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Si è inaugurata, presso il caffè eno-libreria “Nouvelle Vague” (vico dei Gradi 4r – angolo visa S. Lorenzo – fino al 15 ottobre), una coloratissima e vasta esposizione di opere infantili organizzata dal “Centro di iniziative per l'infanzia” a cura dell'insegnante Maria Teresa Musetti.

Opere pittoriche realizzate sotto la costante e appassionata guida della Musetti per fornire ai piccoli i mezzi necessari allo sviluppo della creatività attingendo al mondo professionale dell'arte e sperimentare in questo senso liberi percorsi sulle tracce della storia. Da sempre, i grandi artisti si sono rivolti al mondo infantile per cogliere quella purezza e semplicità non ancora contaminata dalla cultura. Klee, Kandinsky, Dubuffet insegnano. Qui, viceversa, i piccoli guardano i “grandi” ed hanno modo di confrontarsi e di sperimentare tra di loro “esperienze percettive ricche di stimoli visivi, sensoriali ed emotivi... volte alla valorizzazione del loro processo mentale”.

Nel dibattito aperto durante l'inaugurazione, lo psichiatra, prof. Maura, ha esposto il concetto di osmosi tra la parte sinistra del cervello (sede del lato emozionale) con la parte destra (sede della sfera razionale) auspicando un giusto equilibrio tra le due componenti passando dal livello mentale del pensiero a quello dell'agire nella fattualità della forma simbolica per giungere alla fase realizzativa del “logos”, della parola.

Il critico d'arte Giuseppe Nifosì ha invece insistito su come i piccoli siano naturalmente aperti alle espressioni dell'arte astratta, cosa molto più difficile per i ragazzi del liceo, più rigidi in certi meccanismi del pensiero.

Infatti, nelle visite ai musei d'arte contemporanea questi bimbi si entusiasmano facilmente di fronte ad opere complesse, aiutati dall'insegnante ad un costante rapporto del proprio vissuto con emozioni suscitate dalle opere di artisti famosi. Nell'assoluta libertà del personale linguaggio adottato dal piccolo. Diceva Kandinsky: “Mi sembrava che l'anima viva dei colori emettesse un richiamo musicale, quando l'inflessibile volontà del pennello strappava loro una parte di vita...” mentre sottolineava Einstein “l'arte è l'espressione del pensiero più profondo nel modo più semplice”. Picasso suggeriva: “Tutti i bambini sono artisti nati; il difficile sta nel fatto di restarlo da grandi”.

Informazioni Maria Teresa Musetti : [email protected]


Miriam Cristaldi


“Noi siamo e facciamo la storia solamente quando siamo in grado di capire e cambiare, di essere capiti e cambiati”, ha scritto Houphouet Boigny. Da qui il titolo di una straordinaria mostra “Africa, capire e cambiare” in cui sono esposte signifiucative opere scultoree africane ( appartenenti al xx secolo) capaci di evocare riti, miti, leggende di una cultura a noi così lontana, ma per certi versi così vicina in quanto madre e culla dell'intera umanità (Loggia della Mercanzia, piazza Banchi, fino a metà ottobre). La rassegna è a scopo umanitario ed il ricavato è interamente utilizzato per la costruzione di ospedali africani.

“Quando muore un africano è una biblioteca che brucia”, si dice riguardo alla carenza di testimonianze scritte: in questo caso, le sculture scolpite nel legno o riprodotte in bronzo si fanno magnifici testimoni, segni significanti, simboli di una civiltà in via di estinzione. Una civiltà martoriata, sottosviluppata, dilaniata da guerre civili, volta verso faticose e difficili identità, il cui ambiente naturale – per contro – risulta preziosamente lussureggiante e, in parte, incontaminato.

Affascinanti e curiosi sono le stilizzazioni dei corpi delle sculture: sviluppate verso l'alto, seguendo la forma dell'albero da cui è tratto il legno, con le teste molto grosse rispetto al corpo poiché sono considerate sedi dell'intelletto.

Le differenze dei costumi, le varie altezze delle fronti, il rilievo delle labbra, il taglio degli occhi, la forma appuntita o meno dei seni, sono tutti indizi che denunciano l'appartenenza a questa o quella etnia, tribù, villaggio. Sculture, queste, la cui raffigurazione umana è sempre risolta in forma frontale, simmetrica, volta ad un'astrazione capace di richiamare il concetto di divinità, spesso rispondente ad antichi canoni formali conservati nel tempo. Opere che sanno di antico, di tribale, per certi aspetti rustici e asciutti nel tipo di modellato ligneo, quasi presenza totemica e al contempo espressione di una umanità sofferente e allo stesso tempo orgogliosa nella sua integrità.

Fierezza di una prestanza fisica quasi selvatica e, per il versante femminile, simbolica figuralità resa nei suoi asspetti di fertilità visibili nei particolari sviluppati del ventre e del seno. Anche gli animali interagiscono con l'uomo.

Particolarmente felice la scultura di un elefante che si fa al contempo sedia, poltrona di guerriero.

E ancora, giganteggia nella sede espositiva un grande, sferico tamburo Senoufo, della Costa d'Avorio, evocatore di tam tam e di vertiginose danze tribali.

Sono qui presenti, tra gli altri, lavori della Costa d'Avorio, Burkina Faso, Gabon, Zaire, Ghana, Nigeria, Guinea, Sierra Leone, Mali.

 

Miriam Cristaldi


 

Venticinque anni di scultura. Tanto è il tempo che Alfonso Gialdini, ingegnere, scultore e insegnante (Istituto Giorgi), dedica a quest'arte, antica come lo è la presenza dell'uomo sulla terra. Un lungo percorso, questo, che l'artista festeggia con una sintetica antologica, arricchita da una nutrita opera grafica, nello spazio della galleria “Il Doge” (Via Luccoli 14, fino al 6 novembre), a cura di Dario Ferin.

Anni di ricerca in cui Gialdini si muove oscillando tra astrazione e figurazione: ora perseguendo un linguaggio surrealisteggiante - dove il reale si trasforma e si contamina col sogno - come ad esempio la scultura per la biblioteca Berio dedicata alla morte di Carlo Giuliani in cui il cuore del personaggio si metamorfizza simbolicamente in pericoloso “bersaglio”, o l'opera del “Gondrano” - una vistosa testa equina con infilzati nel collo, proteso in avanti, chiodi e ferri dell'universo meccanico, oggi in via d'estinzione; ora badando ad un gioco di masse scultoree, equilibrate tra incalzanti ritmi di pieni e vuoti (vicino a certe astrazioni di Moore), non esenti da alcune soluzioni di carattere cubista. Con personalissimi esiti: soprattutto nel proporre tematiche riferibili alla coppia, unita in effusioni d'amore ablativo, capace di generare nuovi germogli di vita. Ma l'acutezza della sofferenza umana è sempre presente nell'intera opera dell'autore.

E' infatti qui rappresentata un'umanità dolente, spesso appesantita sotto la morsa della pietra dalla quale prende vita e al tempo stesso si libera, come se tentasse, con un'indicibile forza, di rimuovere il peso che la sovrasta per riuscire ad esistere.

Sovente si assiste alla lotta tra Eros e Thanatos, tra vita e morte: le forme dei corpi, con una violenta operazione del togliere, sembra escano a fatica dalla materia, rimanendo spesso quasi informi, appena rese come masse tondeggianti che si dilatano nello spazio offrendosi spontaneamente alla luce; un nascere difficile ad una realtà complessa come quella contemporanea dove trasformazioni sociali e tecnologiche hanno travolto la storia per prefigurare, dare spazio, a nuove e future identità.

Una scultura, questa, che si fa anche eco della sofferenza psichiatrica.

Chiamato da Claudio Costa - fondatore dell'Istituto Materie e Forme Inconsapevoli nell'ex Ospedale Psichiatrico di Ge-Quarto - Gialdini ha svolto con generosità - fino a tempi recenti - intensa attività didattica coi degenti psichiatrici, allargando inoltre gli “spazi aperti” del Museo omonimo con ulteriore afflusso di opere.



Miriam Cristaldi


 

Nell'ambito di “GEnova 2004”, come risultato di uno sforzo comune tra le Facoltà di Medicina, Farmacia e Scienze Matematiche Fisiche Naturali dell'Università di Genova, si è inaugurata la mostra “Biomedicina e Salute” - con incontri e laboratori - (Loggia della Mercanzia, piazza Banchi, fino al 3 novembre, a cura di Fabio Bonfenati e Franco Ragazzi) allo scopo di far conoscere la storia della biomedicina con illuminanti e significative testimonianze. Come quelle ricche di sorprese della ricerca e quelle che ha sedimentato, instancabile nel tempo, lo stesso Ateneo genovese, focalizzando l'attenzione su di un passato sostanzioso per passare ad un presente denso di contenuti e proiettarsi infine verso un futuro composto da “centri, personalità, risultati di assoluta eccellenza nella ricerca, nella prevenzione e nella salute”.

In sostanza, un fitto dialogo tra le ricerche condotte nell'ambito storico (sono qui presenti straordinari reperti provenienti da tutto il mondo e conservati nel museo di etnomedicina “A. Scarpa” dell'università degli studi di Genova) e quelle della realtà attuale ultima delle biotecnologie con ricerche di carattere avveniristico e che pongono interrogativi inediti.

Nella mostra sono evidenziati anche i primi passi delle Neuroscienze Sperimentali per poi proseguire negli ambiti della Neurologia e Psichiatria, Farmacia, Medicina Interna, Chirurgia, Diagnostica, Pediatria.

All'interno dei percorsi medici, corre un percorso artistico con opere che in qualche modo si riferiscono all'uomo, al suo corpo e alle sue patologie. In questo contesto, si evidenziano i lavori del genovese Claudio Costa (quasi a un decennio della sua scomparsa), artista e arteterapeuta nell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto e fondatore delle Materie e Forme Inconsapevoli.

In particolare quello riguardante il “Combattimento tra cuore e cervello” ('93) dove, su di una consunta lamiera arrugginita, fissata ad una spalliera di palestra (simbologia di aspri contesti dell'attualità), sono deposti gli organi “straziati” del cuore e del cervello accanto ad una specie di rostro. Elemento, questo, che procura la “spaccatura” del cuore, mentre il cervello rimane ammutolito e prigioniero ad una finestra ingabbiata. Quando l'opera è stata fatta era il periodo appena posteriore alla guerra del Golfo e, come una Cassandra, stava a denunciare i pericoli cui si andava incontro. Anche Davide Raggio, paziente psichiatrico e genius loci di Quarto, amico ed estimatore di Costa, è qui presente con i caratteristici suoi “Pinocchietti”, creati con canne del parco dell'ospedale ed (alcuni) incisi a fuoco, e con altre opere originali tra cui un dipinto con bassorilievi in “sassomatto”, pasta ottenuta con cenere di sigaretta o con terra essiccata. Un artista autsider, mancato anch'egli da pochi anni, che si serviva di scarti della natura e di oggettualità rinvenuta nell'ospedale per creare curiosi personaggi che riteneva fossero vivi e che comunicassero con lui un misterioso linguaggio del “cuore”. In attesa di una grande mostra che documenti quegli anni che hanno connotato la presenza di Costa con la direzione di Antonio Slavich.


