Progetto SKULL BRAIN MUSEUM AFRICA ‘95
Elenco provvisorio artisti occidentali invitati:
Marina Abramovich, Aciugarry, Antonino Bove, Pizzi Cannella, Philip Corner, Anish Capoor, Christo, Jakob De Chirico, Giulio De Mitri, Omar Galliani, Mauro Ghiglione, Gilardi, Emilio Isgrò, Marcello Iori, Wolfang Laib, Richard Long, Mussini, Melioli, Eliseo Mattiacci, Montorsi, Maraniello, Nagasawa, Shirin Neshat, Ontani, Parmiggiani, coniugi Poirier, Fabrizio Plessi, Mimmo Paladino, Vettor Pisani, Mauro Staccioli, Spoerri, Alessandra Tesi, Ben Vautier, Bill Viola, Kentridge (vissuto africa fa video)…
Il progetto “SKULL BRAIN MUSEUM AFRICA ‘95” è un’opera d’arte vera e propria.
Attraverso questo affascinante lavoro a carattere simbolico - composto da 25 pagine dove teoria e interventi pittorici spiegano l’intera operazione - viene proposta da Claudio Costa l’idea utopica di un MUSEO CONCETTUALE da lui stesso definito “…museo delle possibilità e delle memorie, dei linguaggi e degli sconfinamenti, delle situazioni e dei contrasti, delle comunicazioni e delle utopie…”.
Un Museo utopico, questo, che s’innalza gigantesco sulla linea incisiva del profilo cranico dell’Homo Erectus per abbracciare tutta l’area geografica dell’Africa settentrionale corrispondente a tale profilo (come bene è mostrato nei disegni che compongono le pagine del Progetto costiano) per dichiararla - in virtù dello statuto dell’arte - OPERA D’ARTE.
Ecco allora la sconvolgente erezione di un grandioso, e al contempo astratto MUSEO denominato “Skull Brain Museum Africa ‘95” - capace di accogliere al suo interno 34 stati (tutti quelli toccati dal profilo cranico) - che si erge a simbolo dell’UNIFICAZIONE di questi territori, in quanto tutti accolti sotto la sua stessa “ala”, ma in realtà divisi e martoriati da sanguinose guerre etniche ed egemoniche.
Allora, una grande mappa, questa, capace di riconoscere le differenze (linguistiche, religiose, etniche, politiche) di 34 stati africani unificati dal lavoro di singoli artisti africani ad essi originari e, allo stesso tempo, un’operazione capace di operare una potente saldatura tra Africa e Occidente (con la presenza allargata a numerosi artisti occidentali) attraverso un proficuo e fitto scambio di lavoro, esperienze, conoscenze e amicizie per potere sconfinare in un illimitato, fraterno e vigoroso abbraccio tra artisti di origini diverse uniti e corroborati dallo stesso sangue dell’Artisticità.
Nasce quindi la necessità di esporre le opere di artisti africani, unitamente a quelle di artisti Occidentali, nelle sale di un qualsiasi reale museo africano (appartenente ad uno dei 34 stati) che per l’occasione - e secondo l’operazione concettuale di Claudio Costa – assuma la denominazione di “Skull Brain Museum Africa ‘95” attraverso cui non solo avverrà l’auspicata fusione tra Occidente e Africa, ma si avrà modo di sottolineare il territorio dell’Africa settentrionale come eccezionale, unica, irripetibile, grandiosa “opera d’arte”.
Miriam Cristaldi
Miriam Cristaldi
Ogni sabato del mese di luglio, alle ore 17, nell’ambito della mostra “Marcel Duchamp, una collezione italiana” in visione al museo di arte contemporanea di Villa Croce, prende corpo l’installazione mediatica “Rotorilievi”, frutto di un lavoro a più mani tra il poeta genovese Edoardo Sanguineti e i componenti del “Magazzino Sanguineti” con un primo nucleo di opere, a cui si aggiunge il contributo tecnico di Matteo Ricchetti di Eidomedia.
