Alfonso Gaeta

Galegati

Giuliano Galletta

Galleria Guidi

galleria ghiglione

Galleria Ghiglione 2

Galleria IL DEPOSITO

galleria Pinksummer

galleria Pinta 

Galliani

Pinot Gallizio

GALLO

Franco Garelli

Alfonso M.Gialdini

Giannakopulos

Giappone

Piero Gilardi  

Mauro Ghiglione

MAURO GHIGLIONE2

Grande

Stefano Grondona

Guidi e Schoen: Andrea Chiesi

 

 

 

Alfonso Gaeta (L’albero della vita)

La materia “viva” del legno ha sempre interessato e affascinato gli artisti.

Quale inconfondibile simbolo della vita dinamica e del femminile (albero come ventre della Grande Madre), il legno - con le sue venature, la sua morbidità tattile e il “calore” della sua anima - riesce a creare affetti di tenera carnalità.

Una sorta di carne vegetale che sprigiona delicate sensazioni epidermiche, suscitando in chi osserva emozioni  ancestrali legate al contesto antropologico.

Dalla storia dei tempi ad oggi, infinite sono le produzioni artistiche che si sono avvalse di questa materia fibrosa: dai totem africani alle effigi etrusche, dagli scranni delle chiese alle statue votive , dalle sculture cinquecentesche alle sagome degli artisti contemporanei.

In primis il romano Mario Ceroli che con le sue notorie silhouette in legno ha creato un inconfondibile linguaggio “povero”.

Anche il levantino  Alfonso Gaeta, personalità schiva e difficilmente inquadrabile in codici linguistici - lontanamente accostabile ad esperienze di suggestione informale - punta tutto su questo materiale; in particolare insistendo sull’ essenzialità e naturalezza del risultato estetico.

Minore (anzi nullo) è l’intervento manuale, maggiore è l’effetto di rustica naturalezza. Evitando perciò qualunque azione dello scalpello ed affidandosi esclusivamente al taglio della sega elettrica con cui ridurre il legno in sottili e lunghi listelli o in grandi forme sferiche.

Per poi incollare i frammenti lignei l’uno sull’altro e dare avvio a sculture personalissime.

Ovviamente seguendo i ritmi delle nervature, delle strozzature dei nodi, rispettando l’ ordine delle cromie (dalle più chiare alle più scure) – attraverso un complesso gioco di simmetrie e di combinazioni a carattere speculare.

L’artista riesce così a sagomare strutture fortemente immaginative, ricche di tracce e rimandi, capaci di suggerire significati che vanno oltre il semplice dato oggettivo.

Questo, proprio in virtù dei segni naturali come le striature, la concentricità delle forme anellari, i tagli, le falle, o di quelli artificiali: ad esempio gli effetti caleidoscopici dovuti a ricercate specularità, rese attraverso difficili e misuratissimi accostamenti delle sezioni lignee.

Allora una voluminosa sfera d’ulivo (o castagno), trafitta da fori naturali o da profonde cavità connaturate al legno, può apparire come un possibile mappamondo, una specie di libera geografia attraversata dal flusso delle nervature lignee.

Nervature simili a filamenti ondosi che assumono il sembiante di probabili reti fluviali,  fantastici “paralleli” o articolate dune sabbiose.

Ma potrebbe anche suggerire la pericolosa idea  di un ordigno atomico pronto a esplodere (Giò Pomodoro insegna). Questo in adesione alla crudezza del panorama contemporaneo.

Allo stesso tempo prendono corpo forme totemiche (in eucalipto, ulivo o paduk africano) che s’innalzano sinuose seguendo ritmi spiraliformi, in successione dinamica, simulando l’andamento rotatorio a lisca di pesce.

Oppure si slanciano in verticale (od orizzontale) a guisa di steli frontali, entro cui zone centrali impallidiscono visibilmente: naturali effetti di chiaroscuro dovuti al succedersi di differenti zone anellari (ossatura che denuncia il tempo).

E ancora, una grossa radice, tagliata e ricomposta, può proporsi come corpo vivente in esposizione su lastra di cristallo. Alla percezione visiva l’oggetto si carica di significati inesauribili…

Così come per l’Albero della vita: una fantasiosa e inusuale struttura ottenuta con sezioni d’albero d’ulivo. Frammenti di legno ricurvo e nodoso vengono accostati magistralmente in modo da ottenere effetti speculari e allo stesso tempo di profilare  il caratteristico perimetro arcuato a chioma d’albero.

Le sfilacciature della materia stessa  contribuiscono a indicare quegli effetti nocchiosi  tipici del tronco.

E allora una linfa energetica sembra scorrere impetuosa nelle vene del legno mentre un filo di brillante smalto pare assumere l’effetto  di rugiada splendente.

Natura e cultura si tendono la mano.

Dice Claudio Costa: “Il mio lavoro è difficile, antiestetico, a volte brutale. E’ impensabile che possa entrare nelle raffinate strategie di mercato… ma io continuo, continuo a muovermi nella ricerca, quando scopro qualche verità  non mi fermo, cerco ancora…”.

Anche Alfonso Gaeta è una personalità in cammino.

 

                                     

                                               Miriam Cristaldi

 

Genova 22 marzo 2002

 

 

 

Giuliano Galletta

 

 

Quasi una biografia “antibiografica” appare l’esposizione del giornalista ed artista Giuliano Galletta con la sua “Camera melodrammatica” (citazione della “camera” di De Pisis) allestita presso la galleria “Martini & Ronchetti (Via Roma 9 fino al 5 dicembre).

Un’evocazione, questa, del proprio vissuto confusa e mescolata al complesso gioco del doppio intriso di citazioni (Céline, Sanguineti, Praz, Beckett …) e di rimandi ad esperienze avanguardistiche attraverso fotografie, oggettualità disseminate nelle stanze e resti della performance inaugurale. Una sorta di affabulata wunderkammer della mente dove la simbologia del “blocco” di una sedia a rotelle si contamina con l’accelerazione movimentata di immagini filmiche proiettate a parete (un perfetto ballo di Fred Aster) mentre un impassibile autoritratto (quasi estraneo alla realtà) di Giuliano Galletta interagisce con la poltrona coperta da un bianco lenzuolo ospedaliero su cui, il giorno dell’inaugurazione, stava seduta una modella con la flebo nel braccio invitando i visitatori (molti) a ripetere il suo gesto. Metafora, forse, di una società malata in cerca di salvezza.

                                                            Miriam Cristaldi

GIUSEPPE GALLO

Sovente il nome di Giuseppe Gallo, negli anni '80 - '90, è stato accomunato a una generazione di artisti come Domenico Bianchi, Pizzi Cannella, Bruno Ceccobelli, Gianni Dessì, Nunzio o Marco Tirelli che in qualche modo hanno portato avanti un percorso simile, di lunga durata, avendo in comune diverse cose, oltre l'amicizia e l'essere romano.
Hanno infatti frequentato la stessa accademia, hanno stabilito il loro studio nel vecchio ex pastificio "Cerere", del quartiere di S. Lorenzo a Roma, e sono tutti ascrivibili alla tradizione pittorica e scultorea dopo aver superato i limiti di una stagione concettuale e il fiume in piena della Transavanguardia per decidere infine di essere artisti in assoluta libertà d'intenti soprattutto, togliendosi lo sfizio di fare arte come normalissima “quotidianità". “Un linguaggio, il loro - ha specificato Bonito Oliva - che non ammette sbavature o improvvisazionni, ma che richiede semmai un progetto dolce: la possibilità di far convivere insieme gesto creativo e rigore esecutivo".
E Giuseppe Gallo lo fa recuperando il concetto di “mestiere" attraverso la giornaliera e costante applicazione lavorativa, senza cercare il nuovo o fissare l'attenzione su di un cammino di ricerca. Ricordo l'emblematico titolo di un suo quadro che recita "Quattro marzo 1996, non ho voglia di dipingere". Una chiarissima denuncia di poetica.
Il disegno, per l'artista, a carattere empirico e manuale, ha importanza non trascurabile perché si pone come mezzo per esprimere, con pazienza certosina, quel metodo operativo cui tende tutto il suo lavoro riuscendo così a comporre quella variabile, complessa, duttilità dell'immaginario capace di strutturare un nutrito corpus (omogeneo per dimensione) quale “elemento modulare variamente ricomponibile" nell'economia del suo fare artistico.
La pittura (ad olio) dell'artista riguarda soprattutto la creazione di pregnanti atmosfere e si basa su campi energetici di forza entro i quali trovano spazio isolate figurazioni risolte con ricchezza di linguaggi oscillanti tra ombrose figurazioni, fascinose astrazioni o, ancora, eclatanti decorazioni in cui si alternano elementi criptici, accenni cromatici, pigmenti sedimentati, sintesi formali o, al contrario, forme aperte non ancora risolte. Curiosi frammenti o isolate figure di cavalli, tori, galli, conigli dialogano con profili umani, mani, triangoli, cerchi imperfetti. per creare elastici ed ironici giochi sulle vaste superfici del supporto (a volte composto da più pannelli) ove la pittura si fa acrobazia, in alcuni casi puro divertimento, altre volte ancora campo ad alta tensione che necessita di uno sgombro improvviso, di una possibile uscita di sicurezza che raffreddi l'alta temperatura.
Il colore tende a tensioni tra forze equivalenti: sovente si creano atmosfere giocate sulle gradazioni delle terre (ricorrenti nelle tavolozze di questi pittori romani) o elaborate attraverso l'uso dei complementari che sanno creare armoniche sonorità ed equilibrate euritmie disseminate nelle campiture cromatiche per strutturare una pittura che rifletta se stessa mimando, confusamente, le parvenze del mondo attuale o quello antico della classicità.
Nel corso di un'intervista, l'artista ha avuto occasione di affermare. “Io sento di cavalcare un cavallo senza briglie. Un cavallo di razza, che poi è l'arte. E senza nemmeno puntare ad un orizzonte preciso, perché so che l'arte non ha né fine né un presente oggettivo. Quello che io vorrei togliere è proprio questa oggettività spaventosa che può essere ora la citazione, ora l'ironia, ora il cinismo".
Come dice Klee: “pertinente all'artista non è la fantasia, ma la realtà spirituale capace di predisporre e penetrare nel mondo intermedio per proiettarlo verso l'esterno in forme equivalenti". Parole che bene si adattano a Giuseppe Gallo. In tutto il suo operare.

