.

Nicoletta Arcella nel passato recente indagava sulla figura umana partendo dallo studio sull'immagine fotografica riproposta in pittura: oggi l'attenzione si sposta nell'universo scientifico del microcosmo riflettendo sui rapporti cromatici e cromosomici del magmatico mondo biologico.

Tra gli artisti meno giovani si distinguono: Marcella De Ferrari per la singolare e delicatissima incisione su ardesia raffigurante fantastiche composizioni segniche capaci di accendere candidi paesaggi nel buio della materia; Dirce Bigazzi che tratta la ceramica creando un repertorio iconografico altamente simbolico dove la lucentezza degli smalti sottolineano gli stati dell'essere come la vita e la morte, la gioia e il dolore, l'infanzia e la vecchiaia, la guerra e la pace; Elsa Cebocli in grado di materializzare visionari paesaggi ad olio provocatoriamente giocati su registri cupi, richiamanti atmosfere incombenti nell'atto di risucchiare lo spazio esterno in dimensioni più propriamente intime; Giuliana Petrolini per la scelta linguistica dell'inchiostro a spruzzo con cui sa allacciare rapporti preferenziali con seducenti immagini femminili (in questo caso raffiguranti le stagioni rese nella tecnica della fotografia serigrafata) e con paesaggi liguri, liberati dal peso della gravità per dare luogo a sottili giochi di trasparenze e di leggerezza.

Altrettanto bravi gli artisti presenti: Vasco Luppi, Leonardo Caruso Rosalba Niccoli, Dario Re, Giorgio Malveni, Ivo Vassallo, Carla Costellano, Carlo Pedivella in arte Delisa, Giuseppina Mancuso e Gimmi.


d'amico

è recentemente inaugurata al museo di Villa Croce (fino al 21 marzo), la mostra antologica di Stefano D'Amico - siciliano di nascita (Milazzo 1925) e ligure d'adozione - corredata di catalogo con testi critici di Cecilia Chilosi e Guido Giubbini.

Questo artista così solare, in cui hanno sicuramente inciso le caratteristiche umorali della sua terra d'origine, è al contempo schivo e silenzioso alla maniera dei liguri, oscillante, nel suo operare, tra luminose "narrazioni" cromatiche e asciutte astrazioni di carattere costruttivista; alterna l'uso di materiali caldi e duttili come la ceramica con quelli freddi e seriali, propri dei metalli industriali.

L'artista, seppure valido scultore di ampi bassorilievi e di anamorfosi a tutto tondo, indugia insistentemente, e con grande sensibilità, sull'aspetto pittorico, ora reso con squillanti colori smaltati in cui campiture celesti interagiscono con accenti verde-marino, ora espresso con superfici terrose giocate sulle raffinate gradazioni dei grigi, in alcuni casi arricchite da velature azzurrine.

Il cammino compiuto dall'artista risulta rigoroso e coerente , nonostante le svolte significative del percorso, operate in sintonia con lo "spirito del tempo" e con la dinamica del proprio vissuto . Afferma lo stesso D'Amico in catalogo: "Devo premettere, ma non certo in senso giustificativo, che non è stato solo il gusto del progettare, dell'organizzare, del costruire metodologicamente che mi ha indotto ad affrontare temi così lontani dal mio vecchio linguaggio espressivo... ma dal mio bisogno di verificare in chiave analitica... le operazioni che normalmente conducevo sotto spinte emozionali."

Con le prime ceramiche degli anni '5O, D'Amico , che allora frequentava l'ambiente artistico di Albisola accanto a Fontana, Scanavino, Cherchi, Corneille, delinea una felice figurazione rappresentata da cavalli, cavalieri, tori e santoni con evidenti richiami a Picasso nelle stilizzazioni e a Fontana nel modellato di alcune ceramiche, rese frastagliate e fluide come nei " Cavalieri in torneo" o nel "Re sole" del'6O.