Miriam Cristaldi

 


 

“Questa è la più bella mostra di architettura del xx° secolo!” esclama gioiosa l'architetto Gae Aulenti che con Germano Celant ha allestito gli spazi espositivi della grande, spettacolare mostra “Arte & Architettura 1900/2000” (progetto grafico di Pierluigi Cerri) invadendo l'intero Palazzo Ducale tracimando poi nel centro storico con grandi installazioni, ed ancora, attraversando l'intera città in 50 punti nevralgici mediante l'uso di cartelloni pubblicitari come supporto per fotografie, progetti, disegni, per un totale complessivo di 1.100 opere disseminate in un territorio di circa 4.000 metri quadrati.

Un'esposizione, questa, che ha fatto dire al curatore Germano Celant: “E' sicuramente la più grande mostra che io abbia mai realizzato”, per certi versi paragonabile ad una biennale veneziana, ma diversa per intenti e per logica delle presenze.

Qui il soggetto portante è l'architettura. Un grande osanna agli architetti di tutto il mondo - soprattutto quelli che per originalità e per certi esiti pittorico-plastici sono più vicini alle arti visive, tanto che si può parlare di “archi-scultura” - mettendo in discussione il ruolo dell'artista, qui presente fondamentalmente quando esprime capacità di carattere architettonico. Un'architettura, come spiega il curatore, “da intendere - infatti - dal punto di vista filologico e fantastico, ma anche un'architettura spettacolo, di carattere mediatico, che cambia il volto della città attraversandola... L'edificio è in sostanza una grande scultura che si colloca nel tessuto urbano e ne cambia il volto trasformando il paesaggio...”. Un esempio per tutti: il Guggenheim di Bilbao, interamente rivestito di titanio, costruito da Frank O. Gehry, assolutamente isolato dal contesto urbano; una sorta di simbolo che rilegge il paesaggio.

In pratica, una forte commistione tra le arti.

Gli architetti sovente sono stati pittori o scultori come Le Corbusier o Alvar Aalto. Sono qui visibili dipinti di Le Corbusier (una Natura Morta) e una scultura in paglia e legno di Alvar Aalto dove l'astrazione si coniuga con il naturalismo del paesaggio. E d'altra parte ci sono esempi di artisti che si sono allargati nel campo architettonico come Daan Gram, Anish Kapoor, Vito Acconci, Frank Stella o Dennis Hoppenheim. Un'architettura dunque da intendere, come nell'antichità, nel complesso e corposo ruolo di “madre” delle arti.

L'intera operazione artistica si presenta in due tronconi: la parte storica delle avanguardie dal '900 al '68 (negli spazi sotterranei del munizioniere) e quella dal '68 fino ad oggi ( piani superiori con sconfinamenti nelle piazze, strade, cortili del centro storico a firma dei maggiori artisti e architetti del mondo).

Prima di accedere a tali sezioni, ci accolgono, nell'atrio del Ducale, al piano terra, alcune vistose installazioni: quella curiosa di Oldenburg dove uno smisurato fazzoletto bianco sventola in cenno di saluto e quella mitico-arcaica di Merz in cui le forme primarie dell'igloo (simbolo della casa) sono esposte in sequenza Fibonacci. Salendo lo scalone, in alto, una grossa, turbolenta forma argentata di nuvola-che-lancia-fulmini (realizzata in scala reale), di Mangiano Ovalle, ci sovrasta minacciosa sulla testa.

La sezione storica, sempre in relazione ad una visione dello spazio plastico-pittorico, è corposamente documentata partendo dalle radici cubiste ed astrattiste per arrivare alle avanguardie: dal futurismo al suprematismo, costruttivismo, plasticismo, razionalismo fino al funzionalismo evidenziando come tutta la comunicazione creativa dell'architettura “sia sempre stata un crogiuolo nel quale si sono fuse tutte le sostanze”.

Scendendo nei sotterranei del munizioniere, si possono ammirare, tra le altre opere, “Il tunnel” del '17 di Severini, “Architettura nello spazio” di Prampolini del '20, gli stupendi disegni e progetti futuristi di Sant'Elia - vicini al costruttivismo sovietico - con il modello ricostruito della “Città Nuova”, Un dipinto tendente al rosso fiammeggiante di Balla col “Ponte della velocita” del '13, un piccolo, prezioso Sironi con “Sintesi del paesaggio urbano” dalle gradazioni ombrose nelle astrazioni lineari del contesto urbano ed una perla di Carrà con “Composizione” del '14 che sintetizza geometricamente il paesaggio. Di Rodchenko si nota la “Costruzione spaziale” nella sua purezza delle linee. Per le correnti russe si evidenzia il noto dipinto di Lissitsky “Tatlin mentre lavora al monumento alla Terza Internazionele” del '21; l'architetto Van Doesburg che ristruttura visivamente l'ambiente sovrapponendo ad una costruzione banale un'architettura di forme colorate (in stretta collaborazione con pittori e scultori) contro l'elementarismo statico di Mondrian, anch'egli presente con dipinti e progetti.

Schwitters, padre di tanta arte contemporanea, è qui in mostra con piccole “cassette” al cui interno sono incollate geometrie dipinte. Particolarmente efficace “La città cibernetica” di Shoffer con forme spaziodinamiche di grande impatto visivo. L'architetto Kiesler, memore del costruttivismo sovietico, crea cellule abitative con evidenti e suggestivi echi surrealisti come la forma naturalistica di un pesce. Che l'architetto Gehry - costruttore del grande pesce esposto nelle sale superiori - abbia visto tali opere? Di Le Corbusier - architetto che concepisce l'edificio come organismo funzionale e dinamico esprimendo ritmi e moti ondosi per sfuggire il pericolo del monumentale - sono esposti dipinti e progetti, mentre di Molnar è in visione la nota costruzione a scatola “Il cubo rosso” del '23 accanto all'affascinante progetto di un grande hangar per aerei intitolato “Grande struttura”, del '53, dell'architetto Wachsmann ( ha lavorato parecchio a Genova in quegli anni) composto da centinaia di “giunti” che stringono fasci di strutture lineari. Non manca peraltro il progetto di Wright, l'arcinota “Casa sulla cascata”, una serie di piani orizzontali sovrapposti ed articolati ritmicamente sopra il flusso d'acqua ove la natura interagisce magnificamente con l'architettura. Con Scarpa prosegue il discorso del mixage tra vecchio e nuovo, ricco di una forte sensibilità materica, qui in mostra con il progetto del padiglione venezuelano. Accanto ai dipinti astratti di Radice, brilla il progetto “Monumento ai caduti” di Como del '33 di Terragni, mentre con Mies Van Der Rohe (vicino al gruppo di De Stijl) si affronta (per primo in Europa) il tema del grattacielo come una “casa trasparente” alta fino al cielo secondo un utopismo espressionista ove la dimora dell'uomo non nasconde niente alla visione ma vive in un gioioso coctail di luce, spazio e cielo. Affascinante il progetto per il “cimitero di Urbino” di Arnaldo Pomodoro. Non mancano infine i grandi artisti degli anni '50, '60, come Burri, con i suoi “cretti”, Vedova con la sua pittura gestuale, Dubuffet con pittura su poliuretano del “Giardino di smalto” del '69, i “Concetti spaziali” di Fontana e la delicata, effimera opera di Manzoni con i “Corpi d'aria” e “Acrome”, in fibra di vetro, accanto alla lamiera pressata di Cesar del '65.

Ai piani superiori, nel troncone riservato all'arte contemporanea, si possono ammirare in un grande salone del primo piano le prestigiose opere degli artisti: Kiefer - presente con un grande dipinto dalle fantastiche visioni che spaziano tra terra e cielo; Christo - con il famoso progetto del “Reichstag impacchettatto” in cui giganteschi teli rivestono l'intero palazzo; la Nevelson - con una mastodontica e al contempo scabra opera al nero costituita da legni di scarto, articolata lungo una vasta fetta dell'immensa parete.

Negli ampi corridoi del Ducale, sempre al primo piano, si evidenziano alcune installazioni: quella plastico-architettonica di Daan Gram (curiosa e intrigante struttura in vetro specchiante intitolata “Solido triangolare”), quella di Flanagan (nota scultura apparsa in numerose riviste intitolata “Lepre che salta un metro e ottanta sull'Empire State Building” dove appunto una lepre beuysiana spicca un salto sulla cima del grattacielo) mentre all'interno delle sale del contemporaneo troneggia, accasciato sul pavimento, l'enorme pesce dell'architetto Gehry (composto da centinaia di scaglie in legno).

Il percorso vero e proprio inizia con la presenza massiccia degli architetti e designer postmoderni.

Tra gli altri, Ettore Sottsass, dalla particolare sensibilità artistica sia per l'uso del colore che per i materiali adottati, non senza certi risvolti kitsch; Gaetano Pesce, creatore di visionarie archi-sculture, con il fantastico progetto del concorso internazionale per le Halles, del '79, il cui intero agglomerato urbanistico assume connotazioni del corpo umano; Aldo Rossi, con vari progetti tra cui quello realizzato del Carlo Felice di Genova. Di lui è stato ricostruito “Il teatro della memoria” (nel Porto Antico), eletto dal curatore a simbolo dell'intera operazione artistica in quanto lavoro che esprime esemplarmente un felice connubio tra presente e passato; Alessandro Mendini, architetto e designer che recupera l'uso della decorazione e della dimensione artigianale attraverso dipinti musivi e tecniche del mosaico (ne è un esempio il coloratissimo obelisco in piazza Matteotti).

Renzo Piano è qui presente con articolati e prestigiosi progetti del “Centro Pompidou”del '71. Il suo motto: leggerezza e luminosità dello spazio abitativo. Un costruire spesso ambito nella contemporaneità che ha fatto dire al filosofo Paul Virtilio: “edifici arditi, superleggeri che sfidano la statica... cercando la spettacolarità a tutti i costi comunicando un senso di precarietà ... che danno la sensazione di poter crollare da un momento all'altro”.

