Claudio CostaNote biografiche.
Claudio Costa, Fritz Roed e Thor Heyerdahl
Le strutture vettoriali di
Liliana Contemorra
Perché
la collezione del Museattivo Claudio Costa è indivisibile e inamovibile
Augusta Stevano Quando il corpo
si fa parola
Gli
“inventari” di Lucia Pescador
“25! En-plein” , con questo esplicativo ed esilarante titolo la famiglia Leopizzi festeggia l’attività della galleria “Ellequadro” - che oggi tocca il quarto di secolo – con opere di tutti gli artisti che hanno lavorato per questo spazio
Spazio che si è guadagnato l’attenzione della città, e la presenza di palati raffinati, con mostre di forte rilievo (personali di Manzù, Fontana, Pastore, Pomodoro, Baj, Mirko, Afro, Consagra, Fazzini, Kounellis, Santomaso…), alternate a proposizioni di giovani inediti (e non), intervallandole con fascinose esposizioni d’alta gioielleria (tra gli altri, gioielli di Consagra, Pomodoro e Lorenzetti).
Inaugurata in punta di piedi nel ’78 (in via Assarotti, più tardi trasferita in vico Falamonica, nel cuore della città e attuale sede) dalla capostipite, Renata Leopizzi, appassionata d’arte - allorché la figlia Tiziana tornò dall’Africa con una ricca quantità di gioielli d’avorio. Come un festoso gioco, la galleria fu aperta oscillando tra arte e gioielleria finché la figlia maggiore, Fulvia, dedicò anni di studio per la presentazione di grandi Maestri della scultura come Giacomo Manzù, Antony Caro, i Cascella…mentre più tardi, nell’88 la signora Renata inizia un faticosissimo e importante lavoro di archiviazione che dà origine a Ellequadro Documenti, archivio in continuo aggiornamento che oggi conta più di 120.000 nomi di artisti. Oggi la galleria, trasformata in centro culturale, è nelle mani esperte della figlia Tiziana (architetta), che inaugurerà una serie di mostre di artisti con cui la galleria ha già lavorato. Iniziando con la prestigiosa opera di Manzù.
Con gli auguri degli appassionati.
Miriam Cristaldi
di
La
materia “viva” del legno ha sempre interessato e affascinato gli artisti.
Quale
inconfondibile simbolo della vita dinamica e del femminile (albero come ventre
della Grande Madre), il legno - con le sue venature, la sua morbidità tattile e
il “calore” della sua anima - riesce a creare affetti di tenera
carnalità.
Una
sorta di carne vegetale che sprigiona delicate sensazioni epidermiche,
suscitando in chi osserva emozioni ancestrali
legate al contesto antropologico.
Dalla storia dei tempi ad oggi, infinite sono le produzioni artistiche che si sono avvalse di questa materia fibrosa: dai totem africani alle effigi etrusche, dagli scranni delle chiese alle statue votive , dalle sculture cinquecentesche alle sagome degli artisti contemporanei.
In
primis il romano Mario Ceroli che con le sue notorie silhouette in
legno ha creato un inconfondibile linguaggio “povero”.
Anche
il levantino Alfonso Gaeta,
personalità schiva e difficilmente inquadrabile in codici linguistici -
lontanamente accostabile ad esperienze di suggestione informale - punta tutto su
questo materiale; in particolare insistendo sull’ essenzialità e naturalezza
del risultato estetico.
Minore
(anzi nullo) è l’intervento manuale, maggiore è l’effetto di rustica
naturalezza. Evitando perciò qualunque azione dello scalpello ed affidandosi
esclusivamente al taglio della sega elettrica con cui ridurre il legno in
sottili e lunghi listelli o in grandi forme sferiche.
Per
poi incollare i frammenti lignei l’uno sull’altro e dare avvio a sculture
personalissime.
Ovviamente
seguendo i ritmi delle nervature, delle strozzature dei nodi, rispettando
l’ ordine delle cromie (dalle più chiare alle più scure) – attraverso un
complesso gioco di simmetrie e di combinazioni a carattere speculare.
L’artista
riesce così a sagomare strutture fortemente immaginative, ricche di tracce e
rimandi, capaci di suggerire significati che vanno oltre il semplice dato
oggettivo.
Questo,
proprio in virtù dei segni naturali come le striature, la concentricità delle
forme anellari, i tagli, le falle, o di quelli artificiali: ad esempio gli
effetti caleidoscopici dovuti a ricercate specularità, rese attraverso
difficili e misuratissimi accostamenti delle sezioni lignee.
Allora
una voluminosa sfera d’ulivo (o castagno), trafitta da fori naturali o da
profonde cavità connaturate al legno, può apparire come un possibile mappamondo,
una specie di libera geografia attraversata dal flusso delle nervature lignee.
Nervature
simili a filamenti ondosi che assumono il sembiante di probabili reti fluviali,
fantastici “paralleli” o articolate dune sabbiose.
Ma
potrebbe anche suggerire la pericolosa idea
di un ordigno atomico pronto a esplodere (Giò Pomodoro insegna). Questo
in adesione alla crudezza del panorama contemporaneo.
Allo
stesso tempo prendono corpo forme totemiche (in eucalipto, ulivo o paduk
africano) che s’innalzano sinuose seguendo ritmi spiraliformi, in successione
dinamica, simulando l’andamento rotatorio a lisca di pesce.
Oppure
si slanciano in verticale (od orizzontale) a guisa di steli frontali,
entro cui zone centrali impallidiscono visibilmente: naturali effetti di
chiaroscuro dovuti al succedersi di differenti zone anellari (ossatura che
denuncia il tempo).
E
ancora, una grossa radice, tagliata e ricomposta, può proporsi come corpo
vivente in esposizione su lastra di cristallo. Alla percezione visiva
l’oggetto si carica di significati inesauribili…
Così
come per l’Albero della vita: una fantasiosa e inusuale
struttura ottenuta con sezioni d’albero d’ulivo. Frammenti di legno ricurvo
e nodoso vengono accostati magistralmente in modo da ottenere effetti speculari
e allo stesso tempo di profilare il
caratteristico perimetro arcuato a chioma d’albero.
Le sfilacciature della materia stessa contribuiscono a indicare quegli effetti nocchiosi tipici del tronco.
E
allora una linfa energetica sembra scorrere impetuosa nelle vene del
legno mentre un filo di brillante smalto pare assumere l’effetto
di rugiada splendente.
Natura e cultura si tendono la mano.
Dice Claudio Costa: “Il mio lavoro è difficile, antiestetico, a volte brutale. E’ impensabile che possa entrare nelle raffinate strategie di mercato… ma io continuo, continuo a muovermi nella ricerca, quando scopro qualche verità non mi fermo, cerco ancora…”.
Anche Alfonso Gaeta è una personalità in cammino.
Miriam Cristaldi
Genova
22 marzo 2002
Partito da esperienze concettuali e approdato da tempo alla pittura, Antonio Noia (Taranto ’42), oggi, indaga continuamente sulla ricchezza espessiva del segno attraverso un sincretismo linguistico dove gestualità è sinonimo di forma, colore e luce.
Perché
il gesto - affiorante in trame, reticoli, onde (energetiche) e che incide la
pietra, il legno, la tela o la carta – si materializza con la forza del colore
trasformandosi immediatamente in materia luministica.
E’ questa una materia immateriale, svincolata dall’opacità dell’immanenza, liberata dalla carcerazione della forma per liberarsi in elettrodi luministici vaganti nell’etere.
Quasi
sempre affioranti da uno spazio ombroso.
Queste
vibrazioni cromatiche sembrano emergere lentamente dal fondo per scorrere
velocissime in lungo e in largo attraverso ritmi verticali, orizzontali,
obliqui, intrecciandosi e a volte sovrapponendosi dando corpo a
“movimentati” campi energetici simili a moti ondosi che idealmente si
prolungano nella mente dello spettatore.
Matasse
mobili come fili elettrici investiti dalla corrente.
Una
strada, questa, per certi aspetti battuta da Wols, ma che in Antonio Noia
si avvia verso personalissime direzioni.
Si
configura infatti, alla percezione visiva, un vibratile e fragilissimo tessuto
“celeste”, più spirituale che fisico, da intendere più nella dimensione
dell’apparizione che in quella di una realtà contingente.
Tessuti
a volti in contrapposizione, frammenti che s’incuneano in altri frammenti per
dare la sensazione della composizione-scomposizione
La
fisicità è invece qui evocata dal naturalismo del colore.
Un
colore mediterraneo che richiama la nostra solarità e che riflette
tonalità marine, accensioni terrestri (scogliere), verdeggianti
“macchie”…
In
pratica la bellezza classica della Puglia, frammento di Magna Grecia, che ancora
oggi s’irradia in fasci di memoria radicata nella storia e nella mitologia.
Per
andare oltre, fuori dal tempo e dallo spazio. Nell’olimpo della poesia.
Miriam Cristaldi
Genova,
29 – 6 - 2003
“Diplomatic suitcase landscape on tour 03” (valigia diplomatica in viaggio), è il titolo di una mostra itinerante con opere di giovani artisti svizzeri, tra i migliori del panorama artistico contemporaneo.
Esposizione partita da Berna per proseguire a Sydney, New York, Barcellona, Stoccarda, con capolinea Genova (studio Leonardi V- Idea. Piazza Campetto 8, fino al 29 ottobre) per tornare poi al punto di partenza.
L’allestimento si compone di pezzi adattabili ai vari spostamenti con annessa la capiente cassa da imballo: un contenitore speciale - quasi pezzo di mail art - pensato per i vari spostamenti logistici.
Un’esposizione, questa, avente appunto per tema il ”viaggio” e naturalmente il paesaggio cui idealmente gli artisti si rivolgono, ma anche pretesto per far sì che essi possano esprimersi con i propri personalissimi linguaggi e far conoscere il loro pensiero.
Filip Haag espone dipinti fotochimici, cioè carte fotografiche su cui sono stati depositati pigmenti chimici che, attraverso una reazione fisiologica, hanno creato suggestive e casuali forme colorate in cui è possibile ravvisare fantastici paesaggi della mente.
Chantal Michel – conosciuta nella nostra città per aver esposto alla galleria “Rebecca Container” e prossimamente presente a Villa Croce - si autorappresenta sdoppiata, secondo un’ambigua e paradossale finzione schizofrenica, nelle immagini fotografiche a colori dai titoli “Rose” e “Nontiscordardimé”, mentre attraversa (in coppia con se stessa) poetici e coloratissimi paesaggi in fiore.
Con Hannes Rickli assistiamo alla videoinstallazione intitolata “Moscerini”, un filmato in tempo reale che visualizza il mondo invisibile dei moscerini in volo. Sullo sfondo appaiono ridottissimi cenni di paesaggio vulcanico. Un’emblematica interpretazione della condizione immateriale cui la tecnologia ci sta abituando a vivere e al contempo un tentativo di eliminare l’elemento narrativo per privilegiare aspetti concettuali.
Monica Studer e Christoph van den Berg focalizzano l’attenzione sugli aspetti virtuali della tecnologia.
Hanno creato infatti un sito internet con relativo albergo di montagna (e impianti sciistici) assolutamente inesistente, ma di cui è possibile la prenotazione di camere e godimento virtuale della vacanza attraverso via etere.
Una grande tavola digitale illustra le virtù di un possibile pic nic montano e giganteggia come stereotipo nello spazio della galleria.
Scrive Viana Conti, curatrice della mostra: “Di continente in continente una valigia si apre, non come museo in miniatura… ma come contenitore di idee, forme, provocazioni, reazioni, messaggi che delineano altrettante visioni del mondo di autori ben presenti nella contemporaneità”.
Una mostra da non perdere.
Miriam Cristaldi
Si è inaugurata sabato scorso la “Viadellarte”, un originale percorso che accomuna e mette in rilievo attività commerciali e creatività artistica di negozi e gallerie d’arte compresi nello spazio del centro storico di vico Falamonica e vico del Fieno. Una cosa del genere si ripete felicemente da anni a Roma.
Gallerie presenti: “Ellequadro Documenti” con mostra di Paolo Atchugarry, “Joice & Co” con opere di Guido Castagnoli , “Guidi” e “Araghi” con collettive.
“La scultura di Atchugarry nel suo gusto per l’astratto e la stilizzazione simbolica, ha certamente i caratteri del tempo che l’ha vista affiorare alla luce…tuttavia in essa respirano in maniera nuova i marmi del passato, la scultura classica e la scultura della tradizione europea…” scrive in catalogo Paolo Frasson. In realtà, questo scultore uruguaiano (nato nel 1954 a Montevideo), abituato a misurarsi coi marmi ciclopici di Carrara, guarda certamente a certe soluzioni barocche dove la “piega” e il panneggio hanno grande importanza. Ma la piega barocca in lui si irrigidisce, si appuntisce, perde la morbidità del “soffio” per stendersi, come inamidata, nello spazio installativo. E tende a dirigersi verso l’alto, attraverso ritmi ondosi e cadenzati, sovente risolti nelle asprezze di punte acuminate. Un richiamo, questo, a certe soluzioni surrealiste, mentre la materia del calcare acquisisce aspetti di morbidità tattile dovuta a qualità del modellato.