Di fatto, qui avviene una felice trasformazione: il Magazzino Sanguineti da mostra temporanea a Palazzo Ducale (nel maggio-giugno del 2004) si converte in Laboratorio permanente attraverso la vivace decisione di uno specifico comitato.
Questa performance che si ripete ogni sabato, ma che vede interventi di fruitori sempre diversi, si realizza attraverso delicati interventi tecnici e con risultati di carattere mediatico-digitale dove la presenza “virtuale” del poeta (materializzata attraverso la sua immagine filmica) si sposa con quella occasionale, ma “reale”, degli osservatori che qui diventano attori perché integrati nella performance.
In questo modo: alcuni visitatori si siedono su di un divano su cui è puntato un teleobiettivo che riprende i movimenti degli stessi (quando si siedono, si alzano o parlano) e allo stesso tempo un complesso macchinario registra le immagini virtuali del poeta (anch’egli seduto sul divano) per accoppiarle a quelle degli attori-visitatori seduti “realmente” su tale divano. Alla fine tutto viene riportato su di un foglio - oggetto reale - attraverso l’operatività di una stampatriice che mostra le immagini degli attori “apparentemente” in appassionato dialogo con Sanguineti.
Questa performance è preceduta da una parte audio con suoni e frasi pronunciate dallo stesso Marcel Duchamp, a cui è dedicata l’intera mostra del museo, e da una seconda componente video che mostra il grande artista francese - l’iniziatore dell’arte contemporanea che ha dato il via a tutti i linguaggi espressevi dell’attualità - in cui egli parla e spiega alcuni passi della sua poetica.
Una mostra, questa curata da Arturo Schwarz, non particolarmente ricca di pezzi ma sicuramente esaustiva nel contenuto concentrato.
Il
giovane partenopeo Franco Silvestro (classe ’60) è presente con una personale
alla galleria ARTRA (palazzo Ducale, piazza Matteotti 28, fino al 5 luglio) con
uno stock di 18 immagini fotografiche, iperrealiste, che riprendono il livido
mondo “by night”.
E’,
questo, un paesaggio urbano desolato, notturno, preciso nel dettaglio (di
memoria hopperiana), assolutamente privo di presenza umana.
Vi
si può riscontrare una dimensione di gelida solitudine contemporanea, esente da
qualsiasi sentimento di calore umano o da input vitalistici.
Si
evidenzia così un freddo back-ground metropolitano composto da strade deserte
con macchine parcheggiate o in transito.
Uniche
luci sono quelle soffuse dei lampioni o
quelle sparate dei fari automobilistici: bagliori improvvisi che gettano sfocati
e luminescenti aloni nello spazio circostante, quale unica segnaletica
necessaria per districarsi nella matassa del buio.
Un
interland di periferia, non privo di disinvolte costruzioni industriali
certamente non a misura d’uomo: una sorta di lucida cronaca
e denuncia sociale che Franco Silvestro esprime con crudo realismo, ma
anche come possibile, metaforico scenario in cui, da un momento all’altro,
potrebbe scatenarsi l’azione, l’avvio di un racconto… una scintilla che
potrebbe accendere l’intero contesto.
Il
buio può allora diventare una condizione simbolica capace di simulare il
cammino iniziatico che l’uomo deve compiere per giungere alla luce della
conoscenza.
L’ultimo
quadro è composto dalla proiezione di immagini video in movimento. Proprio in
quest’ultimo flash notturno è visibile il triste degrado e abbrutimento di un
giovane tossico: qui, sull’inquietante set “noir” di una tragedia umana può
nascere il riscatto, la presa di coscienza di una possibile rinascita di un
mondo in ginocchio che spasmodicamente chiede di rizzarsi in piedi.
Per
ri-nascere è necessario morire, così come è per il seme che deve marcire
nella terra per dare frutto…
Il
drammatico blues che accompagna il filmato e di Ry Cooder.