Infatti, dopo un soggiorno a Roma dove frequenta la scuola di Mafai, nel '53 l'artista è a Genova : qui incontra Luzzati che lo introduce nel gruppo albisolese. A metà degli anni '6o, D'Amico cambia linguaggio: la sua nuova fase operativa subisce un raffreddamento sul versante emozionale per favorire esiti razionali di geometrie astratte: ne sono esempi i "Progetti di villaggi mediterranei " e i "Giochi numerati", delicate strutture formali in altorilievo animate da abili giochi di ombre e luci , in cui la terracotta vibra di luminose gradazioni pittoriche.

In seguito l'autore si dirige verso opere cinetiche, neo-costruttiviste, in metallo dipinto, di grandi dimensioni, per acquisire un fecondo apprendimento dei meccanismi fenomeno-percettivi allora presenti nelle ricerche linguistiche avanzate, attraverso elementi lamellari modulari di tipo industriale, come si può osservare nel lavoro "Orizzontale fluido" del '73.

Nella seconda metà degli anni '7O, l'artista si allontana da queste esperienze rigorose per abbandonarsi a una creativa e fantasiosa astrazione lirica che effettua con la ceramica, bronzo, marmo, concludendo il suo lavoro con giganteschi piatti ornamentali, dipinti a smalto, raffiguranti elementi floreali , a volte stilizzati in volute appuntite: modulo questo, che è spesso presente, per frammenti, nella vasta produzione della terracotta e del disegno. Miriam Cristaldi 



ducale

vetro rappresenta l'elemento incorporeo della corporeità: il suo fascino innegabile attrae lo spettatore che vede nella trasparenza, nella rifrazione e nella luminosità del materiale la possibilità di andare oltre , di immaginare misteriose energie del mondo minerale che interagiscono con la nostra appercezione. Il capolavoro di Marcel Duchamp come ben ricordiamo è "Il grande vetro", un'opera pensata tutta la vita e che si fonda anche su segreti alchemici.

Con questo simbolico materiale, 36 artisti conosciuti nel panorama nazionale, ed alcuni internazionale, hanno realizzato a Savona (studio Casarini) le opere per la mostra "Trasparenze" che si è inaugurata nei giorni scorsi a Palazzo Ducale (fino al 3O aprile) curata da Claudio Cerritelli e Anty Pansera.

I lavori sono accompagnati da un'antologia poetica con testi , tra gli altri, di Mario Luzi , Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto.

Il valore della trasparenza è la condizione imprescindibile di questa mostra , "costitutiva delle possibilità d'invenzione degli artisti, che ne esplorano tutti i livelli di visibilità portando il linguaggio della pittura e della scultura ad esaltarne le risonanze e gli equilibri".

Se l'esperienza del vetro è antica (ricordiamo i mosaici bizantini e le vetrate gotiche ) è spesso presente nell'arte contemporanea come integrazione di altri linguaggi (vedi, ad esempio, Matisse, Klee e Chagall).

Molti artisti invitati non hanno particolare dimestichezza con tale materia: tuttavia sono riusciti a trasferirvi il loro linguaggio mantenendo una stretta correlazione col proprio lavoro.

Tra i rinomati Lucio Del Pezzo, Piero Dorazio, Ansgar Elde, Giosetta Fioroni e Luigi Veronesi, spiccano i lavori di quelli che hanno saputo operare col vetro sfruttandone le intrinseche qualità, non badando solo agli effetti pittorici ma anche alla sua struttura .

Tra costoro Carlos Carlé suggerisce differenti spazialità nello spessore opacizzato del materiale; Enzo L'Acqua configura misteriose impronte metamorfiche; Mino Mustica indica una pseudo frattura da proiettile; Pietro Perrone traccia nervature immaginarie; Renza Sciutto essenzializza nella pura trasparenza il "villaggio globale"; Anna Valla crea spermatozoiche gocce-vibratili, e tanti altri che per ragioni di spazio non è possibile qui citare.