Un modellato che rende i marmi rosati lucidi e carezzevoli, connotati da aspetti di fisicità carnale in cui i tagli, le pieghe, le sequenze, scandiscono inflessioni armoniche. Modulazioni, però, tese all’aggressività, a creare aguzzi punti di collisione che tradiscono possibilità d’incombenti minacce o di probabili pericoli…
Miriam Cristaldi
“A
me piace sentire le cose cantare.. Voi le toccate: diventano rigide e mute. Voi
mi uccidete le cose.”, scriveva il poeta Rainer M. Rilke. Una frase che
potrebbe essere sottoscritta da Enrico Bafico, artista genovese (’43) che ha
recentemente inaugurato una sua personale alla galleria Rotta (via xx settembre
161 r, fino a gennaio), a cura di Germano Beringheli.
Infatti,
i soggetti della sua pittura sono oggetti d’affezione selezionati nel mare
fluttuante del mondano. Ma la ricerca espressiva dell’artista
conduce alla rappresentazione di un’ oggettualità - ad es. macchine,
navi, frutti - estrapolata dal contesto originario per vivere in un habitat
straniante, di carattere quasi metafisico, dechirichiano. Oltre ad una resa
pittorica da iperrealismo tanto la forma è resa perfetta nella pennellata
asciutta e precisa.
Ma
anche qui, pur nella precisione compositiva, non esiste una reale corrispondenza
col vero. Per questo motivo le immagini non sono fornite di dettagli, ma
essenzializzate in forme oggettuali corrispondenti più ad ideali archetipici
che non alla realtà circostante.
Prendiamo
ad es. la nave: l’artista la dipinge o su di un tavolo da gioco o nel mare, ma
con la chiglia tendente all’infinito. Una nave
perciò che non ha limiti, come quella che può aver colpito
l’immaginazione di un bambino, rimasto per sempre affascinato dalla sua
imponenza. Una nave però resa verosimile per i suoi comignoli, per gli oblò,
per la sua giganteggiante prua. Per la sua superficie lucida da transatlantico.
Ma se si cercano i particolari, sono inesistenti.
Una
pittura, questa, particolarmente efficace quando l’artista fa interagire il
reale con la finzione.
Come
nel caso in cui appare un monumento rappresentato da un personaggio, girato di
schiena, che sembra rispondere alla palla lanciata da alcuni ragazzi occupati a
giocare sulla spiaggia.
E,
come suggerisce il curatore, “i suoi oggetti recuperano dal vissuto, che è
fatto di conscio e inconscio, memoria e immaginazione, deponendo sui quadri una
sorta di incantamento che è valore d’anima”.
inizio
Miriam Cristaldi
“Bianco meno bianco” è il titolo di un video (presentato da Vittoria Biasi) - realizzato dagli artisti Toni Ferro, Caterina Arcuri, Ascanio De Gattis e Giulio De Mitri - consistente in una ricerca artistica di carattere antropologico che indaga i fenomeni culturali del nostro tempo e il comportamento del gruppo nella socialità.
Un’indagine, questa, condotta sull’uomo - in questo caso artista - in rapporto ad altri artisti e all’ambiente, concettualmente codificato attraverso una gamma modulare che da una condizione di “bianco” (spettro solare contenente tutti i colori, potenzialità dell’essere, simbolicamente vita) degrada verso il “non bianco” (mancanza di colore, nero, negazione, idealmente morte).
In
pratica, una campionatura di artisti la cui immagine della propria testa si
offre alla percezione visiva nei rispettivi quattro punti cardinali. Quindi,
colta nelle modalità astronomiche di nord - sud- est – ovest e perciò
ripresa di fronte, di dietro, di profilo destro, di profilo sinistro. Come da
schedatura scientifica.
Il
video (rigorosamente in bianco e nero) mostra appunto il capo di ciascuno degli
autori fissato in sequenze fotografiche corrispondenti alle quattro
canoniche posizioni.
Per
scelta, qui non appaiono immagini in movimento bensì icone fisse che
delegittimano la funzionalità stessa del mezzo (creando una sana distanza)
per proporre invece un’ipotetica, severa, statica, campionatura di materiale
umano da codificare.
Voci
di sottofondo commentano il succedersi (consequenziale) di tali immagini
digitali attraverso lo scandire scientifico, monotono e reiterato delle parole
“Bianco meno bianco…”, finché le ultime si trasformano in un
disturbo, un flusso inarrestabile di suoni...
Si potrebbe allora iniziare dalla gradazione dei capelli che dal bianco del più anziano degradano al nero del più giovane.
Le ciocche canute del primo confermano i segni di una vita matura mentre folti riccioli scuri sottoscrivono l’età più giovanile.
Ma bianco anche come l’indifferenziato, la perfezione e la trascendenza, il trionfo dello spirito sulla carne. Morte al vecchio, rinascita al nuovo. Purificazione, coscienza illuminata, movimento verso l’alto. Luce, manifestazione.
Allo stesso tempo, col “meno bianco” - togliendo cioè il bianco - si arriva all’esatto contrario: il non manifesto, l’oscurità primordiale, le tenebre. Movimento verso il basso. Distruzione, corruzione, lutto.
E proprio tra queste polarità oscilla il lavoro dell’artista. Nessuno può dichiararsi esente da tali problematiche.
Le espressioni dell’artisticità si presentano allora come una corrente di eventi - scissi in moduli elementari (staaatiche video-immagini) - che possono essere descritti in termini materiali (facendo riferimento alla fisicità di ogni personaggio) oppure in rapporto alle loro conseguenze, andando a suggerire aspetti che sfuggono all’analisi fisica, ma simbolicamente capaci di configurare le identità stesse dei soggetti in questione.
Spiega Vittoria Biasi: “La coscienza bianca del nuovo millennio… scossa nella vertigine della propria apoteosi e interrogazione, emarginata e assediata nella trasformazione accelerata dei sistemi sociali… sa di esistere oltre il pensiero e le allegorie…”.
Prende allora avvio un’avventura poetica che dalla fisicità del messaggio trascende in metalinguaggio in cui, su basi modulari organiche, crescono e si sviluppano tensioni emozionali capaci di rovesciare plastiche spazialità (temporali) in fluidità di pensiero.
Un pensiero bianco, meno bianco, dove il “conoscere è ricordare il conosciuto lontano…” (Claudio Costa).
Miriam Cristaldi
Genova, 2 marzo 2003
Un semplice, piccolo, telo bianco appeso ad un filo nel buio della stanza, appare alla visione come una magica sindone. SI proietta infatti, su questa luminosa particella di spazio, l’immagine d’un volto maschile che affiora a fatica da un banco di nebbia per poi scomparire retrocedendo nella massa informe, nell’ambito della mostra “IL viaggio dell’uomo immobile” a Villa Croce. Opera realizzata da Bill Viola, pioniere della video arte.
Un
volto umano, questo, carico di pathos come una statua greca, misterioso come le
icone leonardesche, ma denso di angoscia - nella mobilità visiva
dell’immagine elettronica - in questo suo ossessivo
affiorare/inabissarsi dal (e nel) nulla.
Quasi
l’espressione di un incubo in cui le reiterate azioni di apparire-scomparire
sulla scena del mondo, stanno a denunciare,
da parte del soggetto, una perdita d’identità, una mancanza di punti
fermi cui potersi ancorare.
Non
rimane allora che oscillare all’infinito tra l’essere e il non essere, tra
la vita e la morte. Quasi un continuo nascere al nuovo e un morire al vecchio
per superare una modernità perduta ed
entrare nella “surmodernità”, termine con cui l’antropologo Marc Augé
definisce la società attuale.
E’
l’umanità dolorante di oggi, come di sempre, quando la violenza prevarica la
pace, quando si stanno per delineare nuovi assetti politici, quando la scienza e
la tecnologia fanno cadere i modelli di riferimento per l’avvento di nuove
procedure, anche quelle relazionali tra i popoli, oggi
visualizzabili attraverso i ben noti fenomeni dell“omogeneizzazione”
e “globalizzazione” del sapere.
Miriam Cristaldi
Claudio Costa nasce a Tirana in Albania il 22 giugno del 1942 da genitori italiani.
Nel ’62 vince a Milano il premio Diomira per il disegno e nel ’63 il premio S. Fedele.
Dal ’62 al ’65 studia architettura al politecnico di Milano.
Nel ’64 vince la borsa di studio per l’incisione indetta dal governo francese e si
trasferisce quindi a Parigi presso l’atelier di S. W. Hayter (dal ’65 al ’68) dove ha l’occasione di incontrare Marcel Duchamp, punto di riferimento importante per il suo lavoro in bilico tra la scattante forza dell’idea e la calda materialità dell’oggetto trovato.
A Parigi, nel’68, vive la rivoluzione del maggio francese che condizionerà fortemente il suo stile di vita; partecipa agli ateliers liberi che si sono formati per stampare le affiches del movimento studentesco. Nell’autunno torna in Italia, a Rapallo, dove approfondisce la figura di Ezra Pound che lì aveva soggiornato per parecchio tempo.
Nel 69 inizia un lavoro con riferimenti all’antropologia e alla paleontologia (ricostruzione degli uomini primitivi). E’ di quest’anno la sua, importante, prima personale alla galleria genovese La Bertesca, spazio che ha visto nascere (un anno prima) il gruppo dell’Arte Povera. Conosce gli artisti di questo movimento con cui ha alcune affinità di materiali ma obiettivi diversi. Inizia infatti una ricerca su materiali non specifici in arte, usati allo stato puro, senza implicazioni simboliche che individua in grafiti, amido, colla di pesce o di coniglio, acidi, fotocopie, argille.
Nel 71 pubblica per le edizioni Masnata il testo teorico “Evoluzione Involuzione” in cui scandaglia aspetti antropologici.
Nel ’72 si apre ad amicizie Fluxus, di cui condivide l’equazione arte-vita, in particolare con Filliou, Brect, Chiari, Ben, Vostell.
Nel ’73 l’interesse antropologico lo porta a studiare i riti e i miti delle popolazioni primitive attraverso un viaggio in Marocco e contatti col museo di Wellington per la realizzazione di un lavoro sulla popolazione neozelandese dei Maori
Nel ’74 è presente con una personale al museo Ludwig di Aachen, poi ad Amburgo e a Monaco con la mostra collettiva del Gruppo Arte Antropologica in “Spurensicherung” (= Arte delle tracce) - teorizzata da Gunter Metken - insieme agli artisti Christian Boltanski, Roger Welch, Didier Bay, Nancy Kitchel, Jean Le Gac, Anna e Patrick Poirier, Charls Simonds, Nancy Graves, Jean Marie Bertholin, Nikolaus Lang, Paul-Armand Gette, Jochen Gerz.
Nel 1975 studia la cultura contadina e fonda a Monteghirfo, paese dell’entroterra ligure vicino ai luoghi della sua infanzia, il “Museo di antropologia attiva” basando il suo pensiero teorico sul rovesciamento del “ready made” : infatti, se Duchamp dichiara opera d’arte l’oggetto spostato nel museo, Costa - al contrario - applica lo spostamento del museo attorno all’oggetto dichiarando museo il contesto attorno all’oggetto (oggetto che rimane quindi fermo nel luogo di appartenenza mentre chi si sposta è il museo).Un museo della civiltà contadina, dunque, ma anche museo della memoria quale recupero di una civiltà in estinzione da consegnare a future generazioni.
Nel ’77 si trasferisce a Genova e teorizza l’ “Work in regress”, un lavoro nato in contrapposizione all’ “Work in progress” di James Joice; è anche invitato ad esporre a Documenta 6 di Kassel dove nella sezione “Archeologia degli umani” , curata da Gunter Metken, conclude il ciclo strettamente antropologico col lavoro intitolato “Antropologia riseppellita”.
Nel 1978 partecipa a Bologna alla mostra “Metafisica del quotidiano” con opere di matrice alchemica. La scoperta della tradizione ermetica lo indirizza verso lo studio “della filosofia e della magia naturali” con cicli di lavoro dal titolo: “il giallo come materia”, “Il nero come sostanza”, “la calcinazione del bianco”, “Le meduse del tempo”.