 

 


 

galleria ghiglione

“L'essenza non ha mai la possibilità di resuscitare, mentre l'esistenza ha sempre la possibilità di una seconda esistenza” scrive il filosofo francese Jean Baudrillard pensando ad una forma innata di dissociazione dalla stessa volontà umana. In questo senso, Alessio Delfino, artista savonese in mostra alla galleria d'arte “Ghiglione” (piazza S. Matteo 68r,fino al 31 dicembre), a cura di Salvatore Galliani, sembra descrivere attraverso scatti fotografici - rigorosamente in bianco e nero - un'esistenza difficile, sommessa, ai margini della società in stridente contrasto con i trionfi della tecnologia avanzata che alimenta il vivere contemporaneo. Una sorta di schisi dove l'apparire di un ambiente spettrale, disadorno, fatiscente si contamina con iconografie femminili o maschili colte nella loro sfolgorante bellezza o in pose magiche fortemente complessizzate. Quasi un mostrare - come l'attraversamento di Alice nello specchio dell'anima - una visione beatifica che illumina il buio disadorno del vivere.

Come nella grande opera “Travaux en cours” (stampa fotografica lambda su plexiglass e alluminio) dove un esultante corpo femminile giganteggia al centro, appeso ad una parete nuda (forse blocchi di cemento armato) secondo la tradizione iconografica della crocifissione. Un fascio di luce bianca esalta la crudezza della parete di fondo mentre il buio del pavimento e l'ombra che accarezza il corpo patinato attutiscono le forme restituendole a delicatezze tonali. Ma anche con l'opera “Des femmes” la bellezza del corpo femminile allo specchio (figure nere su fondo bianco) si contamina con la deformazione del riflesso così che la struttura corporea evoca certe silhouette filiformi specifiche del ragno. Grazie a “una ipotesi di simulazione del simulacro universale” (Jean Baudrillard) del mondo.

 

Miriam Cristaldi

 

 

Alessio Delfino, artista fotografo savonese, è in mostra allo Studio Ghiglione (piazza S: Matteo 68r, fino al 31 dicembre) con suggestive e rigorose gigantografie e foto di piccolo formato, tutte in bianco e nero (a cura di Salvatore Galliani), realizzate attraverso intriganti tecniche in stampa lambda su plexiglass e alluminio.

Un lavoro, questo, che investe interamente l'uomo e il suo habitat giocando sulla dicotomia tra sfolgoranti effetti patinati del corpo (sovente femminile) in stridente contrasto con l'ambiente spettrale, disadorno, fatiscente che lo circonda.

Quasi a sottolineare gli eclatanti sviluppi della tecnologia digitale che alimentano la contemporaneità e allo stesso tempo un mostrare il buio, l'isolamento, la complessità di un vivere ai margini di una società in via di grandi trasformazioni.

Gli scatti fotografici mettono qui a fuoco il disagio e la fatica del vivere, percepiti attraverso folti addensamenti d'ombra e asprezze spaziali, accentuate dalla ruvidità dei blocchi in cemento armato del fondo e da detriti sparsi in terreni disadorni.

Con “Travaux en cours” (lavori in corso) si assiste all'immagine - seminascosta dall'ombra - di un aitante lavoratore, probabilmente sfinito, che giace abbandonato su di un ponteggio che dalla finestra penetra sul pavimento di una stanza afosa (lo indica la presenza sulla sinistra di un ventilatore), disadorna e colma di detriti dove la bellezza del corpo stride con la realtà circostante.

E ancora, su fondo luminoso di un'altra foto, si stagliano le fattezze nerastre di un corpo femminile piegato sul pavimento entro cui vi si riflette con particolari effetti scenografici che lo avvicinano alla morfologia di un ragno dalle lunghe zampe nere. La bellezza può qui trasformarsi in mostro.

Particolarmente felice l'immagine - orizzontale e fortemente ingrandita - in cui appaiono solamente due occhi giovanili che ti guardano ridenti: ciò lo si può capire dallo scintillare di una luce dilagante nelle pupille e dal raggrumarsi di folte rughette attorno ad essi come se il mondo fosse annullato per esserci solamente con uno sguardo che guarda al futuro e ride al passato. O viceversa?

 

Miriam Cristaldi

 

9, 12, 2004

 

Galleria Guidi

Con “Crossing” (Galleria Guidi & Schoen, vico Casana 31r, fino al 7 gennaio, tel. 010 2530557) il giovane artista genovese Corrado Zeni (’67) mette in scena una pittura alimentata da convincenti  e affabulanti immaginari visivi a carattere metropolitano. Lo specifico dell’arte si nutre qui di connessioni, di sistemi complessi che materializzano persone “qualunque” della strada nell’atto di incrociarsi, o di camminare accanto, la cui unica forma di relazione sta nella combinazione di rapporti frettolosi assolutamente anonimi e casuali.

Una sorta di rappresentazione dell’essere umano contemporaneo quando è “disinserito da se stesso e dalla propria coscienza vigile” la cui silhouette viene ritagliata sullo sfondo paesaggistico completamente azzerato da una bianca pittura su cui si stampano pesanti e ingombranti architetture urbane anch’esse simbolicamente colte in complicati punti di incrocio favoriti da ponti, strade, appunto “crossing” . Si profilano in questi contesti, società “sull’orlo di una crisi di nervi e che nonostante ciò non crollano. Tutti corpi sottomessi alle più incredibili persecuzioni fisiche, ideologiche, medianiche, che resistono a tutto con un’incredibile plasticità…” (Jean Baudrillard)

 

Nel lontano ’63, un ragazzino genovese di soli 11 anni, Giovanni Fassio, fotografava lo storico mercato del bestiame di Varzi, evento che si ripete tuttora nel tempo dove “Uomini e buoi” (anche titolo della mostra) si radunavano settimanalmente per la grande vendita. Queste foto, trasformate in stampe digitali ad alta definizione, unite ad altre scatti proseguiti fino al 1977, circa una trentina, sono in esposizione dal 5 dicembre alla galleria Unimediamodern (Palazzo Squarciafico, piazza Invrea 5/b, fino al 15 gennaio, tel. 010 2758785) . Un lavoro, questo, a carattere antropologico che registra nel tempo il passaggio epocale del secondo dopoguerra (1960 – 1970) in un preciso ambito agricolo dell’Appennino del Nord Italia per sottolineare i cambiamenti, le trasformazioni, le evoluzioni tecnologiche avvenuti nella società rurale, testimoniando fedelmente e con passione i resti di una civiltà in via d’estinzione. Gli intensi e lirici effetti pittorici delle immagini  bene si adattano ad evocare una realtà ancora vivida e vibrante nella preziosa wunderkammer del nostro inconscio collettivo.

