lettera C

Cafiero

Carrozzini

Ceal

cesar domala

colombara

conio

Simonetta Corazzo

costa corniati

crespo

colombara

costa

Cavallari

Costellano

Caruso

villa croce

creazzo

contaminazione

collezioni villa croce

casteletto presepe

colombara

colombara

Museattivo Claudio Costa.

Chianese

 

 

cafiero

 

A Satura sono state inaugurate tre mostre (piazza Stella 5, fino al 21 febbraio): Virginia Cafiero presenta "Prelievi di natura"; passeggiando nell'ambiente naturale l'artista seleziona e coglie radici, foglie, erbe, fiori che taglia in filamenti e mette a bollire eppoi a colare. In un secondo momento mescola il decotto triturato con l'impasto cartaceo preparato a parte ottenendo così lamelle fibro-cartacee che fa essiccare. Nascono allora forme irregolari dalle tinte degli elementi naturalistici su cui si evidenziano preziose tracce come memorie da consegnare a future generazioni...

Sergio Leta dipinge "Ritratti e figure in ruggine" attraverso volti e corpi "che si portano dietro il peso e il senso della loro vita..."; descrive cioè un immaginario in cui agitati personaggi sembrano alla ricerca di precari equilibri. Scosse dal vento e "rose" da una invasiva fioritura di ruggine, queste figure abitano vorticosamente lo spazio, talvolta sdoppiandosi in forme di replicanti. Interventi ironici, quasi fumettistici, trasferiscono l'intensità del pathos in "leggerezza dell'essere".

Roberto Zizzo con "Copricorpi" presenta la fotografia di un nudo femminile, di schiena (ripetuto in ogni lavoro) su cui interviene manipolandolo con segni, tagli simulati, pittura. Frammenti di corpo vengono in questo senso cancellati, tagliati e ricomposti in modo da creare forme nuove raccapriccianti, quasi a simulare l'azione del bisturi che taglia silhouette di corpi trasformandoli in gusci vuoti. Un'allucinazione suggerita dalle potenzialità della biogenetica.



Miriam Cristaldi

Virginia Cafiero

Prelievi di Natura





L'antica medicina popolare attribuisce alle piante, anche se velenose, vari effetti benefici per l'uomo, come per esempio i semi della velenosa peonia che legati a catenella attorno al collo dei lattanti servono come amuleto per lenire il dolore della dentizione; oppure i decotti, utili per una pronta guarigione.

Più indietro, nel mondo filosofico greco, Aristotele elabora una prima classificazione delle piante in chiave dicotomica in cui sono presenti o meno certe caratteristiche capaci di rivelare qualità connotative intrinseche, mentre nel linguaggio dell' arte gli aspetti fisionaturalistici vengono spesso trascritti in pittura.

Un magnifico campionario ci viene proposto ad esempio da Leonardo da Vinci col dipinto dell"Annunciazione" o dall'Arcimboldo con le sue "nature viventi".

Nell'arte contemporanea incontriamo la silenziosa figura di Richard Long (Land Art) col suo "passeggiare" concettuale rapportato all'ambiente naturale ma, prima ancora, Joseph Beuys in costante riferimento con la natura o Claudio Costa che nella natura stessa ha eletto il suo parametro di confronto.

Anche il lavoro artistico di Virginia Cafiero prende avvio da una riflessione sui benefici effetti della natura e sull'uso specifico di piante, fiori, erbe per la realizzazione dell'opera.

Il suo rapporto discreto, empatico, meditativo, accompagnato da conoscenze scientifiche del regno vegetale, allargato a quello minerale, ha generato nell'artista una prassi operativa inscindibile dagli aspetti ecologici.

Infatti, ad un primo e personale contatto con l'ambiente per la raccolta di erbe, piante e fiori, segue una seconda fase ove l'artista crea l'impasto con meticolosa pazienza (mescolando carta macerata con elementi vegetali), dal quale prenderanno avvio sottili forme lamellari.

Per questo lavoro, fondamentale è la materia cartacea che l'operatrice fabbrica attraverso un attento recupero di carte, a base di cotone, messe a macerare nell'acqua.

I processi preparatori seguono tempi lunghi e cadenze ben precise secondo delicati equilibri alchimici, quasi come avviene per certe regole culinarie; viene qui in mente l'artista genovese Renata Boero quando cuoce i semi di curcuma da stendere sulla tela.

Inizialmente Virginia taglia e fa bollire foglie e fiori di azzurre ortensie, di solari giunchiglie, tuberi di bionde cipolle o altre piante ancora, a seconda della colorazione che intende ottenere.

Poi il tutto, colato e triturato in filamenti, viene mescolato all'impasto cartaceo, preparato a parte, quindi steso opportunamente su appositi telai e qui lasciato essiccare dopo aver subito forti pressioni capaci di ridurlo a piani sottili come focaccia.

Prima che asciughi totalmente, Virginia da forma al corpo cartaceo con l'abilità delle mani aggiungendo o togliendo materia per tracciare limiti e consolidare spessori.

Modella così forme circolari plasmate in ruvide superfici dai colori naturali oscillanti tra seppia, turchese, ocre e senape: nascono corpi percepibili alla visione come possibili, illesi, "reperti antropologici" su cui si evidenziano misteriose tracce di tritati d'erba o di petali intrecciati a filamenti paglierini o cordacei, mentre polveri di terra tingono gibbosità calcaree alternate a cavità ombratili.

Sovente, piccole conchiglie o pietre fossili vanno a incastonarsi sulla superficie dell'opera come evocazione o intenso richiamo ad una dimensione naturale più consona all'uomo.

Del resto questi ideali "prelievi di Natura", inglobati tra doppie lamine trasparenti in perspek, oltre che a scopo scientifico-conservativo (tipico delle analisi di laboratorio su "vetrino"), sembrano qui proporsi come stratificazioni di memoria da consegnare a future generazioni...

In questo senso il nostro mondo oberato da oggetti inutili, quali frutti dell' inarrestabile consumo odierno, sembra idealmente ri-velare l'auratica e antica vocazione della reliquia , del prelievo , del calco con cui si possono registrare micro-oscillazioni d'un universo intimo, spirituale, governato da soggettive temporalità.

Da tutto ciò prende avvio una stimolante serie di icone , leggibili anche come "pagine in codice" in attesa di approfondite letture, in cui si pongono nuovi interrogativi tra ragione e sentimento, tra i "luoghi" dell'agire e il "corpo" del fare artistico. 

Anche i fogli di radica rappresentano un elemento con cui Virginia si misura costantemente attraverso la tecnica del collage.

In senso giocoso e rispettoso d'un fare artigianale, l'artista applica brani di natura lignea su carta acquarellata o trattata con polveri aniliniche: "fogli" che documentano perdite di funzioni originarie per acquisire nuovi sensi e strutturare nuovi paesaggi della mente.

In altri lavori ancora, Virginia dipinge fluttuanti forme naturalistiche su trasparenti fogli di acetato che, messi a distanza dal piano di fondo, creano un intrigante quanto magico gioco di ombre in grado di sfalsare e avvincere la percezione visiva, proprio come avviene nei complicati intrecci scenografici delle quinte teatrali.

Già autonomamente carichi di valenze segniche, questi frammenti di radica si fanno allora segni significanti, fondendosi simbioticamente con gli ondulati aloni che aleggiano vaporosi sulla superficie pittorica del supporto.

Tutto ciò diventa voce, sottile e suadente richiamo dell'autrice a quella sensibilità, tutta femminile, che molte scrittrici e artiste vanno affermando con l'attualità del loro lavoro. E cioè la proposizione di un'immagine accorata, sacrale, del mondo naturalistico legato alla poiesis, a un fare rapportato ai tempi e alle scansioni solenni di una natura che ancora oggi governa il mondo e con la quale dobbiamo fare i conti per evitare catastrofi ambientali.

Un universo che al contempo viaggia in parallelo e in contraddizione con la techné di una sofisticata condizione tecnologica di cui non si conoscono ancora i punti terminali.

Come appunto scrive il geografo inglese Denis Cosgrove:" ...siamo entrati in una nuova epoca, in un nuovo mondo di immagini fatte da macchine... Ma allo stesso tempo il nostro rimane un tempo antico, coi suoi ritmi immutabili che evocano risposte forti..."

Virginia ce ne suggerisce una, la sua.



Miriam Cristaldi

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carozzini

TRACCIARONO INSIEME

In un mondo soffocato da oggetti "inutili", concepiti per soddisfare un indotto e smodato bisogno dell'uomo contemporaneo, l'attenzione degli artisti Franco Carrozzini e Marco Locci si rivolge , per legge di compensazione, ad un lavoro attuato in "economia" mediante un processo di purificazione dei materiali attraverso la pratica di azioni minime, gesti minimi, tracce minime e presentando un linguaggio che è sì frutto della cultura tecnologica, di una memoria manipolata, ma depurato dal filtro di una precisa riflessione dove l'opera rimane in un contesto di investigazione concettuale.

Per questa mostra intitolata "Tracciarono insieme", al Museo Attivo Claudio Costa, via G. Maggio 6, fino a metà marzo) , i due artisti Franco Carrozzini e Marco Locci, nell'aderire a un'azione critica di contestazione verso le esteriorizzazioni dell'attualità, hanno pensato, in atteggiamento complementare, ad un'unica grande installazione realizzata a quattro mani. 

Se il primo si auto determina fissando l'attimo fuggente per mezzo dell'oggetto/icona virtuale , frutto di manipolazioni digitali effettuate attorno al corpo reale delle "setole" di un pennello da pittore, inserito nello scanner del computer, il secondo si presenta invece come osservatore imparziale nell'atto di cogliere lo scorrere eterno del tempo. Un tempo percepibile nello spazio dell'opera mediante la perenne oscillazione di fili d' acciaio armonici, alle cui estremità sono fissati dei pennelli da pittura. 

Questi attrezzi dello specifico dell'arte, vibrando nell'etere e sfruttando i continui, micro spostamenti d'aria, sembrano "segnare" tracce primigènie su fogli di carta sottostanti, predisposti in stretto contatto.

In realtà le diverse immagini elettroniche, stampate a colori su tali fogli (circa una cinquantina), sostenuti da un filo d'acciaio flessibile, sono precedentemente ottenute con lo scanner durante le registrazioni fotografiche delle "setole" del pennello, colte nelle loro differenti pressioni sull'apparecchio.

Metaforicamente, queste icone tecnologiche stampate su carta, mobili nello spazio a causa dalle oscillazioni dei fili d'acciaio sostenitori, si ergono a "segni" che vogliono "segnare" il mondo, mostrandosi nelle apparenze di tracce, di sistemi dialettici, fruibili come diaframma tra tempo reale e tempo mitico. 

L'opera in questo senso viene separata dagli eventi contingenti del reale mediante un concetto di opera originaria fornita di tracce quali proto-segni o princìpi dalle infinite possibilità, capaci di attingere direttamente nella sfera mitopoietica della simbologia.



Miriam Cristaldi







Ciò è riscontrabile anche nei grandi teli bianchi di Locci "ricamati" da macchie di ruggine ottenute dalla posa temporale di micro frammenti di ferro. Qui le impronte rossicce trasudate dal materiale metallico (eliminato dopo la formazione della ruggine), vanno a configurare misteriose sindoni collocabili fuori dal tempo e dalla storia.



Miriam Cristaldi

ceal

"Una e tre sedie" è il titolo della famosa opera del 1966 di Josef Kosuth, un artista cardine dell'Arte Concettuale: un'arte svincolata dall'oggetto e dalla qualità estetica e che punta direttamente a suscitare un'immagine mentale o un'idea.

Questo lavoro composto da una sedia reale, da una fotografia della stessa e dalla descrizione verbale della parola "sedia", rappresenta in realtà un oggetto unico attraverso la relazione diretta di tre differenti linguaggi: oggettuale, iconico, verbale.

Sull'onda di questa visione analitica del mondo - nata nella seconda metà degli anni '60 contemporaneamente in America e in Europa, al contempo scevra da compiacimenti formali ed emotivi - la giovane artista inglese Ceal Floyer ha creato un lavoro radicalmente "duro", dove l'oggetto presenta se stesso e non rimanda ad altri significati.

Nella conferenza stampa presentata al Centro della Creatività di Palazzo Ducale, l'artista ha potuto spiegare il suo lavoro, da sabato scorso visibile nella galleria Pinksummer , di Antonella Berruti e di Francesca Pennone (Via Lomellini 2, fino al 24 ottobre), specificando come sia fondamentale una visione del mondo provocante, spesso antiestetica, capace di eliminare ogni sottinteso e di proporsi nella cruda, immutabile realtà che nomina se stessa.

Ne è un esempio l'opera intitolata "Bucket"(= secchio) che rappresenta appunto un secchio di plastica nero, posato al centro del grande salone espositivo, entro cui è possibile ascoltare il rumore della classica goccia d'acqua che cade. Ma l'acqua non è presente, mentre ben visibile è l'apparecchiatura elettronica interna all'oggetto che permette di ascoltare il suono registrato (e continuamente ripetuto) di una sola goccia nell'atto di cadere.

Qui è evidente l'intento di non creare effetti magico-evocativi attraverso la simulazione acustica del suono della goccia poiché il meccanismo della finzione non è ingannevole ma ben esposto alla fruizione visiva: semmai è messa a fuoco la tautologica oggettualità dell'utensile industriale con all'interno l'amplificatore, in tutta la sua anestetica fisicità.

Ma è anche percepibile una certa visione orientale zen.

Eppure, nonostante la ferrea disciplina analitico-tautologica, basata sullo spiazzamento percettivo che toglie ogni possibilità interpretativa, nasce nell'opera un sottile aspetto emozionale, a volte intenso come nel lavoro "Ink on Paper"(= inchiostro su carta) dove pennarelli di differenti colori, posati in verticale sulla carta (nel tempo di una notte), creano gioiosi aloni colorati, specifici per ogni cromia.

Quasi a formulare una delicata serie composta dal DNA di ogni singolo colore, capace di "suonare" un'armonioso brano musicale.

In ottobre l'artista sarà presente a Torino, nella prestigiosa sede del Castello di Rivoli con la mostra collettiva "Mirror's Edge" curata da Okwui Enwezor, direttore della prossima edizione di Documenta-Kassel.







cesar domela

"Una e tre sedie" è il titolo della famosa opera del 1966 di Josef Kosuth, un artista cardine dell'Arte Concettuale: un'arte svincolata dall'oggetto e dalla qualità estetica e che punta direttamente a suscitare un'immagine mentale o un'idea.

Questo lavoro composto da una sedia reale, da una fotografia della stessa e dalla descrizione verbale della parola "sedia", rappresenta in realtà un oggetto unico attraverso la relazione diretta di tre differenti linguaggi: oggettuale, iconico, verbale.

Sull'onda di questa visione analitica del mondo - nata nella seconda metà degli anni '60 contemporaneamente in America e in Europa, al contempo scevra da compiacimenti formali ed emotivi - la giovane artista inglese Ceal Floyer ha creato un lavoro radicalmente "duro", dove l'oggetto presenta se stesso e non rimanda ad altri significati.