L’alchimia, in questo momento si fa oggetto di studio che concluderà nell’86 con la sua partecipazione alla Biennale di Venezia nella sezione curata da Arturo Swarz. Nell’ultimo periodo di vita Claudio Costa spiega l’intero suo percorso artistico attraverso una visione alchemica del mondo essenzializzata nei quattro elementi Terra, Acqua, Aria, Fuoco, corrispondenti alla suddivisione del suo lavoro in 4 cicli. Questo in adesione ad una lettura che esula da pratiche protoscientifiche (ormai desuete), ma che si pone idealmente come simbolo della trasformazione che l’uomo opera in sé durante il cammino della propria vita.
Un cammino che dalla nigredo della Terra arriva alla rubedo, o al fuoco dello spirito.
Nel 1981 è invitato alla mostra “Mithos e Rituals” alla Kunstalle di Zurigo dove ha occasione di conoscere Joseph Beuys che, dopo Duchamp, diventa punto di riferimento non indifferente, specie nel tipo di fede riposta nella natura e nell’uomo, in particolare nella qualità di una comunicazione rivolta all’altro da sé.
Nell’85 è invitato alla mostra “Museo immaginario dell’Archeologia” nei pressi di Lascaux: la visita alle grotte di questo luogo lo impressiona. D’ora in poi richiami ai graffiti rupestri saranno presenti nei suoi lavori come mezzi per evocare le origini dell’uomo e come riflessione sull’origine dell’arte: egli ritiene che per vivere il presente e proiettarsi nel futuro sia fondamentale conoscere il proprio passato, specie quello remotissimo. Questo per recuperare una conoscenza sapienzale perduta nel tempo.
Nel 1986 conclude il lavoro strettamente alchemico con l’opera intitolata “Diva bottiglia (per un Museo dell’Alchimia)”, esposta alla Biennale di Venezia nella sezione “Arte e Alchimia”.
Intanto trasferisce il suo studio nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto dove inizierà un proficuo rapporto di arte-terapia coi pazienti.
Nei lavori dell’87 si evidenziano, su fondi bianchi, forme totemiche nere (con richiami a mostruosi “insettacci”, maschere tribali, robot) come espressioni di paure tratte dall’ombra dell’inconscio e trasferite nella luce della coscienza. Vengono usati altri materiali: lamiere, legni anneriti, terre rosse, così da definire un’iconografia hard, priva di compiacimenti, meccanomorfa. Nascono in questo momento lavori in pseudo- bronzo: oggetti rivestiti di pittura dagli effetti bronzei così da memorizzare nel presente quella mitica età storica.
Espone al Mercato del Sale la personale il “Corpo alchemico primitivo” e alla galleria La Polena, a Genova, la mostra “Bronzea, gli ultimi lavori conosciuti”.
Un granello di sabbia è diventato una pietra: nell’88 fonda nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto, l’Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli (Arte della persona, ed esercita la professione di arte-terapeuta in collaborazione col centro Diurno di salute mentale.
Questo Istituto si concentra soprattutto sulle problematiche volte allo sviluppo della creatività nell’ambito psichiatrico ed incentiva incontri, relazioni, con personalità della cultura.
Nell’89 codifica una nuova materia: la ruggine, considerata cifra espressiva del suo lavoro. Egli sottolinea la naturalità di questo fungo del ferro perché è mirabilmente capace d’irradiare qualità pittoriche oscillanti tra l’oro e i rossi bruciati e di evocare fortemente l’elemento fuoco. L’artista, per l’uso, confeziona una sorta di “ruggine prefabbricata” stendendo al sole lamine di ferro bagnate con acqua e sale.
Alla fine dell’89, inizio ’90, prendono avvio i viaggi in Africa: è invitato da Claudio Spadoni a Malindi, in Kenya, all “African dream Village” (di Giulio Bargellini), con l’opera “L’albero della cuccagna” (tema ricorrente in quattro sue installazioni).
La cultura africana lo induce a un critico confronto con se stesso portandolo inoltre a lavorare nelle dimensioni molto grandi. Fa uso di materiali del posto (maschere, totem, oggetti naturali e artigianali) che reinventa con libertà interpretativa. Nascono quantità di lavori tuttora inediti.
Nel giugno del ’90 è ancora a Malindi, invitato dall’amico veronese Nino Pezzino che lo soprannomina “Claudio l’africano”, nella cui casa esegue grandi installazioni.
In Italia partecipa inoltre a una serie di mostre intitolate “Arte come Evocazione” (a cura di Miriam Cristaldi, ’90-’92).
E’ presente a Parigi con la personale “Prehistorie ed anthropologie”, alla Galerie 1900-2000 con testi di Flaminio Gualdoni ed Enrico Pedrini.
A Milano , alla galleria Cavellini-Cilena, espone “L’assedio instancabile del fare” a cura di Flaminio Gualdoni.
Nel luglio del ’91 è di nuovo a Malindi, invitato da Nino Pezzino, dove crea altri lavori africani.
A dicembre è a Kampala, in Uganda. Tornato in Italia, a Verona, presso la galleria La Giarina, espone la mostra “Africa” con testi di Giorgio Cortenova e Miriam Cristaldi.
Nel ’92 fonda nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto il Museo attivo delle Materie e Forme Inconsapevoli (naturale emanazione dell’Istituto omonimo) insieme a Miriam Cristaldi (critico d’arte), Luigi Maccioni (psichiatra) e Antonio Slavich (direttore dell’ospedale). E’ questo un museo-attivo di espressioni artistiche che raccoglie opere di artisti professionisti e pazienti psichiatrici. Costa espone i lavori di Davide Raggio, un lungodegente psichiatrico considerato genius loci dell’ospedale genovese.
A Torino, alla galleria Tauro Arte, presenta “Lavori africani” con testi di Francesco Poli e Miriam Cristaldi.
I simboli accoppiati del cuore e del cervello entrano da questo momento con frequenza nei suoi lavori come metafora della Maestà dell’uomo che fa uso sapiente di questi organi dosando con oculatezza ragione e sentimento.
E’ invitato a Dakar, in Senegal, presso l’Istituto Italiano di Cultura.
E’ inoltre invitato alla V° Biennale d’Arte di Dakar.
Per la terza ed ultima volta è ancora a Malindi per lavorare, ospite, da Nino Pezzino.
Nell’ospedale psichiatrico vede la luce il lavoro “Terre emerse” composto di lamiere di ruggine affogate nella cera liquida per simulare isole nell’oceano.
Nel ’93 espone alla galleria Soave “Terre emerse”, a cura di Marisa Vescovo.
Inizia a Sarzana il ciclo della Virtualità ( trilogia sull’ “Arte come pre-“ a cura di Miriam Cristaldi) ove è presente con l’opera “Il sonno sospeso degli angeli”.
Per la seconda volta è invitato a Dakar dall’Istituto Italiano di Cultura con il compito di insegnare alla scuola d’Arte della città. Qui, alla Galleria Nazionale di Dakar, allestisce una mostra pubblica con tutti i pezzi creati sul posto.
Promuove, in collaborazione con l’IMFI, nell’ex ospedale psichiatrico di Genova, il convegno”Arte: luoghi, percorsi e voci, arte tra virtualità e oggetto estetico”.
Nel ’94 è a Milano, da Massimo Valsecchi, con la mostra personale intitolata “Claudio Costa”.
Esegue la performance dell’ “Appeso” alla cava di marmo La Piana (Massa Carrara), in occasione dell’ultima operazione sulla trilogia della Virtualità, con commento di Bruno Corà.
In luglio, inscena la sua ultima performance intitolata “Arcimboldo evocato” nella piazza di Sarzana (La Spezia).
Nel ’95 si delinea il progetto “Skull Brain Museum – Africa ‘95” = “Museo del cranio e del cervello” che dichiara opera d’arte l’Africa Settentrionale.
Questo progetto evidenzia che il profilo di un cranio preistorico combacia perfettamente col profilo dell’Africa settentrionale. Nei 34 paesi, compresi in questo profilo geografico, l’artista avrebbe dovuto fondare altrettanti Musei con presenze europee e africane unite in un unico abbraccio universale.
Il 2 luglio scompare improvvisamente.
Miriam Cristaldi
“Arte
tra natura e tecnologia” è il titolo della mostra che Franco Carrozzini
presenta al centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 5 febbraio).
In
realtà si tratta di immagini digitali, ottenute con lo scanner, e stampate su
carta come opera finita – suddivisa in spaziosi riquadri - che rappresentano
le mani dell’artista mentre aprono un frutto, o ancora che tengono stretta fra
le dita una conchiglia purpurea (visibile dalla parte del taglio).
La simbologia di queste immagini naturali, “mosse” nella conformazione - estremamente essenziali ed emergenti dal fondo buio così da non interferire con elementi ambientali - richiama l’idea sacrale della nascita, l’atto di una possibile venuta al mondo attraverso le vulve aperte dei frutti.
Questo
arcaico richiamo di qualità antropologica, allo stesso tempo si contamina con
il linguaggio tecnologico proprio dei “pixell” del video offrendo alla
visione il senso di una contemporaneità non disgiunta dalla storia dell’uomo.
E’
questo un caso di opera tecnologica dove il disincanto e lo stacco da essa
permette all’artista di usare il mezzo proprio come tale e non come fine
ultimo.
La
sua capacità creativa ha infatti piegato l’uso dello scanner per fissare un
semplice gesto: quello di premere il frutto per spaccarlo in due metà e dare
corpo a un’idea, a un pensiero che vuole contenere il mistero, la magia
dell’universo intero quando scatta la scintilla della vita.
Franco Carrozzini
“Chiunque
alla velocità della luce tende a diventare nessuno…e alla velocità della
luce tutti gli eventi di questo pianeta tendono a diventare simultanei” dice
Mc Luhan riferendosi alla civiltà contemporanea.
Se
lo sviluppo scientifico e tecnologico ha comportato nella società cambiamenti
radicali, radicale dovrà essere il cambiamento del nostro modo di pensare.
Ancora, se da un lato la tecnologia ci permette di attraversare in tempo reale
il mondo intero e la scienza di
vivere sdoppiamenti e trasmutazioni genetiche, nasceranno necessariamente
problemi comportamentali ed etici assolutamente nuovi in attesa di codifiche
altrettanto nuove.
Anche
in arte - quale sensibilissima antenna capace di captare, se non anticipare, le
istanze del presente - si attivano processualità inedite con l’uso di mezzi
tecnologici figli di questo millennio, tempo straordinario e veramente
complesso, investito del nuovo fenomeno della globalizzazione.
Il
nostro corpo si fa centralino, rete-comunicazionale, luogo e soggetto di un
racconto ove possono inverarsi tutti gli scenari possibili… Un “racconto
apocalittico da fine del mondo” suggerisce Pierre Restany.
Oggi,
difficilmente gli artisti possono esimersi dal praticare una conoscenza
tecnologica, accanto ad una consolidata pratica manuale.
Conoscenza
utile anche per smascherare i condizionamenti dei mezzi informatici.
Franco
Carrozzini è uno di quegli artisti che lavora da tempo con la tecnologia
elettronica computerizzata, ed è per questo che sa mantenere una giusta
distanza dal mezzo.
Distanza
che è propria di chi ha superato lo stupore iniziatico ed è frutto di un
atteggiamento di scanzonato disincanto.
Per
il farsi dell’opera l’artista si serve di semplici gesti delle mani:
movimenti minimi che agiscono su piccolo oggetti, in questa mostra frutti
della natura, posati sullo scanner di un computer.
Perciò
tecnologia sì, ma il racconto emozionale che ne nasce ha bisogno per
realizzarsi anche di una semplice,
ma ben direzionata, pressione della mano sull’oggetto prescelto in modo che
l’azione venga fissata dal lampo fotografico di tale mezzo.
Prende
allora corpo quell’unica, numinosa immagine che è somma di numerose
successioni spaziali (la scomposizione futurista insegna), “mossa” secondo
fotogrammi in successione e che si materializza in una sola, luminosa,
video-interfaccia.
Interfaccia
costituita da pixell del linguaggio
elettronico, pronta al successivo processo di stampa per diventare infine quadro, opera compiuta.
Nella
poetica del lavoro si evidenzia così un procedere di carattere ossimorico: la
fredda operatività dell’uso tecnologico esige e si accompagna ad una
figuralità calda, semplice, essenzializzata in immagini-simbolo, estremamente
ridotte alla pura naturalità e al contempo ricche di significati impliciti.
La
complessità del vivere può tradursi quindi nella costruzione di
un’iconografia realizzata con l’alta definizione del
linguaggio elettronico, ma che - al contempo - sa affrontare una vistosa
regressione riscontrabile in oggettualità sostanzialmente naturali, scevre da
barocchismi e da complicazioni formali.
In
questo senso, un’iconografia analizzata anche nei suoi aspetti antropologici
per elevarsi a caratteristiche di tras-figura,
figura che va oltre l’immanenza (Miriam Cristaldi, “Trasfigura”, ed.