 

                                                Miriam Cristaldi

“Affetti collaterali”

“Affetti collaterali” è il titolo della mostra di quattro giovani artisti internazionali in esposizione alla galleria Guidi & Schoen (vico Casana 31 r. fino al 30 aprile). Personaggi che, attraverso differenti linguaggi come la pittura, la fotografia, il video-frame, hanno scelto di esprimersi con espressioni figurali. Rappresentare oggi la realtà quotidiana inquieta, ricca di tensioni, conflittuale è l'intenzione di ciascuno. Per questo hanno scelto immagini forti “per tornare a comunicare con immediatezza e con passione a chi concede loro attenzione scegliendo una figurazione diretta, evidente, priva d'incertezze e distacco” (Maurizio Sciaccaluga, curatore della mostra).

Frank Bauer spiega l'intimità dei rapporti sociali consumati in luoghi di cult come ad es.la moda. Qui in esposizione, c'è un grande dipinto ad olio che raffigura una ragazza intenta a truccarsi: sono messi in evidenza abitudini ed atteggiamenti personalissimi.

Stefano Cagol usa immagini tecnologiche (video-frame), sdoppiate e ingigantite: le sue narrazioni orientali descrivono un Giappone contemporaneo superaffollato che ha perso l'antica saggezza per preferire la via morbosa del consumismo. L'artista descrive il corpo umano degli abitanti del Sol Levante come oggetto- macchina “mentre i soui affetti diventano software”...

Invece la pittura del milanese Federico Guida - violenta, stesa sui registri dei rossi - fissa l'attenzione sulla deformazione dei corpi, un po' rifacendosi a certa pittura baconiana e a certe violenze dell“azionismo viennese”. Lo stravolgimento è sottolineato da gocce di solvente che, fatte cadere sulla tela, distruggono la pittura sottostante. Infine, Kate Waters racconta le conoscenze casuali del quotidiano, gli incontri banali avvenuti nei fatidici “nonluoghi” (spazi teorizzati dal filosofo Marc Haugé privi di identità come aeroporti, stazioni di servizio ecc. ) classificando velocemente questi incontri provvisori, insignificanti. Sfuocando le immagini dipinte per dare il senso della fretta.

 

Miriam Cristaldi

 

Galleria IL DEPOSITO

Il museo di Villa Croce ha recentemente inaugurato la mostra “La galleria del Deposito: un’esperienza d’avanguardia nella Genova degli anni sessanta” (fino al 15 giugno) - a cura di Sandra Solimano - riguardante appunto quei fertili anni in cui fiorirono nella nostra città numerosi gruppi artistici come “Tempo 3”, “Gruppo Studio”, “Gruppo Tool”  e intense attività galleristiche, ricche di fermenti innovativi, come “Il Deposito”,  “La Polena”,  “La Carabaga”, “La Bertesca”…

Commenta l’operazione un esaustivo catalogo a colori e b.n. con testi di particolare interesse scritti dai protagonisti dell’epoca. In primis, Paolo Minetti, direttore per diversi anni del “Deposito” stesso.

Genova fu un quel periodo un crocevia di fermenti culturali: qui s’incontrarono e si confrontarono le ricerche internazionali di arte neo-concreta, cinetica e programmata avviando un proficuo rapporto tra arte e scienza. Rapporto, oggi, sempre più stretto in una globalizzante quanto invasiva dimensione mediatica.

Erano gli anni in cui Eugenio Battisti creò il “Museo Sperimentale d’arte Contemporanea”, una raccolta di valore a suo tempo offerta (in dono) a Genova e al contempo rifiutata, e che oggi langue nei depositi della città di Torino.

L’importante galleria del Deposito, antistante la spiaggia di Boccadasse (in precedenza deposito di carbone - da qui il nome – e ritornato poi magazzino), aprì i battenti il 23 settembre del ’63 con il “Gruppo Cooperativo di Boccadasse” formato da artisti e appassionati d’arte quali Bruno Alfieri, Kurt Blum, Flavio Costantini, Germano Facetti, Vita Carlo Fedeli, Emanuele Luzzati, Achille Perilli, Kiki Vices Vinci e per volontà dell’artista genovese Eugenio Carmi, allora Art Director dell’Italsider.

In tale contesto nacque una produzione denominata “arte moltiplicata” e “industriale”.           

Questo in opposizione alle esigenze mercantili basate sull’opera unica - costosa ed elitaria - per favorire invece opere accessibili a tutti, moltiplicate a livello industriale attraverso la tecnica serigrafia od oggetti in serie come le produzioni di foulard. 

Gillo Dorfles, nell’introdurre la prima mostra, spiega come  l’intento dei soci sia quello di “compiere… un lavoro di aggiornamento nel campo delle arti visuali scegliendo … opere valide come espressione del nostro tempo”.

In mostra ci sono pezzi importanti di artisti - oggi famosi - che hanno fatto parte del Deposito o del gruppo Cooperativo di Boccadasse: un significativo spaccato d’innovativi percorsi in quel momento storico.

Si possono così ammirare le ricerche neo-concrete di Max Bill, Lohse, Vasarely per arrivare a quelle nell’ambito cinetico-visuale di Castellani, Bonalumi e allo spazialismo di Fontana; dalla pittura astratta (romana) di Perilli e Dorazio si passa alle espressioni optical di Alviani e Soto. Si evidenziano, tra l’altro, le sculture di Arnaldo Pomodoro, le ricerche pop di Tilson e del ligure Gaul, le sculture dipinte di Del Pezzo assieme alle opere dei liguri Carmi, Luzzati, Costantini.

Nell’osservare le opere in mostra si constata come gli artisti, in generale, abbiano - già da quegli anni - formulato un linguaggio specifico che, con poche varianti, è stato portato avanti fino ad oggi. Con l’effetto di riconoscibilità immediata e di conferma dell’intrinseca validità.

Ampio spazio è dedicato anche all’architetto Wachsmann (stimato dal pittore genovese Rocco Borella) che allora pubblicò un piano urbanistico della nostra città, tra cui un rinomato progetto per lo spazio del porto antico.

Una mostra da non perdere.

                                               Miriam Cristaldi

 

Galliani

"Mantra" è "la forma sonora della divinità corrispondente a un nome o a un aspetto", recita il dizionario dei simboli di J. C. Cooper, e si riferisce al suono primordiale, all'invocazione di un nome ripetuto all'infinito e scritto in codice; così come nel caso dell'incisione in oro del mantra  che Omar Galliani dedica a "Laura", la sua musa ispiratrice, nella mostra di disegni e pastelli di recente inaugurata alla galleria Rotta (via XX settembre 181 r).

L'intera mostra è dedicata al tema femminile, a volti e a corpi di donna espressi in maniera  iperrealista, tanto da sembrare a prima vista fotografie elaborate.

Si tratta invece di libere interpretazioni realizzate con una sapientissima tecnica del disegno  con cui vengono descritti, nella precisione del dettaglio, personaggi femminili particolarmente cari all'attenzione dell'artista.

Il linguaggio è quello dei "citazionisti ", detti anche "pittori colti", che hanno fatto parte negli anni '80, con Omar Galliani,  del  gruppo Anacronismo (fondato da Maurizio Calvesi, Italo Tommasoni e Italo Mussa), caratterizzato dal recupero dei temi, degli stili e delle tecniche del passato, citando i classici della storia attraverso una libera rivisitazione d'aspetto manieristica.

I personaggi che l'artista ritrae contengono qualità ossimoriche attraverso cui esprimono  i  significati e il loro esatto contrario:  infatti queste presenze più-che-reali vengono proiettate nel mondo magico della mitologia e risultano lontane anni luce dalla quotidianità, proprio in virtù di un lento processo di  decodificazione e di  simbolizzazione.

Un processo che si attua sotto gli occhi: le immagini sono immerse nell'ombra e caravaggeschi raggi di luce mettono a fuoco qualche particolare così da eludere la connotazione fisica per creare misteriose fogge che abitano mobili e nebbiose atmosfere.

E ancora:  quasi tutte le figure appaiono fornite di ombrose ali curvilinee capaci di esaltare la purezza di un volto o il nitore di un profilo insinuandosi nello spazio come flessuose forme che degradano la luce nel buio. In questo caso la carnalità vibrante dei volti o dei corpi di donna si fonde con la luce del mistero rappresentata dall'universalità del mito e dell'allegoria che muove la liturgia dell'opera, ricca di segni oppositori quali possibili  cifre del linguaggio simbolico.