Miriam Cristaldi
“Confrontarsi con gli artisti del passato è sempre difficile… per me è stato un grande arricchimento e la conferma di quello che penso da sempre: nell’arte come nella vita c’è sempre da imparare, da fare nuove esperienze…”, spiega il noto pittore genovese Raimondo Sirotti, direttore dell’accademia Ligustica, reduce dalle “nozze d’oro” con l’arte mediante la mostra dello scorso anno a Palazzo Ducale, ed ora in esposizione con una particolarissima mostra alla GAM di villa Saluzzo a Nervi (via Capolungo 3, fino al 18 febbraio, tel. 010 5574739, dal martedì alla domenica dalle 10 alle 19).
Si tratta di un privilegiato incontro dell’artista con otto famosi pittori del passato attraverso la delicata interpretazione di un loro dipinto. Più precisamente: Nicolò Barbino con “Dante incontra Matelda” (precedente al 1876); Alfredo Andrade con “Motivo sulla Bormida”, 1865; Ernesto Rayper con “I pittori”, 1865; Serafin Avendano con “Riviera di Genova, 1881; Eugenio Olivari con “I bagni al Lido di Albaro”, 1915; Plinio Nomellini con “La fiera a Pietrasanta”, 1913; Rubaldo Morello con “Piante grasse”, 1920 ; Antonio Discovolo con “Il castagno”, 1920.
Operazione, questa, sovente realizzata da artisti contemporanei, di solito catalogata come omaggio a… Ma in questo caso, Sirotti ha scelto non una, ma otto personalità dell’800 e dei primi del secolo scorso, tutti regolarmente facenti parte del patrimonio artistico della GAM e qui in esposizione permanente. Dunque un rapporto molto vivo nello stesso spazio espositivo, dove le sue otto tele felicemente dialogano con quelle otto del passato. Accanto ai titoli delle opere che Sirotti ha mantenuto identico a quelle storiche, egli ha esposto anche sue brevi riflessioni in merito all’operazione. Naturalmente la sintetica, armonica e luminosa pittura informale di Raimondo Sirotti qui si “piega” magnificamente a certe tonalità dei dipinti storici, subendone il fascino e le brumosità atmosferiche ma allo stesso tempo accordando i suoni dell “orchestra” sulle note del proprio raffinato pensiero.
Miriam Cristaldi
“Nuove razze in probabile via d'estinzione: il destino di questi cani (pit-bull) è sospeso... per questo ho desiderato ritrarli...”, spiega la pittrice genovese Renata Soro che, alla galleria Rotta -Farinelli (via xx Settembre , fino ai primi di febbraio), presenta grandi dipinti raffiguranti appunto questi terribili animali creati dall'uomo attraverso manipolazioni genetiche, da usare specialmente per sanguinosi combattimenti e che le cronache cittadine sovente registrano in occasioni di brutali attacchi all'uomo.
In effetti pare che per questa razza (e alcune altre simili) sia - in un prossimo futuro - vietata la riproduzione e Renata Soro, attraverso fascinose gigantografie, sembra fissare per i posteri, a futura memoria, tali animali che volenti o nolenti sono frutto manipolato di questa aggressiva, violenta, insicura e complessa società.
Ma i musi, i corpi, le pose dei cani ritratti, pur aggressivi e deformati da certe libertà pittoriche e da costituzioni fisiognomiche, non risultano alla parvenza particolarmente feroci, anzi, il modellato morbido, i toni abbassati dei grigi e delle ocre, le accensioni luministiche che sciolgono le asperità, tutto ciò concorre a creare delicate e quasi soffici, attutite, atmosfere.
Viceversa, le poche presenze umane (donne, bambini) si caricano di drammatiche asprezze, di improvvise violenze che fanno quasi dubitare della natura umana. Le mani di alcuni personaggi sono pià vicine alle adunche prese degli artigli e i visi sembrano allungarsi per evocare, molto lontanamente, certe espressioni animalesche. Scrive in catalogo Barbara Lanati: “ ... una mano le cui dita si piegano appena, così da ricordarci una zampa, una zampa di cane che si rigonfia, sfuma così da far pensare a quella di un cucciolo di leone.... mani lupesche, venate, sottili che si appoggiano a un corpo femminile...”.