Miriam Cristaldi


di giusto

Se "La Chiesa ha bisogno dell'arte", come ha vivamente affermato Papa Giovanni Paolo II° con la lettera del Pontificio Consiglio dedicata agli artisti affinché forniscano nuove chiavi di lettura riguardanti le tematiche religiose, il nostro Cardinale Dionigi Tettamanzi in un breve ed esauriente saggio in catalogo esorta invece gli artisti "...a chinarsi sulle ferite dell'uomo, e sul suo peccato, costituendo già una reale aspettativa di salvezza..." sottolineando poi che "...le realizzazioni artistiche ispirate al Mistero salvifico che si compie nella vita, morte e resurrezione di Gesù Cristo, costituiscono un piccolo riflesso del grande Mistero che avvolge e ancora abita il mondo".

La risposta concreta e significativa, anche sottoforma di riflessione sul disagio contemporaneo della sofferenza e di una sua possibile comprensione attraverso la luce trasfigurante e catartica della fede, ci viene oggi fornita dall'interpretazione multipla di 14 noti artisti genovesi, ciascuno con la propria sensibilità, cultura ed epoca generazionale (dai trentenni agli ottantenni), invitati a far parte della mostra intitolata "Via Crucis 2000" (dal 21 ottobre al 6 novembre nel chiostro triangolare del Museo di S. Agostino, orario: dal martedì al sabato 9-19; domenica 9-12,30).

Una mostra dignitosissima, questa, pensata da Walter Di Giusto e subito condivisa dal curatore Franco Ragazzi; corredata di un bel catalogo e promossa dalla Regione Liguria, dalla Conferenza Episcopale Ligure e dal Comune di Genova.

Tutti i lavori sono inediti e pensati per questa esposizione; misurano m.1,5x1,5 e costituiscono l'intera donazione offerta alla Curia genovese.

"Con la Via Crucis 2000", spiega Ragazzi, "si è scelta un'arte sacra con un'iconografia nuova, legata perciò al confronto con una ricchissima rappresentazione storica, pur rimanendo rispettosi della tradizione..." corrispondente in questo caso alle canoniche 14 stazioni realizzate da corrispettivi operatori i cui lavori vengono commentati da empatici testi scritti da autori scelti dall'artista.

L'assessore Pierantoni, con una corposa ricerca sul tema del sacro nella storia dell'arte dimostra invece "...quale immenso problema narrativo, di tipo logico e profondamente mentalistico e percettivo abbia sollevato il significato di questa <Storia più bella del Mondo>".

Presente all'inaugurazione per l'Ufficio Arte Sacra della Curia Arcivescovile è monsignore Alberto Poldorini che ha così commentato: "Il messaggio della Crocifissione va storicizzato, sia pure nell'espressione moderna; questa testimonianza dimostra quanto il messaggio religioso sia oggi ancora valido e stimolante per l'artista...".

Nonostante la difficoltà e soprattutto la complessità del tema , gli artisti si sono comunque difesi, non si sono intimiditi e sono riusciti, specie i più giovani, a fornire interpretazioni assolutamente personali; così come gli altri hanno approfondito il mistero cristologico senza enfasi o iconografie scontate, ma ciascuno ha prodotto un convincente saggio della propria esperienza.