Inoltre Omar Galliani coniuga grandi disegni con altrettante gigantesche tavole dipinte con foglia d'oro su cui appaiono incisi i mantra: quest' operare con la preziosità della materia è un altro segno connotativo dell'artista.

Se l'oro in alchimia definisce la qualità del sacro, il raggiungimento del centro, e per il buddismo la luce, l'illuminazione dell'intelletto, per l'autore forse rimanda all'astro solare, alla luminosità incorruttibile che trasforma la materia bruta in sostanza nobile nell'atto di protendere, dal basso verso l'alto, all'immortalità dell'universo trascendente.

La mostra è corredata di catalogo con testi di Italo Tommasoni e di Luciano Caprile.

                                                Miriam Cristaldi

 

Pinot Gallizio

 

Col centenario della nascita di Pinot Gallizio, la cittadinanza è stata invitata (il 20 aprile) al museo d’arte contemporanea di Villa Croce per una giornata di studio e di incontro con l’opera di questo artista. Per l’occasione è stato presentato il catalogo generale con l’intero corpus delle opere, edito Mazzotta, ad iniziativa della fondazione Ferrero, a cura di Maria Teresa Roberto, Giorgina Bertolino e Francesca Commisso.

E’ stato inoltre proiettato il lungometraggio “Dérive Gallizio” di Pietro Balla e Monica Repetto e installato nelle sale del museo il “rotolo di pittura industriale”, lungo 74 metri, realizzato dallo stesso Gallizio nel ’58.

Allo stesso tempo, di concerto con tale manifestazione, la galleria Martini & Ronchetti (via Roma 9, fino all’estate), da sempre attenta agli eventi culturali nazionali e internazionali, ha inaugurata la corposa mostra: “Pinot Gallizio.Oggetti e spazi per un mondo peggiore”.

Gallizio nasce ad Alba, (1902, 1964), ed è protagonista degli avvenimenti artistici degli anni ’50, ’60 per ciò che concerne la ricerca in Europa.

Infatti, in questo territorio delle Langhe, ad Alba, fonda con il danese Asger Jorn e con Piero Simondo, un importante centro di sperimentazione artistica con il “Laboratorio sperimentale del Movimento internazionale per una Bauhaus immaginista”

E’ questo, un importante cenacolo da cui prendono avvio iniziative culturali e politiche e accese discussioni attivate da artisti come Lucio Fontana, Enrico Baj, Karen Appel (Gruppo Cobra), Ettore Sottsass.

Gallizio è pure cofondatore del movimento europeo), “Internazionale situazionista” (non scevro da aspetti concettuali, cui fornisce nuove tematiche con il suo lavoro di “pittura industriale” avvolta in grossi rotoli , destinata ad essere venduta a metraggio. Da così corpo all’operazione “Caverna dell’Antimateria”, realizzata a Parigi nel ’59, alla galleria Drouin, attraverso uno spazio morbido, avvolgente, polisensoriale , ricco di rimandi antropologici.

Una pittura, la sua, che esce dai canoni tradizionali del quadro per offrirsi come opposizione alla logica imposta dalle macchine e dalla civiltà industriale, “ma al contrario piegando la macchina all’esigenza ludica dell’artista”.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

Franco Garelli

 

“Nella scultura non c’è più gioco di superfici a ricevere più o meno incontri di luce…, ma la fervida avventura della disintegrazione-integrazione dentro le forme stesse….Bisogna saper vedere tutta la scultura con i suoi vuoti attivi…”, scrive nel ’57 lo scultore Franco Garelli (Diano d’Alba 1909 - Torino 1973) riguardo il suo lavoro, volendo con questo specificare che l’opera non è più oggetto estraneo allo spazio, ma si integra totalmente con esso attraverso il gioco dei vuoti (aria) coi pieni (materia della scultura), proprio secondo “una vera emulsione”.

Un’opera scultorea, la sua, nata con le terracotte degli anni ’30 attraverso interpretazioni cubo-futuriste e che si sviluppa nei decenni successivi (anni ’50, ’60) nell’ambito del linguaggio Informale. I suoi lavori hanno trovato accenti internazionali e hanno sviluppato un linguaggio personalissimo e inconfondibile secondo canoni informali che non si allineano agli assottigliamenti strutturali di un Giacometti o alle devastanti deformazioni di un Dubuffet, quanto invece ad assembramenti materici risolti in un’espressione drammatica  che codifica “una nuova dimensione di realtà dinamica della vita attuale in tutti i suoi aspetti, fisici quanto psicologici e inconsci… quindi un mito meccanico in una nuova accezione…” specifica il critico d’arte Enrico Crispolti riferendosi al lavoro dell’artista torinese.

Diverse e indicative sono state le amicizie dell’autore: dai contatti con Martinetti, Arturo Martini e Luigi Spazzapan alle frequentazioni ad Albissola con Lucio Fontana, Agenore Fabbri, Tullio D’Albissola; e ancora, dagli stretti contatti col gruppo Cobra (Jorn, Appel, Corneille) alla frequentazione del Laboratorio Sperimentale d’Alba, animato da Pinot Gallizio.

Per Franco Garelli, la figura diventa l’ideale con cui misurarsi: una forma con cui operare una sorta di costruzione, più che fornire esempi di distruzione.

Figura, quindi, come visualizzazione del sembiante umano che rivendica la sua centralità in un momento storico “contro”, poiché l’informale imperante ne astrattizza la realtà.

Scrive infatti l’artista “…il calore espressivo trova il suo suggello in un organizzarsi delle forme… e mette in atto una decisione costitutiva dell’immagine che è finalmente testimonianza  a favore di un personaggio”.

Ma i suoi suggestivi “personaggi” in terracotta e in metallo, fortemente trasfigurati nell’assemblaggio compositivo, si aprono in seguito a suggestioni oggettuali di carattere macchinico  mediante l’essenzialità di strutture primarie tubolari, risolte anche in grandi dimensioni.Nascono lavori straordinari dove la qualità pittorica mette in risalto l’alta drammaticità.

Le “Sculture in terracotta e ceramica” esposte in mostra (Galleria Martini Ronchetti, via Roma 9)  sono  altissima testimonianza dell’intero percorso dell’artista.

 

                                                            Miriam Cristaldi

Mirta Carroli e Giovanna Giannakoulos

 

“Carta-ferro, ferro-carta” è il titolo della mostra realizzata dalle artiste Mirta Carroli (Ravenna ‘49) e Giovanna Giannakoulas (Roma ‘50), presso la galleria “Ellequadro” (vico Falamonica 3, fino al 6 novembre) e a “Mente Locale” (Palazzo Ducale, piazza De Ferrari).

Curiosamente, mentre l’una ritaglia - da lastre di ferro - forme aeree che appiattiscono la scultura in disegno, l’altra, al contrario, esegue dipinti su carta - srotolata nello spazio - per assumere connotazioni scultoree.

Infatti Mirta Carroli estrae, da pesanti lastre metalliche, agili e sottili corpi filiformi, spesso appuntiti, sovente piegati per andare a configurare nello spazio libere strutture geometriche secondo un certo rigore analitico, ma al contempo modulati con cadenze ritmiche capaci di sottolineare leggerezze plastiche ed equilibri armonici.

Il ferro brunito, perduto il senso del peso, acquista identità segniche  che lo trasformano in traccia, scia nello spazio, per formulare misteriosi alfabeti di qualche remotissima civiltà o inafferrabili codici di qualche immaginario pianeta.

Quasi in opposizione a tale meccanismo, Giovanna Giannakoulas dipinge svelte figurine di frettolosi personaggi urbani su lunghe strisce di carta da intendere come simbolico scenario della contemporaneità.

Si viene così a creare un articolato percorso nello spazio, una lunga ed arrotolata fascia che sguscia nell’ambiente per incunearsi in sequenze di cornici vuote.

Come a dire, lo specifico dell’arte esce dai limiti.

 

                                                                        Miriam Cristaldi

 

 

Alfonso M.Gialdini

 

E’ stata da poco inaugurata a Palazzo Comunale di Celle Ligure, alla presenza degli assessori Caterina Mordeglia e Caterina Perassolo, la mostra scultorea di Alfonso Gialdini (fino al 24 novembre) con circa una ventina di lavori tra cui emerge il pezzo “Liberazione” (2004, peso oltre i 100 chili, verrà presto sistemato in un luogo pubblico di Genova).