Parise, Verona ’95).
Ne
è un esempio l’opera “Carezza” 2002, un’immagine scomposta in nove
singoli riquadri.
Qui
sono rappresentate le mani di Franco Carrozzini che tengono stretto un frutto di
fico per schiuderlo in due metà.
Ovviamente
le forme risultano deformate a causa del movimento effettuato durante
l’acquisizione dello scanner: questo per trattenere (nell’opera) la dinamica
del gesto compiuto.
Nascono così strane anamorfosi che evidenziano il filtro tecnologico e al contempo sanno sottolineare - attraverso la semplicissima azione delle mani - impliciti aspetti antropologici connessi all’idea di nascita percepibile nella morbidità umorale delle vulve (aperte) del frutto.
E
ancora, la tinta buia del fondo contribuisce a fornire il senso di uno spazio
atemporale, un habitat del profondo in
cui l’energia primigenia diventa input
fortissimo capace di rievocare il soffio vitale de “La nascita dell’uomo”
(affresco della Cappella Sistina).
Una
“Carezza” simbolica, dunque, in grado di risvegliare simbologie archetipali
non prive di eros.
Un
forte, globalizzante, abbraccio tra natura e cultura.
Miriam Cristaldi
Miriam Cristaldi
Claudio Costa, Fritz Roed e Thor Heyerdahl,
Con “La via dell’arte 2003”, fotografie ed opere degli artisti Claudio Costa, Fritz Roed e del navigatore Thor Heyerdahl, sono state esposte in una significativa mostra al Museo della Ceramica “M. Trucco” di Albisola.
Accomunati da una personale visione del mondo di carattere antropocentrica, ove l’uomo è collocato al centro dell’universo, i tre personaggi sono stati accostati - ciascuno nelle proprie specificità - per avere avuto una concezione della vita e dell’artisticità in qualche modo simile all’idea del “viaggio”.
Sia nella simbologia di un viaggio diretto verso la propria interiorità e verso l’altro da sé, sia nel navigare faticoso nelle acque di una conoscenza acquisita con studi e contatti con civiltà in via d’estinzione.
Con uno spostamento di
365° che va dal “Villaggio globale” al “Villaggio primitivo” attraverso
comparazioni, costruttivi dialoghi, e lunghi viaggi, focalizzando l’attenzione
su quelle componenti psicologiche,
storiche, antropologiche, sociali, che costituiscono il bagaglio esperienzale
dell’intera umanità, poiché le diversità dell’Essere sono infinite come
infinitamente complesse si
presentano le sue identità.
Il senso interno, ricco di rimandi e significati simbolici, si esplica in questo
caso nella capacità della mente di riflettere sulle differenze di carattere
etnologico, cercando di interpretare una visione del mondo dal punto di vista
dell’indigeno situato ancora in un tipo di società arcaico-patriarcale.
“Quando un vecchio muore è una biblioteca che brucia” si dice in Africa.
Il confronto col passato e con la storia antropologica può porsi allora come specchio entro cui rifletterci per “riconoscerci” in quello che eravamo e per comprendere meglio quello che oggi “non siamo più”, alla ricerca di nuove identità, nuovi modelli cui fare riferimento per vivere meglio i cambiamenti epocali e tecnologici che si susseguono ad incredibili velocità.
Questo per cogliere la complessità di una trama sociale che il passato rende ancora più intricata e che nell’evidente ridefinizione nell’attualità approda ad un’evocante full-immersion nel presente per dirigerci verso le incognite del futuro.
Affiora in questo senso la necessità di un allargamento della coscienza verso una “concezione antropologica” dell’universo in modo che la ricerca scientifica non si soffermi solo sugli aspetti del primitivismo ma si muova verso la contemporaneità dove la condizione umana vive l’ideologia interna al mondo telematico, così che i potenti richiami archetipici dell’uomo “vecchio” contaminino quelli dell’uomo “nuovo”, oggi impegnato a vivere gli incredibili cambiamenti epocali.
Che poi è quello che hanno cercato di dire i tre personaggi in mostra Nella Via dell’Arte.
Il continente africano è sempre stato nel pensiero di Claudio Costa. Nelle sue ricerche antropologiche l’Africa, quale culla e origine del mondo, viene considerata come territorio primigenio che può far sentire, a chi vi giunge forestiero, di essere arrivato “a casa”. Ma anche Africa i cui miti e riti stanno velocemente cambiando tanto da produrre espressioni creative autoctone, figlie della contemporaneità.
E’ a questa dimensione libera e creativa cui egli si è rivolto, per attivare uno stretto rapporto di lavoro e di amicizia tra artisti occidentali e africani e per avviare la costruzione di Musei in quegli stati dell’Africa attraversati dal profilo cranico dell’”Homo Erectus”. Una fetta d’Africa, questa, che egli fa firmato come “opera d’arte” in virtù del suo enunciato (un rovesciamento del concetto duchampiano) secondo cui non è l’oggetto che deve essere trasferito nel Museo, ma è invece “…il Museo che deve essere spostato attorno all’oggetto, esaltandone la funzione e nominandolo OPERA D’ARTE”. Ciò per non snaturare il contesto ambientale che invece connota ed esalta l’oggetto nella sua funzione.
Ciò, secondo le modalità di un’operazione concettuale presente in tutti i Musei creati dall’artista, in questo caso, coincidente col progetto “Skull brain museum - Africa ‘95”.
Progetto rimasto a livello utopico in cui si prefigura l’oggetto (Africa settentrionale) coronato da un anello di Musei. Anello che per statuto dell’Arte può dichiarare questa porzione d’Africa, “Opera d’arte”.
Si tratta di un grande progetto dai vastissimi significati simbolici, composto di varie tavole colorate e non realizzato sul piano fattuale a causa dell’improvvisa scomparsa dell’autore.
Ma proprio per la grande carica utopica di cui il progetto è portatore, non necessita una reale concretizzazione perché potrebbe dissolversi nel dispiego titanico di energie in un’ampiezza spazio-temporale quasi illimitata.
Prende invece corpo una connotazione “concettuale e immateriale” dell’opera (vedi “Materia Immateriale - identità, mutamenti, ibridazioni dell’arte nel nuovo millennio”, Miriam Cristaldi, ed. Peccolo, Livorno 2003) già prevista un anno prima della scomparsa dell’artista.
Infatti, nel giugno del ’94, riferendomi alla pre-mostra allestita nella cava di marmo La Piana (a Colonnata di Carrara), organizzata di concerto con Claudio Costa (tra gli artisti partecipanti) ed uniti da una visione artistica basata su di una comunità d’intenti, scrivevo: “…nella circostanza di questo evento, la virtualità è stata espressa al massimo grado possibile (infatti nella cava La Piana si è svolta soltanto una velocissima pre- mostra fra gli addetti ai lavori, senza spettatori) : andando oltre le mostre potranno essere concepite a livello totalmente virtuale, sparendo come eventi normalmente fruibili” (da: “Arte come pre-, la Virtus della virtualità” , Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2004). Così vale per l’opera.
Riconsiderando
l’intera opera di Claudio Costa si può affermare che tutto il suo pensiero
gravita attorno al principio di TRASFORMAZIONE secondo cui la materia conferisce
all’oggetto una vita autonoma simile a quella di un organismo vivente composto
da un proprio codice genetico strutturato per programmare cambiamenti.
Ragionamento valido anche per la struttura mentale del pensiero.
Paradigmatiche
in questo senso sono, tra i primi suoi lavori del ’70, ‘71, le
“Tele acide”.
Tele
imbevute di acidi diversi che continuano ad agire nello scorrere del tempo
producendo un’inarrestabile erosione capace di trasformare la componente
cromatica del tessuto in immagini pittoriche mutabili metereologicamente. Così
come per le “Colle” (di pesce o di coniglio)
che nel tempo si distendono o si rattrappiscono cambiando forma e colore.
TRASFORMAZIONE
che diventa per l’artista anche PRINCIPIO ATTIVO su cui imperniare l’ opera.
Un
principio riguardante la concezione del vivere come cammino verso mete sempre
nuove, producenti nell’essere trasformazioni che permettano il raggiungimento
di vari gradienti di conoscenza.
Anche
la cura amorosa rivolta verso la cultura materiale, quale recupero di una
tradizione in via d'estinzione, nel processo operativo tende a riscoprire quegli
effetti morfologici che arricchiscono l’oggettualità con significative
valenze simboliche ricche di rimandi antropologici.
Ed
è in questo senso che l’oggetto della cultura materiale (in disuso) acquista
vita propria, densa di significati intrinseci e al contempo testimone, per
future generazioni, di un recente passato da consegnare alla storia.
Noti
sono gli studi dell’artista condotti sul cervello umano, da lui denominati “Craneologie”.
Il cranio come contenitore osseo del cervello quale organo e fonte di pensiero,
centralina della vita, metafora del mondo, ma anche simbolo della morte qualora
si bloccasse la funzionalità.
La
sua ansata e labirintica forma può proporsi anche come emblema del difficile
cammino umano che, tra gli inevitabili intoppi e percorsi ciechi, può condurre
ad una sorta d’illuminazione.
Trasformazione
che, partendo dal reale, può raggiungere la sfera comportamentale e collocarsi
nella fattualità della storia.
Ecco
allora che gli studi a carattere antropologico-etnologico dell’artista (negli
anni ’70 ha fatto parte del gruppo Arte e Antropologia con i coniugi Becker,
Christian Boltanski, i coniugi Poirier ecc.) possono diventare mezzo per leggere
il futuro attraverso uno sguardo complesso rivolto al passato cercando di
ricostruire un mondo perduto. Un passato remotissimo, che cerca nell’origine
del mondo quella conoscenza sapienzale che è stata perduta nel tempo in maniera
inversamente proporzionale allo stratificarsi dei livelli culturali che si sono
succeduti nello sviluppo dell’uomo contemporaneo.
O
meglio, Claudio Costa TRASFORMA il concetto di “passato” in una fluida
componente sanguigna capace di pompare vita ad un futuro incerto ed asfittico,
passibile di metaforici “diluvi universali” paventati dal filosofo Paul
Virilio in cui si può collassare da un momento all’altro “nel nulla
elettronico…”.
Se
lo sviluppo tecno-scientifico ha portato a nuove grandiose scoperte, al contempo
si profilano rovelli etici e problematiche inedite che conducono l’uomo in una
condizione di crisi d’identità.
A
nuovi modelli di vita corrispondono cambiamenti radicali di pensiero.
Una
visione della Natura, presa a prestito dall’alchimia (non priva di aspetti
sciamanici), diventa per Costa simbolo stesso della trasformazione che
essenzializza l’universo nei quattro Elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco.
Elementi
che scandiscono l’intero suo lavoro in quattro rispettive fasi, partendo dalla
“Terra” codificata con l’operazione museale di Monteghirfo per concludersi
drammaticamente col “Fuoco” ardente dell’Africa, nel 1995. Nel nome di
un’arte “…che comunica e penetra nei processi segreti della natura del
tutto inverificabili scientificamente”, dove “…sappiamo che ogni forza si
può misurare, o sentire o provare
o percepire, ma non potremo visualizzarla se non in simboli astratti“ (Claudio
Costa).
Scrive
di lui Gillo Dorfles (2001): “… la forza di questi Elementi s’incarna nei
materiali spesso trovati, anzi cercati, così che i suoi lavori assumono una
perentorietà che solo attraverso un “opus magnum” – recondito forse allo
stesso autore – può realizzarsi”
Costa
aveva espresso un desiderio: “Vorrei che l’ultimo mio lavoro fosse un
capolavoro…”.
Miriam
Cristaldi
Pezzi
di rilievo fanno parte della nutrita collettiva - curata da Salvatore Galliani -
allo studio Ghiglione (piazza S: Matteo 68r, fino a febbraio).
Un’esposizione,
questa, dove spicca un luminescente cubo azzurro dipinto da Vasarely, artista
storico dell’arte cinetica (o optical art), basata su effetti ottici capaci di
deformare visivamente le strutture compositive e di fornire l’idea del
movimento attraverso forme statiche. Altri bei lavori
corrispondono a dipinti astratti di Piero Dorazio e Luigi Veronesi,
autori di un accentuato (il primo) e delicato (il secondo) lirismo pittorico.
Un’arte astratta, la loro, teorizzata dal gruppo Forma Uno che dichiara :
“… non adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzo per giungere a
forme astratte oggettive, non ci interessa il limone, ma nemmeno la forma del
limone….” Cosa che invece interessava al Cubismo.
E
la loro pittura oscilla tra bande cromatiche ed astrazioni geometriche, intrise
di luce.