Simonetta Fadda presenta stampe digitali tratte dal video ove l'immagine <disturbata> di un drogato - quale <condannato a morte> - nell'atto di "farsi", pare concentrare su di sé quel grave stato di solitudine e di abbandono in cui vivono oggi i giovani più problematizzati; particolarmente originale e tragica appare l'installazione di Beppe Dellepiane: come <Gesù si carica della croce> così una massa di "capelli" neri, con simbolici scheletrini ai lati, sembra chinarsi su di una candida veste quale verginale presenza pronta al sacrificio nel buio delle tenebre; sullo sfondo dipinto di uno scenario storico dai colori bruciati, Giovanni Job si autorappresenta investito di luce solare come soggetto pensoso e riflettente sul proprio vivere in stretta correlazione con <la prima caduta di Gesù>: luci e ombre presagiscono il dramma che si sta per compiere; Giuliano Menegon con sottili sgocciolature a pittura-sudario scolpisce nell'oscurità spaziale corpi di luce pietrificata, mentre la madre che sorregge il Cristo diventa essa stessa crocifisso-icona; con la stazione "Gesù è aiutato dal Cireneo", Piergiorgio Colombara colloca un fascio di luce metallica su sfondo nero-notte che sottolinea la presenza d'una simbolica e scintillante croce d'oro (ma di ottone) inclinata: l'umanità del Cristo si flette al peso delle colpe umane...; nella pittura di Plinio Mesciulam il dinamismo delle <ombre> si trasforma in essenza auratica che dialoga con l'aspetto simbolico-sacrale del <volto> mentre scie anellari risucchiano i vortici di uno scenario extraterreno; "A tutti quelli che cadono" Cesare Viel dedica una gigantografia in cui si rappresenta nell'intelligente finzione d'un falso doppio citando Samuel Beckett e Alighiero Boetti; "Gesù incontra le pie donne" è la stazione che affronta Aurelio Caminati in cui un'umanità quasi frivola, al limite di un'ironica maschera, si rapporta a quella divina in concitate mobilità carnali e serici panneggi; il Cristo fissato alla croce nell'atto di creare uno squarcio di cielo nelle viscere della terra vuole forse rappresentare il grande dipinto a carattere bidimensionale del pittore Mario Rossello; sempre tragico, ambientato in spazi lividi, appare l'uomo-Cristo, spogliato delle sue vesti, di Giannetto Fieschi, ove le ocre e i verdi acidi sanno evocare disagi e fratture dell'anima; una gigantografia virata sul rosso-pompeiano si fa emblematica <evocazione> del "Gesù inchiodato alla croce": qui Franco Arena rappresenta l'icona di un vero cuore animale trafitto, circondato, da chiodi industriali, mentre cuoricini purpurei galleggiano nello spazio come stille di sangue; Federico Palerma esibisce una superficie pittorica drammatica, attraversata da vivide lumeggiature segniche che squagliano fitti addensamenti e stratificazioni plumbee, atti a richiamare la fisicità della "Tragica Morte"; coi toni accesi e concitati del manieristico Rosso Fiorentino, Raimondo Sirotti visualizza la figura della <deposizione> in cui il corpo divino pare emanare una luminosa e concentrata grazia trasfigurante; con la <posa nel sepolcro di Gesù>, Walter di Giusto riesce ad esprimere un immaginario tecnologico contemporaneo proprio della video-elettronica, pur facendo citazioni e riferimenti alla classicità: un felice abbraccio tra passato e futuro.

Con quest'ultima stazione si conclude la Via Crucis nell'alta spiritualità del tema preposto.





Miriam Cristaldi

de ferrari

Con la mostra "Delle magie e dei miti - presenze nell'arte contemporanea in Liguria", inaugurata a Palazzo Ducale, si realizza la seconda biennale "De fabula" a cura di Franco Ragazzi (fino al 15 maggio) - organizzata dall'associazione culturale omonima - nata da un progetto avviato nel '96 con il volume di ricerche etnografiche ed una mostra d'arte allestita nella Commenda di Pré, .

Una cinquantina di opere , tra dipinti, sculture e installazioni, testimonia il lavoro di dieci artisti liguri che nel corso del loro cammino si sono imbattuti in temi mitologici e magico-favolistici 

Il lavoro di Claudio Costa - artista scomparso a cui la mostra dedica un omaggio - nasce da premesse duchampiane ma se ne discosta per collocarsi in una dimensione antropologica rivolta ai riti e ai miti dell'uomo primitivo o verso una visione alchemica del mondo che si è sviluppata verso la fine degli anni '7O per concludersi nell''86 . 