Un’opera, questa, composta da una forma femminile (vagamente piegata a squadra) che scivola armoniosamente nello spazio tentando di svincolarsi da una sorta di guscio che l’avvolge stringendola in una potente morsa. Le dita delle mani e piedi spuntano dall’estremità della scultura nell’atto di sbrogliarsi dall’ingombro dell “armatura” che tenta di impacchettare il corpo mentre nella schiena e sul ventre si aprono grossi squarci da cui s’intravvedono frammenti di nudo femminile. Il corpo che sta all’interno della pseudo-crisalide lotta  faticosamente per uscire dall’involucro che lo avvolge: chiara simbologia dei lacci e impedimenti della società in cui l’umanità vive il mito della ragione che spinge alla violenza quotidiana, dove la realtà non è ordine, pace, ma coacervo di fatti e avvenimenti contradditori, violenti e irrisolti.

Un fare scultura, quello di Alfonso Gialdini, che guarda alla storia e ai maestri del secolo scorso come alla potenza di Brancusi, a certe sinterizzazioni formali cubiste o ancora al naturalismo utopico di Arp. Ma sa  anche assumere connotazioni personalissime soprattutto attraverso la possente fisicità materica che promana dall’opera e la costante presenza di giochi d’incastro in cui forze opposte si misurano nella doppia azione sinergica dell’ attrarre/repellere.

Con un “testa a testa” non indifferente.

Come nella scultura “Compenetrazione” strutturata mediante la formazione di due masse plastiche che si attraggono in un inscindibile abbraccio ma che allo stesso tempo si stagliano nette, sotto la sferza della luce, mettendo in evidenza i profili taglienti per spingersi idealmente nello spazio verso un tesissimo e aggressivo “corpo a corpo”.

Una silhouette svettante, che si spinge verso l’alto per poi piegarsi a squadra con la punta inclinata verso il basso è invece la “Tuffatrice”, blocco in cemento, acciaio e pietra composto da due gambe femminili - con muscoli in tensione e perfettamente unite secondo le regole del tuffo - che proseguono nella solidità di un corpo il quale, verso l’altezza della vita, si piega in avanti per tendersi nel vuoto e spiccare il salto. Con braccia tese e testa piegata si struttura così nello spazio una forma umana affusolata ricurva sul davanti tanto da richiamare lontanamente, alla percezione visiva, il profilo aerodinamico di un agile delfino a carattere schiumoso. La “Tuffatrice”, copia di un’altra opera scultorea, è stata donata da Alfonso Gialdini alla cittadina di Celle Ligure ed è stata posizionata sulla “passeggiata a mare”.

 

                                                                        Miriam Cristaldi

 

 

 

Sabato scorso è stata inaugurata la svettante scultura  “La Tuffatrice” del genovese Alfonso Gialdini, un’opera fortemente aerodinamica alta m.1,75 e composta da un paio di gambe unite, tese nello sforzo di concentrazione per il salto nel vuoto, che proseguono nella solidità di un corpo femminile piegato in avanti a squadra (all’altezza della vita) con braccia e testa chine verso il basso. Prende così forma la silhouette di una giovane donna che, specie verso il culmine della statua evoca, alla percezione visiva, l’agile forma di un guizzante delfino. L’opera è stata realizzata in cemento e pietra, con armatura d’acciaio, dalle tonalità oscillanti tra sfumature brunite e macchie biancastre a carattere schiumoso. Sembra quasi materializzarsi un vibratile derma chiazzato in alcuni punti di porosa salsedine.

Infatti questa affascinante scultura è stata posizionata sulla sommità di uno scoglio collocato sulla “passeggiata a mare” di Pennello, in prossimità di Celle Ligure, così da spruzzarsi di mare entro il quale idealmente dovrebbe tuffarsi. Alfonso Gialdini è solido scultore di figure umane ed animali sovente al limite della figurazione e spesso intese come blocchi petrigni carichi di energia in tensione, come è il caso di questo lavoro in cui il corpo è contratto nella solidità muscolare  e concentrato nel compimento, alla perfezione, di un atletico tuffo.

Questa opera è copia di un’altra scultura ed è stata donata da Alfonso Gialdini alla cittadina di Celle Ligure e sabato scorso è stata posizionata sulla passeggiata a mare in occasione del gemellaggio tra la cittadina di Celle (in Germania) e la nostra cittadina balneare omonima avvenuto venerdì 19 e sabato 20 maggio.

Di fatto una delegazione tedesca - composta dal sindaco Martin Biermann, accompagnato da alcuni consiglieri e dall’assessore alla Cultura Ina Henning - è stata ospite del comune di Celle Ligure per la festa del gemellaggio.

 

E’ stata da poco inaugurata a Palazzo Comunale di Celle Ligure, alla presenza degli assessori Caterina Mordeglia e Caterina Perassolo, la mostra scultorea di Alfonso Gialdini (fino al 24 novembre) con circa una ventina di lavori tra cui emerge il pezzo “Liberazione” (2004, peso oltre i 100 chili, verrà presto sistemato in un luogo pubblico di Genova).

Un’opera, questa, composta da una forma femminile (vagamente piegata a squadra) che scivola armoniosamente nello spazio tentando di svincolarsi da una sorta di guscio che l’avvolge stringendola in una potente morsa. Le dita delle mani e piedi spuntano dall’estremità della scultura nell’atto di sbrogliarsi dall’ingombro dell “armatura” che tenta di impacchettare il corpo mentre nella schiena e sul ventre si aprono grossi squarci da cui s’intravvedono frammenti di nudo femminile. Il corpo che sta all’interno della pseudo-crisalide lotta  faticosamente per uscire dall’involucro che lo avvolge: chiara simbologia dei lacci e impedimenti della società in cui l’umanità vive il mito della ragione che spinge alla violenza quotidiana, dove la realtà non è ordine, pace, ma coacervo di fatti e avvenimenti contradditori, violenti e irrisolti.

Un fare scultura, quello di Alfonso Gialdini, che guarda alla storia e ai maestri del secolo scorso come alla potenza di Brancusi, a certe sinterizzazioni formali cubiste o ancora al naturalismo utopico di Arp. Ma sa  anche assumere connotazioni personalissime soprattutto attraverso la possente fisicità materica che promana dall’opera e la costante presenza di giochi d’incastro in cui forze opposte si misurano nella doppia azione sinergica dell’ attrarre/repellere.

Con un “testa a testa” non indifferente.

Come nella scultura “Compenetrazione” strutturata mediante la formazione di due masse plastiche che si attraggono in un inscindibile abbraccio ma che allo stesso tempo si stagliano nette, sotto la sferza della luce, mettendo in evidenza i profili taglienti per spingersi idealmente nello spazio verso un tesissimo e aggressivo “corpo a corpo”.

Una silhouette svettante, che si spinge verso l’alto per poi piegarsi a squadra con la punta inclinata verso il basso è invece la “Tuffatrice”, blocco in cemento, acciaio e pietra composto da due gambe femminili - con muscoli in tensione e perfettamente unite secondo le regole del tuffo - che proseguono nella solidità di un corpo il quale, verso l’altezza della vita, si piega in avanti per tendersi nel vuoto e spiccare il salto. Con braccia tese e testa piegata si struttura così nello spazio una forma umana affusolata ricurva sul davanti tanto da richiamare lontanamente, alla percezione visiva, il profilo aerodinamico di un agile delfino a carattere schiumoso. La “Tuffatrice”, copia di un’altra opera scultorea, è stata donata da Alfonso Gialdini alla cittadina di Celle Ligure ed è stata posizionata sulla “passeggiata a mare”.

 

                                                                        Miriam Cristaldi

 

 La Tuffatrice

 

Sabato scorso è stata inaugurata la svettante scultura  “La Tuffatrice” del genovese Alfonso Gialdini, un’opera fortemente aerodinamica alta m.1,75 e composta da un paio di gambe unite, tese nello sforzo di concentrazione per il salto nel vuoto, che proseguono nella solidità di un corpo femminile piegato in avanti a squadra (all’altezza della vita) con braccia e testa chine verso il basso. Prende così forma la silhouette di una giovane donna che, specie verso il culmine della statua evoca, alla percezione visiva, l’agile forma di un guizzante delfino. L’opera è stata realizzata in cemento e pietra, con armatura d’acciaio, dalle tonalità oscillanti tra sfumature brunite e macchie biancastre a carattere schiumoso. Sembra quasi materializzarsi un vibratile derma chiazzato in alcuni punti di porosa salsedine.