Artisti invitati con caratteristiche o richiami all'architettura: da Warhol, col dipinto “Riflesso” strutturato secondo linee di carattere urbanistico, alle fresche ed essenziali geometrie di Sol Le Witt (minimal-art); dal concettuale Gordon Matta Clark che fotografa edifici sventrati o abbandonati in cui pratica tagli nelle pareti per mettere in comunicazione spazi differenti, al grande dipinto transavanguardista di Cucchi; da Acconci, che ha esordito anche in spettacolari progetti urbanistici come un parco giochi composto da giganteschi caschi da baseball, alla Bourgeois, con mini progetti in argento di palazzi rettorici; da Kapoor, che crea costruzioni attorno a spazi vuoti con armoniose fusioni tra architettura e paesaggio, al concettuale Dennis Hoppenheim, artista performer che nell'88 passa alla creazione di archi-sculture mettendo ironicamente in rilievo le alterazioni del paesaggio urbano attraverso spazi labirintici senza funzione, a metà tra sogno e realtà, o alle caratteristiche “Tipologie” di industrie dismesse, dei coniugi Becher (Arte Antropologica, in alcuni momenti compagni di percorso di Claudio Costa), con significative presenze delle opere fotografiche di Tomas Ruff, loro allievo.

La mostra si avvale di un ciclopico catalogo (circa 800 pagine a colori e in bianco e nero con capillare documentazione di tutte le installazioni, sculture, dipinti, fotografie, progetti, modellini e quant'altro presente) attualmente non ancora in visione per la difficoltà di raccogliere e stampare la mole di lavoro.

Un particolare curioso: Celant, teorico e fondatore dell'Arte Povera di fine anni '60, ha qui ignorato il suo gruppo (per decenni protagonista nei musei d'arte contemporanea) se si esclude la presenza di Mario Merz, recentemente scomparso.

Una mostra-evento, questa, che coinvolge tutta la città, eccezionale per approfondimento artistico, scientifico, tecnico e specialistico, che mostra una visione dell'arte al di fuori degli ismi o di particolari correnti, ma tutto in prospettiva di vaste dimensioni come quella “magna” dell'architettura.

Un'architettura spettacolare, a carattere utopico e fantastico perché, spiega Celant:”... i committenti di oggi richiedono un'immagine forte e connotata così da trasformarla in strumento d'uso efficiente , ma anche comunicativo e mediatico”.

Un'architettura, insomma, che sia al contempo pubblicità e informazione.


Miriam Cristaldi


 

L'arte esce dagli spazi canonici per entrare nelle strade


Da tempo, decenni, l'arte esce dagli spazi canonici (gallerie, musei) per andare incontro alla gente. Negli anni '60, il movimento Fluxus (allargato in tutto il mondo) ha invaso gioiosamente gli spazi urbani con il motto secondo cui l'arte fa equazione con la vita. Anche oggi, come ieri nelle città sensibili all'arte contemporanea, assistiamo a queste giocose, ironiche discese in campo come espressione di un fatto culturale allargato a tutti.

Tra le varie installazioni cittadine, quali espansioni della mostra di Germano Celant “Arte & Architettura 1900/2000” allestita a Palazzo Ducale, si evidenziano: quella estremamente raffinata, quasi magica, della ricostruzione in legno del famoso “Teatro del mondo” - dell'architetto postmoderno Aldo Rossi - alto 20 metri, progettato per la Biennale di Venezia del '79, qui montato in piazza Caricamento e che, in decenni precedenti, ha viaggiato sulle acque del Danubio, caricato su di un largo barcone.

In piazza De Ferrari è visibile il “Chiosco per Genova 2004”, dell'architetto Gaetano Pesce, al cui interno vi sono gli splendidi decollage di Mimmo Rotella, realizzati con una performance dal vivo il giotrno dell'inaugurazione della mostra.

In piazza Matteotti brilla , per luce e colore, “La torre del filosofo” dell'architetto, designer Alessandro Mendini, una sorta di obelisco dove la componente pittorica denuncia un richiamo a certi valori artigianali, mentre in piazza Fontane Marose giganteggia una cisterna di benzina (del tedesco Hans Hollein) dipinta in oro e sovrastata da corna, anch'esse dorate. Qui la simbologia del petrolio che vale oro è abbastanza chiara, ma la presenza delle corna sembra connotare l'opera di risvolti apotropaici di carattere mitico-rituale.

Nell'atrio di Palazzo Bianco, l'artista Dennis Oppenheim presenta una smisurata tartaruga sul cui guscio è adagiato un faro alto 7 metri, simbolo di Genova nell'immagine della Lanterna. L'allegoria sembra voler spiegare Genova come una città in lento cammino (il rettile) e al contempo precario (faro instabile posato su di un corpo in movimento). Nel vicino atrio di Palazzo Tursi si evidenziano i “Giardini di vetro” dell'architetto Andrea Branzi dove forme orizzontali in vetro, quale rigida espressione tecnico-razionale, si armonizzano e interagiscono con elementi della natura come alberi, rampicanti e prato. Un coktail tra severo controllo e libera creatività.

Nei giardini di via XII Ottobre, troneggia un frammento di costruzione, reale, con cui Renzo Piano si è servito per costruire il Centro Culturale Jean Marie Tjibaow, per gli indigeni della Nuova Caledonia. Una costruzione, questa, dedicata alla cultura kanek e che s'ispira alle capanne della tradizione artigiana del luogo intracciando il legno vivo in modo simile a come lo intrecciavano gli indigeni per ottenere cestini.

In piazza S. Matteo un piccolo edificio in mattoni ingloba al suo interno un abito nuziale in bronzo e filo spinato della nobildonna Cornelia: una denuncia contro il benessere e la vanità dell'artista Anselm Kiefer.


Miriam Cristaldi


Mariko Mori


“Wave ufo” è il titolo dell'installazione a carattere extra-planetario della coreana Mariko Mori, “allunata” nel grande atrio centrale di Palazzo Ducale, nell'ambito della mostra “Arte & Architettura 1900/2000”, a cura di Germano Celant.

Si tratta di una sorta di “macchina volante” la cui forma naturalistico-visionaria è paragonabile ad una macrocellula dal taglio ad “occhio a mandorla”, gonfia e morbida alla percezione visiva e al tatto per assoluta mancanza di spigolature e sinuosamente arrotondata come quella di un dirigibile o di un sottomarino. Una luminosissima, avveniristica, archi-scultura color bianco panna ma cangiante alla luce per arricchirsi di sfumature appartenenti all'intero arcobaleno - dal giallo-rosa all'indaco-violetto - proprio come i mille riflessi di un ologramma o di un diamante. Un involucro abitativo, questo, fatiscente e spumeggiante che evoca sfere siderali, atmosfere esplorative, personaggi extraterrestri, cyborg dello spazio profondamente avvinghiati all'immagunario collettivo dove il sogno collima con il reale. Al suo interno immagini digitali traducono su numerosi monitor le onde cerebrali che il visitatore emette normalmente nella vita di pensiero (possono entrare nell'abitacolo solo tre persone alla volta) dando origine ad una partecipazione attiva che lo auto-legittima come “creatore” passivo di coloratissime video-immagini “attive”, piaceri visivi corrispondenti appunto alle proprie onde del cervello.

Mariko Mori, ex modella e prodotto metropolitano newyorkese, trascende l'umano trasformando il mortale con il divino coniugando la millenaria tradizione giapponese con le forme sofisticate della storia dell'arte contemporanea occidentale servendosi di immagini artificiose e immateriali, fantasmatiche come ectoplasi nell'etere, utilizzando tecnologie avanzate per spaziare dalla moda alla cultura pop a alla fantascienza, allo stesso tempo non esente da aspetti mistico-religiosi nalla concezione spirituale di una misterica “illuminazione” buddista che pervade l'intera sua opera.



Miriam Cristaldi

Con “Post Ensemble”, l'eclettico Mario Napoli – conduttore culturale (direttore centro culturale Satura), infaticabile organizzatore (sua è la ristrutturazione graduale che ha portato Palazzo Stella a brillare nel nostro centro storico in tutta la sua ampiezza con i diversi piani resi abitabili attraverso spazi espositivi in progress), collezionista, ma soprattutto artista (con studi di medicina) - si mostra pubblicamente nella “Sala Maggiore” del centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 1 dicembre) con opere degli ultimi anni.

Un lavoro, questo, acutamente denominato dal curatore della mostra, Gabriele Perretta, “Dreams-collage”, composto da fotografie ritagliate dai mass media su cui l'autore interviene con gesti pittorici, per poi essere scannerizzate e in un secondo tempo stampate su foglio di alluminio. Si struttura così un immaginario iconico a metà tra la violenza della cronaca e la dolcezza del sogno, ma raffreddato dalla ristampa su metallo. Risultato: una specie di grande “puzzle” composto da scintillanti tessere con reperti fotografici (in genere le cromie sono accese e la pittura accentua la sintassi delle immagini mediali), in questo caso riferibili agli orrori delle guerre che insanguinano il pianeta terra, accostate ad immagini sacre, tratte dalla pittura rinascimentale, che ne attutiscono l'orrore.

Con soluzioni tecniche piuttosto intriganti.

Un vedere vicino a certe soluzioni della storica Poesia Visiva e che comunque parte da lontano. Addirittura il linguaggio attuale di Mario Napoli affonda le radici in soluzioni di carattere geometrico di fine anni '70, anche allora gestite con accensioni cromatiche di forte impatto visivo. Geometrie libere o sottoinsiemi che oggi - realisticamente - si sono trasformate in frammenti cronacistici, caleidoscopici coctayl di immagini mediali risucchiate dallo specifico dell'arte.

Nel catalogo i lavori sono poeticamente accostati alle parole della letteratura e della filosofia di Charls Olson, Hans Magnus, Eizensberger, Eduward Cummings, May Swenson, Antonio Pizzuto, Wittgenstein e Michel Serres.


Miriam Cristaldi


Con “Post Ensemble”, l'eclettico Mario Napoli – conduttore culturale (direttore centro culturale Satura), infaticabile organizzatore (sua è la ristrutturazione graduale che ha portato Palazzo Stella a brillare nel nostro centro storico in tutta la sua ampiezza con i diversi piani resi abitabili attraverso spazi espositivi in progress), collezionista, ma soprattutto artista (con studi di medicina) - si mostra pubblicamente nella “Sala Maggiore” del centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 1 dicembre) con opere degli ultimi anni.