Nella conferenza stampa presentata al Centro della Creatività di Palazzo Ducale, l'artista ha potuto spiegare il suo lavoro, da sabato scorso visibile nella galleria Pinksummer , di Antonella Berruti e di Francesca Pennone (Via Lomellini 2, fino al 24 ottobre), specificando come sia fondamentale una visione del mondo provocante, spesso antiestetica, capace di eliminare ogni sottinteso e di proporsi nella cruda, immutabile realtà che nomina se stessa.

Ne è un esempio l'opera intitolata "Bucket"(= secchio) che rappresenta appunto un secchio di plastica nero, posato al centro del grande salone espositivo, entro cui è possibile ascoltare il rumore della classica goccia d'acqua che cade. Ma l'acqua non è presente, mentre ben visibile è l'apparecchiatura elettronica interna all'oggetto che permette di ascoltare il suono registrato (e continuamente ripetuto) di una sola goccia nell'atto di cadere.

Qui è evidente l'intento di non creare effetti magico-evocativi attraverso la simulazione acustica del suono della goccia poiché il meccanismo della finzione non è ingannevole ma ben esposto alla fruizione visiva: semmai è messa a fuoco la tautologica oggettualità dell'utensile industriale con all'interno l'amplificatore, in tutta la sua anestetica fisicità.

Ma è anche percepibile una certa visione orientale zen.

Eppure, nonostante la ferrea disciplina analitico-tautologica, basata sullo spiazzamento percettivo che toglie ogni possibilità interpretativa, nasce nell'opera un sottile aspetto emozionale, a volte intenso come nel lavoro "Ink on Paper"(= inchiostro su carta) dove pennarelli di differenti colori, posati in verticale sulla carta (nel tempo di una notte), creano gioiosi aloni colorati, specifici per ogni cromia.

Quasi a formulare una delicata serie composta dal DNA di ogni singolo colore, capace di "suonare" un'armonioso brano musicale.

In ottobre l'artista sarà presente a Torino, nella prestigiosa sede del Castello di Rivoli con la mostra collettiva "Mirror's Edge" curata da Okwui Enwezor, direttore della prossima edizione di Documenta-Kassel.







colombara

A Marco Matteini e Stefano Bigazzi, ciao e grazie





Fragili, luminose, eteree appaiono le delicate “crisalidi” che l’artista genovese Piergiorgio Colombara ha installato alla galleria Balestrini (via Isola 40, Albissola) per la mostra “Oggetti bugie”.

Crisalidi a parete e a tutto tondo - appese con fili invisibili al soffitto della galleria – da intendere come privilegiato luogo di nascondimento e di ri-velazione.

Luogo di nascondimento (pari alle bugie) perché racchiudono al loro interno (quindi negano alla vista) i frammenti di un’antica armatura, ricostruiti in vetro, ferro e terra dipinta. Ma un leggero spostamento d’aria può farli riaffiorare alla visione poiché la crisalide è costituita da sottilissimi fili di vetro e ottone che si possono spostare al minimo soffio d’aria.

Luogo di ri-velazione perché tali frammenti possono appunto ri-apparire e mostrare, tra il luccichio del vetro e dell’ottone, tutta la loro fisicità.

Ma al contempo assistiamo ad un’altra assenza: i frammenti di armatura vuoti evocano, richiamano cioè in vita, la presenza del corpo che li ha vestiti.

Una presenza che qui mette in evidenza proprio l’assenza di questo ipotetico corpo.

Un sottile gioco concettuale sta alla base dell’intera, felice operazione.



Miriam Cristaldi

conio

NEL SEGNO DEL BLU 



Mostra a quattro mani di Nicoletta Conio e Simonetta Porazzo





Nicoletta Conio 





Strappi, frammenti di carta, forme accidentali, sovrapposizioni logiche, graffiature, affilati cromatismi, gioco.

La materia dell’arte si avvita sulla materia del gioco. E nel gioco Nicoletta Conio riflette la propria identità.

Psicologa, psicoterapeuta, artista, prossimamente mamma, Nicoletta si muove su diversi livelli: quando è psicologa non si ferma al dato analitico ma preme l’acceleratore su qualità emozionali che sanno condurre nel fertile terreno della creatività, quando è artista s’ispira alle profondità dell’inconscio che esprime nella violenza gestuale delle carte straziate o negli ingorghi delle materie pittoriche, per questa mostra tenute sui registri dei blu. Giocando.

Sì, perché come dice Schiller (preso a modello da Joseph Beuys), “…l’uomo è assolutamente libero solo nel gioco poiché, quando gioca, è libero dai vincoli della logica e sensibile solo ai richiami del bello e dell’estetica…”.

Un “bello” che non corrisponde ai canoni greci, ma alle condizioni della contemporaneità, dove gli affondi nell’inconscio si materializzano nel corpo della pittura con farraginosi combattimenti di galassie turchine e gli “strappi” dell’anima nelle lacerazioni della carta andando così a comporre frammenti compositivi ove la forma genera forme.

Nascono allora fragili stratificazioni di brani cartacei (collages di carte strappate) che si articolano (e si sovrappongono) nello spazio dell’opera in ritmi consequenziali, quasi a suggerire universi indicibili, oltre agli universi stessi della pittura che irrompe ed occupa, aggredendola, la superficie del quadro.

Una pittura, questa, che agglutina le differenti aree con graffianti gestualità, sovente colte nell’atto di simulare moti ondosi o cieli temporaleschi, sciolte nelle liquidità placentari dei toni azzurro-bluastri.

Un tessuto cromatico, allora, concepito come vibrazione, eccitazione sensoriale, condizione di fremito, evocante una naturalità più sognata che riprodotta, più virtuale che reale, sovente dissociata da contesti figurali.

Una pittura che non cessa di essere “pelle” ove il colore destruttura il derma; una specie di fungo che intacca sia la superficie di fondo che il deposito dei frammenti. 

Pigmentazione cromatica che si ferma sull’orlo dello strappo: causa di ferite, di sottili lacerazioni, di territori di confine…

Territori che la pittura non osa corrompere ma, al contrario, arretra in aree limitrofe per una sorta di sospensione del giudizio.

E’ perciò un dipingere, quello di Nicoletta Conio, dove il caos non è disordine, ma orchestrazione di gesti, coagulazione di pensieri, collages di emozioni, per approdare a una visione del mondo come espressione critica che il gioco rivela.

Infatti, proprio là dove le slabbrature fremono e la ferita “sanguina”, prendono avvio nuove configurazioni immaginative: gioiosi puzzle che preannunciano altre conformazioni formali per materializzare nuovi orizzonti capaci di fornire ulteriori possibilità interpretative, inedite diramazioni della mente.

Perché, come dice Claudio Costa, “ … quando l’uomo attua una trasformazione raggiunge nuovi livelli di conoscenza e può immergersi in quell’<anima mundi> di cui l’uomo primitivo ha sempre fatto parte…”.



Miriam Cristaldi 

Genova, 15 novembre







Simonetta Porazzo





L’artisticità di Simonetta Porazzo, psicologa e arteterapeuta, si esplica soprattutto nel territorio della scultura attraverso la lavorazione della ceramica con cui modella forme. Forme a parete o a tutto tondo che, per loro stessa costituzione, rimandano a strutture visive frastagliate ed in parte ossessive, percepibili nella striature laceranti delle superfici formali e nella reiterate presenze di alcuni elementi figurali come gli arabeschi dei corpi solari, le lamelle dei moti ondosi o le geometrie degli astri.

Duplice è quindi lo spostamento mentale che provocano i lavori di Simonetta: se da un lato sanno evocare un poetico mondo di stelle dorate, onde marine, vele al vento, dall’altro possono rimandare alla violenza dei tagli, alla sofferenza delle piaghe, a trituramenti carnali, a frantumazioni di interi…

Affiora così un’appassionata quanto intima sensualità, celata e sublimata dagli accecanti bagliori della foglia d’oro che riveste il cotto o dai preziosismi astrattizzanti delle decorazioni incise.

Ma sotto la cenere cova il fuoco: dietro il virtuosismo di certi mordenti tatuaggi, oltre le vellutate gradazioni di smaglianti cobalti o sotto la pelle di avvolgenti “armature”, si nasconde una materia ribollente, invasiva, tramutabile facilmente in schiuma salmastra o in magma lavico in lenta ma inesorabile espansione.

Un fare scultura, quindi, chiaramente riconducibile all’universo interiore, alle strutture labirintiche della mente, ai moti dell’anima per dare origine a contrastanti visioni che oscillano tra dorati scintillii e oscuri affondi nell’inconscio dove ombre blu sfuggono alla luce e le intese sono possibili solo nella dimensione del mistero.

E ancora, con Simonetta Porazzo si entra nella memoria ancestrale: i segni del blu materializzano volte celesti, stratificazioni eteree, liquidità acquatiche, sfere di Atlantide: cromie e gestualità generano armonie e tensioni del mondo capaci di rivelarne un verso, un particolare ductus, un profilo che si offrono alla percezione visiva come espressioni di una natura introiettata, come esperienza di un personale vissuto.

Paradigmatico in questo senso è il lavoro “Attaccapanni”, una forma in ferro e grès che riproduce la parte retrostante del corpo umano (a grandezza naturale), decapitato e senza arti.

In pratica, un guscio vuoto.

Il sembiante può allora apparire come pelle di un dorso inciso da soli irradianti, e al contempo come metafora di una corporalità rivolta ad una dimensione celeste, ma anche come fragile carnalità costituita da assemblaggi metallici quali scaglie grumose le cui superfici denunciano gibbosità, agglomerati polposi, scalfitture, lesioni, corruzioni della materia…

Un corpo perciò che ha smarrito la propria identità e che, svuotato della sua essenza, può divenire memoria e simulacro di se stesso, giusto un semplice “attaccapanni” cui appendere le vesti.

Ma nella duplicità della visione, Simonetta Porazzo prende le distanze: i dettagli del corpo possono suggerire altre versioni. A fronte di una “spogliazione dell’essere” può essere invocato il regno del mito. 

E l’appendiabiti potrà allora capovolgersi nell’olimpica “corteccia-corazza” che struttura (e sostanzia) il corpo glorioso degli dei.



Miriam Cristaldi

Pubblicato catalogo gennaio 2001

costa corniati



"L'uomo è portatore d'ombra", ha detto Claudio Costa riferendosi al sofferto dibattito degli anni '50/'60 che affrontava le problematiche riguardanti la consapevole perdita da parte dell'uomo della sua centralità dovuta alla riflessione sulla scoperta dei propri limiti, secondo il principio scientifico di Heisenberg.

Questo Principio afferma l'impossibilità dell'uomo di raggiungere una piena e totale conoscenza; perciò egli vive nel probabile mentre l'oggettivo scivola nel soggettivo. Da qui si sviluppano le teorie del dubbio e dell'incertezza.

Per superare questa schisi, questo baratro che separa il tempo dallo spazio, Costa decide di entrare nella dimensione dell'artisticità: un campo non facile ma che, contrariamente a quello scientifico, non necessita di verifiche.

Attraverso la sfera dell'arte sarà allora possibile proporre mondi illesi capaci di contenere "verità".

E la verità l'artista la trova in un cammino rovesciato, andando contro corrente, forte della sua posizione di sessantottino a Parigi, voltandosi idealmente indietro fino a raggiungere la preistoria, proprio "...là dove la creazione volge alla fine..."; in quel punto cioè dove sta per concludersi l'evoluzione dell'animale e prende corpo la venuta dell'uomo.

A causa di un presente fortemente insicuro (con due guerre mondiali alle spalle e con la caduta degli ideali), Costa trova un saldo punto d'appoggio nell'arcaicità della storia, cioè nella preistoria, sulla quale fonda l'enunciato della "regressione del tempo" spiegandosi in questi termini : "Ho cercato di teorizzare con l'<WORK IN REGRESS>, in opposizione all "Work in progress" di James Joyce, l'insistere del feed back sul ritorno della fase primigenia dell'essere... In realtà essere <retrostante> significa per me essere situato da qualche parte (in un passato remotissimo), nel momento in cui mi rendo conto che l'uomo occidentale contemporaneo è pericolosamente lanciato, come palla di biliardo, sul panno-pelle della realtà... (AFRIca, ed. Parise, Verona '91).

Un esempio radicale, illuminante, di questo cammino a rovescio l'artista ce lo propone col "Museo dell'uomo" '71-'73: un simbolico lavoro esplicativo del suo pensiero che vuole porre l'attenzione sulla necessità di riappropriarci della nostro passato per meglio capire la complessità del presente, rivolto al futuro. Questo per recuperare anche la conoscenza sapienzale di allora, perduta nei millenni.

L'opera è composta da un grande armadio di fine ottocento, usato per conservare la pasta nei negozi alimentari, fornito di tanti cassetti con sportelli in vetro, disposti a "vetrina", in cui Claudio vi ha deposto calchi in gesso di frammenti di corpo umano (il suo), proprio come una sorta di esposizione museale.

Frammenti che l'artista, con pazienza infinita, ha realizzato fedelmente (a grandezza naturale) con calchi della sua testa - dipinti e rivestiti di capelli, barba e occhi in porcellana - ripetuta in sequenza in modo che il viso regredisca fino a perdere la fisionomia umana ed acquisti quella animale diventando progressivamente, fino all'ultimo esemplare, totalmente testa di scimmia.

La stessa operazione è stata compiuta sui calchi delle mani e dei piedi trasformandoli man mano in zampe di primati.

Questo per visualizzare una sorta di Museo che documenti e certifichi un' evoluzione all'<indietro>, cioè un cammino dall'oggi alla preistoria, accompagnato da una riflessione antropologica <rovesciata> che dal presente si muove verso il passato fino a raggiungere le origini.

Anche negli ultimi tempi, nell'atelier di Genova-Quarto, Claudio ha ricostruito una sequenza di forme (questa volta in terracotta e in misura assai ridotta), un ulteriore <Museo dell'uomo> in cui le forme umane del volto si trasformano in teste di scimmia.

Qui, insieme, abbiamo modellato la creta scavando con le sgorbie i solchi delle rughe, i ricci dei capelli, i peli del muso, i fori delle narici, i tratti che delimitano i dentini e al contempo modellato le sporgenze frontali e quelle degli archi ciliari, insieme agli zigomi delle guance.

Dopo la cottura nel forno, donato dall'arte-terapeuta Serena Olivari, siamo passati alla fase pittorica dipingendo il bianco degli occhi, il rossiccio della pelle, il nero dei peli e delle pupille. Operazione a cui sovente ha assistito (imparando la tecnica) anche l'artista-degente Davide Raggio, allora fortemente attivo, ora, dopo la scomparsa di Claudio ('95), completamente fermo.

Con la performance dell'<Arcimboldo evocato> Costa fa parlare il proprio corpo con altri mezzi, in questo caso rivestendolo di "terra" (la creta dei suoi lavori) per diventare egli stesso monumento-vivente dedicato alla divinità poiché ha detto: "...gli artisti sono il dono della terra al cielo...".

Arcimboldo è un pittore rinascimentale che dipinge la figura umana in maniera anti-logica. Infatti i suoi noti personaggi sono integralmente ricostruiti con elementi della natura come tronchi d'albero, rami, foglie, frutti, ortaggi. Cioè in questo contesto l'uomo acquisisce sembianze della natura.

Che è un po' anche l'intento di Claudio: l'uomo viene dalla terra e torna alla terra, "pulvis es et in pulverem reverteris".