Sembra qui che l'autrice (particolarmente brava ed acuta anche nel presentare una serie di ritratti fatti ai suoi allievi) voglia lanciare un grido di allarme riguardante l'uso della manipolazione genetica e presagire certi inquietanti pericoli cui l'umanità, di questo passo, potrebbe andare incontro.
Una mostra da vedere.
Percorsi del pensiero, poiesis ludiche
Con la mostra “Capire il labirinto”, a cura di Dalmazio Ambrosioni (centro Culturale Satura, piazza Stella 1), Pippo Spinoccia – già insegnante di scenografia all’accademia di Brera, Milano – tenta di mettere ordine, di guardare dentro di sé all’interno di complessi, affastellati percorsi del pensiero, come attraverso un difficile percorso subliminale, per scandagliare in profondità il terreno delle proprie aspirazioni. Aspirazioni commiste agli entusiasmi, ai progetti, ai racconti raccontati, alle storie immaginifiche costituenti quel poderoso bagaglio da cui prende avvio il suo lavoro. Un lavoro che si esplica nel linguaggio della pittura ma che si allarga all’ambientazione per mezzo di composizioni a carattere installativo.
I suoi dipinti, di fatto, non si accontentano del supporto, ma vivono lo spazio, lo abitano attraverso impianti scenografici simulanti spazialità teatrali di forte impatto visivo.
E allora grandi quadri, accostati come quinte teatrali, si alternano a stendardi, pedane, bandiere, leggii, libri, secondo prassi illustrative capaci di dispiegarne (con echi e rimandi) i significati intrinseci degli aspetti letterari, storici, filosofici cui attingono, per tramutarli in poiesis ludiche o caustiche liriche.
Per giungere a questi risultati Pippo Spinoccia si avvale di un “ raffreddamento” attraverso il classicismo delle ritualità teatrali che scardinano le componenti drammatiche dell’opera per defluire in festosi, eccitati aspetti pittorici che echeggiano frizzanti negli spazi espositivi.
Ma attenzione: là dove la geometria salta e la perfezione diventa imperfezione, l’artista crea punti nodali, maglie di una rete invisibile atta ad “evidenziare quanto di necessario è nascosto nel buio e a far nascere ciò che ancora non è, ma che sarà…”.
Miriam Cristaldi.
SULLA LINEA DEGLI OCCHI di Andrea Stagni
Un sottile filo rosso fa da laieson tra otto fotografie stampa lamda.
Ciascuna è esposta in fila orizzontale, l’una accanto all’altra, quasi a formare un’unica, lunghissima, immagine-scope.
Queste riproduzioni fotografiche, scattate dall’artista Andrea Stagni (Milano ’69) alla guida della propria automobile, si avvalgono di raffinate tecniche computerizzate che trasformano il dato reale in pattern visivo spettacolarmente ossessivo.
Infatti le inquadrature delle panoramiche d’autostrade, che gli interventi al computer (tecniche di solarizzazione, virate di colore in verde oliva, punti di vista prospettici, ecc.) trasformano in immagini concettuali, si ripetono ossessivamente così da coniugare gli elastici ritmi dell’onnipresente “filo rosso” con le strisce della segnaletica stradale accanto ai motivi prospettici dettati dai punti di fuga.
E ancora, due grandi e luminosi light-box, appesi a parete, mostrano acuti profili di paesaggi i cui contorni sono sottolineati da un luminosissimo contorno a “filo bianco”.
Il leit-motiv della personale “Sulla linea degli occhi” di Andrea Stagni (esposizione alla galleria Art in Progress, via Caffaro 20r, fino al 20 aprile) è appunto questo filo luminoso che percorre le immagini fornendo una complessità di sensi aggiunti.
Inoltre, prende anche corpo l’idea di un immaginario involucro che protegge il piccolo mondo interiore da cui possono diffondersi percezioni iconografiche cariche di misteriose e affascinanti “allure”.