Un lavoro, questo, acutamente denominato dal curatore della mostra, Gabriele Perretta, “Dreams-collage”, composto da fotografie ritagliate dai mass media su cui l'autore interviene con gesti pittorici, per poi essere scannerizzate e in un secondo tempo stampate su foglio di alluminio. Si struttura così un immaginario iconico a metà tra la violenza della cronaca e la dolcezza del sogno, ma raffreddato dalla ristampa su metallo. Risultato: una specie di grande “puzzle” composto da scintillanti tessere con reperti fotografici (in genere le cromie sono accese e la pittura accentua la sintassi delle immagini mediali), in questo caso riferibili agli orrori delle guerre che insanguinano il pianeta terra, accostate ad immagini sacre, tratte dalla pittura rinascimentale, che ne attutiscono l'orrore.

Con soluzioni tecniche piuttosto intriganti.

Un vedere vicino a certe soluzioni della storica Poesia Visiva e che comunque parte da lontano. Addirittura il linguaggio attuale di Mario Napoli affonda le radici in lontane soluzioni di carattere geometrico (fine anni '70), sempre gestite con accensioni cromatiche di forte impatto visivo. I Geometrie libere, o sottoinsiemi, che oggi - realisticamente - sono trasformate in frammenti cronacistici, caleidoscopici coctayl di immagini mediali risucchiate dallo specifico dell'arte.

Nel catalogo i lavori sono poeticamente accostati alle parole della letteratura e della filosofia di Charls Olson, Hans Magnus, Eizensberger, Eduward Cummings, May Swenson, Antonio Pizzuto, Wittgenstein e Michel Serres.


Miriam Cristaldi


Nell'ambito di “GEnova 2004”, come risultato di uno sforzo comune tra le Facoltà di Medicina, Farmacia e Scienze Matematiche Fisiche Naturali dell'Università di Genova, si è inaugurata la mostra “Biomedicina e Salute” - con incontri e laboratori - (Loggia della Mercanzia, piazza Banchi, fino al 3 novembre, a cura di Fabio Bonfenati e Franco Ragazzi) allo scopo di far conoscere la storia della biomedicina con illuminanti e significative testimonianze. Come quelle ricche di sorprese della ricerca e quelle che ha sedimentato, instancabile nel tempo, lo stesso Ateneo genovese, focalizzando l'attenzione su di un passato sostanzioso per passare ad un presente denso di contenuti e proiettarsi infine verso un futuro composto da “centri, personalità, risultati di assoluta eccellenza nella ricerca, nella prevenzione e nella salute”.

In sostanza, un fitto dialogo tra le ricerche condotte nell'ambito storico (sono qui presenti straordinari reperti provenienti da tutto il mondo e conservati nel museo di etnomedicina “A. Scarpa” dell'università degli studi di Genova) e quelle della realtà attuale ultima delle biotecnologie con ricerche di carattere avveniristico e che pongono interrogativi inediti.

Nella mostra sono evidenziati anche i primi passi delle Neuroscienze Sperimentali per poi proseguire negli ambiti della Neurologia e Psichiatria, Farmacia, Medicina Interna, Chirurgia, Diagnostica, Pediatria.

All'interno dei percorsi medici, corre un percorso artistico con opere che in qualche modo si riferiscono all'uomo, al suo corpo e alle sue patologie. In questo contesto, si evidenziano i lavori del genovese Claudio Costa (quasi a un decennio della sua scomparsa), artista e arteterapeuta nell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto e fondatore delle Materie e Forme Inconsapevoli.

In particolare quello riguardante il “Combattimento tra cuore e cervello” ('93) dove, su di una consunta lamiera arrugginita, fissata ad una spalliera di palestra (simbologia di aspri contesti dell'attualità), sono deposti gli organi “straziati” del cuore e del cervello accanto ad una specie di rostro. Elemento, questo, che procura la “spaccatura” del cuore, mentre il cervello rimane ammutolito e prigioniero ad una finestra ingabbiata. Quando l'opera è stata fatta era il periodo appena posteriore alla guerra del Golfo e, come una Cassandra, stava a denunciare i pericoli cui si andava incontro. Anche Davide Raggio, paziente psichiatrico e genius loci di Quarto, amico ed estimatore di Costa, è qui presente con i caratteristici suoi “Pinocchietti”, creati con canne del parco dell'ospedale ed (alcuni) incisi a fuoco, e con altre opere originali tra cui un dipinto con bassorilievi in “sassomatto”, pasta ottenuta con cenere di sigaretta o con terra essiccata. Un artista autsider, mancato anch'egli da pochi anni, che si serviva di scarti della natura e di oggettualità rinvenuta nell'ospedale per creare curiosi personaggi che riteneva fossero vivi e che comunicassero con lui un misterioso linguaggio del “cuore”. In attesa di una grande mostra che documenti quegli anni che hanno connotato la presenza di Costa sotto la direzione di Antonio Slavich.


Miriam Cristaldi

Museo Diocesano


Gli artisti liguri Aurelio Caminati, Milli Coda, Gigi Degli Abbati, Walter Di Giusto, Maria Giulia Drago, Luigi Grande, Giovanni Job, Bruno Liberti, Renata Minuto, Marcello Mogni, Sergio Palladini, Anna Ramenghi, Luigi M. Rigon, Arturo Santillo, Raimondo Sirotti, Giuseppe Trielli hanno felicemente realizzato la mostra “16 artisti per Virginia Sancta”(Virginia Centurione Bracelli, santa genovese da poco salita agli onori dell'altare) - sotto la spinta propulsiva di Walter di Giusto - nella sede del Museo Diocesano di Genova (fino a tutto gennaio 2005).

L'esposizione è corredata di un bel catalogo a colori con testi di Bottaro, Caprile, Centurione Boschieri, Fumagalli Carulli, Martini.

Una mostra, questa, scrive il cardinale arcivescovo Tarcisio Bertone, da intendere “... come una nuova forma di approfondimento della santa figura, capace di coglierne in modo sintetico e intuitivo risonanze nuove e attuali e di proporre la sua come le altre esperienze di santità all'uomo d'oggi, che chiede forse con più insistenza di scorgere intorno a sé le indicazioni che altri suoi fratelli e sorelle hanno tracciato sulla via del Vangelo”.

Un'icona, quella della santa seicentesca, che affiora misticamente e gioiosamente dai dipinti espressi nei vari linguaggi dei 16 artisti, immagine e sottintesa presenza di qualcosa che trascende i limiti dell'umano per suggerire atmosfere di rispettosa e al contempo soffusa sacralità.

Con Walter Di Giusto si assiste, tra le altre, ad una visione in chiave metafisica, magicamente filtrata dai toni blu, mentre il giovane Mogni propone qui un'efficace e fantasmatica interpretazione della Bracelli, quasi ne riesumasse l'essenza antropologica. Con Degli Abbati si assiste ad una sofisticata e magistrale struttura compositiva capace di richiamare i fasti della storia dell'arte. Job presenta un intenso primo piano della Santa nell'attimo fugace di un'improvvisa apparizione mentre Liberti configura suggestive profondità celesti evocatrici della sacra presenza. Palladini ne celebra il trionfo. Rigon ne evoca invece il riscatto sepolcrale. Sirotti e Trielli non cessano, infine, di creare turbinose ed appassionate atmosfere attraversate da lame di luce spirituale.


Miriam Cristaldi

Serena olivari



Per l'album di “Madame Bovary” - tratto dal romanzo di Gustave Flaubert - composto da una suite di 17 brani pianistici scritti dal musicista Darius Milhaud per la colonna sonora del film omonimo (girato nel '33 da Jean Renoir), l'artista e architetto Serena Olivari - attraverso delicati esiti pittorici - commenta poeticamente ciascun brano, accoppiati ad altrettanti testi scritti da Mauro Manfredi (per la voce recitante), egli stesso artista e conduttore del circolo culturale “Il Gabbiano” di La Spezia (sede dell'operazione artistica, via Don Minzoni 53, fino al 2 dicembre), recentissimamente scomparso e a cui la genovese Olivari dedica l'intera sua mostra.

Una pittura, quella di Serena, che si presenta in punta di piedi, fatta di sottilissime cellule epiteliali che vanno a strutturare una leggera, aerea e preziosa trama cromatica, così fragile e tremula che un soffio potrebbe scombinare tutto, tanto risulta tenue (quasi trasparente) la pigmentazione coloristica.

Eppure, in questo immateriale contesto spaziale, fatto di musica (ritmi cadenzati) e colore, pullula la vita. Una fluttuante energia vitalistica che afferra il mondo nelle sue piccole cose, fatte di niente, ma pulsanti e reali nella loro microessenza.

Così, piccoli frammenti di calce, piume, bottoncini, pezzetti di carta, fili caduti, sottili disegni a penna - appena accennati - fatti di omini, principesse, scarpine, tazzine da caffè, vulcani, uccellini, diventano fantasmatiche presenze che vibrano il contesto pittorico e sono capaci di avvertirci della sotterranea presenza di un microuniverso che chiede ascolto alla nostra interiorità: un paesaggio che produce condizioni di instabilità e di incertezza per le condizioni di spazio che riescono a creare come luoghi integri ma fondamentalmente compromessi, quasi in via d'estinzione.

Perciò preziose testimonianze da consegnare a futura memoria.

Briciole, quasi, che s'incuneano nella fragilità del tessuto pittorico per dare “voce” all'invisibile e “suono” a quei pensieri che necessitano di esistere attraverso la “ricerca di nuove forme affidandosi ad un ideale quasi pitagorico di armonia , inventando configurazioni sorrette da magici rapporti segreti” (Umberto Eco).

Questo per non venire fagocitati dall'ansia del consumo e dall”insostenibile leggerezza” dell “apparire” e per giungere infine “ a conclusioni cui la logica non può arrivare” (Sol Lewitt).

Serena Olivari ha affiancato per anni l'attività di arte-terapeuta all'interno dell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto ed è stata membro attivo dell'Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli, fondato dall'artista Claudio Costa.

Miriam Cristaldi


La mostra “Attraversare Genova. Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo. Anni '60-'70”, a cura di Sandra Solimano - in collaborazione con lo staff scientifico composto da Buonaccorsi, De Batté, Giromini, Lercari, Papone, Prato, Ricaldone, Sborgi, in esposizione al museo d'arte contemporanea di Villa Croce (via Ruffini 3, fino al 27 febbraio 2005) – si presenta con caratteristiche didattiche. Soprattutto attraverso gli scritti del comitato scientifico che testimoniano con precisione certosina attraverso date, documentazioni, fotografie, questo “caldo” ventennio genovese attraversato da presenze significative e stimolanti con artisti di grosso calibro come Fontana, Allan Kaprow, Joseph Beuys, Laurie Anderson, Rebecca Horn, I coniugi Becher, Christian Boltanski, Daniel Buren, Gordon Matta-Clark, Daniel Spoerri, Wolf Vostell, Bernar Venet, Ben Vautier ... che sicuramente hanno inciso nel territorio su personalità artistiche più attente e vivaci, soprattutto aperte alle innovazioni linguistiche, sovente operando insieme sinergicamente.