E' estate, fa caldo, l'artista sta preparando quest'ultima sua performance da eseguire davanti a un folto pubblico, nella piazza principale di Sarzana ('94).

Per l'evento l'artista chiama tre vestali (Giulia degli Alberti, Carla Sanguineti e io) affinché lo trasformino in un corpo di terra.

Claudio, seduto immobile attende il loro intervento: in un angolo sono sistemati rastrelli, vanghe, falci, una tinozza colma di argilla, forconi, ossa, legni, arbusti, canne vegetali... Le vestali gli si avvicinano e iniziano a mimare dei simbolici "innesti" tra questi oggetti contadini e il corpo dell'artista (secondo un ipotetico ed emblematico abbraccio tra natura e cultura materiale) attraverso la metafora di una corda che gli lega attorno tali oggetti.

Poi si dà avvio alla "vestizione": con gesti misurati le officianti lo cospargono d'argilla fino a rivestirlo totalmente lasciando liberi solo il taglio degli occhi.

Quando è interamente ricoperto di terra egli si alza per collocarsi, in piedi, al centro di un'elevata pedana. Qui, la sua persona si erge alta e ritta sullo sfondo crepuscolare (è quasi sera) mentre i suoi piedi vengono "murati" con la creta a mò di piedistallo. Poi, succede un fatto incredibile: uno stormo di piccioni in volo si posa improvvisamente su quella statua vivente: il mito dell'agnello rivive tra i presenti.

Se per Costa questi sono alcuni tra i modi d'intendere il corpo umano nell'arte, altri artisti usano il corpo come mezzo per esprimere verità: le grandi trasformazioni scientifiche come quelle generate dalla biogenetica o le conquiste tecnologiche della cibernetica con la realtà virtuale, hanno creato nuovi limiti, nuove frontiere a cui l'umanità tende non senza porsi domande, da sempre fondamentali, che investono in primo luogo la sfera dell'etica.

Ad esempio, Cindy Sherman usa il proprio corpo come luogo di travestimento e di trasformazione, a volte orrifica, quale simbolica espressione di un'evoluzione tecnologica. I fratelli Chapman creano personaggi tridimensionali, a grandezza naturale, curiosissimi, quasi osceni, in cui la fisicità dei corpi corrisponde a un'ideale e spaventosa mutazione genetica.

Maurizio Cattelan cattura nei suoi lavori gli atteggiamenti odierni di pericolo o di violenza, misti a un certo alone sacrale, come il lavoro dell'ultima biennale veneziana ove mani giunte in preghiera fuoriescono dalla sabbia o ancora come nell'opera in cui ricostruisce in maniera iperrealista la bianca figura del Papa che cade dolorosamente su di un fianco a causa di un grosso meteorite che lo ferisce insanguinando la veste e il pavimento.

Con Oliviero Toscani si affrontano tematiche relative ai rapporti raziali, oppure gli aspetti dolorosi di malattie nuove come l'AIDS attraverso immagini di sofferenza, tradotte in gigantografie murali.

Queste ed altre esperienze artistiche possono porsi come momento e luogo di riflessione sulla "storia, tradizioni, problemi di oggi, opportunità per il futuro", come del resto lo stesso convegno suggerisce.



Miriam Cristaldi



crespo

“Ogni composizione sembra assumere la frontalità del teatrino popolare, un “teatro dei pupi” capace di tradurre il sublime in delicate marionette del presente…nella direzione tascabile di una memoria soggettiva.” scrive Achille Bonito Oliva riferendosi al lavoro di Maria Cristina Crespo e, in effetti, sembra proprio di assistere ad un’insolita messa in scena costituita da caratteristici micro-personaggi (figurine di gesso o cartapesta alte, al massimo, circa mezzo metro) abitanti fantauniversi in oscillazione tra sacralità e kitsch, tra citazioni mitologiche e iconografie da fabula.

E’, quello della Crespo, un universo immaginifico ( in esposizione all’associazione culturale Satura, piazza Stella1, fino al 24 ottobre), racchiuso e compresso nello spazio ridotto di cornici a scatola, dall’ampiezza di alcuni centimetri, entro cui si svolgono rappresentazioni mito-religiose.

Attraverso un processo creativo, questi attori di gesso - dai visi dipinti con richiami alla storia dell’arte, incorniciati da fluidi capelli in cotone o seta, e vestiti da stoffe variopinte – sembrano narrare storie che se prendono avvio da medievali cleris vagantes di lontana memoria, d’altra parte giungono a noi in qualità di prezioso reperto, dato che le coordinate spazio-temporali sono oggi annullate dalla perenne “simultaneità del mondo tecnologico, in cui azione e reazione tendono a fondersi”(McLuhan).



Miriam Cristaldi



colombara

"Il romanticismo dell'ostacolo" è il titolo della cartella, composta da 50 esemplari, presentata dagli artisti A. Bove, P. Assmann, V. Vasta, R. Hammerstiel, R. Huber-Wilkoff nello spazio della galleria Leonardi V - Idea (piazza Campetto 8) e, al contempo, titolo della mostra che gli stessi hanno allestito nell' ampio ambiente.

Il gruppo, dopo tre anni di mostre, convegni e dibattiti rivolti alle problematiche della malattia mentale e a stretto contatto coi degenti psichiatrici, è riuscito con questa esposizione a trasmettere all'osservatore le esperienze accumulate nel tempo e, allo stesso modo, ha saputo cogliere le specificità delle espressioni carenti di creatività interagendo attivamente con una comunicazione del "cuore a cuore" (vedi testo di Claudio Costa sul Museo Attivo delle Materie e Forme Inconsapevoli), attraverso l'uso di differenti codici linguistici.

In questo caso, la parola "ostacolo" è riferibile al disagio psichico dove la comunicazione diventa afasica, mancante, ma che sa arricchirsi di qualità "romantiche" nel momento in cui si riesce, nel nome dell'artisticità, a superare le barriere delle incomprensioni e a cogliere nella "malattia" quei germi di libertà laddove i comportamenti si svincolano dalle norme societarie.

Paradigmatico è il disegno di Assmann dove una mano sicura, di adulto, sembra accogliere e proteggere una piccola mano indifesa di bimbo. Quasi a simulare la saggezza dell'uomo maturo che sa capire e fare propria la fragilità del debole.

Bove presenta un suo apparecchio fantastico capace di materializzare i sogni: uno di questi si visualizza nella forma autentica d'un pane integrale che assume la connotazione magica d'imbarcazione su cui campeggiano piccole "vele" elaborate con immagini di neuroni cerebrali.

Hammerstiel propone la gigantografia di una persona disabile che viene risucchiata nel vortice della pittura come elemento interattivo capace di scuotere la superficie del quadro diventando tutt'uno con l'opera.

Huber mostra un complesso quanto interessante alfabeto di segni coincidenti col regno animale: insetti e frammenti corporei si dispongono in dinamismi ritmici andando a tessere una sorta di scrittura misteriosa.

Vasta esibisce una serie di fotografie di grande formato raffiguranti il "popolo dei senza nome" (piuttosto che chiamarli matti), persone cioè cacciate dal "paradiso normale" che attendono ed esigono il "diritto alla riconoscibilità".


Spazio per l'evocazione



Evocare, da ex-vocare = "chiamare da...", significa ri-vivere, ri-chiamare in vita esperienze passate in contesti diversi, arricchite di potenzialità espressive nuove.

Questo ulteriore spazio dovrà essere "abitato" dalle opere di artisti contemporanei (circa tre per ciascuno) quali Jean Dubuffet, Vincent Van Gogh, Wassilli Kandinsky, Paul Klee e Antonio Ligabue affinché permettano di evocare, e quindi ri-chiamare in vita l'esperienza estetica degli artisti scomparsi in un rinnovato e creativo contesto di attualità.

La scelta di questi "grandi" è stata operata in base ai rapporti che tali personalità hanno allacciato con il disagio psichico, sia come esperienza del proprio vissuto che come materia di studio per la prassi processuale della loro ricerca, o col disegno infantile come espressione inconsapevole e incolta da cui trarre una possibile verginità d'immagine.

I lavori esposti possono essere percepiti anche come richiami culturali capaci di fornire arricchimenti per la comprensione del Museattivo Claudio Costa.

"... Miracolo dell'evanescenza impressa, assestarsi dell'ombra nel dominio della luce... eccesso di visione, moltiplicazione della luce... tocca il punto di dissoluzione mentre il mondo scompare..." così scrive Marco Goldin sulla pittura di Raimondo Sirotti che di recente ha inaugurato alla galleria Rotta con la mostra "La luce dello spirito". 

Proprio la luce è eletta protagonista assoluta del linguaggio poetico dell'artista: una luce che sprofonda negli abissi dell'oscurità, squarcia cieli tempestosi, insanguina acque stagnanti, illumina fronde fradice, rarefà atmosfere calcinate, liquefa pietre calcaree.

La sua pittura si condensa in vorticosi gesti che concorrono alla definizione di un' immagine quale frutto di un rapporto con la natura: un rapporto diretto, "en plein air ", testimoniato da veloci schizzi eseguiti sul posto per realizzare in un secondo tempo, nel raccoglimento dello studio, grandi quadri filtrati dal ricordo della memoria.

Sovente l'emozione del gesto pittorico supera l'evento emozionale scaturito dal diretto contatto con l'ambiente.

E allora si sprigionano forze ossimoriche: la bellezza apollinea dei grappoli di glicine, di magnolie in fiore, di sfavillanti cieli perlacei, si sposa con la visceralità dionisiaca di una natura tormentata dai venti, quasi imbevuta da spirito dissolutore.

In questo senso pacate campiture con preziose e raffinate tonalità interagiscono con effetti brillanti e pungenti di verdi cromie, rese con gestualità incisive e scomposte cosicché romantici esiti impressionistici si fondono con ruvide gestualità espressionistiche.

Sempre meno l'artista sembra preoccuparsi di riprodurre sulla tela la realtà del paesaggio mentre ora, seguendo in modo più cosciente la dinamica del pensiero, secondo urgenze di energie interiori, l'attenzione si concentra più sulla resa di profondità spaziali mediante connotazioni segniche di forte impatto visivo capaci di azionare svariati campi di linee direzionali. 

Ne è un esempio l'opera "Chiaro di luna: nubi marine" in cui è visibile anche il rovesciamento degli elementi: il cielo di qualità aerea è reso plumbeo e pesante come pietra mentre la liquidità marina è un vibratile gioco tra bagliori sussultori e oscurità eteree; lame di luce suggeriscono infinite profondità astrali mentre splendori lunari sfondano la materia e si fanno luce dell'anima.

La lezione dell'Informale Naturalistico degli anni '5O si sposa con quella dell' Espressionismo Astratto americano di quegli anni e Raimondo Sirotti ne fa tesoro anche se la pittura di questo artista genovese (nato a Bogliasco nel '34 , oggi direttore dell'accademia Ligustica di belle Arti) guarda a tutta la storia della pittura, compresa quella inglese di Turner e Constable.

E' Raimondo, un pittore capace di "... credere ancora che riempire i colori della tela sia l'unico atto che ci salverà... e sa dipingere una luce che non è più solo della Liguria, e forse, non lo è mai stata...".



Miriam Cristaldi



Miriam Cristaldi 


costa

In concomitanza con la mostra antologica "L' ordine rovesciato delle cose" inaugurata a Villa Croce e dedicata alla figura di Claudio Costa, il giovane artista genovese Cesare Viel ha reso omaggio all'amico scomparso con una performance intitolata "La fine di Zenone", ispirata all'"Opera al nero" di Margherita Yourcenar.

Evento svolto nello spazio paradigmatico di Genova-Quarto nell'ex ospedale psichiatrico, luogo dove Costa aveva ritagliato uno spazio lavorativo in un ampio padiglione dismesso coincidente con la sede dell'Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli.

Qui, fino alla sua morte, sono nate innumerevoli opere d'arte di grandi dimensioni mai realizzate prima, sovente arricchite di simbologie archetipali tratte da esperienze vissute in continui viaggi africani.

Questa parte di vita, dall' '85 al '95, fondamentale e certamente la più vivace nello sviluppo artistico-formativo di Claudio, non è documentata nell'antologica di Villa Croce risultando in questo senso incompleta e insufficiente per comprendere appieno il cammino dell'artista, pur nell'alta resa del periodo artistico contemplato dalla curatrice. A questo proposito è in preparazione il libro "Claudio Costa a Quarto" che testimonierà quest'arco di vita con saggi scritti da Antonio Slavich e dalla sottoscritta.

La pratica della performance, molto in uso alla fine degli anni '6O e negli anni '7O appare oggi ridotta: ha perso quegli effetti plateali caratterizzati da spirito neoavanguardistico di contestazione che aveva pretese di rovesciare il mondo e si basava quasi esclusivamente sull'uso esplicativo del corpo come efficace mezzo di denuncia, di rivolta e di disagio.

Attualmente nella civiltà contemporanea fondata sul villaggio globale l'economia è paradigma di "misura" mentre il reddito stabilisce il valore della persona: da qui la fuga nel privato per sopperire all'esigenza di ricostruire una totalità dell'essere.

La performance di Cesare Viel, bravo artista citato da Gillo Dorfles come uno dei più promettenti performer del nuovo millennio (e salito alla cronaca per aver dedicato a Cesare Pavese, a Torino, la performance che gli è stata negata dai familiari) non contiene germi di aggressività, spirito contestatario o enfatiche teatralizzazioni ma nasce piuttosto dalla soggettività , dall' intima condivisione di una realtà ri-vissuta tra artista e presenti., pur veicolata attraverso la sottile vena della finzione.

Una condivisione di stati d'animo, di emozioni che partono dall'autore e arrivano al fruitore per tornare , caricati di proiezioni, al mittente. Quest' operazione riesce a cogliere il momento, il "carpe diem", l'attimo fuggente nei pochi minuti in cui Cesare leggendo un brano del romanzo storico dà corpo all'evento. La realtà d'un suicidio annunciato, quello di Zenone che preferisce morire di propria mano piuttosto che subire la pena capitale inflittagli dall'Inquisizione, si coglie nel tremore misurato della voce, nei gesti calibratissimi ed essenziali dell'artista, nei pochi oggetti disposti nello spazio-cella densi d' implicazioni simboliche.

Un tavolo, una sedia, una brocca d'acqua, una coperta, una lampada e un cutter sono i riferimenti poveri di una scena sommessa, lontana dagli incantamenti della tecnologia e dal frastuono metropolitano per privilegiare emozioni da consumare in questo luogo denso di rimandi evocativi.



Miriam Cristaldi


Il linguaggio artistico di Claudio Costa si basa sulla riformulazione di un modello ottenuto rovesciando l'ordine di precedenti codici linguistici.

Così se Duchamp "estranea" l'oggetto Costa opera un "paesamento" che ne esalta la funzione caricandolo, in seguito, di significati simbolici; col suo "Work in regress" si contrappone al "Work in progress" di Joyce e ancora, i suoi studi antropologici partono dalla terra , da un affondamento degli oggetti contadini in una "mota alluvionale" mentre Beuys parla di fondazione per la "rinascita dell'agricoltura" attraverso un lavoro col miele trasportato verso l'alto; inoltre rovescia l'atteggiamento dei paleontologi che ricostruiscono partendo dall'antico per giungere al presente; Costa invece ri-costruisce andando a ritroso partendo dal contemporaneo (vedi ad es. l'opera "Il museo dell'uomo" del '72, '73)

Anche la fase alchemica abbracciata dall'artista apertamente rivelata, contrasta con l'atteggiamento del vero alchimista che non può riferire la personale adesione a tale pratica.