Infatti questa affascinante scultura è stata posizionata sulla sommità di uno scoglio collocato sulla “passeggiata a mare” di Pennello, in prossimità di Celle Ligure, così da spruzzarsi di mare entro il quale idealmente dovrebbe tuffarsi. Alfonso Gialdini è solido scultore di figure umane ed animali sovente al limite della figurazione e spesso intese come blocchi petrigni carichi di energia in tensione, come è il caso di questo lavoro in cui il corpo è contratto nella solidità muscolare  e concentrato nel compimento, alla perfezione, di un atletico tuffo.

Questa opera è copia di un’altra scultura ed è stata donata da Alfonso Gialdini alla cittadina di Celle Ligure e sabato scorso è stata posizionata sulla passeggiata a mare in occasione del gemellaggio tra la cittadina di Celle (in Germania) e la nostra cittadina balneare omonima avvenuto venerdì 19 e sabato 20 maggio.

Di fatto una delegazione tedesca - composta dal sindaco Martin Biermann, accompagnato da alcuni consiglieri e dall’assessore alla Cultura Ina Henning - è stata ospite del comune di Celle Ligure per la festa del gemellaggio.

 

                                                                       

LIBERAZIONE

 

“Liberazione” (2004?) è il titolo dell'opera scultorea di Alfonso Gialdini, destinata ad una piazza della nostra città.

Proprio il titolo è fortemente esplicativo: un'allungata forma femminile (vagamente piegata a squadra) scivola armoniosamente nello spazio tentando di svincolarsi da una sorta di guscio che l'avvolge stringendola in una potente morsa. Le dita delle mani e i piedi spuntano dalle estremità della scultura nell'atto di sbrogliarsi dall'ingombro dell “armatura” che tenta di impachettare il corpo mentre nella schiena e sul ventre si aprono grossi squarci da cui s'intravedono frammenti del corpo sottostante.

Il nudo che sta all'interno della crisalide- bacello (per la somiglianza coi gusci dei legumi) sta lottando faticosamente per uscire dalla presa che lo comprime. Le labbra spaccate dell'involucro che lo cinge ne sono una precisa testimonianza.

Una chiara simbologia, questa, dei lacci e impedimenti della società in cui l'umanità vive il mito della ragione che spinge alla violenza. Dove la realtà non è ordine, simmetria, ma un coacervo di fatti e avvenimenti contradditori, violenti e irrisolti. Anche il conscio e l'inconscio non vivono in due sfere separate ma si combattono e si contrastano come due forze continuamente in opposizione, dando avvio al conflitto.

Con un utopico appello alla salvezza.

Sì, perché qui il contrasto tra le due forze, una endogena al guscio-armatura (il corpo femminile che tenta di uscire), ed una esterna (il guscio stesso che comprime la forma interna), sono eternamente in tensione mentre le spaccature della struttura a crisalide fanno presagire, nel prossimo futuro, una possibile condizione di libertà.

Se la scultura (m. 1,35x1,15) da un lato ha vaghe somiglianze con certe soluzioni spaziali e naturalistiche di un Arp o di un Moore e non è esente da alcune drammatizzazioni proprie del savonese Agenore Fabbri, dall'altro, per il materiale usato e per certe soluzioni formali adottate, risulta espressione di un linguaggio fortemente personalizzato.

Alla percezione visiva, l'effetto della scultura è quello del bronzo mentre in realtà è il risultato dell'adozione di diversi materiali come acciaio, lafarge (cemento speciale ad altissima tenuta), pietra, vetroresina e scaglie di bronzo che rivestono la superficie dell'intero lavoro creando lucenti e morbide patine verdastre tipiche di questo metallo.

La superficie della scultura - lavorata a caldo con scalpello e flessibille - presenta i tagli e i segni degli attrezzi che la modellano fornendo l'aspetto di una materia non precisamente liscia, ma tatuata dallo sforzo fisico dell'autore, impegnato in un drammatico e lungo “combattimento” (circa 150 ore di lavoro) per restituire la forma alla sua condizione ultima. Ad opera conclusa, questa risulta d'aspetto metallico ed emana sensazioni epidermiche di potenza fisica non indifferente (addirittura inattacabile dall'acido muriatico), quasi una struttura plastica (idealmente) in lievitazione nello spazio circostante.

Un'opera, questa, suggestiva e di forte impatto visivo e che presenta, nella sua ambiguità di forze opposte, la contraddizione umana, dove il razionale convive con l'irrazionale secondo la complessa struttura dell'Essere.

 

Miriam Cristaldi 10 dicembre 2004

 

 

 

 trinita'

Un convincente e delicato bassorilievo, di forma approssimativa a quella del triangolo (con la punta rivolta verso il basso), è quello del “Cristo nascente”, un singolare lavoro in pietra nera, realizzato dallo scultore Alfonso Gialdini, che rappresenta due figure di profilo (maschile e femminile) ai lati dell'immagine del Salvatore – incuneato al centro tra i due giovani personaggi - con le braccia allargate e rivolte verso l'alto come per invitarci ad uno sguardo diretto al cielo e, al contempo, per richiamare la forma della croce.

Oggetto simbolico, questo, con cui egli ha redento l'umanità intera e che è strettamente legato alla gloria della rinascita.

Ma in questa scultura, il Figlio di Dio sembra osmoticamente “dare” e “ricevere” vita dalla coppia stessa che, ai lati, a lui si rivolge come per invocare la grazia divina intesa come puro scambio d'amore. Qui, l'amore umano della coppia sembra appunto nascere, contaminarsi e prendere energia dalla sacra figura centrale che, leggera, appena abbozzata, sovrasta i profili del maschio e della femmina nell'atto di una circolare (e totale) congiunzione nella preghiera.

Si assiste così ad un sereno travaso tra l'umano e il divino, tra il terreno e il celeste e viceversa, dove nella pesante fisicità della pietra, illuminata da luce radente, si sciolgono le asperità per giungere ad effetti di soffusa, accorata armoniosità.

Quasi un lievitare della materia stessa dove la forma sembra perdere la durezza dei connotati per raggiungere effetti di dissolvimento nella dinamicità della luce che si proietta mobile sulle forme scolpite.

 

Miriam Cristaldi 13 dicembre 2004

 

 

Alfonso Gialdini

 

SCULTURA DEDICATA AI SOPRAVVISUTI DEI LAGER

Un corpo in tensione, una materia petrigna compressa, una forma arcuata che tenta faticosamente di uscire dalla terra, uno sfuggire al sonno eterno.

E’ la scultura di Alfonso Gialdini dedicata ai sopravvissuti dei lager.

Un’opera, questa, nata da un progetto del ’98 richiesta dalla comunità ebraica di Genova – realizzata in un secondo tempo – e attualmente collocata presso l’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età contemporanea (via del Seminario 16).

Ciò che appare alla visione è infatti una voluminosa massa corporea che tenta – con visibile sforzo – di sfuggire alla prensione del piano-base orizzontale (ipotetico sepolcro), come se si ritraesse da un’insidiosissima morsa mortale.

Si evidenzia così la compatta solidità di un unico blocco compositivo che rappresenta un uomo curvato, ripreso di “schiena”. Opera trattata con minimi particolari fisionomici affinché ognuno li possa immaginare secondo una personale visione. In tal modo aumenta l’attenzione dello spettatore implicato nel farsi del lavoro.

E questa massa in tensione, con interventi e segni essenziali, tutta impegnata a sottrarsi al richiamo mortale della terra, si erge nello spazio a simbolo di un’umanità che resiste e vuole sottrarsi alla violenza e ai soprusi imposti dall’alto. Un no, oggi come ieri, a chi tenta di soffocare la libertà dell’uomo.

 

Miriam Cristaldi

 bassorilievo 25 Aprile 2005

                                                                       Mercoledì 20 aprile, ore 9, presso l'aula magna del liceo scientifico Cassini, verrà celebrato l'anniversario della liberazione. Presenti dott. Aloisio dell'A.N.P.I e del sign. Stacchetti, fratello della medaglia d'argento Silvano Stacchetti. In tale occasione sarà inaugurato il bassorilievo in marmo dal titolo: “25 aprile '45 – 25 aprile 2005, donato dallo scultore Alfonso Gialdini. L'opera - che esprime una notevole potenza fisica - rappresenta una figura che riprende l'iconografia cristologica (riferimenti al dipinto di Cimabue) nella rappresentazione di un personaggio che, in questo caso, spezza la svastica a cui è appeso.

Sì, perché qui il contrasto tra le due forze, una endogena al guscio-armatura (il corpo femminile che tenta di uscire), ed una esterna (il guscio stesso che comprime la forma interna), sono eternamente in tensione mentre le spaccature della struttura a crisalide fanno presagire, nel prossimo futuro, una possibile condizione di libertà.