Le opere esposte, circa duecento, se si esclude la bronzea, alta “Colonna del viaggiatore” di Arnaldo Pomodoro (collocata nel parco di fronte all'ingresso), in generale sono di piccolo formato (con forti presenze di multipli, fotografie, manifesti e depliant) e non riescono ad essere molto esplicative del singolo artista ma, nell'insieme - e con questo preciso itinerario voluto dalla curatrice - costituiscono un prezioso corpus capace di illuminare storicamente la realtà dei due decenni presi in esame.

Decenni che hanno fatto conoscere, tra gli altri, a livello internazionale, e per strade diverse, i genovesi Emilio Scanavino (Informale segnico), Claudio Costa (Arte Antropologica), Plinio Mesciulam (Movimento Arte Concreta), ciascuno proseguendo poi con un discorso personalissimo attraverso il quale si sono distinti sul palcoscenico dell'arte.

Nella prima metà degli anni sessanta l'arte si contamina con l'industria di stato. A Genova, artisti come Calder, Pomodoro, Consagra, Carmi, David Smith, l'architetto Waksmann, hanno trovato ispirazione operando anche nella fabbrica metalmeccanica dell'Italsider aprendo la stagione dell'industria statale, mutandola euforicamente in “bottega d'arte” attraverso le loro performance, qui documentate.

Al primo piano (nobile) della palazzina, dopo l “Ambiente spaziale” del '62 di Lucio Fontana pensato per la galleria “Il Deposito” di Boccadasse, nelle tre stanze successive si sottolinea un particolare e felice momento per la nostra città: quello della costituzione del “Museo Sperimentale” da parte di Eugenio Battisti, allora professore dell'università di Genova, che invitò gli artisti (famosi o “saranno famosi”) a donare un'opera per questo scopo. Prestigiosa collezione che allora fu rifiutata da una miope Genova e quindi donata alla città di Torino, dove tutt'ora risiede.

Figurano in questo senso ricerche concrete, programmate e cinetiche di Castellani, Soto, Dorazio e Vasarely e ricerche segnico-informali di Twombly (con un singolare pezzo di “scrittura”), Novelli, Turcato, Scanavino (originale pittura bituminosa) vicino ad opere concetto-informali di Gallizio e Mondino (che rifà ironicamente il verso a Capogrossi).Famosi i grandi, armoniosi “Cromemi” di Rocco Borella.

Sono inoltre presenti testimonianze di sicuro impatto visivo come gli artisti dell'Arte Povera che nel '67 esposero a Genova, da Francesco Masnata (galleria La Bertesca).

Sono lavori, questi, che denunciano i primi “veleni” iniettati nella società dal “boom economico, una presa di coscienza che piega il gruppo - guidato da Celant - verso un rigore di tipo “poveristico” nell'uso del materiale, ma al contempo ricco di stimoli energetici e vitalistici di carattere anche ideologico.

Sono visibili le opere di Anselmo, Boetti, Ceroli, Fabro, Gilardi, Kounellis, Merz, Paolini, Parmiggiani, Pascali, Penone, Pistoletto, Zorio, e del genovese Emilio Prini presente con il “Perimetro” della sua stanza, un filo luminescente al neon arrotolato attorno ad un grosso rocchetto.

Nell'ultima sala di questo piano figurano grandi tele che propongono un uso nuovo della pittura: azzerata nelle sue qualità pittoriche e considerata esclusivamente come materiale, accanto al supporto, del fare arte.

Per questo il francese Toroni traccia col pennello punti neri su fondo bianco considerandoli esclusiva sedimentazione di materiale da depositare sul supporto mentre, sempre in questo senso, Buren propone tela stampata a strisce verticali.

E ancora si raggiunge il “grado zero” della pittura con Viallat, Dolla, Isnard e i genovesi Zappettini (una sorta di bianco su bianco) e Rizzo che mostra come campo pittorico una suggestiva tela cerata di camion. Esperienze di nuova pittura a Genova possono essere considerate quelle di Renata Boero che ottiene il colore con materiali vegetali e di Giuliano Menegon che “libera il segno calligrafico dall'assillo di un'impaginazione rigorosa”.

Negli altri spazi di Villa Croce si trovano i lavori di esponenti Fluxus con Filliou, Brecht, Vostell, Wotts e Ben Vautier, artisti che si ponevano rispetto all'arte in posizione critica, rovesciando la tradizione per vivere l“arte” in equazione con la “vita”.

Inoltre gli esponenti della Minima Art come Sol LeWitt, Robert Morris... o della Narrative art con Wegman, Boltanski, Franco Vaccari... ed artisti dell'area concettuale come Manzoni, Agnetti, Dan Graham... e la prima rassegna complessiva del fenomeno - esposta alla galleria Unimedia nel '77 - con lavori di Art Language degli artisti (tra gli altri) Kosuth, Venet, Agnetti, On Kawara, Weiner introdotti da un testo di Enrico Pedrini in cui si chiarisce come il linguaggio delle proposte concettuali sorregga ogni funzione espressiva dell'opera.

Sono anche esposte le proposte filosofiche degli artisti genovesi Anna e Martino Oberto che ruotaro

no attorno ad “Ana Eccetera” (rivista da loro fondata) e la complessa operazione “Mohammed” di Plinio Mesciulam; le performance dei genovesi, Pretolani, Dellepiane, Rossini e il “Controprocesso” di Aurelio Caminati, qui presente anche in veste di pittore iperrealista con un grande ritratto di persona anziana effigiante l'Inghilterra. Per l'antropologia spicca l'operato di Claudio Costa con il poetico, suggestivo lavoro “Gli occhi dei Maori riflettono i colori latenti della foresta”, del '73.

Inoltre sono riscontrabili numerosissime esperienze della Poesia Visiva, in particolare dei genovesi Tola, Vitone, Carrega, accanto ad esponenti del panorama nazionale e internazionale.

Corredano la mostra le categorie della Musica nelle sue componenti più popolari, la Grafica Aziendale e di Comunicazione che elabora l'immagine della città, il Fumetto, il Teatro che a Genova ha una storia solida ed esclusiva, la Fotografia che documenta le vicende cittadine, infine l'Architettura e l'Urbanistica che ne hanno strutturato la qualità formale. Video, manifesti, fotografie documentanol'intera operazione. Compreso il voluminoso catalogo delle edizioni Skira.



Miriam Cristaldi


Con “Attraversare Genova – Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo. Anni '60 – '70”, al Museo di arte contemporanea di Villa Croce (via Ruffini, fino al 27 febbraio 2005) la curatrice Sandra Solimano, col suo staff scientifico, ha voluto offrire uno spaccato di quegli anni dove più che il pubblico hannnno retto le sorti (illuminate) dell'arte contemporanea il privato con le gallerie di allora Il Deposito, La Bertesca, Martini & Ronchetti, La Polena, Sammangallery, Galleria Forma, Arteverso, Caterina Gualco...) e critici d'eccezione come Eugenio Battisti che ha collezionato un'illustre raccolta (allora vergognosamente rifiutata da Genova) e il nascente Germano Celant che ha fondato nel '68 l “Arte Povera”. Ma anche una nutrita schiera di collezionisti che, lungimiranti, si sono lasciati guidare dalle gallerie più vivaci riuscendo a salvaguardare un patrimonio d'arte dei più stimolanti, attento alla qualità e alle ricerche di quel ricco, fertile, innovativo periodo storico che corrisponde a una straordinaria stagione artistica, densa di fermenti con creazione di gruppi, a volte con aspetti legati al politico e al sociale.

Patrimonio che oggi ha permesso la realizzazione di questa grande mostra, proseguendo così la stagione GEnova 2004, capitale della cultura, dedicata all'arte contemporanea e che ha raggiunto l'apice con la mostra del Ducale “Arte & Architettura” invadendo anche spazi pubblici del centro storico per un'area di circa 4000 metri quadrati.

Genova oggi respira un'aria nuova: finalmente si riconosce la ricchezza dell'arte contemporanea documantata da preziose testimonianze che occupano tutti gli spazi pubblici dedicati a tali scopi.

Se con la mostra del Ducale è fornita una complessa e incrociata lettura del '900 internazionale, qui si considera un ventennio “caldo” di esperienze e ricerche nel campo dell'innovazione a Genova con testimonianze artistiche che nella nostra città hanno transitato allargando il sapere attraverso legami e sconfinamenti con altre città (dalle esperienze similari alle nostre), come il genovese gruppo autogestito Tempo 3, sono documentati il transito alla galleria Rotta del romano Gruppo 1 o quello del tedesco Gruppo Zero alla galleria La Polena (qui assente), e presenze intellettuali che ruotarono attorno alle riviste “Ana Eccetera”, legata alla ricerca filosofica e linguistica condotta sul linguaggio e “Tre Rosso”, nata come critica dei massmedia realizzata dal Gruppo Studio che ha fondato inoltre il club d'arte “La Carabaga. Qui infatti, nel '65, ha preso avvio la prima mostra nazionale di Poesia Visiva in collegamento con altre città italiane come Napoli, Firenze e Bologna, attivando tra loro un'intensa e proficua comunicazione.

Sempre negli anni '60 è qui presente la fervida attività della galleria “Il Deposito” che con la mostra “Situazione 66” annunciava, sotto la direzione di Celant, una nuova e intensa stagione artistica formata da un crogiuolo di esperienze diverse e in apparenza contradditorie.

Sono presenti degli anni '70 correnti artistiche legate all'Arte Antropologica e a quelle di carattere Pop nate sulla scia del grande movimento americano come pure le esperienze della Nuova Pittura e alle vicine Support-Surface non tralasciando il discorso sui linguaggi extrapittorici del concettuale, Land art, Body art con, inltre, opere delle prome avanguardie sconfinanti nella fotografia sperimentale (che influirono sulla ricerca di quel periodo) e testimonianze di performance con le presenze degli artisti Fluxus e dell'Azionismo Viennese sul nostro territorio, come pure del Lettrismo.

Un'esposizione, questa di Villa Croce, composta da circa 200 opere e che occupa l'intera palazzina, dalla mansarda ai fondi, iniziando, nel parco con la scintillante scultura obelisco di Arnaldo Pomodoro per poi proseguire al primo piano con l'opera “Ambiente Spaziale” del '67 di Lucio Fontana, una camera buia in cui la luce di Wood illumina puntini fluorescenti disposti in linea verticale che coinvolge, con la vista, tutti i sensi “in un'esperienza totale, fisica e psicologica”.