In questo senso e a maggior ragione appare appropriato il titolo della mostra antologica "L'ordine rovesciato delle cose" , presentata a Villa Croce ( fino al 3O aprile) dalla curatrice Sandra Solimano e dedicata all' artista genovese Claudio Costa, nato a Tirana (in Albania) nel '42 e scomparso improvvisamente, ancor giovane, nel luglio del '95.

La mostra è corredata di catalogo a colori e b. n. con testi critici di Becker, Cortenova, Del Guercio, Pedrini, delle edizioni Skira, Milano..

La panoramica che inizia con opere del '69, esposte per la prima volta alla galleria "La Bertesca" (emblematico spazio che ha dato i natali all'Arte Povera due anni prima), fino agli inizi degli anni '9O con i lavori creati per "Il concerto Barulé" (un paesino della campagna ligure), permette di capire la grandezza di questo artista genovese conosciuto e apprezzato in Italia e all'estero che si è sempre dissociato dalle logiche di mercato e che, con la vita, ha pagato le conseguenze.

Di carattere libero e indipendente - Costa aveva partecipato al maggio parigino del '68 da cui aveva assorbito lo spirito di contestazione - ha potuto esprimersi in grande autonomia svincolandosi da etichette e da correnti precise, pur attingendo a modelli culturali come quelli dell'Arte Povera, del Concettuale e di certi atteggiamenti Fluxus, propri di quegli anni, ma sempre sui generis, mai da epigono.

In virtù di ciò si è straordinariamente allargato, con un ventaglio enorme di possibilità, a differenti processi culturali appropriandosene: dall'antropologia alla paleontologia, dallo strutturalismo all' alchimia, dalla filosofia Zen alla cultura preistorica fino a quella industriale;

Ha lavorato in grandi spazi , come quello psichiatrico di Genova-Quarto fondando nell' '88 l'Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli e nel '92 il Museo omonimo (che attende una ridefinizione strutturale) con gli psichiatri Slavich, Macioni e la sottoscritta; spazi che generano opere di grandi dimensioni.

Rigore assoluto, radicalità nelle scelte, antiesteticità (quasi un pugno allo stomaco) sono le caratteristiche costanti che semantizzano l'opera di Claudio Costa, ma tutto appare così incredibilmente armonizzato nei toni severi delle ocre, delle terre, del fango da risultare fortemente "estetico", pittorico, armonioso.

In tal senso valga per tutte l'opera in mostra "Antropologia riseppellita", realizzata con casse esposte nell'importante rassegna di Documenta 6 a Kassel (in Germania) nel '77.

In questi enormi contenitori giacciono oggetti contadini, cocci, foglie, rami, interamente ricoperti di fango alluvionale come se la "mota" potesse accomunare in un unico tempo eterno cose del passato e del presente; rimangono in vista solamente oggetti ricostruiti in terracotta, e reperti pseudo scientifici allineati secondo una ritualità d' antropologo. Infatti ha fatto parte con i Beker, i Poirier, Boltanski, Simonds e Graves del gruppo Antroplogia o Mitologie Individuali, nato nei primi anni '7O e teorizzato da Gunter Metken.

Altra sezione molto significativa della mostra è quella con i lavori facenti parte dell'indagine sulla cultura materiale di Monteghirfo "del '76, '77: il particolare del collage di una finestra contadina, composta di vetri "appannati" attraverso cui è possibile abbracciare un paesaggio boschivo attuato concettualmente con fotografie reiterate , si carica di qualità simboliche non prive di alta poesia.

Il recupero di una cultura materiale contadina in estinzione, abbandonata alla deriva, fa recitare a Costa nel '79 le seguenti parole: "Il tempo renderà più chiari questi lavori , se avrò ragione a proseguire su una strada che oggi pochi conoscono perché è stata in parte dimenticata, ma che forse sarà riaperta a molti.".



Miriam Cristaldi


Il linguaggio artistico di Claudio Costa si basa sulla riformulazione di un modello ottenuto rovesciando l'ordine di precedenti codici linguistici.

Così se Duchamp "estranea" l'oggetto Costa opera un "paesamento" che ne esalta la funzione caricandolo, in seguito, di significati simbolici; col suo "Work in regress" si contrappone al "Work in progress" di Joyce e ancora, i suoi studi antropologici partono dalla terra , da un affondamento degli oggetti contadini in una "mota alluvionale" mentre Beuys parla di fondazione per la "rinascita dell'agricoltura" attraverso un lavoro col miele trasportato verso l'alto; inoltre rovescia l'atteggiamento dei paleontologi che ricostruiscono partendo dall'antico per giungere al presente; Costa invece ri-costruisce andando a ritroso partendo dal contemporaneo (vedi ad es. l'opera "Il museo dell'uomo" del '72, '73)

Anche la fase alchemica abbracciata dall'artista apertamente rivelata, contrasta con l'atteggiamento del vero alchimista che non può riferire la personale adesione a tale pratica.

In questo senso e a maggior ragione appare appropriato il titolo della mostra antologica "L'ordine rovesciato delle cose" , presentata a Villa Croce ( fino al 3O aprile) dalla curatrice Sandra Solimano e dedicata all' artista genovese Claudio Costa, nato a Tirana (in Albania) nel '42 e scomparso improvvisamente, ancor giovane, nel luglio del '95.

La mostra è corredata di catalogo a colori e b. n. con testi critici di Becker, Cortenova, Del Guercio, Pedrini, delle edizioni Skira, Milano..

La panoramica che inizia con opere del '69, esposte per la prima volta alla galleria "La Bertesca" (emblematico spazio che ha dato i natali all'Arte Povera due anni prima), fino agli inizi degli anni '9O con i lavori creati per "Il concerto Barulé" (un paesino della campagna ligure), permette di capire la grandezza di questo artista genovese conosciuto e apprezzato in Italia e all'estero che si è sempre dissociato dalle logiche di mercato e che, con la vita, ha pagato le conseguenze.

Di carattere libero e indipendente - Costa aveva partecipato al maggio parigino del '68 da cui aveva assorbito lo spirito di contestazione - ha potuto esprimersi in grande autonomia svincolandosi da etichette e da correnti precise, pur attingendo a modelli culturali come quelli dell'Arte Povera, del Concettuale e di certi atteggiamenti Fluxus, propri di quegli anni, ma sempre sui generis, mai da epigono.

In virtù di ciò si è straordinariamente allargato, con un ventaglio enorme di possibilità, a differenti processi culturali appropriandosene: dall'antropologia alla paleontologia, dallo strutturalismo all' alchimia, dalla filosofia Zen alla cultura preistorica fino a quella industriale;

Ha lavorato in grandi spazi , come quello psichiatrico di Genova-Quarto fondando nell' '88 l'Istituto per le Materie e Forme Inconsapevoli e nel '92 il Museo omonimo (che attende una ridefinizione strutturale) con gli psichiatri Slavich, Macioni e la sottoscritta; spazi che generano opere di grandi dimensioni.

Rigore assoluto, radicalità nelle scelte, antiesteticità (quasi un pugno allo stomaco) sono le caratteristiche costanti che semantizzano l'opera di Claudio Costa, ma tutto appare così incredibilmente armonizzato nei toni severi delle ocre, delle terre, del fango da risultare fortemente "estetico", pittorico, armonioso.

In tal senso valga per tutte l'opera in mostra "Antropologia riseppellita", realizzata con casse esposte nell'importante rassegna di Documenta 6 a Kassel (in Germania) nel '77.

In questi enormi contenitori giacciono oggetti contadini, cocci, foglie, rami, interamente ricoperti di fango alluvionale come se la "mota" potesse accomunare in un unico tempo eterno cose del passato e del presente; rimangono in vista solamente oggetti ricostruiti in terracotta, e reperti pseudo scientifici allineati secondo una ritualità d' antropologo. Infatti ha fatto parte con i Beker, i Poirier, Boltanski, Simonds e Graves del gruppo Antroplogia o Mitologie Individuali, nato nei primi anni '7O e teorizzato da Gunter Metken.

Altra sezione molto significativa della mostra è quella con i lavori facenti parte dell'indagine sulla cultura materiale di Monteghirfo "del '76, '77: il particolare del collage di una finestra contadina, composta di vetri "appannati" attraverso cui è possibile abbracciare un paesaggio boschivo attuato concettualmente con fotografie reiterate , si carica di qualità simboliche non prive di alta poesia.

Il recupero di una cultura materiale contadina in estinzione, abbandonata alla deriva, fa recitare a Costa nel '79 le seguenti parole: "Il tempo renderà più chiari questi lavori , se avrò ragione a proseguire su una strada che oggi pochi conoscono perché è stata in parte dimenticata, ma che forse sarà riaperta a molti.".



Miriam Cristaldi


"Il crudo e il cotto" di Claudio Costa



Riferendosi alla figura biblica di Adamo gli antichi scritti medievali lo descrivono come creazione generata dal limus , termine traducibile con la parola ARGILLA.

Ildegarda di Bingen afferma che la terra composta dall'unione di argilla con acqua sarebbe stata "cotta"" col fuoco dell'anima dando così origine a "carne " e "sangue ".

Nelle mitologie sulla creazione del mondo, la terra argillosa è la materia canonica con cui la divinità crea l'uomo: per esempio nell'antico Egitto essa è la materia usata dal dio Khnum (dalla testa di Ariete) per dare origine all'umanità; nel poema epico-babilonese, noto con il nome di Epopea di Gilgamesh, la dea Aruru forma il suo primo uomo con la tecnica dei vasai dell'età neolitica; l'Antico Testamento descrive la nascita dell'uomo attraverso il "fango" su cui la divinità soffia lo "spirito". 

L'argilla cotta è l'antica materia con cui sono stati fabbricati i laterizi per la costruzione di antiche civiltà attraverso i mattoni, le tegole, i coppi, le mattonelle ecc...

L'argilla dapprima viene impastata con acqua, in seguito modellata a mano cui segue prontamente la fase dell'essiccamento per giungere infine alla cottura nel forno, a mille gradi circa. 

Ma anche l'aspetto artistico-creativo insieme a quello di uso domestico passano attraverso il cotto: gli antichi vasi cinerari (etruschi) ed ancora le giare(greche e romane), le otri, le coppe, le anfore, le cornucopie, i piatti, gli idoli, le veneri steatopige, le maschere, sono tutti manufatti nati dall'argilla composta da silicati di alluminio.
L'argilla costituisce infatti la materia prima con cui si fabbricano i materiali ceramici che, a seconda della lavorazione, si suddividono in prodotti a pasta porosa (terrecotte, laterizi, terraglie o faenze) e prodotti a pasta compatta (porcellane, terraglie forti e gres). 

Sulla scena dell'arte moltissimi artisti si sono cimentati con la ceramica (valgano per tutti nel recente passato i nomi di Leoncillo o di Fontana e per il presente Luigi Mainolfi, Nanni Valentini o Giuseppe Spagnulo) : fin dall'antichità, e cioè dalla preistoria ad oggi, questo materiale cotto nel fuoco da sempre affascina l'uomo che lo modella con partecipata emozione recuperando un privilegiato e diretto rapporto col simbolico ed archetipale "grembo" (madre terra) dell'umanità;

Nel contesto di questo convegno la mia relazione vuole essere una testimonianza del lavoro di Claudio Costa, artista genovese recentemente scomparso (Tirana 1942 - Genova '95), di fama nazionale e internazionale, di cui sono stata compagna di vita e di lavoro dall'86 al '95, che si è da sempre misurato con tale tecnica espressiva.

Fin da piccolo, a Monleone (paesino dell'entroterra chiavarese), raccoglie a piene mani l'argilla umida (la materia prima delle ceramiche), questo tesoro della terra che abbonda nella cavità di un pozzo e con il prezioso reperto costruisce animali fantastici che lascia essiccare al sole, come draghi paurosi, docili serpenti, virtuosi cavalli, raccolti da un'immaginazione fertile e sovrabbondante...

In seguito, da artista, usa l'argilla "cruda" come mota alluvionale che accarezza e silenziosamente avvolge gli oggetti componenti le sue opere, privilegiando inoltre per i suoi lavori le tonalità tipiche delle ocre, delle terre e dei marroni.

Così, attrezzi contadini in disuso, oggetti industriali e reperti archeologici (sovente ricostruiti), vengono omologati dal fango alluvionale per acquisire lo status di segni-significanti di un ipotetico ed universale diluvio , originario di una nuova, possibile, visione del mondo. 

Perché è fondamentale per Claudio rovesciare l'ordine prestabilito delle cose affinché possa generarsi l'avvento di nuovi ordini , di condizioni altre più consone al tempo presente, ma allo stesso tempo pregne del passato da consegnare al futuro...

D'altra parte la terra rappresenta il primo degli elementi con cui l'artista ha improntato la sua opera, quale simbolica adesione alla semplicità di una visione alchemica del mondo, basata su quattro elementi aristotelici quali terra, acqua, aria e fuoco.

Una visione del mondo che sa unire il materiale con lo spirituale, il terrestre con il celeste, il flusso delle idee con il flusso inarrestabile delle immagini simboliche (cioè quando il significante va oltre il suo aspetto esteriore). Un mondo immaginifico con categorie di pensiero intuitive che oggi convivono con strutture di intelligenze artificiali, proprie della tecnologia avanzata.

Categorie e strutture in grado di fornire una maggior ricchezza linguistica se attivate da una reciproca e scambievole interazione. 

Anche Costa, nell'ultimo periodo, ha prodotto una contaminazione tra immagini digitali riferibili al cyberspace del computer con immagini creative d'invenzione realizzate con oggettualità di natura varia.

Una paradigmatica performance, realizzata con l'argilla cruda nell'estate del '94 nella piazza centrale di Sarzana, è quella intitolata "Arcimboldo evocato" (esiste il video).

Arcimboldo è un pittore di epoca rinascimentale che dipinge la figura umana in maniera anti-logica: i suoi noti personaggi sono interamente ricostruiti con elementi della natura come tronchi d'albero, rami, foglie, frutti e ortaggi.

Cioè l'uomo in questi dipinti acquisisce le sembianze della Natura.

Questo è un pò anche l'intento di Costa ("pulvis es et in pulverem reverteris") che, per l'occasione, si trasforma in statua di terra-vivente (argilla "cruda").

L'artista immobile, seduto su di una sedia davanti a un folto pubblico, attende che tre vestali lo trasformino in un "corpo di terra". 

In un angolo è sistemata una tinozza colma di argilla sommersa d'acqua, poi vi sono falci, forconi, rastrelli, ossa, legni, canne, ecc.

Le officianti si avvicinano a Costa ed iniziano a legare attorno alle sue membra oggetti contadini e arbusti secondo la significativa immagine dell'innesto (metafora del vincolante rapporto tra natura e cultura). Poi, con gesti misurati, rivestono interamente il suo corpo di argilla lasciando liberi soltanto il taglio degli occhi, attente a bagnare costantemente la terra poiché potrebbe seccare e quindi staccarsi finché, interamente ricoperto, l'artista si erge ritto su di una pedana nello sfondo d'un cielo blu-crepuscolare (è quasi buio) rimanendovi immobile come una statua.