Erano quelli , gli anni in cui imperava la "Transavanguardia" con il brusco ritorno alla pittura che azzerava le precedenti esperienze. 

Costa trovò il significato di una pittura nella descrizione di iconografie alchemiche che esaltavano il mistero e la magia, procedendo inoltre verso la ricerca dell'interiorità dell'Essere. E' esemplare l'opera "Il museo dell'alchimia" esposta in questa mostra: in un grande mobile-vetrina sono esposti oggetti dipinti che esaltano la trasformazione del colore e della materia propria del concetto alchemico assumendo l'aspetto di inquietanti presenze attuate nella scioltezza dell'invenzione compositiva.

Di Piergiorgio Colombara campeggia una raffinata installazione in metallo e vetro che evoca l'immagine della nave, già ricorrente in altri lavori quale simbolico veicolo di comunicazione. Giovanni Job ha condotto ricerche sulle storie di paura qui presenti con l'opera "La nascita di una fé" dove un allarmante corpo femminile scolpito giace nell'acqua reale.

Walter di Giusto, sempre interessato a citazioni di rocce con mimesi antropomorfe, presenta un'originale visione speculare in cui si sposano mito e tecnologia. Anna Ramenghi propone il mito di Orfeo e Euridice nella teatralità di un appassionato romanticismo dove la freschezza delle carni trasmuta nell'appassire dei fiorif. Roberto Martone cita la storia, narra il mito e visualizza il presente con una pittura, ora ricca di tonalità accese, ora trasparente nelle cromìe sfocate, capace di dichiararne il senso intrinseco. Aurelio Caminati descrive "Leda e il cigno" citando la pittura di Leonardo che egli sa adattare alla modernità con grande spirito inventivo caratterizzato da una sapiente tecnica pittorica.

Ugo Sanguineti dipinge un mondo grottesco al limite della caricatura dove la bruttezza della forma viene riscattata da preziosi cromatismi. La mostra si conclude con opere di Marcella De Ferrari - raffinatissime immagini incise su ardesia - e con Rosalba Niccoli - fantasiose iconografie su vetro - entrambi fondatrici dell'associazione De Fabula.

g. darbo


"Dio è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza è in nessun luogo", afferma l'alchimista medievale Ermete Trismegisto, senza contare che l'immagine del cerchio è simbolicamente associabile alla figura numinosa del sole (potere maschile) , così come a quella dell'anima e del circolare infinito, entrambi equiparabili al "principio femminile materno". In pratica, questa forma geometrica rappresenta le espressioni di tutte le possibilità dell'esistenza, nella simultaneità e nella perfezione originaria.

Di fatto, nella mostra personale "Quinto al sole" di Giannella Darbo (centro Culturale Satura, piazza Stella 5, fino al 18 ottobre) l'immagine sferica è presente in quasi tutti i lavori come elemento inscindibile dell'operare, quasi a sottolinearne l'unità celeste nel suo roteare al di fuori del tempo e dello spazio in una corsa senza fine.

Inoltre, quest' artista genovese, a livello ideologico e pratico, cerca di recuperare quell'arcaica componente manuale-artigianale del fare, specifica del lavoro umano, oggi così totalmente disancorata dalle prassi quotidiane di un'epoca post-industriale integralmente affidata alle tecnologie avanzate.

E allora, nella creazione dell'opera, vengono rimessi in circolazione, forniti di senso nuovo, elementi in disuso tratti da reperti di un mondo artigianale in estinzione, abbinati a polveri dorate, a sabbiette sottili, a gemme luminescenti, oppure a fogli traslucidi ologrammati (posti retrostanti a fori di superfici metalliche) nell'atto di apparire alla percezione visiva come splendidi brillanti incastonati nel rame o nell'ottone.