Un lavoro, questo creato per la galleria “IL Deposito”, luogo di incontri per artisti, critici, intellettuali (legata più all'arte astratta) e che, oltre alle mostre. produceva multipli.

Nelle tre stanze successive si ricorda un particolare momento costruttivo per la nostra città con la costituzione del Museo Sperimentale da parte di Eugenio Battisti, allora professore dell'università di Genova che invitò gli artisti (famosi o in via di “saranno famosi”) a donare un'opera per questo scopo. Figurano in questo senso ricerche concrete, programmate e cinetiche di Castellani, Soto, Dorazio e Vasarely e ricerche segnico-informali di Twombly (un singolare pezzo di scittura), Novelli, Turcato, Scanavino (origilale pittura bituminosa) vicino ad opere cocetto-informali di Gallizio e Mondino (che rifà ironicamente Capogrossi).

Sono inoltre presenti testimonianze di sicuro impatto visivo di tutti gli esponenti dell'Arte Povera che nel '67 avevano esposto a Genova da Masnata (galleria La Bertesca), lavori che denunciano i veleni del boom economico riportando l'arte ad un rigore di tipo, appunto, poveristico nell'uso del materiale, ma ricco di stimoli energetici e vitalistici, con opere di: Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e il genovese Prini con il “Perimetro” luminescente (al neon) della sua stanza, un filo al neon arrotolato attorno a un grosso rocchetto.

Nell'ultima sala di questo piano figurano grandi tele proponenti un uso nuovo della pittura, azzerata nelle sue qualità pittoriche, ma considerata come esclusivo materiale, accanto al supporto, del fare arte. Allora Toroni presenta punti neri su fondo bianco quale frutto di un deposito della pittura sul supporto, Buren propone tela stampata a strisce verticali e ancora il “grado zero” della pittura con Viallat, Dolla, Isnard e i genovesi Zappettini (una sorta di bianco su bianco) e Rizzo (che usa una suggestiva tela di camion).

E' questa una mostra di grande respiro nutrita di molte opere per cui i successivi spazi vengono consuiderata con un secondo articolo. Accompagna l'esposizione un grosso catalogo della casa editrice Skira.

In relazione all'evento sono contemplati gli incontri: 16 novembre ore 14,30 Franco Sborgi sull'introduzione storico artistica del periodo '60, '70 attraverso le opere dei protagonisti dell'epoca; 30 novembre ore 14,30 Brunetto De Batté sull'architettura della città dal '60 ad oggi; 16 dicembre ore 14'30 Elisabetta Papone sulla fotografia degli anni '60, '70; 12 gennaio ore 14'30 Ferruccio Girominio sulla visione grafica, la comunicazione visiva di ieri rivista oggi; 20 gennaio ore 14,30 Eugenio Buonaccorsi sulla storia e l'evoluzione del teatro a Gernova e in Italia negli anni '60 , '70.

Miriam Cristaldi

Con “Attraversare Genova – Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo. Anni '60 – '70”, al Museo di arte contemporanea di Villa Croce (via Ruffini, fino al 27 febbraio 2005) la curatrice Sandra Solimano, col suo staff scientifico, ha voluto offrire uno spaccato di quegli anni dove più che il pubblico hanno retto le sorti (illuminate) dell'arte contemporanea il privato con le gallerie di allora Il Deposito, La Bertesca, Martini & Ronchetti, La Polena, Sammangallery, Forma, Arteverso, Caterina Gualco...) e critici d'eccezione come Eugenio Battisti che ha collezionato un'illustre raccolta (allora vergognosamente rifiutata da Genova) e il nascente Germano Celant che ha fondato nel '68 l “Arte Povera”. Ma anche una nutrita schiera di collezionisti che, lungimiranti, si sono lasciati guidare dalle gallerie più vivaci riuscendo a salvaguardare un patrimonio d'arte dei più stimolanti, attento alla qualità e alle ricerche di quel ricco, fertile, innovativo periodo storico che corrisponde a una straordinaria stagione artistica, densa di fermenti con creazione di gruppi, a volte con aspetti legati al politico e al sociale.

Patrimonio che oggi ha permesso la realizzazione di questa grande mostra, proseguendo così la stagione GEnova 2004, capitale della cultura, dedicata all'arte contemporanea e che ha raggiunto l'apice con la mostra del Ducale “Arte & Architettura” invadendo anche spazi pubblici del centro storico per un'area di circa 4000 metri quadrati.

Genova oggi respira un'aria nuova: finalmente si riconosce la ricchezza dell'arte contemporanea documantata da preziose testimonianze che occupano tutti gli spazi pubblici dedicati a tali scopi.

Se con la mostra del Ducale è fornita una complessa e incrociata lettura del '900 internazionale, qui si considera un ventennio “caldo” di esperienze e ricerche nel campo dell'innovazione a Genova con testimonianze artistiche che nella nostra città hanno transitato allargando il sapere attraverso legami e sconfinamenti con altre città (dalle esperienze similari alle nostre), come il genovese gruppo autogestito Tempo 3, sono inoltre documentati il transito alla galleria Rotta del romano Gruppo 1 o quello del tedesco Gruppo Zero alla galleria La Polena (qui assente), e presenze intellettuali che ruotarono attorno alle riviste “Ana Eccetera”, legata alla ricerca filosofica e linguistica condotta sul linguaggio e “Tre Rosso”, nata come critica dei massmedia realizzata dal Gruppo Studio (che ha fondato il club d'arte “La Carabaga). Qui infatti, nel '65, ha preso avvio la prima mostra nazionale di Poesia Visiva in collegamento con altre città italiane come Napoli, Firenze e Bologna, attivando tra loro un'intensa e proficua comunicazione.

Sempre negli anni '60 è qui presente la fervida attività della galleria “Il Deposito” che con la mostra “Situazione 66” annunciava, sotto la direzione di Celant, una nuova e intensa stagione artistica formata da un crogiuolo di esperienze diverse e in apparenza contradditorie.

Sono visibili degli anni '70 correnti artistiche legate all'Arte Antropologica e a quelle di carattere Pop nate sulla scia del grande movimento americano come pure le esperienze della Nuova Pittura e alle vicine Support-Surface non tralasciando il discorso sui linguaggi extrapittorici del concettuale, Land art, Body art con, inltre, opere delle prome avanguardie sconfinanti nella fotografia sperimentale (che influirono sulla ricerca di quel periodo) e testimonianze di performance con le presenze degli artisti Fluxus e dell'Azionismo Viennese sul nostro territorio, come pure del Lettrismo.

Un'esposizione, questa di Villa Croce, composta da circa 200 opere e che occupa l'intera palazzina, dalla mansarda ai fondi, iniziando, nel parco, con la scintillante scultura obelisco di Arnaldo Pomodoro per poi proseguire al primo piano con l'opera “Ambiente Spaziale”, del '67, di Lucio Fontana, una camera buia in cui la luce di Wood illumina puntini fluorescenti disposti in linea verticale che coinvolge, con la vista, tutti i sensi secondo un'esperienza totale, fisica e psicologica.

Un lavoro, questo, creato per la galleria “IL Deposito”, luogo di incontri per artisti, critici, intellettuali (legata più all'arte astratta) e che, oltre alle mostre produceva numerosi multipli.

Nelle tre stanze successive si ricorda un particolare momento costruttivo per la nostra città con la costituzione del Museo Sperimentale da parte di Eugenio Battisti, allora professore dell'università di Genova,che invitò gli artisti (famosi o in via di “saranno famosi”) a donare un'opera per questo scopo.

Figurano in questo senso ricerche concrete, programmate e cinetiche di Castellani, Soto, Dorazio e Vasarely e ricerche segnico-informali di Twombly (un singolare pezzo di scittura), Novelli, Turcato, Scanavino (originale pittura bituminosa) vicino ad opere cocetto-informali di Gallizio e Mondino (che rifà ironicamente Capogrossi).

Sono inoltre presenti testimonianze di sicuro impatto visivo di tutti gli esponenti dell'Arte Povera che nel '67 avevano esposto a Genova da Masnata (galleria La Bertesca), lavori che denunciano i veleni del boom economico riportando l'arte ad un rigore di tipo, appunto, poveristico nell'uso del materiale, ma ricco di stimoli energetici e vitalistici, con opere di: Boetti, Fabro, Kounellis, Paolini, Pascali e il genovese Prini con il “Perimetro” della sua stanza, un luminescente filo al neon arrotolato attorno a un grosso rocchetto.

Nell'ultima sala di questo piano figurano grandi tele proponenti un uso nuovo della pittura, azzerata nelle sue qualità pittoriche e considerata come semplice materiale, accanto al supporto, del fare arte. 

Il francese Toroni presenta punti neri su fondo bianco quale frutto di un deposito della pittura sul supporto, Buren propone tele stampate a strisce verticali e ancora il “grado zero” della pittura con Viallat, Dolla, Isnard e i genovesi Zappettini (una sorta di bianco su bianco) e Rizzo (che usa una suggestiva tela di camion).

E' questa una mostra di grande respiro nutrita di molte opere per cui i successivi spazi vengono consuiderati con un secondo articolo. Accompagna l'esposizione un voluminoso catalogo della casa editrice Skira.

In relazione all'evento sono contemplati gli incontri: 16 novembre ore 14,30 Franco Sborgi sull'introduzione storico artistica del periodo '60, '70 attraverso opere dei protagonisti dell'epoca; 30 novembre ore 14,30 Brunetto De Batté sull'architettura della città dal '60 ad oggi; 16 dicembre ore 14'30 Elisabetta Papone sulla fotografia degli anni '60, '70; 12 gennaio ore 14'30 Ferruccio Girominio sulla visione grafica, la comunicazione visiva di ieri rivista oggi; 20 gennaio ore 14,30 Eugenio Buonaccorsi sulla storia e l'evoluzione del teatro a Genova e in Italia negli anni '60 , '70.

Miriam Cristaldi

La mostra “Attraversare Genova. Percorsi e linguaggi internazionali del contemporaneo. Anni '60-'70”, a cura di Sandra Solimano - in collaborazione con lo staff scientifico composto da Buonaccorsi, De Batté, Giromini, Lercari, Papone, Prato, Ricaldone, Sborgi, in esposizione al museo d'arte contemporanea di Villa Croce (via Ruffini 3, fino al 27 febbraio 2005) – si presenta con caratteristiche didattiche. Soprattutto attraverso gli scritti del comitato scientifico che testimoniano con precisione certosina attraverso date, documentazioni, fotografie, questo “caldo” ventennio genovese attraversato da presenze significative e stimolanti con artisti di grosso calibro come Fontana, Allan Kaprow, Joseph Beuys, Laurie Anderson, Rebecca Horn, I coniugi Becher, Christian Boltanski, Daniel Buren, Gordon Matta-Clark, Daniel Spoerri, Wolf Vostell, Bernar Venet, Ben Vautier ... che sicuramente hanno inciso nel territorio su personalità artistiche più attente e vivaci, soprattutto aperte alle innovazioni linguistiche, sovente operando insieme sinergicamente.