Di
Enrico Baj (scomparso recentemente), sono in mostra alcune opere di forte
impatto visivo: la lezione Patafisica di Alfred Jarry vive nei suoi fantastici
collage attraverso personaggi (famosi i “generali”) costruiti con
passamaneria e tappezzerie di fondo, dando corpo ad un universo buffo, ma
tragico nella sua ostensiva comicità.
Di
Rotella è presente un piccolo décollage composto da manifesti strappati e
riportati su tela per testimoniare azioni che quotidianamente avvengono nel
contesto urbano metropolitano.
Con
Jiri Kolar possiamo ammirare curiose composizioni costruite con frammenti di
giornali: oggetti della comunicazione che, estrapolati dal contesto ordinario,
possono suggerire - oltre al significato delle parole - esigenze visive,
psicologiche, estetiche e decorative.
Miriam Cristaldi
“Ogni
arte è un gioco di posizionamento e ogni volta che un artista viene
influenzato da un altro, riscrive
in parte la sua storia dell’arte , afferma Michael Baxandall. In effetti, un
folto numero di artisti liguri, esposti nello spazio del Poliedro (via Ricci 3),
nella mostra intitolata “1950-2000. Pittura genovese e ligure da una
collezione privata”, rappresentano un significativo spaccato di situazioni
artistiche - nella disciplina pittorica - specie del secondo dopoguerra dove, in
alcuni casi, si evidenziano espressioni antesignane mentre, in altri, prendono
corpo riflessioni autonome su movimenti in atto.
Si
viene così a creare un complesso di opere che potrebbero fornire l’esempio di
come si potrebbe, oggi, strutturare una nutrita ed esemplare collezione d’arte
ligure.
Di
Giuseppe Allosia è presente un piccolo, prezioso dipinto di pittura nucleare (dripping)
dei primi anni ’60. Con Rocco Borella si richiama la pittura astratta del
Bauhaus, in particolare si rilevano le felici creazioni pittoriche denominate
dall’artista “cromemi”. Franco Buzzone è qui presente con una pittura
astratto geometrica e gestuale (anni ’60) in cui è assente la figurazione.
Mario Chianese propone un dipinto anni
’70 estremamente sintetico, al contempo carico di sommessa poesia, con dati di
natura essenzializzati nei suoi elementi percettivi di colore-luce. La pittura
informale di Gianfranco Fasce, invece, si basa su colori naturalistici, filtrati
essenzialmente dalla forza della luce. Di Giannetto Fieschi ammiriamo una
personalissima e drammatica figurazione in cui si riscontrano richiami
all’arte antica e contemporanea mentre Enzo Maiolino si avvicina
all’astrazione classica dell’astrattismo italiano degli anni ‘30, con
estremo rigore e profonda conoscenza di tecniche incisorie. Tino Repetto è in
mostra con un paesaggio informale a carattere psicologico, tendente ad una
visione interiore. Mario Rocca espone un intenso e vivace paesaggio a carattere
informale-espressionista, con spessori volumetrici, memori di un lontano
cubismo. Emilio Scanavino è rappresentato da un grande e suggestivo dipinto
dedicato alla ricerca sul segno in cui nodi e viticci si attorcigliano in
spasimi viscerali. Con Raimondo Sirotti si riscontra un rigoroso informale anni
’60, estremamente interiorizzato e con nessun cedimento all’estetica. E
ancora, Plinio Mesciulam con un pregiato dipinto del periodo MAC e
un’originale “segno precario” del ’75
ove si registra la ricerca sulla “macroscopia del segno”.
Particolarmente aggressiva e drammatica la pittura astratto-espressionista di
Mario Moronti. Di Vittorio Ugolini si può ammirare la pittura lirico-informale,
ricca di accenti luministici intrecciati a poetici “atti di vita”.
Sono
anche presenti le significative opere di Daniel Bec, Giancarlo Bargoni, Silvio
Bisio, Aldo Bosco, Attilio Carreri, Silvio Cassinelli, Arnaldo Esposto, Gianni
Stirone (Tempo 3)
Miriam Cristaldi
Le strutture vettoriali di
Liliana Contemorra
Nella prima metà del secolo scorso si teorizzava l’arte Concreta (Van Doensburg 1930), un’arte aniconica (plastica o pittorica), esente da riferimenti con la natura, ma nemmeno basata sull’astrazione.
Allo scopo di “ creare lavori secondo una tecnica e delle leggi che appartengono esclusivamente ad essi”, si era pensato a definire una realtà concreta che tenesse conto di ciò che è otticamente percepibile. Attraverso il colore, luce, spazio e movimento (in tensione).
Tramonta il mito romantico dell’artista chinato verso il proprio sentire emozionale per tendere al di fuori, verso progettazioni ampliate a contesti socio-economici, i più allargati possibili.
Viene eliminato il gesto pittorico (quindi l’uso del pennello) per passare a moduli formali composti di linee intersecantesi tra loro secondo “tessiture verticali/orizzontali e progressioni scalari di toni cromatici”, resi preferibilmente con l’uso di smalti o vernici.
A queste sperimentazioni strutturali guarda l’artista genovese Liliana Contemorra (galleria Leonardi-V Idea, piazza Campetto 8, fino al 22 giugno - a cura di Sandro Ricaldone), attiva fin dagli ultimi anni ’60 con un lavoro avanguardistico, riconosciuto dal noto critico Corrado Maltese (per la mostra alla Polena del ’71) come “espressione di una tappa veramente importante della dialettica delle forme artistiche contemporanee”.
Ma l’operare della Contemorra, tutt’oggi fedele e in consonanza con le sue prime ricerche, procede in forma assolutamente personale che la contraddistingue dalle sperimentazioni storiche.
In particolare, il suo lavoro si fonda su di una tensione plastico-formale generata dallo scatto vettoriale di linee verticali/orizzontali/oblique, più raramente arcuate (tracciate su luminosi supporti in alluminio), che s’intersecano - in grande e assoluta libertà - nello spazio dinamico della superficie/supporto per proseguire idealmente sulla parete dando luogo a un continuum spaziale.
Ciò s’intensifica nei dittici o trittici dove le linee sono in stretta connessione tra loro.
Ne deriva un’organizzazione plastico-visiva che se nei primi lavori si basava sulle cromie del rosso e del nero in risalto col “freddo” dell’alluminio (del fondo), oggi privilegia il “calore” soffuso dell’oro mediante fondi in ottone attraversati da cromie blu, giallo o rosso e nero.
Con effetti di virtuale tridimensionalità che l’artista sa attuare anche a livello reale con specifiche installazioni di forte impatto visivo.
Miriam Cristaldi
Perché
la collezione del Museattivo Claudio Costa è indivisibile e inamovibile
Scriveva
Claudio Costa in “Materiale e
Metaforico – sintomatologie sul work in regress”
(ed. Unimedia 1979): “Mi resi conto che l’Oggetto per non perdere
il suo <statuto antropologico>, doveva essere visto nel suo luogo di
appartenenza e di significanza. E’ il Museo (ciò che di mobile
costituisce un museo:transenne, fari, cartelli, vetrine, ecc.) che si sposta
attorno all’oggetto. Ecco il ribaltamento del ready-made duchampiano. Ready
made secondo cui l’Oggetto comune
entra nel Museo e diventa Opera d’Arte, perdendo la sua funzione.
Nel
mio lavoro invece (n.d.r.) il Museo si pone attorno all’Oggetto,
esaltandone la funzione.
Quindi
<Arte delle Cose> e non più <Cose dell’Arte>”.
Con questo enunciato Claudio Costa teorizza fermamente e inequivocabilmente il suo lavoro per ciò che riguarda la dinamica dei suoi Musei.
Musei che prendono appunto consistenza attorno all’Oggetto per esaltarlo nella sua funzione e per evitare un dannoso sradicamento dal luogo di appartenenza e di significanza.
Primo
fra tutti ricordiamo, nel ’75, il Museo di Monteghirfo (simbolo della
terra) dove Costa elegge a Museo una casa contadina: gli oggetti ivi contenuti -
per statuto dell’arte – assumono la denominazione di “opera d’arte”.
Il
Museo in questione è quello delle Materie e Forme Inconsapevoli (simbolo
dell’aria), nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto, da
Costa ideato nel ‘92 e fondato nello stesso anno insieme a Miriam Cristaldi,
Luigi Maccioni e Antonio Slavich.
Qui,
gli elaborati di degenti psichiatrici e opere di artisti professionisti hanno
via via formato un’unica raccolta - l’Oggetto dell’operazione - che
costituisce la vasta e ricca collezione del “Museo delle Materie e Forme
Inconsapevoli”, oggi denominato “Museattivo Claudio Costa”.
Collezione
che in virtù dell’enunciato di cui sopra, è da considerare come un’unica
opera d’arte, firmata Claudio Costa.
E’
in questo senso che va valutata tale collezione.
Essa
va considerata nella sua interezza (uno smembramento snaturerebbe
l’intera operazione) e inamovibile dal luogo in cui
è nata e “cresciuta” (la struttura psichiatrica di Genova-Quarto).
Naturalmente l’operazione non è disgiunta da scopi socio-èèèèèèèèèèpppppp, Alfonso Gialdini, Gianfranco Vendemiati). Scopi nati da un proficuo, libero e creativo scambio attuato tra degenti e artisti professionisti cercando gli uni e gli altri un rapporto anticonvenzionale di reciproca comprensione nel segno dell’artisticità, quasi di “contaminazione” nelle rispettive esperienze.
Secondo
modalità del “cuore a cuore”, come suggeriva ripetutamente lo stesso
Claudio Costa.
Miriam
Cristaldi
Davide Mansueto Raggio non c’è più. A causa di disturbi al cuore è mancato ieri sera (mercoledì 22 maggio,) all’ospedale di Chiavari.
Genova ricorda e piange questo personaggio schivo, burbero, dai grandi occhi azzurri e lungodegente nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto.
Nato a Celesia S. Colombano (Ge ‘26) da famiglia contadina, Davide è presente oggi, coi suoi lavori, nei musei più importanti di Art Brut (nominata anche arte psicopatologica , outsider o arte irregolare), in particolare nel museo di Losanna.
Con una grande installazione, ha pure partecipato alla mostra del Ducale “Figure dell’anima” (‘98) ed è apparso diverse volte su riviste specializzate come “L’Arte Naive”, diretta da Dino Menozzi e Giambattista Voltolini, entrambi collezionisti e divulgatori del suo lavoro.
Ha coraggiosamente esposto alla libreria Il Sileno (’90) ed è stato invitato da gallerie cittadine come il Centro d’Arte La Maddalena (’93). L’ultima sua mostra “Quarto di Raggio” (’98) è stata organizzata dall’Istituto Materie e Forme Inconsapevoli nello spazio del Museattivo Claudio Costa.
Certo, questa dolce figura allampanata, con l’eterna sigaretta ( o sigaro) in bocca, si è innamorata dell’arte vedendo e amando il lavoro del suo grande amico Claudio Costa (scomparso nel ’95), arteterapeuta nell’ex o. p. di Quarto e ivi fondatore dell’Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli
Da lui ha appreso la tecnica del collage e l’uso dell’oggetto trovato.
Davide usava anche il “sasso matto” (così lo chiamava), composto da mattone ridotto in briciole. Poi con la cenere di sigaretta, impastata col vinavil, dava forma a piccole figurine. Che realizzava anche con impasti di argilla cruda.
Antonio Slavich, allora direttore dell’ex o.p. (anni ’80/90), gli aveva concesso uno studio per lavorare e Davide lo aveva riempito di arbusti, radici, cartoni, foglie di palma, canne, nocciole, pigne, tutti oggetti trovati e raccolti nel parco dell’ospedale per la realizzazione di opere, dando luogo a un’inestricabile “giungla”.
Aveva anche appeso a parete (fino all’inverosimile) cartoni dipinti ( a cera o a pastello) e disseminato di fantastiche installazioni gli ampi corridoi del manicomio, fino a raggiungere lo studio di Costa, che così si era pronunciato riguardo il suo percorso artistico: “… quella di Davide Raggio è una dichiarazione di poetica intrecciata a filo doppio con l’oggetto manufatto che, attraverso di lui, vive e resta vivo tra i viventi della terra…”.
Infatti, secondo una fervida creatività e una sorta di personale animismo, Davide “vedeva” nelle macchie, nei graffi o negli strappi - casualmente segnati su carte o su radici d’albero - forme d’occhio, naso, bocca che andavano a comporre “personaggi viventi”. E in silenzio ne ascoltava l’ intima “voce”.
Così, attraverso piccoli aggiustamenti, una cavità nel legno poteva diventare occhio e uno strappo su cartone, ghigno umano.
Sovente, passando davanti alle sue “Furie” o ai suoi “Pinocchi”, Davide li cullava amorevolmente come avrebbe fatto un padre con le sue creature, avviando con l’opera un intimo quanto appassionato dialogo.