Quasi il voler assaporare il gusto di mettere in scena un sogno (un incubo?), anche solamente riflesso negli occhi di chi guarda e, come dice l’autore: “Occhio puntato-affilato in natura, spigoli sulla linea degli occhi impennano incroci di valli… miserie apparenti dove costruiscono mondi possibili con cadenze, in simulacri di linee di orizzonte rosso”…
Miriam Cristaldi
Augusta
Stevano Quando il corpo si fa parola
“Le
emozioni della vita in fondo non sono che passi… io considero il mio corpo
come uno strumento di scoperta… Bisogna arrivare, ogni volta, a stupirsi, a
scoprirsi…”, spiegava di sé la grande danzatrice Silvie Guillem.
Augusta
Stevano non è ballerina ma, oltre che artista-fotografa, è stata, a suo tempo,
anche valida estetista.
Le esigenze
del suo lavoro l’hanno sovente condotta a stretto contatto col corpo
femminile.
Un corpo da
modellare, da abbellire, da addolcire laddove è spigoloso, da evidenziare laddove è sfuggente, da far “ri-suonare”
nella qualità di specialissimo strumento musicale… nell’estrema attenzione
e amorosa vigilanza verso qualcosa che vive, respira, vede, parla, si muove e
subisce variazioni nel tempo.
E il suo
sguardo vigile, premuroso, attento alle anomalie e imperfezioni, si è fatto
indagatore, acuto e sensibile strumento di analisi.
L’obiettivo
della macchina fotografica ha ulteriormente premuto l’acceleratore su
quest’aspetto esploratore-investigativo che ha permesso all’artista
di trasformare il lavoro in arte.
Ciò che
contraddistingue la vera opera d’arte, afferma Rainer Maria Rilke, “è la
sua infinita solitudine”, quel senso di unicità che la rende
ineguagliabile, ma che allo stesso tempo può acquisire
un’infinita variazione di significati componibili nella mente dello
spettatore, ovvero: “colui che nel guardare il quadro compone l’altra metà”
precisa Paul Klee.
E del corpo
femminile, Augusta Stevano ne è superba interprete.
O meglio, più
che del corpo si dovrebbe parlare di frammenti corporali poiché
l’autrice sa cogliere - con sguardo penetrante - un particolare, uno squarcio,
un brano della figura umana per trasformarlo in occasione di racconto, una sorta
di microstoria che si fa metafora del vissuto.
Frammenti
corporali, dunque, densi di informazioni, impressi sulla carta allo stesso modo
come un’esperienza vissuta può fissarsi nella memoria.
In ogni
immagine, infatti, appare un’ampia concentrazione di significati. Ogni scatto
genera innesti visivi dalle molteplici accezioni, dalle infinite possibilità
espressive, capaci di sollecitare la scena artistica le cui origini affondano
nella stessa natura umana.
E allora
corpo come possibilità ultima con cui l’uomo può confrontarsi, un sistema
d’informazione solipsistico che in questo caso sa rivolgersi alla socialità.
Certamente in opposizione alla concezione mondana di “…basse couture,
con i suoi bad boys, che riducono i corpi delle top model a
simulacri degradanti…. o arte per l’arte del piercing, del tatuaggio,
dei riti sacrificali…” (Paul Virilio in “L’incidente del futuro”, ed.
Raffaello Cortina, Milano 2002).
Se “l’ego
mistico della mutazione interiore e l’ego tecnoscientifico della mutazione
dell’universo si confondono in un desiderio
di annientamento della vita sensoriale… della nostra coscienza del
mondo in quanto tale” (Paul Virilio), in Augusta Stevano l’aspetto
sensoriale conduce invece alla conoscenza di un misterioso linguaggio, intimo,
fugace, che si fa comunicazione con l’alterità.
Un alfabeto
fatto parola.
Gli scatti
della “Yashica” (preziosa macchina fotografica usata dell’autrice) sanno
“parlare”.
Allora, la
morbidità di una mano, il profilo di un piede, la trasparenza di un occhio, la
curva di un’anca, la silhouette di una spalla, si fanno segnali attenzionali
di carattere subliminale. Nascondono cioè alla coscienza quelle emozioni che
l’inconscio percepisce e che perciò sa attrarre mediante un complesso gioco
di rimandi e ammiccamenti - vissuti sulla “pelle” - in attesa che qualcosa
succeda.