Le opere esposte, circa duecento, se si esclude la bronzea, alta “Colonna del viaggiatore” di Arnaldo Pomodoro (collocata nel parco di fronte all'ingresso), in generale sono di piccolo formato (con forti presenze di multipli, fotografie, manifesti e depliant) e non riescono ad essere molto esplicative del singolo artista ma, nell'insieme - e con questo preciso itinerario voluto dalla curatrice - costituiscono un prezioso corpus capace di illuminare storicamente la realtà dei due decenni presi in esame.

Decenni che hanno fatto conoscere, tra gli altri, a livello internazionale, e per strade diverse, i genovesi Emilio Scanavino (Informale segnico), Claudio Costa (Arte Antropologica), Plinio Mesciulam (Movimento Arte Concreta), ciascuno proseguendo poi con un discorso personalissimo attraverso il quale si sono distinti sul palcoscenico dell'arte.

Nella prima metà degli anni sessanta l'arte si contamina con l'industria di stato. A Genova, artisti come Calder, Pomodoro, Consagra, Carmi, David Smith, l'architetto Waksmann, hanno trovato ispirazione operando anche nella fabbrica metalmeccanica dell'Italsider aprendo la stagione dell'industria statale, mutandola euforicamente in “bottega d'arte” attraverso le loro performance, qui documentate.

Al primo piano (nobile) della palazzina, dopo l “Ambiente spaziale” del '62 di Lucio Fontana pensato per la galleria “Il Deposito” di Boccadasse, nelle tre stanze successive si sottolinea un particolare e felice momento per la nostra città: quello della costituzione del “Museo Sperimentale” da parte di Eugenio Battisti, allora professore dell'università di Genova, che invitò gli artisti (famosi o “saranno famosi”) a donare un'opera per questo scopo. Prestigiosa collezione che allora fu rifiutata da una miope Genova e quindi donata alla città di Torino, dove tutt'ora risiede.

Figurano in questo senso ricerche concrete, programmate e cinetiche di Castellani, Soto, Dorazio e Vasarely e ricerche segnico-informali di Twombly (con un singolare pezzo di “scrittura”), Novelli, Turcato, Scanavino (originale pittura bituminosa) vicino ad opere concetto-informali di Gallizio e Mondino (che rifà ironicamente il verso a Capogrossi).

Sono inoltre presenti testimonianze di sicuro impatto visivo come gli artisti dell'Arte Povera che nel '67 esposero a Genova, da Francesco Masnata (galleria La Bertesca).

Sono lavori, questi, che denunciano i primi “veleni” iniettati nella società dal “boom economico, una presa di coscienza che piega il gruppo - guidato da Celant - verso un rigore di tipo “poveristico” nell'uso del materiale, ma al contempo ricco di stimoli energetici e vitalistici di carattere anche ideologico.

Sono visibili le opere di Anselmo, Boetti, Ceroli, Fabro, Gilardi, Kounellis, Merz, Paolini, Parmiggiani, Pascali, Penone, Pistoletto, Zorio, e del genovese Emilio Prini presente con il “Perimetro” della sua stanza, un filo luminescente al neon arrotolato attorno ad un grosso rocchetto.

Nell'ultima sala di questo piano figurano grandi tele che propongono un uso nuovo della pittura: azzerata nelle sue qualità pittoriche e considerata esclusivamente come materiale, accanto al supporto, del fare arte.

Per questo il francese Toroni traccia col pennello punti neri su fondo bianco considerandoli esclusiva sedimentazione di materiale da depositare sul supporto mentre, sempre in questo senso, Buren propone tela stampata a strisce verticali.

E ancora si raggiunge il “grado zero” della pittura con Viallat, Dolla, Isnard e i genovesi Zappettini (una sorta di bianco su bianco) e Rizzo che mostra come campo pittorico una suggestiva tela cerata di camion. Esperienze di nuova pittura a Genova possono essere considerate quelle di Renata Boero che ottiene il colore con materiali vegetali e di Giuliano Menegon che “libera il segno calligrafico dall'assillo di un'impaginazione rigorosa”. Famosi i grandi, armoniosi “Cromemi” di Rocco Borella.

Negli altri spazi di Villa Croce si trovano i lavori di esponenti Fluxus con Filliou, Brecht, Vostell, Wotts e Ben Vautier, artisti che si ponevano rispetto all'arte in posizione critica, rovesciando la tradizione per vivere l“arte” in equazione con la “vita”.

Inoltre gli esponenti della Minima Art come Sol LeWitt, Robert Morris... o della Narrative Art con Wegman, Boltanski, Franco Vaccari... ed artisti dell'area concettuale come Manzoni, Agnetti, Dan Graham... e la prima rassegna complessiva del fenomeno - esposta alla galleria Unimedia nel '77 - con lavori di Art Language degli artisti (tra gli altri) Kosuth, Venet, Agnetti, On Kawara, Weiner introdotti da un testo critico di Enrico Pedrini in cui si chiarisce come il linguaggio delle proposte concettuali sorregga ogni funzione espressiva dell'opera.

Sono anche esposte le proposte filosofiche degli artisti genovesi Anna e Martino Oberto che ruotaro

no attorno ad “Ana Eccetera” (rivista da loro fondata) e la complessa operazione “Mohammed” di Plinio Mesciulam; le performance dei genovesi, Pretolani, Rossini e il “Controprocesso” di Aurelio Caminati, qui presente anche in veste di pittore iperrealista con un grande ritratto di persona anziana effigiante l'Inghilterra. Per l'antropologia spicca l'operato di Claudio Costa con il poetico, suggestivo lavoro “Gli occhi dei Maori riflettono i colori latenti della foresta”, del '73.

Inoltre sono riscontrabili numerosissime esperienze della Poesia Visiva, in particolare dei genovesi Tola, Vitone, Carrega, accanto ad esponenti del panorama nazionale e internazionale.

Corredano la mostra le categorie della Musica nelle sue componenti più popolari, la Grafica Aziendale e di Comunicazione che elabora l'immagine della città, il Fumetto, il Teatro che a Genova ha una storia solida ed esclusiva, la Fotografia che documenta le vicende cittadine, infine l'Architettura e l'Urbanistica che ne hanno strutturato la qualità formale. Video, manifesti, fotografie documentanol'intera operazione. Compreso il voluminoso catalogo delle edizioni Skira.



Miriam Cristaldi


Il "Centro di iniziative per l'infanzia" ha presentato, presso il caffè-eno-libreria “Nouvelle Vague” (vico dei Gradi 4r - angolo via S. Lorenzo - fino al 15 ottobre) una vasta, simpaticissima esposizione di opere infantili curata dall'insegnante Maria Teresa Musetti. L'inaugurazione è stata supportata da un vivace dibattito sul tema dell'arte infantile. In particolare lo psichiatra prof. Maura ha spiegato come il funzionamento della parte sinistra del cervello (sede della sfera emozionale) debba osmoticamente interagire con la parte destra (sede della ragione) e quanto sia perciò importante passare dall'agire del pensiero alla fattualità della forma simbolica e quindi alla costruzione della parola. Questo è quanto succede a questi bimbi, potenzialmente artisti - spronati dagli input dell'insegnante - che sviluppano coi linguaggi dell'arte un importante cammino di realizzazione del sé attraverso la libera espressione della creatività.


Miriam Cristaldi

L'utopia di Luigi Carpineto


In greco, il termine utopia significa “nessun luogo” ovvero concezione immaginaria di un mondo che si contrappone alle difficoltà e accidenti della realtà storica in cui si vive.

Se Jean Paul Sartre aveva teorizzato l “Essere e il nulla” e vedeva l'esistenza umana come un “buco”, un vuoto che si allarga per accogliere invano il Sé, l'utopia di Luigi Carpineto lo porta invece a descrivere “visivamente” il vuoto. Come? Facendo galleggiare in spazi del supporto - volutamente lasciati bianchi - oggetti (dipinti) tratti dal banale quotidiano.

Insomma, l'habitat umano, in questa pittura, risulta volutamente inghiottito, completamente fagocitato dal rovello del pensiero, dalla complessità del vivere contemporaneo in cui tutto è sottoposto a ridefinizione in attesa di nuove, future identità.

Nello sconcerto di oggi, dove alle crisi societarie si susseguono sviluppi tecnologici impensabili, l'uomo fa fatica a trovare l'armonia nell'immaterialità che lo circonda.

Siamo infatti testimoni di una nuova era e la tecnologia digitale sta sradicando il nostro modo di pensare, di comportarci e di operare (vedi “Materia Immateriale”, Miriam Cristaldi, ed. Peccolo, Livorno 2003). Sta prendendo corpo un nuovo elemento di natura fuggevole, una materia immateriale imprendibile, che corre nelle reti su sistemi di trasmissioni-dati, costituita da linee in fibra ottica (tecnologia digitale), ponti radio, fili telefonici, antenne paraboliche...

Luigi Carpineto, in questo contesto, si ferma. Toglie la spina. Per riflettere.

E, quasi eseguendo un esercizio di antropologia, prova a ridefinire poveri oggetti d'uso quotidiano come “Dentifricio con spazzolino da denti” , “Piatto con forchetta e coltello”, “Abat-jour con sveglia”, “Saggina e contenitore di spazzatura” o, ancora, “Vaso con fiori” ecc., corrispondenti anche ai titoli delle opere.

Un azzeramento totale della corsa tecnologica e un provare a “rimembrare” ciò che sta per scomparire. Come un sillabare faticoso di un bambino alle prese con le lettere dell'alfabeto.

Un memorizzare ciò che sta per entrare nel museo di un antico e recente passato. Sì, perché tali oggetti sono appena abbozzati rudimentalmente nel loro profilo con una linea marcata (quasi sempre nera) simile ai contorni specifici del timbro. Forse un voler fissare nel vuoto, in un precario spazio-tempo al di fuori delle categorie, ciò che è più riferibile ai concetti della mente.

Un lento, faticoso sillabare una realtà in via di trasformazione.