Ma la peculiarità di Raggio stava nell’instancabile ricerca di nuovi linguaggi espressivi.
L’ultimo (’95) è stato quello degli strappi applicati su cartone d’imballo, mettendo in evidenza i ritmi ondulatori della carta sottostante.
Gli strappi causavano “cirri” di carta arrotolata, proprio in corrispondenza di mani, piedi e bocche digrignanti, dando vita a curiosi personaggi “guerrieri”.
Così, il corpus del suo lavoro (che attende ora una severa revisione critica) denuncia quegli aspetti antropomorfici capaci di tradurre un’illesa naturalità nella seduzione di un’irrefrenabile poesia del cuore.
Miriam Cristaldi
Mercoledì 22 maggio si è spento Davide Raggio, lungodegente e genius loci dell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto, a causa di complicazioni al cuore.
Sicuramente ora è abbracciato all’artista-terapeuta Claudio Costa (scomparso nel ’95 e fondatore dell’Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli e del Museo omonimo) del quale ha molto sofferto la mancanza (non ha quasi più lavorato dopo la sua dipartita) e da cui aveva appreso, con una terapia del “cuore a cuore”, il metodo di lavoro.
Raggio, artista “autsider”, figlio di contadini (nato a Celesia S. Colombano-Ge nel ’26), è stato prigioniero di guerra. Questa esperienza lo ha segnato moltissimo e gli ha scatenato i primi disturbi psichici. In seguito, ricoverato a Quarto, ha iniziato a dipingere e a collezionare oggetti del luogo (arbusti con cui intrecciare cestini e nocciole per infilare collane).
Ma il suo vero risveglio artistico-creativo è avvenuto nell’85 con l’incontro di Claudio Costa esprimendosi, in seguito, con grandi quadri a pastello, grandi installazioni dando avvio alla serie delle “Furie” (radici d’albero cui donava occhi, bocche e orecchi per dare vita a personaggi originali).
Sono anche importanti le serie dei “Pinocchi”: piccoli e grandi personaggi realizzati con canne di bambù, radici, nocciole, tenuti in piedi da una molla di ferro che permetteva un leggero dondolio.
Quando Davide passava loro vicino li muoveva dolcemente, cullandoli come farebbe un padre con le proprie creature. E ad essi “parlava” e al contempo ne ascoltava l’intima “voce” in assorto silenzio.
Il direttore di allora, Antonio Slavich, aveva donato a Raggio un piccolo studio che egli aveva trasformato in intricatissima “jungla” riempiendolo fino all’inverosimile di sterpaglie, canne, arbusti, foglie di palma, semi, pigne, pietre…tutti oggetti trovati nel parco dell’ex o.p.
Particolarmente felice il lavoro “La bella e la bestia”, composto dal corpo di una bambola dai capelli turchini che si avvinghia al ramo d’albero a forma di “muso” di volpe.
Un'altra sua tecnica era quella di strappare l’ultimo strato di carta che compone i cartoni da imballo. Questo strappo generava “cirri” di carta arrotolata proprio in concomitanza di mani, piedi, volti di severi personaggi-guerrieri, forniti di bocche digrignanti.
Lavori di Davide sono presenti nei più grandi musei di Art Brut (o arte psicopatologica, autsider o arte irregolare) come quello di Losanna. Ma ha anche partecipato a mostre pubbliche come “Figure dell’anima” a Genova, Palazzo Ducale (’98). E’ stato inoltre invitato a mostre cittadine come quella allestita al Centro d’arte La Maddalena (’93), o alla libreria “Il Sileno”(’90), di galleria Mazzini.
Suoi lavori sono stati pubblicati in numerose riviste come ad esempio “Art Naive” , diretta da Dino Menozzi e Giambattista Voltolini, entrambi suoi estimatori e di cui hanno ampiamente divulgato il lavoro.
Un operare, quello di Raggio, che attende una seria revisione critica e che sa descrivere un mondo magico , antropomorfo, ricco di arcaiche e simboliche suggestioni, dimostrando “come l’arte possa fare da nobile compagna a che è privo di ogni bene spirituale della vita”.
Ciao Davide.
Miriam Cristaldi
L’Africa è l’archetipo della “casa”. Quando vi si arriva è come giungere a casa nostra, in quel lontano Eden che l’umanità ha perso all’origine dei tempi. Nel segno della trasgressione.
Africa, allora, come “cuore”, centro, origine, del genere umano.
Infatti il nostro essere tende là, verso quella terra di fuoco, per certi versi ancora “vergine” (secondo canoni di codici acquisiti), dove le belve impastano di saliva la terra rossa del cocente suolo.
Come se un magico, arcaico richiamo, ci ri-conducesse là, ammaliati da un sottile e viscerale incantesimo.
Polvere d’Africa purpurea, dunque, che contrasta fortemente con quella finissima, bianca, delle sue assolate rive.
Rive luminescenti, composte di candida sabbia (punteggiata da miriadi di granchiolini in attività frenetica) su cui si elevano verdeggianti palme gonfie di datteri, mentre più dentro, verso l’interno, si aprono ad ombrello poderosi baobab che, all’improvviso calar della notte, s’allungano in minacciose ombre.
Ma anche terra di sangue: di animali feroci, di lotte tribali, di violenze etniche, di disperate migrazioni.
Questi sono gli elementi-simbolo con cui Dupont riesce a formulare un codice visivo personalissimo per dare corpo alla “sua” Africa.
Immaginata, sognata, percepita.
Un’Africa che s’inzuppa nel sangue dell’odio e dell’innocenza, che si tinge di verdi lussureggianti della “macchia”, che s’illumina nella luce dorata dello Spirito, mentre collassi notturni si oppongono a luminescenti albori.
E allora, sulla superficie del quadro, colate vermiglie (smalti industriali) interagiscono coi luminosi verde-palma mentre pericolose ombre (trascinate da lame di spatola) minacciano l’intero campo visivo, striato di sole.
La notte lotta col giorno, la luce con l’oscurità, la vita con la morte, eros con thanatos.
E in questi sussultori affondi ed estroflessioni spaziali, l’artista, colpo su colpo, struttura prospetti architettonici dando forma a un’ipotetica “casa”. Per successioni planimetriche.
In sintonia con lo scorrere degli eventi (storici) incisi sulle antiche colonne romane e con l’innalzarsi delle (moderne) conformazioni plastiche a grattacielo.
Quasi una ferrea griglia che incasella, divide, compone, dispone.
Gli spazi così segnati, circoscritti, si fanno luogo dell’evento. Campo del vissuto. Capitoli di un racconto.
La narrazione del vivere umano si attua così nella conquista della conoscenza e nella configurazione tragica della perdita (lo strappo della fine) per giungere ad una catartica elaborazione del lutto..
Velocissimi tratti suggeriscono infatti vitalistiche azioni alternate a drammatiche distruzioni di corpi (opera del macete?). Labili cenni nel derma di una pittura astratto-informale a carattere neo-espressionista.
Ma spiragli di luce potrebbero indicare la speranza, la vita oltre la vita. L’Eden appunto.
E le griglie strutturali dei piani-prigione potrebbero porsi anche come motivo di ascesa, come pioli iniziali di una scala diretta verso sconfinate altezze, fuori dal tempo e dallo spazio.
Dimensione che si rafforza con la presenza di piccole finestre laterali, disposte l’una sull’altra in ritmo verticale, a guisa di brevi appunti, note, memorie autobiografiche. Quasi un’entrata in scena dell’autore col proprio bagaglio esperienzale, in punta di piedi, cosicché la sua Africa, grondante sangue, possa farsi come simbolo del vivere odierno.
Come problema da risolvere, come enigma da sciogliere.
Per cogliere dalla pesantezza della materia la seduzione dell’invisibile attraverso qualcosa di afisico e di incorporeo.
Di fatto, l’opera dipinta riesce ad effondere una luce splendente che trascende la materia: cromie percepibili come poste dietro a colate d’acqua corrente.
Si attua in questo senso una luminosità che transita dalla pasta pittorica (fragili reliquie) a liquidità eteree dove imbalsamate forme non cessano di tramutarsi in fulminei pensieri, lampi della mente.
Per questo, nello spazio del quadro, sembra circolare un forte vento che stira le forme, allunga le architetture. Viene in mente un pensiero di Mario Merz quando, descrivendo un suo lavoro, dice: “…il vento che circola intorno alla colonna circola anche nella colonna stessa…e la casa corre con il mondo…”.
Nei riflessi degli smalti, la casa dupontiana si fa crocevia di avvenimenti, porta, fiume, sedimentazione secolare, passaggio.
Claudio Costa, artista genovese recentemente scomparso, ha invece attraversato in lungo e in largo il suolo africano esprimendosi in questi termini: “ In Africa i segni sono forti… sento che devo difendere la mia opera perché non venga schiacciata da questa forza pericolosa….”. E all’Africa ha sacrificato la vita.
Nella visceralità del colore/segno, anche Dupont percepisce gli allarmi di un’umanità trasmutante. Per questo circoscrive in un unico, grande abbraccio, natura, universo architettonico e pungenti sguardi, colti nell’esplicita ostensione di una riconquista del senso (delegittimato dalle passate filosofie postmoderne). Come olio per il motore della vita.
Miriam Cristaldi
Nell’ambito della Festa de l’Unità, (22 agosto, 15 settembre), nel padiglione D - fiera del mare - è stata organizzata dalle gallerie del centro storico un’ampia esposizione d’arte tenendo conto anche del vicinissimo 2002, anno in cui Genova è proclamata centro europeo della cultura.
Una realtà, questa, da valorizzare.
Se
la galleria “Ellequadro” presenta l’opera pittorica di Luca Ottonelli, sul
genere di un raffinato graffitismo metropolitano, e la “Unimedia” è in
mostra con un lavoro concettuale di alta ironia e di estremo rigore di Mauro
Ghiglione, “Leonardi V- Idea” propone invece un’opera fortemente
provocatoria del concettuale Lorenzo Biggi, mentre lo studio “Andrea Ciani”
ha scelto invece di esporre le fotografie di Francesco Arena: stampe
fotografiche virate sui toni sanguigni in cui particolari anatomici del corpo,
estrapolati dal contesto ed alterati da giochi di luci, danno forma a cupi e
misteriosi paesaggi della mente.
Tra
gli altri spazi presenti in fieri, particolarmente felice è quello di “Joice
e Co” (CONTROLLARE !) in cui è
rappresentato il giovane genovese Alessandro Lupi con “Densità fluorescente
fosforescente” in cui, ingoiati da una camera buia, ci appare -alla percezione
visiva - una forma ectoplasmatica di sola luce che materializza la figura di una
donna incinta. In realtà la forma femminile nasce da numerosissimi fili dipinti
con colori fluorescenti e fosforescenti illuminati dalla luce di wood. Prende
così corpo una realtà virtuale fatta di sola luce.
Come del resto è composto di sola luce l’altro lavoro in cui si
materializza nello spazio una forma geometrica tridimensionale, fatta di luce
proiettata dal riflesso
dell’oggetto su di una lente per lavagne luminose.
Un’immagine
fisicamente percepibile nell’ambiente, ma assolutamente inesistente come
materia. Emblema della dimensione immateriale che la tecnologia ci fa vivere
oggi.
Miriam Cristaldi
Augusta Stevano Quando il corpo
si fa parola
“Le
emozioni della vita in fondo non sono che passi… io considero il mio corpo
come uno strumento di scoperta… Bisogna arrivare, ogni volta, a stupirsi, a
scoprirsi…”, spiegava di sé la grande danzatrice Silvie Guillem.
Augusta
Stevano non è ballerina ma, oltre che artista-fotografa, è stata, a suo tempo,
anche valida estetista.
Le
esigenze del suo lavoro l’hanno sovente condotta a stretto contatto col corpo
femminile.
Un
corpo da modellare, da abbellire, da addolcire laddove è spigoloso, da evidenziare laddove è sfuggente, da far “ri-suonare”
nella qualità di specialissimo strumento musicale… nell’estrema attenzione
e amorosa vigilanza verso qualcosa che vive, respira, vede, parla, si muove e
subisce variazioni nel tempo.
E
il suo sguardo vigile, premuroso, attento alle anomalie e imperfezioni, si è
fatto indagatore, acuto e sensibile strumento di analisi.
L’obiettivo
della macchina fotografica ha ulteriormente premuto l’acceleratore su
quest’aspetto esploratore-investigativo che ha permesso all’artista
di trasformare il lavoro in arte.
Ciò
che contraddistingue la vera opera d’arte, afferma Rainer Maria Rilke, “è
la sua infinita solitudine”, quel senso di unicità che la rende
ineguagliabile, ma che allo stesso tempo può acquisire
un’infinita variazione di significati componibili nella mente dello
spettatore, ovvero: “colui che nel guardare il quadro compone l’altra metà”
precisa Paul Klee.