Il passaggio dalla natura all'artefatto è tipico dello schema mentale umano e fa parte di un'inquietudine risultante da un problematico rapporto col reale: rapporto che Giannella Darbo risolve con un corpo a corpo con la superficie metallica per piegarla (nel duro lavoro a sbalzo) a metafore nuove, di nuove identità, rivolte all'universo del mito.

Così, i "soli" irradianti d'ottone patinato ("caldo") si contorniano allora da vitree galassie fumé ("freddo") mentre il fulgido ''albero della vita" dialoga con legni combusti e fuligginosi carboni - installati a terra - come a voler suggerire il "pulvis es et pulverem reverteris".

Che è poi l'eterno ciclo: dalla vita nasce la morte e dalla morte la vita...

de pascale


Arte & antropologia culturale è il lucente binario su cui corre veloce Andrea De Pascale, con lo sguardo contemporaneamente rivolto sia alla visione creativa dell'artisticità che a quella scientifica antropologica della specie umana.
Uno sguardo che se da un lato sa nutrirsi d'immaginazione, di trasgressioni dai codici linguistici, di libertà espressiva, dall'altro sa indagare nel contesto storico culturale attraverso l'uso specifico di approfonditi scavi nel terreno con l'utilizzo di precise e meticolose stratigrafie che, associate al rinvenimento di reperti oggettuali (analizzati con sofisticati mezzi tecnologici) sapranno ricostituire l'intero e classificare i diversi gruppi della specie umana.

Uno sguardo, dunque, che sa abbracciare - in una stretta consanguinea - il gesto creativo con l'analisi scientifica.

Andrea De Pascale - giovane artista sperimentatore e laureando in Conservazione dei Beni Culturali ad indirizzo Archeologico - nella sua doppia veste di creatore di simboli e studioso di fenomeni comportamentali biologici, riesce infatti a prefigurare una visione del mondo che se tenta di innalzarsi in picchi vertiginosi per scuotere l'orizzontalità del banale quotidiano, allo stesso tempo sa "scendere" in quel territorio complesso del comportamento umano, rapportato al suo contesto abitativo, per spingersi oltre, in quel luogo e quel passato remotissimo che si perdono nella storia dei tempi e che riescono idealmente a ricongiungersi con l'origine.
Là, arte e scienza sanno fondersi in forma simbiotica : l'una e l'altra sono potenzialmente presenti nell'invenzione dei primi, simbolici, utensili al contempo destinati all'uso personale e quotidiano dell'uomo.
Dice Claudio Costa. "Le categorie dell'uso e della forma riconducono all'origine dell'oggetto ; questa a sua volta ne indica il rapporto con l'uomo : quanto più l'uso e la forma suggeriscono la mano che ha costruito l'oggetto, tanto più l'oggetto si caratterizza come oggetto dell'uomo. ... La forma e la fruibilità degli stessi possono distinguere l'uomo, la sua famiglia, il suo comportamento, il suo habitat", ma aggiunge : " ...accanto a questa ricerca scientifica, a lato si svolge una metodologia a procedere che consente ampio margine all'immaginazione... " .
E proprio da questo tipo d'immaginazione prende avvio l'artisticità di Andrea De Pascale che dimostra di sapervi attingere a piene mani : quando è artista irrora con fertili invenzioni i solchi delle conoscenze archeologiche, quando è archeologo elabora cognizioni analitiche filtrandole coi processi creativi.
Arte e scienza in lui convivono simbioticamente, sovente scambiandosi i ruoli.
Allo stesso tempo, il procedere nell'opera - da parte dell'artista - corrisponde a metodologie concettuali secondo cui l'idea è componente fondamentale del lavoro.
In questo senso e con questi intendimenti il pensiero che muove il suo fare risulta un rovesciamento della prassi scientifica, che sa fornire soluzioni precise a quesiti precisi.
Andrea De Pascale, privilegiando in arte un comportamento mentale creativo, a quesiti precisi risponde invece con libertà interpretative.
In particolare il suo procedere artistico prende avvio da una iniziale, canonica, ricerca archeologica, servendosi di reperti e di “autentiche” stratigrafie (ricavate da ricerche sul posto) sulle quali vi è trascritta la struttura del terreno, oggetto del lavoro di scavo.
Questo materiale, nell'ambito artistico, viene esposto in teche di legno (sigillate come "vetrine") entro cui si possono osservare i “reperti archeologici” accanto ad alcuni ipotetici oggetti interi a cui potrebbero appartenere : piatti, bottiglie, vasi, lucerne, statuette, ecc.
In altre teche più piccole alcune pagine di diari di scavo, con appunti e disegni di reperti, affondano in zolle di terra (fin quasi a metà foglio) così da invalidarsi e al contempo trasformarsi in misteriosi codici segnici.
L'intera operazione viene riproposta in un'installazione dove video-reperti affondano nella terra.