E’ ad
esempio paradigmatica l’immagine di un decrepito volto d’anziana indios,
inciso da una fittissima rete di rughe, capaci di evocare i segni topologici
di una cartina geografica.
Inoltre, gli
occhi infossati nell’ombra, ma appena suggeriti da una lama di luce della
pupilla, e due piccoli orecchini fissati alle nari del naso (camuso), riescono a
fornire un’impressionante carattere alla donna,
apparentandola con la selvatica animalità degli antropoidi.
E ancora –
in un altro fotogramma - un braccio nudo, in caduta appiombo, sottolinea la
forma aggettante di un fianco (fasciato da una fitta plissettatura di candida
stoffa), evidenziando così un sottilissimo effetto erotico
simile a un brivido che corre lungo la schiena.
“M’interessa
mettere in evidenza quelle parti del corpo che sanno esprimersi meglio…”,
spiega l’artista. Giochi di ombre e luci commentano e vivacizzano il senso del
lavoro.
Come nella
sequenza in cui sono mostrate
esclusivamente due mani che tengono stretti i corrispettivi piedi. Il corpo è
forse piegato in una difficile posa di ballo? Sembra qui sentirlo vibrare in
fremiti di danza… mentre fasci di luci - filtrati da una scacchiera fuori
campo - ritmano la pelle in curiose geometrie.
Altra
immagine suscitatrice di fantasticherie, tra le altre, è quella in cui un volto
si nega per evidenziare un giovanissimo collo a cui è appesa una catenina con
infilata una piccola stella d’argento.
Solo qualche
ricciolo di capelli, mossi dal vento, riescono a suggerire il fresco viso del
soggetto: una probabile fanciulla che corre alla vita nella purezza della sua
acerba età.
Miriam Cristaldi
Stevano
Se
“L’ego mistico della mutazione interiore e l’ego tecnoscientifico della
mutazione dell’universo si confondono in un desiderio di annientamento della
vita sensoriale… (Paul Virilio), in Augusta Stevano, artista fotografa (centro
culturale Satura, piazza Stella 1, fino al 2 maggio), l’aspetto sensoriale
conduce invece alla conoscenza di un misterioso linguaggio, intimo, fugace -
quello della fotografia - che si fa comunicazione con l’alterità.
Un
alfabeto fatto parola.
Gli
scatti della “Yashica” (preziosa macchina fotografica usata dell’autrice)
sanno “parlare”.
Allora,
la morbidità di una mano, il profilo di un piede, la trasparenza di un occhio,
la curva di un’anca, la silhouette di una spalla, si fanno segnali
attenzionali di carattere subliminale. Nascondono cioè alla coscienza quelle
emozioni che l’inconscio percepisce e che perciò sa attrarre mediante un
complesso gioco di rimandi e ammiccamenti - vissuti sulla “pelle” - in
attesa che qualcosa succeda.
E’
ad esempio paradigmatica l’immagine di un decrepito volto d’anziana indios,
inciso da una fittissima rete di rughe, capaci di evocare le grumosità topologiche
di una cartina geografica.
E
ancora, gli occhi infossati nell’ombra, ma appena suggeriti da una lama di
luce della pupilla, e due piccoli orecchini fissati alle nari del naso (camuso),
riescono a fornire un’impressionante carattere alla donna,
apparentandola con la selvatica animalità degli antropoidi.
“M’interessa
mettere in evidenza quelle parti del corpo che sanno esprimersi meglio…”,
spiega l’artista. Giochi di ombre e luci commentano e vivacizzano il senso del
lavoro.
Come
nella sequenza
in cui sono mostrate esclusivamente due mani che tengono stretti i
corrispettivi piedi. Il corpo è forse piegato in una difficile posa di ballo?
Sembra qui sentirlo vibrare in fremiti di danza… mentre fasci di luci -
filtrati da una scacchiera fuori campo - ritmano la pelle in curiose geometrie.
Miriam Cristaldi