Poi succede un fatto incredibile: i piccioni della piazza si alzano in volo e si posano sulle sue spalle, sui piedi, sulle braccia, proprio come un autentico cippo scultoreo...

Claudio Costa, nell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto - dove ha fondato l'Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli e dove ha dedicato molto del suo tempo a degenti psichiatrici insegnando loro l'artisticità e sovente mostrando loro le tecniche di realizzazione delle sue opere - ha spiegato ad alcuni pazienti, tra le altre cose, e in particolare a Davide Raggio, come si modella la ceramica.

Un lavoro creativo e paziente che, insieme, mostravamo a Davide incidendo nella terra umida e malleabile pungenti occhi di animali, filari di denti umani, sottili scaglie di pelle di drago, fluenti chiome di personaggi mitologici o panciute veneri steatopige, a seconda dei temi che realizzavamo per il lavoro di Claudio.

Davide guardava poi correva subito nel suo "laboratorio" e qui creava infinite statuine di "terra" che poi cuocevamo a temperature elevate in un piccolo ma provvidenziale forno regalato dall'artista Serena Olivari.

Diversi sono i lavori eseguiti dai degenti che in seguito approfondivano tale tecnica nel corso specifico tenuto dall'arteterapeuta Luciana Trotta.

Molti di queste opere sono oggi esposti al Museattivo Claudio Costa, nello spazio del Presidio sociosanitario dell'ex o. p. di Quarto.

Venivano eseguiti piatti floreali, posacenere di tutte le fogge, omini panciuti, cavallini da giostra, strane maschere apotropaiche e corpi femminili essenzializzati, sotto l'abile guida di Luciana.

Soprattutto creavano vivacità e allegria le smaglianti cromìe che rivestivano le forme.

A proposito dell'insegnamento delle attività artistiche ha detto Claudio: <Il mio metodo di insegnamento si discosta dal sistema arteterapeutico canonico, per basarsi invece su metodi personali legati alla mia professione di artista, per risvegliare nel paziente la sua parte creativa e nascosta... il problema è quello di fornire un nuovo "tono", una diversa "lunghezza d'onda" ai degenti ricostruendone la carica empatica e, attraverso un'ermeneutica del "cuore a cuore", ricondurli a quella spontaneità cosciente, propria della sanità negli esseri umani...>.

Infatti <... quello che a lui preme è il rapporto interpersonale coi pazienti: un rapporto dove l'uno si lascia un pò contaminare dall'altro, ascoltandosi a vicenda con la tecnica del "cuore a cuore", simile al "bocca a bocca" d'una respirazione salvatrice>("Claudio Costa attraverso i quattro elementi", Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2OOO).

Miriam Cristaldi


"Il crudo e il cotto" di Claudio Costa



Riferendosi alla figura biblica di Adamo gli antichi scritti medievali lo descrivono come creazione generata dal limus , termine traducibile con la parola ARGILLA.

Ildegarda di Bingen afferma che la terra composta dall'unione di argilla con acqua sarebbe stata "cotta"" col fuoco dell'anima dando così origine a "carne " e "sangue ".

Nelle mitologie sulla creazione del mondo, la terra argillosa è la materia canonica con cui la divinità crea l'uomo: per esempio nell'antico Egitto essa è la materia usata dal dio Khnum (dalla testa di Ariete) per dare origine all'umanità; nel poema epico-babilonese, noto con il nome di Epopea di Gilgamesh, la dea Aruru forma il suo primo uomo con la tecnica dei vasai dell'età neolitica; l'Antico Testamento descrive la nascita dell'uomo attraverso il "fango" su cui la divinità soffia lo "spirito". 

L'argilla cotta è l'antica materia con cui sono stati fabbricati i laterizi per la costruzione di antiche civiltà attraverso i mattoni, le tegole, i coppi, le mattonelle ecc...

L'argilla dapprima viene impastata con acqua, in seguito modellata a mano cui segue prontamente la fase dell'essiccamento per giungere infine alla cottura nel forno, a mille gradi circa. 

Ma anche l'aspetto artistico-creativo insieme a quello di uso domestico passano attraverso il cotto: gli antichi vasi cinerari (etruschi) ed ancora le giare(greche e romane), le otri, le coppe, le anfore, le cornucopie, i piatti, gli idoli, le veneri steatopige, le maschere, sono tutti manufatti nati dall'argilla composta da silicati di alluminio.
L'argilla costituisce infatti la materia prima con cui si fabbricano i materiali ceramici che, a seconda della lavorazione, si suddividono in prodotti a pasta porosa (terrecotte, laterizi, terraglie o faenze) e prodotti a pasta compatta (porcellane, terraglie forti e gres). 

Sulla scena dell'arte moltissimi artisti si sono cimentati con la ceramica (valgano per tutti nel recente passato i nomi di Leoncillo o di Fontana e per il presente Luigi Mainolfi, Nanni Valentini o Giuseppe Spagnulo) : fin dall'antichità, e cioè dalla preistoria ad oggi, questo materiale cotto nel fuoco da sempre affascina l'uomo che lo modella con partecipata emozione recuperando un privilegiato e diretto rapporto col simbolico ed archetipale "grembo" (madre terra) dell'umanità;

Nel contesto di questo convegno la mia relazione vuole essere una testimonianza del lavoro di Claudio Costa, artista genovese recentemente scomparso (Tirana 1942 - Genova '95), di fama nazionale e internazionale, di cui sono stata compagna di vita e di lavoro dall'86 al '95, che si è da sempre misurato con tale tecnica espressiva.

Fin da piccolo, a Monleone (paesino dell'entroterra chiavarese), raccoglie a piene mani l'argilla umida (la materia prima delle ceramiche), questo tesoro della terra che abbonda nella cavità di un pozzo e con il prezioso reperto costruisce animali fantastici che lascia essiccare al sole, come draghi paurosi, docili serpenti, virtuosi cavalli, raccolti da un'immaginazione fertile e sovrabbondante...

In seguito, da artista, usa l'argilla "cruda" come mota alluvionale che accarezza e silenziosamente avvolge gli oggetti componenti le sue opere, privilegiando inoltre per i suoi lavori le tonalità tipiche delle ocre, delle terre e dei marroni.

Così, attrezzi contadini in disuso, oggetti industriali e reperti archeologici (sovente ricostruiti), vengono omologati dal fango alluvionale per acquisire lo status di segni-significanti di un ipotetico ed universale diluvio , originario di una nuova, possibile, visione del mondo. 

Perché è fondamentale per Claudio rovesciare l'ordine prestabilito delle cose affinché possa generarsi l'avvento di nuovi ordini , di condizioni altre più consone al tempo presente, ma allo stesso tempo pregne del passato da consegnare al futuro...

D'altra parte la terra rappresenta il primo degli elementi con cui l'artista ha improntato la sua opera, quale simbolica adesione alla semplicità di una visione alchemica del mondo, basata su quattro elementi aristotelici quali terra, acqua, aria e fuoco.

Una visione del mondo che sa unire il materiale con lo spirituale, il terrestre con il celeste, il flusso delle idee con il flusso inarrestabile delle immagini simboliche (cioè quando il significante va oltre il suo aspetto esteriore). Un mondo immaginifico con categorie di pensiero intuitive che oggi convivono con strutture di intelligenze artificiali, proprie della tecnologia avanzata.

Categorie e strutture in grado di fornire una maggior ricchezza linguistica se attivate da una reciproca e scambievole interazione. 

Anche Costa, nell'ultimo periodo, ha prodotto una contaminazione tra immagini digitali riferibili al cyberspace del computer con immagini creative d'invenzione realizzate con oggettualità di natura varia.

Una paradigmatica performance, realizzata con l'argilla cruda nell'estate del '94 nella piazza centrale di Sarzana, è quella intitolata "Arcimboldo evocato" (esiste il video).

Arcimboldo è un pittore di epoca rinascimentale che dipinge la figura umana in maniera anti-logica: i suoi noti personaggi sono interamente ricostruiti con elementi della natura come tronchi d'albero, rami, foglie, frutti e ortaggi.

Cioè l'uomo in questi dipinti acquisisce le sembianze della Natura.

Questo è un pò anche l'intento di Costa ("pulvis es et in pulverem reverteris") che, per l'occasione, si trasforma in statua di terra-vivente (argilla "cruda").

L'artista immobile, seduto su di una sedia davanti a un folto pubblico, attende che tre vestali lo trasformino in un "corpo di terra". 

In un angolo è sistemata una tinozza colma di argilla sommersa d'acqua, poi vi sono falci, forconi, rastrelli, ossa, legni, canne, ecc.

Le officianti si avvicinano a Costa ed iniziano a legare attorno alle sue membra oggetti contadini e arbusti secondo la significativa immagine dell'innesto (metafora del vincolante rapporto tra natura e cultura). Poi, con gesti misurati, rivestono interamente il suo corpo di argilla lasciando liberi soltanto il taglio degli occhi, attente a bagnare costantemente la terra poiché potrebbe seccare e quindi staccarsi finché, interamente ricoperto, l'artista si erge ritto su di una pedana nello sfondo d'un cielo blu-crepuscolare (è quasi buio) rimanendovi immobile come una statua.

Poi succede un fatto incredibile: i piccioni della piazza si alzano in volo e si posano sulle sue spalle, sui piedi, sulle braccia, proprio come un autentico cippo scultoreo...

Claudio Costa, nell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto - dove ha fondato l'Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli e dove ha dedicato molto del suo tempo a degenti psichiatrici insegnando loro l'artisticità e sovente mostrando loro le tecniche di realizzazione delle sue opere - ha spiegato ad alcuni pazienti, tra le altre cose, e in particolare a Davide Raggio, come si modella la ceramica.

Un lavoro creativo e paziente che, insieme, mostravamo a Davide incidendo nella terra umida e malleabile pungenti occhi di animali, filari di denti umani, sottili scaglie di pelle di drago, fluenti chiome di personaggi mitologici o panciute veneri steatopige, a seconda dei temi che realizzavamo per il lavoro di Claudio.

Davide guardava poi correva subito nel suo "laboratorio" e qui creava infinite statuine di "terra" che poi cuocevamo a temperature elevate in un piccolo ma provvidenziale forno regalato dall'artista Serena Olivari.

Diversi sono i lavori eseguiti dai degenti che in seguito approfondivano tale tecnica nel corso specifico tenuto dall'arteterapeuta Luciana Trotta.

Molti di queste opere sono oggi esposti al Museattivo Claudio Costa, nello spazio del Presidio sociosanitario dell'ex o. p. di Quarto.

Venivano eseguiti piatti floreali, posacenere di tutte le fogge, omini panciuti, cavallini da giostra, strane maschere apotropaiche e corpi femminili essenzializzati, sotto l'abile guida di Luciana.

Soprattutto creavano vivacità e allegria le smaglianti cromìe che rivestivano le forme.

A proposito dell'insegnamento delle attività artistiche ha detto Claudio: <Il mio metodo di insegnamento si discosta dal sistema arteterapeutico canonico, per basarsi invece su metodi personali legati alla mia professione di artista, per risvegliare nel paziente la sua parte creativa e nascosta... il problema è quello di fornire un nuovo "tono", una diversa "lunghezza d'onda" ai degenti ricostruendone la carica empatica e, attraverso un'ermeneutica del "cuore a cuore", ricondurli a quella spontaneità cosciente, propria della sanità negli esseri umani...>.

Infatti <... quello che a lui preme è il rapporto interpersonale coi pazienti: un rapporto dove l'uno si lascia un pò contaminare dall'altro, ascoltandosi a vicenda con la tecnica del "cuore a cuore", simile al "bocca a bocca" d'una respirazione salvatrice>("Claudio Costa attraverso i quattro elementi", Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2OOO).

Miriam Cristaldi



All'accademia Ligustica di Belle Arti è stato recentemente presentato da Martina Corniati il libro "Claudio Costa attraverso i quattro elementi" di Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2000.

La giovane milanese, critico d'arte e insegnante all'accademia di Brera, ha tratteggiato vivacemente la figura dell'artista scomparso, partendo da una riflessione sulla conoscenza ( un tema molto dibattuto negli anni '50 - '60, nato dal principio di Heisenberg che ammette l'impossibilità da parte dell'uomo di conoscere tutto) e in particolare sulla frase di Claudio Costa "L'uomo nasce come portatore di vuoto...".

Spiega la Corgnati: "Se Costa entra nel vivo di questo sofferto dibattito ammettendo che l'uomo è portatore di limiti, allo stesso tempo con la forza immaginativa dell'arte egli riesce a superare il baratro incamminandosi verso una ricerca antropologica forgiando, tra i primi, una vera e propria coscienza ecologica...". Prosegue ancora: " Anche l'alchimia vissuta con ironia e disincanto sulla propria pelle, lontana dai dettami alchemici tradizionali, diventa per l'artista un mezzo di trasformazione del mondo...". Sulla figura del Museo, così fondamentale nel lavoro di Costa, precisa la Corgnati: " Il suo Museo esprime una dimensione domestica, sacrale, della <casa>, nella funzione di circondare e proteggere gli oggetti; psicologicamente sembra rinviare alla figura materna" e infine, sul rapporto con la follia commenta:" ... egli come artista fa silenzio e lascia parlare l'altro, il paziente, con la <tecnica salvatrice del cuore a cuore>...".

All'accademia Ligustica di Belle Arti è stato recentemente presentato da Martina Corgnati il libro "Claudio Costa attraverso i quattro elementi" di Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2000.

La giovane milanese, critico d'arte e insegnante all'accademia di Brera, ha tratteggiato vivacemente la figura dell'artista scomparso, partendo da una riflessione sulla conoscenza ( un tema molto dibattuto negli anni '50 - '60, nato dal principio di Heisenberg che ammette l'impossibilità da parte dell'uomo di conoscere tutto) e in particolare sulla frase di Claudio Costa "L'uomo nasce come portatore di vuoto...".

Spiega la Corgnati: "Se Costa entra nel vivo di questo sofferto dibattito ammettendo che l'uomo è portatore di limiti, allo stesso tempo con la forza immaginativa dell'arte egli riesce a superare il baratro incamminandosi verso una ricerca antropologica forgiando, tra i primi, una vera e propria coscienza ecologica...". Prosegue ancora: " Anche l'alchimia vissuta con ironia e disincanto sulla propria pelle, lontana dai dettami alchemici tradizionali, diventa per l'artista un mezzo di trasformazione del mondo...". Sulla figura del Museo, così fondamentale nel lavoro di Costa, precisa la Corgnati: " Il suo Museo esprime una dimensione domestica, sacrale, della <casa>, nella funzione di circondare e proteggere gli oggetti; psicologicamente sembra rinviare alla figura materna" e infine, sul rapporto con la follia commenta:" ... egli come artista fa silenzio e lascia parlare l'altro, il paziente, con la <tecnica salvatrice del cuore a cuore>...".


Rovesciando l'ordine di precisi codici linguistici Claudio Costa ha potuto ri-formulare continuamente nuovi modelli espressivi.