Se la scultura (m. 1,35x1,15) da un lato ha vaghe somiglianze con certe soluzioni spaziali e naturalistiche di un Arp o di un Moore e non è esente da alcune drammatizzazioni proprie del savonese Agenore Fabbri, dall'altro, per il materiale usato e per certe soluzioni formali adottate, risulta espressione di un linguaggio fortemente personalizzato.

Alla percezione visiva, l'effetto della scultura è quello del bronzo mentre in realtà è il risultato dell'adozione di diversi materiali come acciaio, lafarge (cemento speciale ad altissima tenuta), pietra, vetroresina e scaglie di bronzo che rivestono la superficie dell'intero lavoro creando lucenti e morbide patine verdastre tipiche di questo metallo.

La superficie della scultura - lavorata a caldo con scalpello e flessibille - presenta i tagli e i segni degli attrezzi che la modellano fornendo l'aspetto di una materia non precisamente liscia, ma tatuata dallo sforzo fisico dell'autore, impegnato in un drammatico e lungo “combattimento” (circa 150 ore di lavoro) per restituire la forma alla sua condizione ultima. Ad opera conclusa, questa risulta d'aspetto metallico ed emana sensazioni epidermiche di potenza fisica non indifferente (addirittura inattacabile dall'acido muriatico), quasi una struttura plastica (idealmente) in lievitazione nello spazio circostante.

Un'opera, questa, suggestiva e di forte impatto visivo e che presenta, nella sua ambiguità di forze opposte, la contraddizione umana, dove il razionale convive con l'irrazionale secondo la complessa struttura dell'Essere.

 

Miriam Cristaldi 10 dicembre 2004

 

  Scultura ospedale_Museattivo Claudio Costa

 

La grande scultura di Alfonso Gialdini, esposta nei giardini dell’ex ospedale psichiatrico di Ge-Quarto, si compone di tre elementi in pietra e cemento, di cui due scanditi nello spazio di una geometrica gabbia d’acciaio.

In particolare si tratta di un’opera a struttura ascensionale con altezze a due differenti livelli: la base che si compone di due corpi lamellari a “guscio” - posti lateralmente a terra e stretti in morse metalliche - mentre al centro, al piano superiore, fiorisce un grandioso corpo plastico le cui forme morbide e arrotondate vogliono simbolicamente rappresentare un grande abbraccio tra uomo-donna: tematica onnipresente nel lavoro dello scultore.

In particolare, questo lavoro sembra generarsi dal processo naturalistico tipico dello sbocciare: qui il fiore si strutturerebbe idealmente attorno alla presenza di due grandi petali-guscio - fissati a terra da rigide maglie - su cui si erge un grosso bocciolo, una calda forma d’amplesso tra maschile e femminile.

I petali-gusci, in realtà matrici del corpo centrale, possono rappresentare in questo frangente la categoria del negativo da cui trae origine il positivo.

Più specificamente le negatività di una condizione umana ristretta, incarcerata, di sofferenza e di disagio dove la materia bruta della “nigredo”, secondo attivazioni di processi alchemici, si fa crogiuolo di purificazione per arrivare alla condizione dell “albedo”, luce della conoscenza.

In questo senso, si compierebbe allora un cammino sapienzale che, dal basso della materia imprigionata, sale verso l’alto per raggiungere quella forma aperta, liberata, che s’inebria di luce nell’ampiezza di uno spazio senza limiti.

In sostanza, si tratta di un’opera pensata per un luogo dove il disagio psicologico tenta quotidianamente di superare la “pesantezza” della materia per raggiungere la “leggerezza” della persona liberata.

Miriam Cristaldi

 

 

 

Scultura biblioteca Berio

 

 

La scultura di Alfonso Gialdini, appartenente alla Biblioteca Berio, nasce prevalentemente per ricordare l’avvenimento genovese del G8 2001, e in particolare la morte di Carlo Giuliani.

Lo scultore - pensando al recente accaduto non privo di gravide incognite - realizza una sorta di grande busto maschile ove sul petto, in corrispondenza del cuore, si dispone una specie di bersaglio circolare il cui centro è trafitto da un foro.Quasi un’evocazione al martirio da parte del soggetto che idealmente si metaforizza in paradigmatico bersaglio.

Allo stesso modo, il braccio sinistro, dichiaratamente alzato a pugno chiuso, subisce una trasformazione.

Gialdini infatti modella questo braccio col simbolo di una donna, anch’essa con l’arto teso verso l’alto. Come in tutti i suoi lavori, anche qui l’elemento femminile è costantemente rapportato a quello maschile: addirittura l’avambraccio del soggetto si fa sottile corpo femminile per diventare generatore di forza.

Servendosi di una visione antropomorfa e attingendo a stilemi più surrealisteggianti, lo scultore ha qui voluto interpretare, attraverso un linguaggio narrativo, fatti inquietanti che hanno pesato sull’opinione pubblica. Fatti per ora non definitivamente accertati.

A differenza di altri lavori più liberi e creativi, è nata un’opera scultorea vincolata a una precisa tematica che consequenzialmente guida verso aspettative diverse ed esigenze differenti.

E’ infatti, questo, un’opera fortemente simbolica, pregna di significati e spiegata per allegorie.

Poiché la scultura ha anche la funzione di ricordare, di commemorare, di rendere testimonianza a futura memoria.

Di questo Alfonso Gialdini ne è consapevole. Ed ha rappresentato col linguaggio dell’arte ciò che non si può descrivere.

 

  antologica

 

Venticinque anni di scultura. Tanto è il tempo che Alfonso Gialdini, ingegnere, scultore e insegnante (Istituto Giorgi), dedica a quest'arte, antica come lo è la presenza dell'uomo sulla terra. Un lungo percorso, questo, che l'artista festeggia con una sintetica antologica, arricchita da una nutrita opera grafica, nello spazio della galleria “Il Doge” (Via Luccoli 14, fino al 6 novembre)

Anni di ricerca in cui Gialdini si muove oscillando tra astrazione e figurazione: ora perseguendo un linguaggio surrealisteggiante - dove il reale si trasforma e si contamina col sogno - come ad esempio la scultura per la biblioteca Berio dedicata alla morte di Carlo Giuliani in cui il cuore del personaggio si metamorfizza simbolicamente in pericoloso “bersaglio”, o l'opera del “Gondrano” - una vistosa testa equina con infilzati nel collo, proteso in avanti, chiodi e ferri dell'universo meccanico, oggi in via d'estinzione; ora badando ad un gioco di masse scultoree, equilibrate tra incalzanti ritmi di pieni e vuoti (vicino a certe astrazioni di Moore), non esenti da alcune soluzioni di carattere cubista. Con personalissimi esiti: soprattutto nel proporre tematiche riferibili alla coppia, unita in effusioni d'amore ablativo, capace di generare nuovi germogli di vita. Ma l'acutezza della sofferenza umana è sempre presente nell'intera opera dell'autore.

E' infatti qui rappresentata un'umanità dolente, spesso appesantita sotto la morsa della pietra dalla quale prende vita e al tempo stesso si libera, come se tentasse, con un'indicibile forza, di rimuovere il peso che la sovrasta per riuscire ad esistere.

Sovente si assiste alla lotta tra Eros e Thanatos, tra vita e morte: le forme dei corpi, con una violenta operazione del togliere, sembra escano a fatica dalla materia, rimanendo spesso quasi informi, appena rese come masse tondeggianti che si dilatano nello spazio offrendosi spontaneamente alla luce; un nascere difficile ad una realtà complessa come quella contemporanea dove trasformazioni sociali e tecnologiche hanno travolto la storia per prefigurare, dare spazio, a nuove e future identità.

Una scultura, questa, che si fa anche eco della sofferenza psichiatrica.

Chiamato da Claudio Costa - fondatore dell'Istituto Materie e Forme Inconsapevoli nell'ex Ospedale Psichiatrico di Ge-Quarto - Gialdini ha svolto con generosità - fino a tempi recenti - intensa attività didattica coi degenti psichiatrici, allargando inoltre gli “spazi aperti” del Museo omonimo con ulteriore afflusso di opere.

 

 

Miriam Cristaldi

 

 

cavallo-macchina

 

Sotto indicazione del preside, prof . Massimo Angelini, è stato collocato nella scuola professionale A. Meucci un grande tornio da metallo della prima metà del secolo scorso.

E’ questo uno splendido pezzo di archeologia industriale sistemato nel luminoso atrio della scuola.

Le sue lunghe nere cinghie di trasmissione - montate su di un unico albero con pulegge e comandate dal motore – avevano il compito di far funzionare un trapano a colonna per costruire viti, bulloni e, in genere, pezzi meccanici a forma cilindrica.