Oggetti-embrioni dipinti come scavi nella roccia del pensiero, nello stile di primordiali graffiti

Segni essenziali che nella loro forza incisiva, tendono a mostrarsi più come simboli che come mera oggettualità. Come il dipinto della “Veranda” dove le vetrate laterali, sormontate da un grossolano baldacchino e unite da una croce nera (le maniglie), sembrano proporsi idealmente come un'arcaica architettura di natura sacrificale. Un'ara pacis?


Miriam Cristaldi


Piccolo mondo antico, eppure sempre nuovo - se non precursore di future identità - microuniverso costituito da migliaia di tessere capaci di formare un puzle impazzito, frastagliato DNA sviluppante cellule microbiologiche con pigmrnti pittorici di carattere iconico, è ciò che compone lla raffinata ed estetica pittura di Pino Chimenti, classe '52, artista casertano che ha frequentato l'accademia di Belle Arti di Urbino sotto la guida di Concetto Pozzati (esordiente a metà degli anni '70 con un lavoro di tipo più concettuale risolto poi in epoca postmoderna, anni '80, con felici esiti di gioiosa pittura).

Delicati “tatuaggi”pittorici, questi, che con “Nostalgia del futuro” (Studio Bonifacio, via S. Luca 1/9a, fino al 30 novembre) materializzano fantasiosi frammenti oggettuali componenti uno svagato paesaggio della mente, prima ancora che del reale circostante, attraverso immaginifici personaggi vagamente antropomorfici. Profili di animali, freccette, numeri, percorsi zigzagati, scalinate infinite, occhi cigliati, mani, penne, geometrie fantastiche e decorative vanno a comporre una “Piccola archeologia delle cose fatue”, ricordando alla lontana il brulicante ed etereo mondo di un Baruchello o certe proposizioni ironiche di un Tadini.

Ma con soluzioni personalissime: un' affabulante ricerca inventiva che si avvale di un discorso progettuale capace di “costruire una Wunderkammer di superficie, piana come una tela o un foglio e però innervata da corridoi come un labirinto...” commenta in catalogo Tommaso Trini, mentre il curatore , Valerio Dehò, spiega: “...frammenti di vita cellulare che si manifestano in un secondo grado di visione e che hanno però in sé tutti i paesaggi possibili contenuti nella prima immagine che i bambini si formano del mondo”.

Come a dire, una materializzazione del “fanciullino” pascoliano che si cela in ciascuno di noi.

Intanto “Satura” sta per concludere (giovedì) le mostre in calendario: Giacomo Lusso si definisce con una preziosa e raffinatissima pittura astratta riconducibile a solfeggi musicali, mentre Bruna Maranzana propone uno spaccato ambientale, con presenza umana, carico di rimandi e fulgidi riflessi in cui si ravvisa la “vertigine del vuoto” e la difficoltà del vivere contemporaneo. Franco Repetto presenta invece i suoi “profili strutturali”, sculture che modella in legno, cemento e ferro attraverso forme primarie essenzializzate con differenti incidenze nello spazio circostante. Francesca Mazzanti, con “Altrove” mostra mediante scatti fotografici i risultati di una ricerca antropologica che fissa l'attenzione sugli usi e costumi di popolazioni indigene colte in una dimensione di delicata vita domestica. L'esordiente Fanciulli predilige studi di nudo di grande formato: i migliori sono quelli dove esiste uno studio compositivo per complessi incroci di braccia e gambe dando origine ad efficenti chiasmi carichi di tensione.


Miriam Cristaldi

Piccolo mondo antico, eppure sempre nuovo - se non precursore di future identità - microuniverso costituito da migliaia di tessere capaci di formare un puzle impazzito, frastagliato DNA sviluppante cellule microbiologiche con pigmrnti pittorici di carattere iconico, è ciò che compone lla raffinata ed estetica pittura di Pino Chimenti, classe '52, artista casertano che ha frequentato l'accademia di Belle Arti di Urbino sotto la guida di Concetto Pozzati (esordiente a metà degli anni '70 con un lavoro di tipo più concettuale risolto poi in epoca postmoderna, anni '80, con felici esiti di gioiosa pittura).

Delicati “tatuaggi”pittorici, questi, che con “Nostalgia del futuro” (Studio Bonifacio, via S. Luca 1/9a, fino al 30 novembre) materializzano fantasiosi frammenti oggettuali componenti uno svagato paesaggio della mente, prima ancora che del reale circostante, attraverso immaginifici personaggi vagamente antropomorfici. Profili di animali, freccette, numeri, percorsi zigzagati, scalinate infinite, occhi cigliati, mani, penne, geometrie fantastiche e decorative vanno a comporre una “Piccola archeologia delle cose fatue”, ricordando alla lontana il brulicante ed etereo mondo di un Baruchello o certe proposizioni ironiche di un Tadini.

Ma con soluzioni personalissime: un' affabulante ricerca inventiva che si avvale di un discorso progettuale capace di “costruire una Wunderkammer di superficie, piana come una tela o un foglio e però innervata da corridoi come un labirinto...” commenta in catalogo Tommaso Trini, mentre il curatore , Valerio Dehò, spiega: “...frammenti di vita cellulare che si manifestano in un secondo grado di visione e che hanno però in sé tutti i paesaggi possibili contenuti nella prima immagine che i bambini si formano del mondo”.

Come a dire, una materializzazione del “fanciullino” pascoliano che si cela in ciascuno di noi.

Intanto “Satura” sta per concludere (giovedì) le mostre in calendario: Giacomo Lusso si definisce con una preziosa e raffinatissima pittura astratta riconducibile a solfeggi musicali, mentre Bruna Maranzana propone uno spaccato ambientale, con presenza umana, carico di rimandi e fulgidi riflessi in cui si ravvisa la “vertigine del vuoto” e la difficoltà del vivere contemporaneo. Franco Repetto presenta invece i suoi “profili strutturali”, sculture che modella in legno, cemento e ferro attraverso forme primarie essenzializzate con differenti incidenze nello spazio circostante. Francesca Mazzanti, con “Altrove” mostra mediante scatti fotografici i risultati di una ricerca antropologica che fissa l'attenzione sugli usi e costumi di popolazioni indigene colte in una dimensione di delicata vita domestica. L'esordiente Fanciulli predilige studi di nudo di grande formato: i migliori sono quelli dove esiste uno studio compositivo per complessi incroci di braccia e gambe dando origine ad efficenti chiasmi carichi di tensione.


Miriam Cristaldi


“Arte & Architettura 1900/2000” è il titolo esplicativo della grande mostra di arte contemporanea (Palazzo Ducale, inaugurazione venerdì 1 ottobre ore 18) quale biglietto da visita che stigmatizza l'arte visiva di “GEnova 2004”, città scelta come capitale europea della cultura. Per questa occasione la nostra città è vestita a festa. Ristrutturazioni di strade, di palazzi e loro interni, costruzioni inedite, apertura di musei hanno fatto dire ai turisti che è la più bella e colorata città d'Italia.

Questo, per certi versi, spettacolare evento espositivo - in quanto si dirama in vari luoghi aperti della città interagendo con l'aspetto urbano-architettonico - firmato Germano Celant (curatore genovese di fama internazionale, direttore del Guggenheim Museum di New York e teorizzatore dell'Arte Povera di fine anni '60), si avvale di una spinta creativa che fonde le istanze dell'arte con quelle funzionali dell'architettura secondo un tipo di avventura di qualità “utopica”, che esce dai canoni artistici per aspirare sangue da vene alternative. Già Celant aveva aperto l'arte verso la moda chiamando ad esporre a Firenze - accanto agli artisti - uno stuolo di rinomati stilisti. Qui sono invece presenti una gran quantità di architetti delle avanguardie storiche come Malievic, Tatlin, Sant'Elia, Terragni, Mondrian, Corbusier... e contemporanei come Renzo Piano, Scarpa, Aldo Rossi... che, insieme agli artisti, tentano una sorta di “reinvenzione della tradizione attraverso un rapporto progressivo, non regressivo, con il proprio retaggio culturale... investendo il passato genovese di nuovi livelli di lettura e complessità”.

Il percorso scenografico della mostra, una sorta di jam session delle arti – pittura, scultura, film, fotografia, libri – e dell'architettura, è frutto della collaborazione tra il curatore e Gae Aulenti.

Oltre alle varie installazioni sparse per la città, sono stati utilizzati numerosissimi cartelloni pubblicitari come supporto di immagini fotografiche, disegni di artisti e architetti dando così origine ad un'”espansione visiva della mostra” nel complesso ed articolato “paesaggio” della città.

Una mostra, questa, spiega Celant “... che tende a erodere i confini del possibile per entrare in un'architettura della mescolanza, che fagocita o cannibalizza i metodi dell'arte, della fotografia, del cinema e della letteratura.... a favore di proposte indefinite e magiche che evidenzino le differenze generazionali ed etniche, culturali e sociali, espressive e soggettive”.

L'intento è di mescolare le carte con nuovi canoni di lettura integrando personalità tra loro diversissime come Oldenburg e Van Bruggen con Gehry, accostando Richard Nonas a Holl, Thomas Ruff a Herzog& de Meuron o ancora, Malevic a Tatlin, Dubuffet a Schoeffer, i contemporanei Dan Graham a Kapoor, Christo a Bourgeois scoprendo come quest'ultimi aspirino in realtà a risvolti architettonici.

Un proficuo dialogo, dunque, tra arte e architettura attraverso centinaia di disegni, modelli, installazioni, fotografie, film, sculture, dipinti, mescolati insieme per “abolire le differenze, così che si capisca come dall'ibrido è sempre nata la novità”.

Tra gli artisti contemporanei sono presenti Acconci, Gordon Matta-Clark, Damien Hirst, Grazia Toderi, Wilson, Lo Savio, Nevelson, Mario Merz... Sono quindi presenti modelli e disegni di architetti. Tra gli altri, Aalto, Scarpa, Mollino, Ponti, Sottsass, Botta, Aldo Rossi.

Il curatore ha inoltre fatto ri-costruire (in legno sormontato da una raffinatissima cupola color turchese), nell'area del porto antico, “Il Teatro del Mondo” di Aldo Rossi, architetto postmoderno che ha segnato la storia con il “suo transito nel tempo e nell'immagine dell'architettura”, opera eletta a simbolo di questa incessante ed invasiva “osmosi tra i linguaggi”.

Altre sedi espositive della mostra: Palazzo Tursi, Palazzo Reale, piazza Fontane Marose, Caricamento, centro storico ( qui interventi di Renzo Piano, Maria Nordman, Aldo Rossi, Andrea Branzi, e Dennis Oppenheim). Nel prossimo numero il resoconto dell'esposizione.


Miriam cristaldi
















































 


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