Viene così presentata un'oggettualità antropologica convalidata di rigore scientifico (nella metodologia), ma arricchita di qualità immaginative (nella sostanza).

Al contempo si assiste ad un rovesciamento strutturale : se scientificamente viene provato, quasi senza possibilità di errore, che il coccio corrisponde ad un unico e indiscutibile intero, qui il coccio potrebbe appartenere idealmente a varie identità che l'artista fantasticamente propone.
Sarà il fruitore a decidere - interagendo con l'opera - a quale oggettualità il frammento potrebbe appartenere.
Un'oggettualità dunque, che non riferisce di sé, ma altro da sé.
E ancora, l'oggetto e il frammento nella ricostruzione artistica possono restituire alla conoscenza, alla fantasia e alle emozioni la loro simbolica carica di memoria storica con cui l'uomo riconosce se stesso, fin dai tempi remoti dell'origine, riportando alla luce una identità perduta nel corso delle successive trasformazioni societarie.
Un'identità con cui potersi riconoscere, nel confronto costruttivo delle differenze.
Afferma il filosofo francese Marc Augè : “Paradossalmente, nel mondo odierno dove luoghi, spazi e nonluoghi (luoghi anonimi senza caratteristiche identitarie come aeroporti, supermercati, stazioni, autostrade, ecc. ..) s'incontrano e si compenetrano reciprocamente, il ritorno al luogo è il rimedio cui ricorre il frequentatore dei nonluoghi.”- intendendo con ciò porre l'attenzione su quanto sia importante in questa società sur-moderna (termine da lui coniato per caratterizzare l'attuale società basata sull'eccesso) riferirsi a spazialità definite, meglio se rapportate alla memoria storica (al passato da cui veniamo) come possibili “tracce, indizi, o eccezionalità esemplari in modo da verificare se ciò che si è creduto di poter osservare in un primo momento resta sempre valido ...”.

E un forte richiamo a ciò che è stato ce lo fornisce sicuramente il lavoro di Andrea De Pascale, un'operazione per alcuni versi vicina alla neoavanguardia "Arte Antropologica" degli anni '70, che tenta di ricostruire un mondo perduto servendosi proprio di tracce e indizi coi quali prendere avvio per ri-modellare su misura un universo immaginario.
In questo senso, Claudio Costa dirige uno sguardo rovesciato verso la preistoria, i coniugi Poirier alla classicità greca, Christian Boltansky alla tragedia dei lager nazisti, Antonio Paradiso a un'arcaicità artigianale, i coniugi Becher alle archeologie industriali ecc... ognuno intento a ridefinire comportamenti antropologici, ripensati in virtù di un proprio pensiero fondante, all'interno del gruppo Arte Antropologica.
I cocci, le stratigrafie, gli oggetti-reperto diventano allora per il giovane artista-archeologo Andrea De Pascale quelle tracce investigative, quegli arteoreperti con cui indagare nell'arte e nella scienza dove il luogo antropologico vive la storia ma non fa la storia, semmai la reinventa ... sulle vestigia di un antico passato.

Miriam Cristaldi

Luglio 2001


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