Così se Duchamp "estranea" l'oggetto Costa al contrario opera un "paesamento" che ne esalta la funzione e lo carica di significati inediti; col "Work in regress" ( termine teorizzato nel '77 come enunciato che stabilisce fondamentale la ricerca delle origini per rifondare antropologicamente l'immagine dell'uomo a partire dalla sua stessa preistoria) egli si contrappone al "Work in progress" di Joyce, e ancora, i suoi studi antropologici partono dalla terra mentre Beuys parla di miele trasportato verso l'alto; inoltre, col suo andare a ritroso nel passato partendo dal presente, rovescia l'atteggiamento dei paleontologi che giungono al presente iniziando con la ricostruzione del passato. Anche la fase alchemica abbracciata dall'artista dal '78 fino all''86 ( quest'ultima data corrisponde alla sua partecipazione alla Biennale di Venezia) apertamente annunciata, contrasta col vero alchimista che non può rivelare tale pratica.

Per questi ed altri motivi appare appropriato il titolo della mostra antologica "L'ordine rovesciato delle cose" ( enunciato di Costa) presentata a Villa Croce a Genova - fino al 30 aprile - dalla curatrice Sandra Solimano e dedicata all'artista genovese Claudio Costa, nato a Tirana nel '42 e scomparso improvvisamente a Genova nel luglio del '95. La mostra è corredata di catalogo, delle edizioni Skira, Milano, con testi scritti da Becker, Cortenova, Del Guercio.

Pur nell'alta resa del periodo artistico contemplato dalla curatrice (dal '68 ai primi anni '90), questa antologica risulta insufficiente e incompleta poiché "non appare documentato con valutazione adeguata" (com'è scritto in catalogo) l'ultimo arco di vita.

Un periodo, questo, fondamentale, e certamente il più vivace, per lo sviluppo artistico-formativo di Claudio; periodo in cui svolge la sua esperienza nell'ex manicomio di Ge-Quarto (dall''86 al '95 fondandonell''89 l'Istituto delle Materie e delle Forme Inconsapevoli e tre anni dopo il Museo omonimo con Antonio Slavich e la sottoscritta) arrivando a realizzare inconsuete opere di grandi dimensioni accanto a straordinarie installazioni prodotte nei frequenti viaggi africani.

La panoramica di Villa Croce prende avvio con le opere esposte per la prima volta alla galleria "La Bertesca" nel '69 (emblematico spazio che ha dato i natali all'Arte Povera due anni prima) per finire con i lavori costitutivi del "Concerto Barulé (a Rossiglione nell'entroterra ligure) tentando di fornire un primo riconoscimento dell'operato di questo artista, apprezzato in Italia e all'estero, sempre dissociato dalle logiche di mercato e che, con la vita, ne ha pagato le conseguenze.

Di carattere libero e indipendente - Costa aveva partecipato al maggio parigino del '68 da cui aveva assorbito quello spirito di contestazione che spesso lo ha caratterizzato - ha potuto esprimersi in grande autonomia svincolandosi da etichette e da correnti stilistiche, pur attingendo a modelli culturali come l"Arte Povera", il Concettuale e avvicinandosi per certi aspetti ad atteggiamenti Fluxus, propri di quegli anni, ma sempre con le dovute distanze, mai da epigono.

In virtù di ciò si è straordinariamente allargato con un amplissimo ventaglio di possibilità a differenti processi culturali appropriandosene: dall'antropologia alla paleontologia, dallo strutturalismo all'alchimia, dalle filosofie orientali alla cultura preistorica fino a quella industriale,

com'è possibile cogliere dalle opere esposte.

In particolare risulta suggestivo il lavoro "Antropologia riseppellita", realizzato con casse esposte a Documenta 6, a Kassel, in Germania, nel '77. In questi grandi contenitori, aperti sul pavimento, giacciono confusi oggetti contadini con quelli preistorici, cocci e foglie, interamente ricoperti di "mota alluvionale" come se il fango potesse accomunare idealmente in un unico tempo eterno cose del passato remotissimo, del passato prossimo e del presente; rimangono bene in vista solo reperti psdeudo-scentifici allineati secondo ritualità d'antropologo.

Infatti, nei primi anni '7O, Claudio ha fatto parte del noto gruppo d'"Antropologia" denominato anche "Mitologie Individuali" teorizzato da Gunter Metken, con i Beker, Boltanski, i Poirier, Simonds e Graves.

Rigore assoluto, radicalità nelle scelte, antiesteticità (quasi un pugno allo stomaco) sono le caratteristiche che segnano l'opera di Claudio Costa, ma tutto appare così incredibilmente armonizzato nei toni severi delle ocre, delle terre, del fango, da risultare fortemente "estetico", pittorico, armonioso.

Altro momento di alta poesia appare l'opera dedicata al "Museo attivo" di Monteghirfo (aperto al pubblico nel '75), nato per la salvaguardia della cultura materiale ligure, col quale Claudio affermava che "l'oggetto per essere riconosciuto e mostrato deve essere inamovibile dal suo spazio di appartenenza". A tale proposito egli disse: "Il tempo renderà più chiari questi lavori, se avrò ragione a proseguire su una strada che oggi pochi conoscono perché è stata in parte dimenticata, ma che forse sarà riaperta a molti".



Miriam Cristaldi


Cavallari


Con la mostra "Monitor" la fondazione Ellequadro (fino all 3O ottobre) ha inaugurato la stagione artistica ponendo l'attenzione su giovani artisti italiani.

Davide Bramante usa il linguaggio fotografico per proporre immagini a colori che tendono a rappresentare un viaggio all'interno di esperienze personali: la sua opera deriva dalla prestazione del servizio civile in una casa di cura per anziani. 

Le immagini di volti sofferenti scavati nei solchi della vecchiaia concentrano un frammento di realtà quotidiana, mentre lo sguardo si sofferma su cromìe luminose e negativi sovrapposti che compongono un unico, grande riquadro.

Monica Cavallari, unica genovese, presenta modellati di figure femminili classicheggianti che da un involucro di massa petrigna si evolvono in nuclei figurali come se dalla materia bruta si dilatassero forme nello spazio.

I corpi plastici si offrono nell'atmosfera con relazioni luministiche; la luce scivola sul cotto brunito a smalto evidenziando strutture ammorbidite in volute barocche, capaci di fondersi con tendenze al giganteggiare di memoria michelangiolesca.

Le foto di Silvia Grandi sono il frutto "di un approccio graduale, cresciuto con l'artista che si considera autodidatta". I viaggi che l'autrice ha compiuto nei vari continenti vivendo per mesi negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Belgio ecc. , hanno contribuito a creare un vissuto nomade collegato dal filo conduttore della fotografia. Partendo da una ricerca di elementi naturali come lo studio di paesaggi e di animali, si è oggi direzionata su soggetti metropolitani pervenendo a un'interattiva fusione con le tecniche del disegno e della fotocopia.

Nicola D'Angelo pratica segni pittorici che si offrono come narrazione affabulata dove la metafora del gioco svela l'inesauribile ripetersi dei cicli vitali : il progetto è una lunga carta srotolata che si adatta al luogo e l'interpretazione è data dai simboli sempre efficaci dell'"uovo" e della "gallina".




costellano

Nella splendida cornice dell'antica abbazia di San Nicolò del Boschetto sulle alture di Cornigliano, fondata nel 13oo dai Grimaldi e diventata in seguito cenobio per opera dei monaci Benedettini, si è inaugurata la mostra di pittura "Pensieri in libertà" (fino al 6 aprile, tutti i giorni dalle I3 alle 18,3O), organizzata dal centro cattolico d'arte LA SPIGA, composta da opere realizzate da giovani e meno giovani che hanno in comune una creatività risolta in termini figurativi.

Gli oli di Federica Fusco propongono un linguaggio consapevole e immediatamente comunicativo, capace di avvalersi di esperienze storiche morandiane o impressioniste, creando osmosi continue tra la concretezza strutturale della natura morta e lo spazio in cui essa vive. Il tempo dell'esistenza si accompagna in questo senso al tempo del vissuto: i registri freddi dei toni variano la frequenza delle proprie onde luminose in rapporto alle forme che si aprono nello spazio secondo arcuate e seducenti fattezze.

Raffaella Bisio si esprime con la tecnica della pirografia su legno per incarnare processi metamorfici condotti sulle trasformazioni della figura umana evolventesi in corpi di animali e di vegetali, processi propri di simbologie popolari e mitologiche suggerenti un metaforico abbraccio tra le infinite energie cosmiche della creazione.

Nicoletta Arcella nel passato recente indagava sulla figura umana partendo dallo studio sull'immagine fotografica riproposta in pittura: oggi l'attenzione si sposta nell'universo scientifico del microcosmo riflettendo sui rapporti cromatici e cromosomici del magmatico mondo biologico.

Tra gli artisti meno giovani si distinguono: Marcella De Ferrari per la singolare e delicatissima incisione su ardesia raffigurante fantastiche composizioni segniche capaci di accendere candidi paesaggi nel buio della materia; Dirce Bigazzi che tratta la ceramica creando un repertorio iconografico altamente simbolico dove la lucentezza degli smalti sottolineano gli stati dell'essere come la vita e la morte, la gioia e il dolore, l'infanzia e la vecchiaia, la guerra e la pace; Elsa Cebocli in grado di materializzare visionari paesaggi ad olio provocatoriamente giocati su registri cupi, richiamanti atmosfere incombenti nell'atto di risucchiare lo spazio esterno in dimensioni più propriamente intime; Giuliana Petrolini per la scelta linguistica dell'inchiostro a spruzzo con cui sa allacciare rapporti preferenziali con seducenti immagini femminili (in questo caso raffiguranti le stagioni rese nella tecnica della fotografia serigrafata) e con paesaggi liguri, liberati dal peso della gravità per dare luogo a sottili giochi di trasparenze e di leggerezza.

Altrettanto bravi gli artisti presenti: Vasco Luppi, Leonardo Caruso Rosalba Niccoli, Dario Re, Giorgio Malveni, Ivo Vassallo, Carla Costellano, Carlo Pedivella in arte Delisa, Giuseppina Mancuso e Gimmi.


caruso

Nella splendida cornice dell'antica abbazia di San Nicolò del Boschetto sulle alture di Cornigliano, fondata nel 13oo dai Grimaldi e diventata in seguito cenobio per opera dei monaci Benedettini, si è inaugurata la mostra di pittura "Pensieri in libertà" (fino al 6 aprile, tutti i giorni dalle I3 alle 18,3O), organizzata dal centro cattolico d'arte LA SPIGA, composta da opere realizzate da giovani e meno giovani che hanno in comune una creatività risolta in termini figurativi.

Gli oli di Federica Fusco propongono un linguaggio consapevole e immediatamente comunicativo, capace di avvalersi di esperienze storiche morandiane o impressioniste, creando osmosi continue tra la concretezza strutturale della natura morta e lo spazio in cui essa vive. Il tempo dell'esistenza si accompagna in questo senso al tempo del vissuto: i registri freddi dei toni variano la frequenza delle proprie onde luminose in rapporto alle forme che si aprono nello spazio secondo arcuate e seducenti fattezze.

Raffaella Bisio si esprime con la tecnica della pirografia su legno per incarnare processi metamorfici condotti sulle trasformazioni della figura umana evolventesi in corpi di animali e di vegetali, processi propri di simbologie popolari e mitologiche suggerenti un metaforico abbraccio tra le infinite energie cosmiche della creazione.

Nicoletta Arcella nel passato recente indagava sulla figura umana partendo dallo studio sull'immagine fotografica riproposta in pittura: oggi l'attenzione si sposta nell'universo scientifico del microcosmo riflettendo sui rapporti cromatici e cromosomici del magmatico mondo biologico.

Tra gli artisti meno giovani si distinguono: Marcella De Ferrari per la singolare e delicatissima incisione su ardesia raffigurante fantastiche composizioni segniche capaci di accendere candidi paesaggi nel buio della materia; Dirce Bigazzi che tratta la ceramica creando un repertorio iconografico altamente simbolico dove la lucentezza degli smalti sottolineano gli stati dell'essere come la vita e la morte, la gioia e il dolore, l'infanzia e la vecchiaia, la guerra e la pace; Elsa Cebocli in grado di materializzare visionari paesaggi ad olio provocatoriamente giocati su registri cupi, richiamanti atmosfere incombenti nell'atto di risucchiare lo spazio esterno in dimensioni più propriamente intime; Giuliana Petrolini per la scelta linguistica dell'inchiostro a spruzzo con cui sa allacciare rapporti preferenziali con seducenti immagini femminili (in questo caso raffiguranti le stagioni rese nella tecnica della fotografia serigrafata) e con paesaggi liguri, liberati dal peso della gravità per dare luogo a sottili giochi di trasparenze e di leggerezza.

Altrettanto bravi gli artisti presenti: Vasco Luppi, Leonardo Caruso Rosalba Niccoli, Dario Re, Giorgio Malveni, Ivo Vassallo, Carla Costellano, Carlo Pedivella in arte Delisa, Giuseppina Mancuso e Gimmi.


Bramante 

Con la mostra "Monitor" la fondazione Ellequadro (fino all 3O ottobre) ha inaugurato la stagione artistica ponendo l'attenzione su giovani artisti italiani.

Davide Bramante usa il linguaggio fotografico per proporre immagini a colori che tendono a rappresentare un viaggio all'interno di esperienze personali: la sua opera deriva dalla prestazione del servizio civile in una casa di cura per anziani. 

Le immagini di volti sofferenti scavati nei solchi della vecchiaia concentrano un frammento di realtà quotidiana, mentre lo sguardo si sofferma su cromìe luminose e negativi sovrapposti che compongono un unico, grande riquadro.

Monica Cavallari, unica genovese, presenta modellati di figure femminili classicheggianti che da un involucro di massa petrigna si evolvono in nuclei figurali come se dalla materia bruta si dilatassero forme nello spazio.

I corpi plastici si offrono nell'atmosfera con relazioni luministiche; la luce scivola sul cotto brunito a smalto evidenziando strutture ammorbidite in volute barocche, capaci di fondersi con tendenze al giganteggiare di memoria michelangiolesca.

Le foto di Silvia Grandi sono il frutto "di un approccio graduale, cresciuto con l'artista che si considera autodidatta". I viaggi che l'autrice ha compiuto nei vari continenti vivendo per mesi negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Belgio ecc. , hanno contribuito a creare un vissuto nomade collegato dal filo conduttore della fotografia. Partendo da una ricerca di elementi naturali come lo studio di paesaggi e di animali, si è oggi direzionata su soggetti metropolitani pervenendo a un'interattiva fusione con le tecniche del disegno e della fotocopia.

Nicola D'Angelo pratica segni pittorici che si offrono come narrazione affabulata dove la metafora del gioco svela l'inesauribile ripetersi dei cicli vitali : il progetto è una lunga carta srotolata che si adatta al luogo e l'interpretazione è data dai simboli sempre efficaci dell'"uovo" e della "gallina".




villa croce

Riguardo le polemiche di questi giorni sulla mostra delle collezioni genovesi e liguri degli ultimi 50 anni, esposte al museo di Villa Croce, vorrei limitarmi ad alcune considerazioni.

Nel momento attuale della "globalizzazione" dove la realtà locale tende a perdere la propria identità per venire risucchiata nella fitta rete delle comunicazioni mass mediali nasce una nuova esigenza: quella di "riconoscersi" per non sparire nell'anonimato.