E
del corpo femminile, Augusta Stevano ne è superba interprete.
O
meglio, più che del corpo si dovrebbe parlare di frammenti corporali
poiché l’autrice sa cogliere - con sguardo penetrante - un particolare, uno
squarcio, un brano della figura umana per trasformarlo in occasione di racconto,
una sorta di microstoria che si fa metafora del vissuto.
Frammenti
corporali, dunque, densi di informazioni, impressi sulla carta allo stesso modo
come un’esperienza vissuta può fissarsi nella memoria.
In
ogni immagine, infatti, appare un’ampia concentrazione di significati. Ogni
scatto genera innesti visivi dalle molteplici accezioni, dalle infinite
possibilità espressive, capaci di sollecitare la scena artistica le cui origini
affondano nella stessa natura umana.
E
allora corpo come possibilità ultima con cui l’uomo può confrontarsi, un
sistema d’informazione solipsistico che in questo caso sa rivolgersi alla
socialità. Certamente in opposizione alla concezione mondana di “…basse
couture, con i suoi bad boys, che riducono i corpi delle top model
a simulacri degradanti…. o arte per l’arte del piercing, del
tatuaggio, dei riti sacrificali…” (Paul Virilio in “L’incidente del
futuro”, ed. Raffaello Cortina, Milano 2002).
Se
“l’ego mistico della mutazione interiore e l’ego tecnoscientifico della
mutazione dell’universo si confondono in un desiderio
di annientamento della vita sensoriale… della nostra coscienza del
mondo in quanto tale” (Paul Virilio), in Augusta Stevano l’aspetto
sensoriale conduce invece alla conoscenza di un misterioso linguaggio, intimo,
fugace, che si fa comunicazione con l’alterità.
Un
alfabeto fatto parola.
Gli
scatti della “Yashica” (preziosa macchina fotografica usata dell’autrice)
sanno “parlare”.
Allora,
la morbidità di una mano, il profilo di un piede, la trasparenza di un occhio,
la curva di un’anca, la silhouette di una spalla, si fanno segnali
attenzionali di carattere subliminale. Nascondono cioè alla coscienza quelle
emozioni che l’inconscio percepisce e che perciò sa attrarre mediante un
complesso gioco di rimandi e ammiccamenti - vissuti sulla “pelle” - in
attesa che qualcosa succeda.
E’
ad esempio paradigmatica l’immagine di un decrepito volto d’anziana indios,
inciso da una fittissima rete di rughe, capaci di evocare i segni topologici
di una cartina geografica.
Inoltre,
gli occhi infossati nell’ombra, ma appena suggeriti da una lama di luce della
pupilla, e due piccoli orecchini fissati alle nari del naso (camuso), riescono a
fornire un’impressionante carattere alla donna,
apparentandola con la selvatica animalità degli antropoidi.
E
ancora – in un altro fotogramma - un braccio nudo, in caduta appiombo,
sottolinea la forma aggettante di un fianco (fasciato da una fitta plissettatura
di candida stoffa), evidenziando così un sottilissimo effetto erotico
simile a un brivido che corre lungo la schiena.
“M’interessa
mettere in evidenza quelle parti del corpo che sanno esprimersi meglio…”,
spiega l’artista. Giochi di ombre e luci commentano e vivacizzano il senso del
lavoro.
Come
nella sequenza in cui sono mostrate
esclusivamente due mani che tengono stretti i corrispettivi piedi. Il corpo è
forse piegato in una difficile posa di ballo? Sembra qui sentirlo vibrare in
fremiti di danza… mentre fasci di luci - filtrati da una scacchiera fuori
campo - ritmano la pelle in curiose geometrie.
Altra
immagine suscitatrice di fantasticherie, tra le altre, è quella in cui un volto
si nega per evidenziare un giovanissimo collo a cui è appesa una catenina con
infilata una piccola stella d’argento.
Solo
qualche ricciolo di capelli, mossi dal vento, riescono a suggerire il fresco
viso del soggetto: una probabile fanciulla che corre alla vita nella purezza
della sua acerba età.
Miriam Cristaldi
Genova, marzo 2003
Quando il corpo si fa parola
Se
“L’ego mistico della mutazione interiore e l’ego tecnoscientifico della
mutazione dell’universo si confondono in un desiderio di annientamento della
vita sensoriale… (Paul Virilio), in Augusta Stevano, artista fotografa (centro
culturale Satura, piazza Stella 1, fino al 2 maggio), l’aspetto sensoriale
conduce invece alla conoscenza di un misterioso linguaggio, intimo, fugace -
quello della fotografia - che si fa comunicazione con l’alterità.
Un
alfabeto fatto parola.
Gli
scatti della “Yashica” (preziosa macchina fotografica usata dell’autrice)
sanno “parlare”.
Allora,
la morbidità di una mano, il profilo di un piede, la trasparenza di un occhio,
la curva di un’anca, la silhouette di una spalla, si fanno segnali
attenzionali di carattere subliminale. Nascondono cioè alla coscienza quelle
emozioni che l’inconscio percepisce e che perciò sa attrarre mediante un
complesso gioco di rimandi e ammiccamenti - vissuti sulla “pelle” - in
attesa che qualcosa succeda.
E’
ad esempio paradigmatica l’immagine di un decrepito volto d’anziana indios,
inciso da una fittissima rete di rughe, capaci di evocare le grumosità topologiche
di una cartina geografica.
E
ancora, gli occhi infossati nell’ombra, ma appena suggeriti da una lama di
luce della pupilla, e due piccoli orecchini fissati alle nari del naso (camuso),
riescono a fornire un’impressionante carattere alla donna,
apparentandola con la selvatica animalità degli antropoidi.
“M’interessa
mettere in evidenza quelle parti del corpo che sanno esprimersi meglio…”,
spiega l’artista. Giochi di ombre e luci commentano e vivacizzano il senso del
lavoro.
Come
nella sequenza in cui sono mostrate
esclusivamente due mani che tengono stretti i corrispettivi piedi. Il corpo è
forse piegato in una difficile posa di ballo? Sembra qui sentirlo vibrare in
fremiti di danza… mentre fasci di luci - filtrati da una scacchiera fuori
campo - ritmano la pelle in curiose geometrie.
Miriam Cristaldi
Il
giovane partenopeo Franco Silvestro (classe ’60) è presente con una personale
alla galleria ARTRA (palazzo Ducale, piazza Matteotti 28, fino al 5 luglio) con
uno stock di 18 immagini fotografiche, iperrealiste, che riprendono il livido
mondo “by night”.
E’,
questo, un paesaggio urbano desolato, notturno, preciso nel dettaglio (di
memoria hopperiana), assolutamente privo di presenza umana.
Vi
si può riscontrare una dimensione di gelida solitudine contemporanea, esente da
qualsiasi sentimento di calore umano o da input vitalistici.
Si
evidenzia così un freddo back-ground metropolitano composto da strade deserte
con macchine parcheggiate o in transito.
Uniche
luci sono quelle soffuse dei lampioni o
quelle sparate dei fari automobilistici: bagliori improvvisi che gettano sfocati
e luminescenti aloni nello spazio circostante, quale unica segnaletica
necessaria per districarsi nella matassa del buio.
Un
interland di periferia, non privo di disinvolte costruzioni industriali
certamente non a misura d’uomo: una sorta di lucida cronaca
e denuncia sociale che Franco Silvestro esprime con crudo realismo, ma
anche come possibile, metaforico scenario in cui, da un momento all’altro,
potrebbe scatenarsi l’azione, l’avvio di un racconto… una scintilla che
potrebbe accendere l’intero contesto.
Il
buio può allora diventare una condizione simbolica capace di simulare il
cammino iniziatico che l’uomo deve compiere per giungere alla luce della
conoscenza.
L’ultimo
quadro è composto dalla proiezione di immagini video in movimento. Proprio in
quest’ultimo flash notturno è visibile il triste degrado e abbrutimento di un
giovane tossico: qui, sull’inquietante set “noir” di una tragedia umana può
nascere il riscatto, la presa di coscienza di una possibile rinascita di un
mondo in ginocchio che spasmodicamente chiede di rizzarsi in piedi.
Per
ri-nascere è necessario morire, così come è per il seme che deve marcire
nella terra per dare frutto…
Il
drammatico blues che accompagna il filmato e di Ry Cooder.
Miriam Cristaldi
Il museo di Villa Croce ha recentemente inaugurato la mostra “La galleria del Deposito: un’esperienza d’avanguardia nella Genova degli anni sessanta” (fino al 15 giugno) - a cura di Sandra Solimano - riguardante appunto quei fertili anni in cui fiorirono nella nostra città numerosi gruppi artistici come “Tempo 3”, “Gruppo Studio”, “Gruppo Tool” e intense attività galleristiche, ricche di fermenti innovativi, come “Il Deposito”, “La Polena”, “La Carabaga”, “La Bertesca”…
Commenta l’operazione un esaustivo catalogo a colori e b.n. con testi di particolare interesse scritti dai protagonisti dell’epoca. In primis, Paolo Minetti, direttore per diversi anni del “Deposito” stesso.
Genova
fu un quel periodo un crocevia di fermenti culturali: qui s’incontrarono e si
confrontarono le ricerche internazionali di arte neo-concreta, cinetica e
programmata avviando un proficuo rapporto tra arte e scienza. Rapporto, oggi,
sempre più stretto in una globalizzante quanto invasiva dimensione mediatica.
Erano
gli anni in cui Eugenio Battisti creò il “Museo Sperimentale d’arte
Contemporanea”, una raccolta di valore a suo tempo offerta (in dono) a Genova
e al contempo rifiutata, e che oggi langue nei depositi della città di Torino.
L’importante
galleria del Deposito, antistante la spiaggia di Boccadasse (in precedenza
deposito di carbone - da qui il nome – e ritornato poi magazzino), aprì i
battenti il 23 settembre del ’63 con il “Gruppo Cooperativo di Boccadasse”
formato da artisti e appassionati d’arte quali Bruno Alfieri, Kurt Blum,
Flavio Costantini, Germano Facetti, Vita Carlo Fedeli, Emanuele Luzzati, Achille
Perilli, Kiki Vices Vinci e per volontà dell’artista genovese Eugenio Carmi,
allora Art Director dell’Italsider.
In
tale contesto nacque una produzione denominata “arte moltiplicata” e
“industriale”.
Questo
in opposizione alle esigenze mercantili basate sull’opera unica - costosa ed
elitaria - per favorire invece opere accessibili a tutti, moltiplicate a livello
industriale attraverso la tecnica serigrafia od oggetti in serie come le
produzioni di foulard.
Gillo
Dorfles, nell’introdurre la prima mostra, spiega come
l’intento dei soci sia quello di “compiere… un lavoro di
aggiornamento nel campo delle arti visuali scegliendo … opere valide come
espressione del nostro tempo”.
In
mostra ci sono pezzi importanti di artisti - oggi famosi - che hanno fatto parte
del Deposito o del gruppo Cooperativo di Boccadasse: un significativo spaccato
d’innovativi percorsi in quel momento storico.
Si
possono così ammirare le ricerche neo-concrete di Max Bill, Lohse, Vasarely per
arrivare a quelle nell’ambito cinetico-visuale di Castellani, Bonalumi e allo
spazialismo di Fontana; dalla pittura astratta (romana) di Perilli e Dorazio si
passa alle espressioni optical di Alviani e Soto. Si evidenziano, tra l’altro,
le sculture di Arnaldo Pomodoro, le ricerche pop di Tilson e del ligure Gaul, le
sculture dipinte di Del Pezzo assieme alle opere dei liguri Carmi, Luzzati,
Costantini.
Nell’osservare
le opere in mostra si constata come gli artisti, in generale, abbiano - già da
quegli anni - formulato un linguaggio specifico che, con poche varianti, è
stato portato avanti fino ad oggi. Con l’effetto di riconoscibilità immediata
e di conferma dell’intrinseca validità.
Ampio
spazio è dedicato anche all’architetto Wachsmann (stimato dal pittore
genovese Rocco Borella) che allora pubblicò un piano urbanistico della nostra
città, tra cui un rinomato progetto per lo spazio del porto antico.
Una
mostra da non perdere.
Miriam Cristaldi
“Sono
interessata al fatto che l’infanzia può esistere soltanto in modo funzionale
perché ne abbiamo solo il ricordo e non potrà mai essere di nuovo reale”
spiega l’artista Georgina Starr, in mostra da Pinksummer (via Lomellini 2,
fino a tutto gennaio) con la videoinstallazione “ Inside Bunny Lake
Garden, tratta dal film Bunny Lake di Otto Preminger.