Infatti, mai come oggi l'attenzione si fissa sulle differenze, sui diversi aspetti che concorrono a fornire arricchimenti alle proprie peculiarità: così nelle trascorse correnti artistiche (transavanguardia) come nelle espressioni sociali, ad esempio nell'ambito della culinaria o del dialetto (assistiamo oggi alla riesumazione dei dialetti con studi specifici).

Anzi, rispetto a queste realtà localistiche vi è oggi un particolare

riguardo poiché, proprio a fronte di una progressiva perdita d'identità dovuta alla nuova posizione di cittadini del "villaggio globale", si evidenzia il bisogno di riconoscersi in un contesto ben preciso, fornito di caratteristiche che lo individuino.

Tornando alla mostra di Villa Croce mi pare che sia stata giusta la scelta da parte dei curatori-direttori del museo di fornire una visione dell'arte ligure e genovese, anche se i limitati mezzi economici e la mancanza di sponsorizzazioni hanno impedito il formarsi di una collezione completa.

Bisogna però, in futuro, ampliare le prospettive affinché si attui una comparazione, un confronto aperto tra l'artisticità nell'ambito localistico e la realtà artistica nazionale e internazionale che cresce attorno e al di là dei confini. Questo attraverso l'acquisizione di opere di artisti nazionali e internazionali che possano esprimere la complessità del panorama artistico e quindi una lettura più esaustiva dei momenti storici contemplati.

Insomma, sarà necessario "riconoscere" e individuare le nostre radici ma allo stesso tempo metterci in una posizione di "ascolto", in rapporto dialettico con altre realtà per comprendere meglio le motivazioni, le istanze, le problematiche che muovono il fare artistico nel tempo e nello spazio dell'agire.

Un neo nella catalogazione delle opere rischia di offuscare i testi critici dei curatori di questa esposizione laddove parrebbero risultare retrodatate le opere di Allosia documentate in catalogo. Date smentite dal critico d'arte Paolo Finizio, avallato da Luciano Caramel, che vanno così ad alimentare una polemica che dura dall'85.




cristaldi

Miriam Cristaldi, nata a Genova il 3, 1O, 42, ha conseguito il diploma di maturità artistica e ha frequentato l'accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. E' abilitata all'insegnamento della materia Educazione Artistica ed è iscritta all'albo dei giornalisti pubblicisti dal I985.

In anni precedenti ha collaborato alla rivista del Comune, "Genova", con una pagina dedicata all'arte contemporanea;

Dall''85 al '94 ha collaborato, per la redazione di Genova, al quotidiano milanese "Il Giornale" (oggi di Berlusconi) con rubrica d'arte settimanale; con il cambio della direzione è stata soppressa la rubrica.

Come critico d'arte ha collaborato con riviste specializzate :

"Apeiron", Messina; "Juliet", Trieste; "Terzoocchio", Bologna; "Next", Roma; "Risk", Milano; "Meta", Firenze - Genova, "Flash Art", Milano.

Attualmente collabora con assiduità attraverso articoli settimanali (dallo scorso anno) col "Settimanale cattolico" della Curia Arcivescovile di Genova.

Ha organizzato alcune mostre pubbliche con relativi cataloghi o libri d'arte:

"Aspre pianure, dolci vette", Museo di S. Agostino, Genova, 1989, catalogo Electa, Milano.

"Evocare Colombo", presidio Sociosanitario di Genova-Quarto, catalogo in collaborazione con l'assessorato alla Cultura Regione Liguria, 1992.

"La Natura e la Visione - Arte nel Tigullio, 1950, 1985 " assessorato alla cultura di Chiavari, 1995, catalogo Mazzotta, Milano.

mostre private o con gallerie:

"Arte come Evocazione, I990 - I992", sette mostre in spazi privati, con relativi cataloghi , edizione privata, Genova.

"Arte come pre-", tre mostre ("La presenza della Virtualità", "Il movimento della Virtualità", "La virtus della Virtualità") realizzate in collaborazione con la galleria Dialoghi di Biella e il Laboratorio d'arte contemporanea della Bassa Lunigiana, 1994, con pubblicazione di una trilogia, edizione Parise, Verona.

"La casa virtuale dell'opera", galleria Rotta, Genova1995, catalogo edizione De Ferrari, Genova.

"Mille anni dopo", torre degli Embriaci, Genova 1996, catalogo Arti grafiche Poliglotta, Milano.

"Tras-figura", galleria Dialoghi, Biella, I998 mostra in corso con catalogo.

Ha organizzato mostre d'arte nello spazio "Museattivo Claudio Costa" nell'ex ospedale psichiatrico di Genova Quarto, nel corso dell'anno '87-'88 con relative presentazioni a stampa.



E' cofondatrice, nel I992, del "Museo-Attivo delle Forme Inconsapevoli " (oggi denominato Museattivo Claudio Costa) a Genova-Quarto.

Nel maggio del '93 ha promosso un convegno di arte e arte-terapia dal titolo:"Arte: luoghi, percorsi e voci "e pubblicato gli atti, stampa Officine Grafiche Canessa, Rapallo..

Ha organizzato nel comune di Chiavari il convegno"Il museo tra storia dell'arte e nuovi spazi espositivi" e pubblicato gli atti, edizione Mazzotta, Milano, 1994.

Un suo testo appare nel catalogo della mostra a palazzo ducale di Genova "Figure dell'anima", 1998, edizione Mazzotta, Milano.

Ha inoltre presentato in catalogo diversi artisti che qui non menziona.




creazzo



Pittura digitale

La pittura di Lidia Creazzo ( Museattivo Claudio Costa, fino al 3O maggio) è il risultato di lievi tocchi sulla carta delle dita intinte nei colori ad olio. Come un vibrante solfeggio che stilla musica dalla tastiera, così l'autrice fa scorrere le mani sul foglio bianco creando col colore (estratto direttamente dal tubetto) accordi e dissonanze, fughe e ritmi incalzanti. 

E' come se Lidia digitasse un codice segreto, personalissimo, suggerito dalla mente: quasi uno schema del pensiero in grado di dettare forme, segni, pressioni, cadenze, inflessioni, accenti che riescono a materializzare paesaggi nel significato di un naturalismo primordiale.

E le dita pigiano veloci andando a segnare gesti, riproporre diagrammi seguendo ora spinte ascensionali, ora orizzontali attraverso percorsi curvilinei così come curva è la visione dello spazio percepito dall'occhio.

La pressione manuale sulla carta plasma campiture cromatiche a guizzanti falde, dai margini leggermente in rilievo generando vibratili micro-ombre. In alcuni casi il polpastrello preme sulla superficie del supporto depositandovi la pelle di una pittura a "tocco", simile all' impronta digitale.

Alle soglie del duemila si assiste così ad una totale conversione delle tecniche pittoriche , azzerate in funzione di un uso esclusivamente manuale.

L'autrice sembra in questo senso rompere con la comunicazione mass mediale per favorire un contatto diretto, intimo con la pittura, quasi a ritrovare una verginità dell'immagine. Un desiderio, quest'ultimo, che grandi maestri quali Klee, Kandinski , Dubuffet o Rousseau hanno realizzato facendo tabula rasa con le tradizionali tecniche di rappresentazione mediante un'esperienza estetica basata su una rinnovata purezza d'immagine. 

Il tema che Lidia propone in questa mostra è quello di una natura essenzializzata composta da smeraldine lingue infuocate, da frammenti di cascata, da arcuate fasce erbose, da collane di fiori-reticolo o da spiraliformi astri-onfalo. Un immaginario simbolico che arriva direttamente all'inconscio passando dalla sfera istintuale dell' Essere per direzionarsi a ritroso nel tempo e nella storia fino a riscattare un'arcaicità, una sorta di pre-istoria dell'antropos.

Nasce l'abbraccio tra istinto e progettualità, tra silenzi di paesaggi desertici e fragori di timbri cromatici mentre prende corpo l'aggregazione compositiva di una "pittura digitale" fatta di sintetici gesti e di icone primordiali là dove l'uomo, cacciato dall'Eden, nella sofferenza e nel dolore tenta di ricostruire il paradiso perduto.



contaminazione

"Contaminazione" è il titolo della mostra, allestita da una trentina di giovani artisti genovesi in collaborazione con l'assessorato alla Cultura, giunta alla terza edizione : la prima realizzata tre anni fa nello spazio polivalente Buranello di Sampierdarena, la seconda lo scorso anno alla Commenda di Pré e l'attuale nella Loggia della Mercanzia di piazza Banchi (dal 3 al 18 settembre).

"Contaminazione" appare sempre più uno spaccato del vissuto artistico contemporaneo: abolite le ideologie e scomparse le mode o stilizzazioni specifiche, oggi gli artisti si muovono liberamente nelle differenze linguistiche, svincolati da riferimenti culturali forti per lasciare spazio ad una incontrollata creatività Alcune volte evocando con disinvoltura i maestri del passato senza essere volutamente citazionisti e al contempo mantenendo le distanze dalla radicalità delle neo-avanguardie.

Questi artisti indipendenti (senza guide critiche) ed auto-gestiti di "Contaminazione" dimostrano di essere esenti da una fredda determinazione operativa che caratterizzava le generazioni precedenti.

Sembrano invece accomunati da uno spirito di aggregazione visibile sia nel dialogo interattivo nascente tra le varie opere esposte che, in qualche caso, nella spontanea formazione di gruppo muovendosi nella molteplicità delle tecniche d'uso (grafica, fotografia, pittura, scultura, video ecc.).

Gli evidenti riferimenti a Brancusi, Man Ray,Warhol, Tinguely, Tilson, Koons, Rainer, Claudio Costa riscontrabili in alcuni lavori si ammortizzano nella scioltezza di un linguaggio scorrevole nato per essere valido oggi, anche se l'impegno e la varietà delle proposte dimostrano un'insolita vivacità intellettiva (nello stagno della scena artistica attuale), non disgiunta in alcuni casi da una spiccata personalità dell'autore. 

Come nel caso di Alessandro Lupi dove le forme nascono dalla virtualità della materia nello spazio: un filo forte rosso illuminato dalla luce di Wood crea la "materia" del corpo . Sergio Muratore acutamente fissa l'attenzione sull'oggetto- topos dell'infanzia capace di assumere inquietanti aspetti di carattere feticista-maniacale nella sfera adulta.

Barbara Barbantini si fa interprete del disagio giovanile laddove la sofferenza si stigmatizza in una sorta di auto punizione. Claudio Raviolo indaga su nuovi aspetti drammatici della pittura e ancora ricordiamo tra gli altri Enrico Olia, Paolo Salomone, Oscar Colombo, Franca Zarcone

e Germozero Group.

costa

Spazio per l'evocazione

collezioni villa croce

Per effetto della globalizzazione oggi siamo eletti "cittadini del mondo". Attraverso la fitta rete delle comunicazioni siamo infatti priettati in tempo reale in qualunque parte dell'universo: dove arriva l'occhio della telecamera o del computer, là siamo anche noi.

Proprio in virtù di ciò nascono oggi nuove esigenze. Quello che da un lato ci rende "onnipotenti" e "onnipresenti", dall'altro ci annichilisce, ci fa sparire nel labirinto di questa comunicazione mass-mediale e risucchiare dal buco nero dell'anonimato.

Da qui prende avvio una consequenziale perdita d'identità: i segni significanti che connotano un luogo, una persona, un oggetto si annullano a favore di dati memorizzati dalle intelligenze artificiali.

Paradossalmente, più aumenta questo tipo di comunicazione, maggiore si fa la solitudine umana. A fronte di ciò, e per evitare la spogliazione dell'essere, si fa urgente la necessità di difendere le "differenze": qualità che connotano e definiscono l'identità.

Infatti mai come oggi si sono risvegliati interessi specifici che definiscono questo o quel luogo come, per esempio, le specialità culinarie, la riscoperta dei singoli dialetti o le esplosive violenze per rivendicazioni etniche, ecc.

Non vedo perché in arte bisognerebbe invece spazzare via i localismi a favore di millantati internazionalismi.

E qui vengo al sodo riferendomi alle polemiche di questi giorni riguardanti le collezioni genovesi e liguri degli ultimi 50 anni raccolte dal museo di Villa Croce.

A questo proposito ritengo importante che si continui a "riconoscere" le istanze artistiche nate, o che nasceranno, nella nostra terra, non mancando però di accostarle ad altre esperienze similari che avvengono intorno e al di là dei nostri confini.

Si potranno così mettere a confronto le nostre esperienze con quelle nazionali ed internazionali, primo per non rimanere avulsi dalla scena dell'arte, secondo per cogliere (nella comparazione) quelle "differenze" che permettano di "riconoscere" questa o quella regione, stato, economia, religione o società.

Per ciò che riguarda le acquisizione delle collezioni il discorso si fa dolente: ci vorrebbero altre possibilità finanziarie e soprattutto bisognerebbe acquisire nuove mentalità menageriali fondate sulle sponsorizzazioni.

Quando cioè si progetta una mostra è necessario individuare "prima" lo sponsor, magari (e soprattutto) spostandoci anche fuori dai nostri confini.



Miriam Cristaldi


casteletto presepe

Nell'originale presepe della chiesa genovese di N. S. delle Grazie e S. Gerolamo di Castelletto, ricostruito totalmente lo scorso anno in sostituzione di quello precedente andato bruciato, sono state oggi aggiunte alcune "figurine" capaci di animare e arricchire di suggestivi effetti esotici i luoghi della Natività.

Giuliana Poggi e Diana Aronni, le autrici di questo essenziale ed esclusivo presepe a quattro mani, su caloroso invito del parroco Don Marino, hanno realizzato singolari figurine in terracotta (la prima) ed efficaci elementi architettonici e scenografici (la seconda) svincolati dalle abituali casette in sughero circondate da muschio e da figurine in pose tradizionali, creando invece personaggi simbolici con atteggiamenti inconsueti ( ma carichi di significati) abitanti paesaggi cangianti nella luce del giorno alternata a quella della notte.

Infatti le "figure" di Giuliana Poggi, scolpite con forte senso plastico - vicine per certi versi a soluzioni giottesche secondo cui gesti essenziali pietrificati nella materia del cotto riescono ad imprimere cadenze e solennità alle forme - vivono nello spazio permeate dalla luce che scivola sui larghi piani di una composizione serrata.

Così come avviene ad esempio per l'immagine della Vergine rappresentata da una ragazza ebraica, seduta su di una pietra, che torce lentamente il busto compatto verso il bimbo ( che si succhia il dito) nel giaciglio di paglia, a terra.

Anche gli intrecci di sguardi tra personaggi, posti frontalmente e raffigurati con atteggiamenti inusuali, concorrono a suggerire stati d'animo profondi, legati certamente al senso delle scritture evangeliche capaci di evocare, più che a descrivere, intime emozioni e sentimenti universali.

Studi approfonditi sui costumi e sui luoghi sacri - di allora e di oggi - hanno permesso alle artiste di coordinare abiti e fisionomie corrispondenti agli usi e costumi dalle popolazioni berbere ed ebraiche di quei luoghi. Come nel caso del tuareg che affronta il deserto con il suo cammello o dei pastori che si avvicinano al Bambino e della donna al pozzo che si carica il vaso d'acqua sul capo o ancora della donna araba (dalla pelle scura) con il figlioletto in braccio che dialoga con Maria.