Un
film, questo che ha fortemente colpito l’attenzione dell’autrice bambina (
di circa dieci anni) per essersi in qualche modo ritrovata nella complessa
vicenda di abbandono e di salvezza vissuta dalla protagonista, attrice-bambina
che la Starr ha recentemente incontrato per cogliere quelle somiglianze e
differenze che oggi uniscono/dividono le due donne nelle due diverse, correlate,
finzioni filmiche.
“Penso
che tutti i miei lavori abbiano un lato sinistro, per quanto gioiosi e colorati
possono sembrare apparentemente” suggerisce la stessa Starr riferendosi in
generale al suo modo di operare
In
realtà, le vicende drammatiche familiari hanno pesato sul vissuto di Georgina
Starr, oggi artista internazionale, già invitata alla penultima Biennale di
Venezia con una sala personale. Tanto da trovare corrispondenze profonde col
cinema, (una passione contaminata dalla madre, appassionata di film anni
‘40-’50) e, manipolando emozioni, ricordi, memorie, l’artista ha potuto
annodare solidissimi intrecci tra finzione filmica e vissuto personale dando
avvio ad un racconto in cui la protagonista esce dall’anonimato per affermarsi
nell’olimpo creativo del mito.
Fenomeno
questo molto frequente nei giovani che - abbandonate le grandi ideologie, l’epicità
eroica - si affidano più spontaneamente ad una sorta di personale mitologia
fondata sul terreno intimo del bagaglio esperienziale del proprio vissuto.
Nel
nome della poesia e di una sorta di narcisistica visione.
Miriam Cristaldi
“Ogni mattina mi guardo allo specchio ed è come se guardassi dalla finestra… ogni sera guardo dalla finestra ed è come se mi guardassi allo specchio…” dice Giacomo Costa, giovane artista fiorentino (’70), “trasformista”, alpinista, motociclista, soccorritore d’ambulanza, ecc., come egli stesso sottolinea in catalogo.
In effetti, per Costa, la natura può riflettersi nell’immagine della cultura, in particolare nelle strombate e ardititissime strutture architettoniche di un paesaggio urbano ricreato e reinventato (virtualmente) al computer: può essere letto allo stesso modo di un volto e perché no, di uno scenario alpino, i cui segni si ribaltano, e si fondono, in una girandola di codici e d’ interpretazioni affabulanti.
Ma una favola tinta di horror.
Sì, perché le rocambolesche immagini, frutto di tecniche digitali ad altissima definizione, si articolano in strabilianti stratificazioni di palazzi urbani, gli uni sovrapposti agli altri, in una proliferante ed inimmaginabile clonazione, allo stesso modo come si ammassano (in verticale) agglomerati di roccia attraverso sedimentazioni granitiche formatesi nell’arco di millenni.
Non per niente, l’artista è un alpinista. Le raccapriccianti visioni da strapiombo - offerte dalla natura quando si è appesi ad una corda fissata alla roccia – sono le stesse generate da queste gigantografie digitali in cui pericolanti strutture architettoniche sembra stiano per precipitarci addosso.
Oppure, al contrario, da una visione dall’alto, ardite strombature prospettiche sembrano risucchiarci nel vuoto, suscitando in chi osserva un disturbo da vertigine non indifferente.
Case, appunto, l’una sull’altra come il meccanismo del gioco “Lego”, reiterate, accoppiate, moltiplicate, curvate, sghembate, addossate, accavallate, fino a quasi riempire l’intera superficie spaziale, ed ancora, lanciate in spericolate fughe prospettiche. In alcuni casi subendo deformazioni da “cubismo” post-tecnologico.
Solo piccole feritoie di cielo o di canali marini permettono infiltrazioni naturalistiche, che peraltro sottolineano la complessità di tali labirintici, ossessivi, inesistenti, habitat umani.
Suggerisce Maurizio Sciaccaluga, curatore della mostra (galleria “Guidi & Schoen”, vico Casana 31 r, fino al 30 ottobre): “… la sovrapposizione della montagna alla città regala all’urbanistica una preoccupante forma geofisica, incontrollabile, difficile da abbracciare e comprendere appieno…”.
Miriam Cristaldi
In
realtà si tratta di immagini digitali ottenute con lo scanner e stampate su
carta come opera finita (suddivise in riquadri) che rappresentano le mani
dell’artista mentre aprono un frutto (fico, albicocca, pesca…), o che
tengono stretta fra le dita una conchiglia tenuta sui registri dei rossoi
visibile dalla parte del taglio.
La
simbologia di queste immagini dai referenti naturalistici, “mosse”
secondo fotogrammi in sequenza propri del mezzo tecnologico – si realizzano in
forme estremamente essenziali ed emergono dal fondo buio per non interferire con
elementi ambientali – richiamano l’idea sacrale della nascita: l’atto di
una possibile venuta al mondo attraverso le vulve aperte del frutto.
Un
arcaico richiamo, questo, di qualità antropologica che allo stesso tempo si
contamina con il linguaggio computerizzato proprio dei “pixell” da video,
offrendo alla visione il senso di una contemporaneità non disgiunta dalla
storia dell’uomo.
E’
questo un caso di opera tecnologica dove il disincanto e lo stacco dal mezzo
permette all’artista di esprimersi liberamente senza subire fastidiosi
condizionamenti. In un felice abbraccio tra cultura e natura.
Strisce orizzontali di carta a vetro, usate e stinte, costituiscono il materiale “povero” con cui Giuliano Tomaino struttura alcuni dei suoi lavori. Poiché l’artista spezzino si rivolge principalmente all’oggetto quotidiano stigmatizzato dall’uso dell’uomo.
Allora, ad esempio, cartoni disfatti, appunti di diario, carte di giornali o di pacchi postali dismessi, assumono la connotazione di materiale “caldo”, ricco di segni, nell’atto di costituire un personalissimo linguaggio non esente da particolari qualità pittoriche connaturate in se stesso. Oggettualità quotidiana dunque, capace di assumere le sembianze di misteriose mappe entro cui prendono avvio magici paesaggi.
A questo stratificato supporto realizzato con la tecnica del collage, sovente si sovrappongono simbologie grafiche e pittoriche che forniscono ulteriori significati.
Significati riscontrabili nella memoria storica dei mitici giullari-cantastorie.
Sì, perché Giuliano Tomaino “canta” al mondo le sue poetiche storie d’amore in cui affollati uccellini e piccoli cavalli a dondolo sembrano far riaffiorare nell’adulto la sua parte infantile, quella più intima e nascosta del “fanciullino” pascoliano.
Infatti, in mezzo al salone espositivo, chiuso in teca di vetro, con tante monetine di rame raccolte ai suoi piedi, si staglia - nitida e scintillante come un’apparizione - la silhouette di un cavallino a dondolo, ricoperta completamente da sferiche biglie di vetro.
Epifania di un gioco infantile che da sempre culla generazioni di persone.
Ma anche si evidenziano, a parete, due grandi forme circolari, affollate da una miriade di uccellini dipinti in rosso: simbolico richiamo alla semplice e sbrigativa forma elementare che i bimbi disegnano a scuola come segni primari e riassuntivi della natura.
Dunque una specie di sfera magica dove i pesciolini rossi sono sostituiti da elementari moduli d’uccello.
Un chiaro invito al sogno ad occhi aperti, pur nella durezza del vivere quotidiano.
Miriam Cristaldi
IVANO SOSSELLA e la DISSIPAZIONE nell’opera.
(Artista che ha lavorato con Claudio all’ex o. p.)
“u.s.v.”
è il titolo della personale che Ivano Sassella (Genova ’63) ha inaugurato
allo “Studio Leonardi V Idea” (piazza Campetto 8, fino al 31 maggio) a cura
di Enrico Pedrini.
Il
giovane artista genovese, ora residente in Germania, nasce ufficialmente
nel 1987 con il gruppo “Arte dissipazione” di cui fanno parte anche
gli artisti Marco Formento, Cesare Viel e Luca Vitone. Un gruppo che si è posto
all’attenzione della città, e in seguito in territorio nazionale (ha fatto
parte a Documenta Kassel del ’92 in coppia con Formento - attraverso un
“Supplemento” a catalogo - e - sempre
come “Supplemento” - ha presenziato, col gruppo, alla 14° biennale di
Venezia), formulando una nuova poetica che affonda le radici nella pratica
concettuale e che si interessa, con un radicale approccio, alle problematiche
della comunicazione intercorrente tra il linguaggio dell’opera e il fruitore.
Il
primo evento pubblico di “Arte e dissipazione” si manifesta con la mostra
“Yuppara, dall’interdisciplinarietà all’interattività” che si è
inaugurata nella struttura
psichiatrica dell’ex ospedale di Quarto (’89). allora lì residente.
L’originalità
dell’operazione sta nell’interazione degli interventi - minimi - di “Arte
e dissipazione” con le opere di Claudio Costa e del paziente Davide Raggio
(oggi scomparsi, allora lì residenti), esposte negli ampi spazi del manicomio e
con l’ambiente stesso, in correlazione con importanti lavori storici.
In
particolare, il lavoro di Sassella si muove
come relazione interattiva, non rettilinea, tra le parti più vive della
storia analitica dell’arte e dello specifico operare artistico che non può
esulare dal contesto ambientale.
In
questa personale, il giovane Sossella propone un’interazione delle funzioni
degli oggetti, capace di produrre un’infinita catena di spaesamenti e di
ri-membramenti.
Ad
esempio, una radio accusa disturbi al proprio suono a causa di un phon acceso
proprio lì accanto, e così via altri oggetti che si eliminano vicendevolmente
le proprie funzioni.
E’,
questo, un agire trasgressivo che vuole sottrarsi alle “scontatezze”
quotidiane che governano il mondo.
Spiega
Pedrini: “Siamo di fronte ad una
perdita di certezze date… pertanto l’opera si rivela nel momento massimo
della sua dispersione”, come agglomerato di azioni e significati in cui il
senso viene assolutamente polverizzato.
In
questo progetto, Sossella coinvolge l’intero spazio galleristico con molti
disegni a parete a tema fisso. Questo per “accumulare una ricchezza
d’intenzione e azione sempre presunta, ma solo ironicamente raggiungibile”.
Miriam Cristaldi
Pubblicato
sul Settimanale della Curia Arcivescovile , maggio 2003
Lucia pescador
Gli
“inventari” di Lucia Pescador
L’opera pittorica di Lucia Pescador (Voghera ’43) - sovente basata sulle tecniche del disegno e acquarello - è visitabile in questi giorni allo “Studio b2” (via S. Luca 1, fino al 10 giugno). Un lavoro, questo, portato avanti da anni con serietà, e professionalità, unito ad una particolarissima sensibilità che è propria dell’universo femminile.
La posta in gioco è il vissuto stesso dell’artista: una ricerca certosina, silenziosa, sacrale di una natura circoscritta in piccoli, fantastici erbari, come testimonianza e memoria di un esistere nascosto, quasi sapienziale, da anteporre al determinismo di un universo tecnologico.
Come i coniugi Poirer negli anni ‘70 hanno costruito magici erbari a testimonianza e ricostruzione di un mondo perduto, Lucia Pescador - con il candore di una neofita - costruisce un possibile “inventario” del millennio trascorso, dipingendo labili, luminescenti tracce di natura, frammenti di terreno, fitti di misteriose tracce naturalistiche, oppure progettando grandi forme di vasi-contenitori come espressione simbolica della totalità (l’ermafrodito), cioè di una perfetta congiunzione tra il maschile (quando si considera il vaso nell’atto di versare) e il femminile (quando invece lo si considera nella funzione del contenere), nell’ideale tentativo di cogliere appieno le forme della personalità dell’essere umano.
“Da queste collezioni inesauste e inesauribili, Lucia Pescador ha costruito la propria speciale forma di memoria, un repertorio o un inventario continuamente accessibile per alcune vie un po’ segrete, una porta stretta aperta soltanto alla sensibilità e alla sim-patia (patire-con)…” scrive di lei Martina Corgnati sottolineando la precarietà e la “fragilità” di un progetto che sa configurare la complessità della vita ai ritmi poetici del procedere fantastico-moralistico della favola. Una favola intelligente.
Il proverbiale rigore pittorico dell’artista milanese, in questi ultimi tempi lascia spazio ad una nuova esuberanza cromatica, quasi uno sfiorare tangenzialmente certe esplosioni transavanguardistiche del passato.
Il colore pare debordare dai limiti in una sorta di “allure”, un campo luminescente auratico che rende mobile e, a volte accecante, la visione stessa. Tutto rigorosamente dipinto con la mano sinistra, pur non essendo mancina. Una violenza che la Pescador fa alla propria natura per rafforzare quella componente (inconscia) di immediatezza e al contempo quella (conscia) di “distanza” che governano continuamente l’intero suo operare.
Miriam Cristaldi