Particolarmente suggestivo è il corpo architettonico che fa da quinta scenografica, realizzato in cartapesta da Diana Aronni (allieva di Claudio Costa), secondo la struttura di una grande muraglia luminosa come appunto appaiono le abitazioni costruite in calce dai palestinesi.

Un presepe sicuramente da non perdere e che riesce a esprimere il mistero della Natività concentrando i gesti e le strutture in forme assolute ove niente cede alla decorazione ma tutto è finalizzato alla sintesi estrema: questo per ottenere il massimo degli effetti.




colombara

Con la mostra "Progetto di strumento musicale" realizzata allo Spaziodellavolta negli anni '90, si è creato un gruppo di artisti che in seguito hanno lavorato sul tema musicale come atto evocativo di strumenti e suoni immaginari, slegato da funzioni specifiche dello strumento stesso per risolversi più propriamente nell'ambito dell'arte visiva. Oggi, nello stesso spazio, con "L'idea del suono" (piazza Cattaneo (26/3, fino a metà giugno) sono esposte opere che si riferiscono a concetti musicali attraverso immagini in assoluta libertà.

I violini di Fernando Andolcetti, materializzati con carta di spartito musicale, pare esprimano una delicatissima armonia generata da impercettibile fruscìo di pagine aperte, armonia sempre presente nel lavoro di questo autore.

I poetici oggetti-strumento di Sergio Borrini nel momento in cui richiamano il suono lo rifiutano: se le corde smollate sono impossibilitate a suonare la fantasia compositiva del lavoro riesce ad esprimersi come intima , interiore musicalità dell'anima.

Cosimo Cimino produce un cortocircuito tra immagine e suo significato: quando il martello vuole produrre suono pressando del materiale, questo ironicamente non può "suonare" perché composto da silenziosi elementi cartacei.

Anche gli strumenti di Piergiorgio Colombara idealizzano il concetto di suono che nell'opera viene negato: le trombe sono coinvolte in arabeschi simmetrici e perdono la loro funzionalità diventando eleganti oggetti "senza ombra di uno squillo".

I tronchi di cono capovolti di Mauro Ghiglione evocanti strumenti a fiato traducono la musicalità intrinseca nella virtualità di forme primarie come il cerchio e la croce, capaci di suscitare arcaiche simbologie cosmiche.

Vittoria Gualco, con aeree e trasparenti forme in plexiglas, vetro e cristallo riesce a suggerire il concetto di una melodia dello spirito dove la materia si trasforma in algida luce.

Con Mauro Manfredi tubi in plastica trasparente, a guisa di sonde, sembrano indagare nell'interiorità dell'essere facendo risuonare le "parole" racchiuse in essi.

Nadia Nava attraverso disegni iperrealisti descrive immagini di spartito sfogliate da mani di persona nell'atto di leggere: una misteriosa armonia sembra sciogliersi dalle pagine e invadere lo spazio.

Fori di chitarra dipinti a spruzzo da Riri Negri evocano questo strumento nel rigore del bianco e del nero: pittoricismo ricco di vibrazioni e fasci di luce astrali.

Berty Skuber attraverso navette in legno di telai a mano riesce a codificare nuovi oggetti-strumento capaci di effondere magici suoni attraverso la presenza di efficienti corde musicali.

Miriam Cristaldi



colombara

Con la mostra "Delle magie e dei miti - presenze nell'arte contemporanea in Liguria", inaugurata a Palazzo Ducale, si realizza la seconda biennale "De fabula" a cura di Franco Ragazzi (fino al 15 maggio) - organizzata dall'associazione culturale omonima - nata da un progetto avviato nel '96 con il volume di ricerche etnografiche ed una mostra d'arte allestita nella Commenda di Pré, .

Una cinquantina di opere , tra dipinti, sculture e installazioni, testimonia il lavoro di dieci artisti liguri che nel corso del loro cammino si sono imbattuti in temi mitologici e magico-favolistici 

Il lavoro di Claudio Costa - artista scomparso a cui la mostra dedica un omaggio - nasce da premesse duchampiane ma se ne discosta per collocarsi in una dimensione antropologica rivolta ai riti e ai miti dell'uomo primitivo o verso una visione alchemica del mondo che si è sviluppata verso la fine degli anni '7O per concludersi nell''86 . 

Erano quelli , gli anni in cui imperava la "Transavanguardia" con il brusco ritorno alla pittura che azzerava le precedenti esperienze. 

Costa trovò il significato di una pittura nella descrizione di iconografie alchemiche che esaltavano il mistero e la magia, procedendo inoltre verso la ricerca dell'interiorità dell'Essere. E' esemplare l'opera "Il museo dell'alchimia" esposta in questa mostra: in un grande mobile-vetrina sono esposti oggetti dipinti che esaltano la trasformazione del colore e della materia propria del concetto alchemico assumendo l'aspetto di inquietanti presenze attuate nella scioltezza dell'invenzione compositiva.

Di Piergiorgio Colombara campeggia una raffinata installazione in metallo e vetro che evoca l'immagine della nave, già ricorrente in altri lavori quale simbolico veicolo di comunicazione. Giovanni Job ha condotto ricerche sulle storie di paura qui presenti con l'opera "La nascita di una fé" dove un allarmante corpo femminile scolpito giace nell'acqua reale.

Walter di Giusto, sempre interessato a citazioni di rocce con mimesi antropomorfe, presenta un'originale visione speculare in cui si sposano mito e tecnologia. Anna Ramenghi propone il mito di Orfeo e Euridice nella teatralità di un appassionato romanticismo dove la freschezza delle carni trasmuta nell'appassire dei fiorif. Roberto Martone cita la storia, narra il mito e visualizza il presente con una pittura, ora ricca di tonalità accese, ora trasparente nelle cromìe sfocate, capace di dichiararne il senso intrinseco. Aurelio Caminati descrive "Leda e il cigno" citando la pittura di Leonardo che egli sa adattare alla modernità con grande spirito inventivo caratterizzato da una sapiente tecnica pittorica.

Ugo Sanguineti dipinge un mondo grottesco al limite della caricatura dove la bruttezza della forma viene riscattata da preziosi cromatismi. La mostra si conclude con opere di Marcella De Ferrari - raffinatissime immagini incise su ardesia - e con Rosalba Niccoli - fantasiose iconografie su vetro - entrambi fondatrici dell'associazione De Fabula.


Due fascicoli dei Quaderni di Biolda stampati dal semestrale "Pagine d'Arte", rispettivamente dedicati a Mario Chianese e Raimondo Sirotti con testi critici di Guido Giubbini e Sandra Solimano, sono stati presentati dall'assessore Ruggero Pierantoni a Villa Croce (fino al 7 gennaio) in concerto con l'esposizione di opere incisorie (del primo) e pastelli su carta (del secondo), riportati in stampa.

Le opere dei due artisti, messe a confronto nel luminoso spazio museale, ricevono osmotiche spinte e controspinte che risaltano e accentuano le rispettive differenze.

Al primo impatto balza agli occhi la brumosa atmosfera che avvolge i silenziosi paesaggi di Chianese in netto contrasto con la solare spazialità di Sirotti scossa da automatismi segnici.

Proprio in questo senso, Mario Chianese si distingue per il suo vibratile pulviscolo atmosferico composto da milioni di granelli invisibili che danno corpo all'aria, alle profondità celesti e terrestri avvolgendo e strutturando le tradizionali forme della natura.
Emblematica è l'incisione "Casa nella neve", del'62, in cui la poetica immagine di una minuscola casa affonda nel biancore silenzioso d'un volteggiante nevischio di puntini.

Se la natura è per l'artista il referente oggettuale di carattere empirico, la struttura iconografica si rifà invece ad atteggiamenti intellettuali.

Si attiva infatti una riflessione mentale sulla complessa coabitazione di svariati punti prospettici e sull'inserimento di fotogrammi composti da oggettualità ingrandite che interrompono la narrazione a favore d'una lettura multipla capace di arricchire il senso dell'opera.

Raimondo Sirotti attraverso i luminosi pastelli realizza l'incanto e la fisicità d'una natura mobile, stratificata da energetiche trame segniche.

Le sue precedenti esperienze informali, coniugate con l'espressionismo astratto americano, sono qui fuse nel linguaggio ligustico tipico dell'artista in cui grovigli gestuali evocano grappoli di glicini, liquidità marine, addensamenti aerei, granitiche scogliere, frondose vegetazioni...

In "Roccia", del '78, una candida materia calcarea, appena abbozzata su fondo azzurro-acquarello, viene trattenuta (sulla sinistra) da incisivi e taglienti segni grafici: una sorta di colonna d'Ercole da cui, in basso, si dipartono filamentose scie che attraversano diagonalmente il campo pittorico; quasi una cascata che rimbalza verso l'alto trainando il dato naturalistico in una dimensione più dichiaratamente psichica.

Miriam Cristaldi

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Museattivo Claudio Costa.


Evocare, da ex-vocare = "chiamare da...", significa ri-vivere, ri-chiamare in vita esperienze passate in contesti diversi, arricchite di potenzialità espressive nuove.

Questo ulteriore spazio dovrà essere "abitato" dalle opere di artisti contemporanei (circa tre per ciascuno) quali Jean Dubuffet, Vincent Van Gogh, Wassilli Kandinsky, Paul Klee e Antonio Ligabue affinché permettano di evocare, e quindi ri-chiamare in vita l'esperienza estetica degli artisti scomparsi in un rinnovato e creativo contesto di attualità.

La scelta di questi "grandi" è stata operata in base ai rapporti che tali personalità hanno allacciato con il disagio psichico, sia come esperienza del proprio vissuto che come materia di studio per la prassi processuale della loro ricerca, o col disegno infantile come espressione inconsapevole e incolta da cui trarre una possibile verginità d'immagine.

I lavori esposti possono essere percepiti anche come richiami culturali capaci di fornire arricchimenti per la comprensione del Museattivo Claudio Costa.

"... Miracolo dell'evanescenza impressa, assestarsi dell'ombra nel dominio della luce... eccesso di visione, moltiplicazione della luce... tocca il punto di dissoluzione mentre il mondo scompare..." così scrive Marco Goldin sulla pittura di Raimondo Sirotti che di recente ha inaugurato alla galleria Rotta con la mostra "La luce dello spirito". 

Proprio la luce è eletta protagonista assoluta del linguaggio poetico dell'artista: una luce che sprofonda negli abissi dell'oscurità, squarcia cieli tempestosi, insanguina acque stagnanti, illumina fronde fradice, rarefà atmosfere calcinate, liquefa pietre calcaree.

La sua pittura si condensa in vorticosi gesti che concorrono alla definizione di un' immagine quale frutto di un rapporto con la natura: un rapporto diretto, "en plein air ", testimoniato da veloci schizzi eseguiti sul posto per realizzare in un secondo tempo, nel raccoglimento dello studio, grandi quadri filtrati dal ricordo della memoria.

Sovente l'emozione del gesto pittorico supera l'evento emozionale scaturito dal diretto contatto con l'ambiente.

E allora si sprigionano forze ossimoriche: la bellezza apollinea dei grappoli di glicine, di magnolie in fiore, di sfavillanti cieli perlacei, si sposa con la visceralità dionisiaca di una natura tormentata dai venti, quasi imbevuta da spirito dissolutore.

In questo senso pacate campiture con preziose e raffinate tonalità interagiscono con effetti brillanti e pungenti di verdi cromie, rese con gestualità incisive e scomposte cosicché romantici esiti impressionistici si fondono con ruvide gestualità espressionistiche.

Sempre meno l'artista sembra preoccuparsi di riprodurre sulla tela la realtà del paesaggio mentre ora, seguendo in modo più cosciente la dinamica del pensiero, secondo urgenze di energie interiori, l'attenzione si concentra più sulla resa di profondità spaziali mediante connotazioni segniche di forte impatto visivo capaci di azionare svariati campi di linee direzionali. 

Ne è un esempio l'opera "Chiaro di luna: nubi marine" in cui è visibile anche il rovesciamento degli elementi: il cielo di qualità aerea è reso plumbeo e pesante come pietra mentre la liquidità marina è un vibratile gioco tra bagliori sussultori e oscurità eteree; lame di luce suggeriscono infinite profondità astrali mentre splendori lunari sfondano la materia e si fanno luce dell'anima.

La lezione dell'Informale Naturalistico degli anni '5O si sposa con quella dell' Espressionismo Astratto americano di quegli anni e Raimondo Sirotti ne fa tesoro anche se la pittura di questo artista genovese (nato a Bogliasco nel '34 , oggi direttore dell'accademia Ligustica di belle Arti) guarda a tutta la storia della pittura, compresa quella inglese di Turner e Constable.

E' Raimondo, un pittore capace di "... credere ancora che riempire i colori della tela sia l'unico atto che ci salverà... e sa dipingere una luce che non è più solo della Liguria, e forse, non lo è mai stata...".



Miriam Cristaldi



chianese

Due fascicoli dei Quaderni di Biolda stampati dal semestrale "Pagine d'Arte", rispettivamente dedicati a Mario Chianese e Raimondo Sirotti con testi critici di Guido Giubbini e Sandra Solimano, sono stati presentati dall'assessore Ruggero Pierantoni a Villa Croce (fino al 7 gennaio) in concerto con l'esposizione di opere incisorie (del primo) e pastelli su carta (del secondo), riportati in stampa.

Le opere dei due artisti, messe a confronto nel luminoso spazio museale, ricevono osmotiche spinte e controspinte che risaltano e accentuano le rispettive differenze.

Al primo impatto balza agli occhi la brumosa atmosfera che avvolge i silenziosi paesaggi di Chianese in netto contrasto con la solare spazialità di Sirotti scossa da automatismi segnici.

Proprio in questo senso, Mario Chianese si distingue per il suo vibratile pulviscolo atmosferico composto da milioni di granelli invisibili che danno corpo all'aria, alle profondità celesti e terrestri avvolgendo e strutturando le tradizionali forme della natura.
Emblematica è l'incisione "Casa nella neve", del'62, in cui la poetica immagine di una minuscola casa affonda nel biancore silenzioso d'un volteggiante nevischio di puntini.

Se la natura è per l'artista il referente oggettuale di carattere empirico, la struttura iconografica si rifà invece ad atteggiamenti intellettuali.

Si attiva infatti una riflessione mentale sulla complessa coabitazione di svariati punti prospettici e sull'inserimento di fotogrammi composti da oggettualità ingrandite che interrompono la narrazione a favore d'una lettura multipla capace di arricchire il senso dell'opera.

Raimondo Sirotti attraverso i luminosi pastelli realizza l'incanto e la fisicità d'una natura mobile, stratificata da energetiche trame segniche.

Le sue precedenti esperienze informali, coniugate con l'espressionismo astratto americano, sono qui fuse nel linguaggio ligustico tipico dell'artista in cui grovigli gestuali evocano grappoli di glicini, liquidità marine, addensamenti aerei, granitiche scogliere, frondose vegetazioni...

In "Roccia", del '78, una candida materia calcarea, appena abbozzata su fondo azzurro-acquarello, viene trattenuta (sulla sinistra) da incisivi e taglienti segni grafici: una sorta di colonna d'Ercole da cui, in basso, si dipartono filamentose scie che attraversano diagonalmente il campo pittorico; quasi una cascata che rimbalza verso l'alto trainando il dato naturalistico in una dimensione più dichiaratamente psichica.

Miriam Cristaldi

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