Il tornio sembra acquisire, nell’ampio e nudo spazio della scuola, un’aura sacrale quasi che le sue forme - immaginate in movimento secondo l’originaria funzione - possano evocare fantastici dinosauri della preistoria.

Proprio recentemente, accanto l’antico tornio, è stata inaugurata la grande scultura in pietra nera di Alfonso Gialdini, intitolata “Gondrano”(nome del cavallo della “Fattoria degli animali”, di Orewell, che desiderava un mondo migliore e più giusto) proponendosi come ombrosa testa equina (mobile

su di un perno) con scattante collo taurino da cui fuoriescono paradigmatici frammenti tecnologici. Un consanguineo abbraccio tra natura e cultura dove energia indomita si contamina col tecnicismo di una civiltà macchinica ormai in estinzione.

 

Miriam Cristaldi

 

 

 

Progetto fontana 

 

 

 

“Uomo e donna” è il tema ricorrente nel lavoro di Alfonso Gialdini, scultore di un immaginifico universo archetipale che trova corrispondenza e sintonia nell’organicità della natura.

Sovente le sue sculture vogliono recuperare la primordiale unità dell’uomo sia in qualità di meraviglia del creato che nella capacità ri-generatrice di ulteriori vite nella fertilità della procreazione.

Proprio come si evidenzia nel progetto per una fontana circolare (cm. 350 di diametro) entro cui si circoscrive un blocco unico modellato armonicamente secondo la composizione, appena leggibile, di una allungata forma femminile coricata accanto a quella maschile, distesa in senso opposto.

Vicino alla sensibilità di Henry Moore e ad una certa astrazione surrealista, Gialdini struttura nella materia del cotto mobili corpi sfuggenti, arrotondati (completamente evitate le spigolature) e scivolosi nella loro duttilità compositiva tanto da apparire come morbida superficie sussultoria oscillante tra gibbosità e avallamenti, là dove si materializzano corpi umani e si stratificano ombre (nelle cavità).

Le figure umane creano ritmi nello spazio secondo musicalità dolci e sincopate.

Alla sommità delle varie altezze formali fuoriescono rivoli d’acqua che lambiscono solo parzialmente la scultura dando origine a speciali effetti luministici e a vibratilità tattili.

Quasi come se la materia proliferasse in acqua sorgiva con cui si compenetra e se ne avvolge secondo un delicato quanto immediato significato simbolico di purificazione e rigenerazione.

Una fontana lontana dai progetti canonici degli zampilli.

Piuttosto una innovativa visione che privilegia un sentire sommesso e profondo dove lo sgorgare silenzioso di un’acqua invasiva e carezzevole può invitare lo spettatore ad un’intima comunicazione nel sottile gioco organico-inorganico che la scultura propone.

 

Miriam Cristaldi

mostra archeologia industriale biblioteca Berio

 

 

I 15 pezzi di archeologia industriale che verranno esposti nella palestra del presidio dell’ex o.p. si possono sicuramente collegare al lavoro di Claudio Costa dato che l’artista ha fatto un grossissimo lavoro sul recupero di “civiltà in estinzione”, specialmente quella “materiale” (contadina) facendo uso di attrezzi contadini, ma anche quella “meccanica” usando ferraglie, attrezzi meccanici sovente rivestiti di una patine di ruggine: un materiale che segna il tempo che passa.

Questi pezzi di archeologia industriale hanno anch’essi la patina del tempo visibile nella consunzione del colore e della forma: Sono oggetti carichi di storia e allo stesso tempo capaci di evocare le glorie del secolo scorso e di testimoniare un recente passato da consegnare a future generazioni. Proprio com’era nell’intenzione di Costa: recuperare un passato per ritrovare noi stessi e la storia dei nostri padri come prezioso bagaglio esperienzale da offrire alle prossime generazioni in cerca d’identità.

 

 

 

 

 

    1. Scultura biblioteca Berio

 

 

La scultura di Alfonso Gialdini, appartenente alla Biblioteca Berio, nasce prevalentemente per ricordare l’avvenimento genovese del G8 2001, e in particolare la morte di Carlo Giuliani.

Lo scultore - pensando al recente accaduto non privo di gravide incognite - realizza una sorta di grande busto maschile ove sul petto, in corrispondenza del cuore, si dispone una specie di bersaglio circolare il cui centro è trafitto da un foro.Quasi un’evocazione al martirio da parte del soggetto che idealmente si metaforizza in paradigmatico bersaglio.

Allo stesso modo, il braccio sinistro, dichiaratamente alzato a pugno chiuso, subisce una trasformazione.

Gialdini infatti modella questo braccio col simbolo di una donna, anch’essa con l’arto teso verso l’alto. Come in tutti i suoi lavori, anche qui l’elemento femminile è costantemente rapportato a quello maschile: addirittura l’avambraccio del soggetto si fa sottile corpo femminile per diventare generatore di forza.

Servendosi di una visione antropomorfa e attingendo a stilemi più surrealisteggianti, lo scultore ha qui voluto interpretare, attraverso un linguaggio narrativo, fatti inquietanti che hanno pesato sull’opinione pubblica. Fatti per ora non definitivamente accertati.

A differenza di altri lavori più liberi e creativi, è nata un’opera scultorea vincolata a una precisa tematica che consequenzialmente guida verso aspettative diverse ed esigenze differenti.

E’ infatti, questo, un’opera fortemente simbolica, pregna di significati e spiegata per allegorie.

Poiché la scultura ha anche la funzione di ricordare, di commemorare, di rendere testimonianza a futura memoria.

Di questo Alfonso Gialdini ne è consapevole. Ed ha rappresentato col linguaggio dell’arte ciò che non si può descrivere.

 

 

 

Giappone

Testo per Repubblica

 

Con un velocissimo raid in Giappone, Giuliano Arnaldi (direttore della galleria Archetipi, via Caffaro 29 r), abitualmente attento ai linguaggi africani, presenta qui a sorpresa un’anteprima di “La pelle dell’anima”, frammento del circuito più ampio di “Tribaleglobale”, rappresentato da opere legate alle tradizioni popolari giapponesi (apparentemente più povere) attraverso l’originale utilizzo dei  “Boro” (= stracci).

Con i Boro, pezze di cotone usurato, consunto, riciclato e di varia provenienza, gli artisti-artigiani del Sol Levante hanno composto grandi tele finite ( Sashito) con toni cromatici tenuti sugli stessi registri (per esempio gli azzurri o le ocre) in modo da comporre un’unica grande forma di squisita armonia cromatica per diventare via via indumenti di lavoro od oggetti ad uso domestico.

Tele, queste, che rasentano l’opera d’arte tanto è l’equilibrio e la delicatezza  pittorica che governano la composizione: viene immediatamente da pensare ad un sofisticatissimo Burri.

Sono esposti anche i “Sakebukuru”, sacche di cotone tinte con un liquido marrone estratto dal frutto del cachi e usate per filtrare il “Sake” per fare il liquore. Questi oggetti, rammendati in alcuni punti con filo chiaro, sembrano elaborati da un prezioso segno della mente.

Fanno pure bella mostra variopinti “Kanji”, ampi kimono da lavoro caratterizzati da ideogrammi legati alla funzione e all’appartenenza ad una corporazione professionale. Occhieggiano, curiosissime nello spazio espositivo, anche le bambole “Oshie” realizzate riciclando tessuti dimessi di kimono, connotate da dipinti a mano che creano l’espressione del viso.

Istintività dell’atto creativo, essenzialità di segno testimoniano la freschezza linguistica delle espressioni popolari di questa terra, così vicina, così lontana…

 

                                                            Miriam Cristaldi

Giappone (villa Croce)

Si affaccia per la seconda volta a Genova l’universo del sol levante: cinesi, giapponesi, coreani, indiani, tailandesi ecc., presentano a Villa Croce grandi installazioni improntate sul simbolico tema del “Labirinto”, accomunate dal senso  di leggerezza, trasparenza e dematerializzazione che le connota.

Un mondo, questo, etereo e silenzioso, che si affaccia, in punta di piedi, con grazia, creatività e tecnologia, mostrandosi alla percezione (visiva e sonora) con aspetti di delicata visionarietà, silenziosa meditazione ed esplicativo di una forte concentrazione zen.

Con “Asiart Asian Contemporary art” si è infatti inaugurata al museo di Villa Croce la seconda Biennale d’arte contemporanea (fino al 20 dicembre 2001) dedicata ai paesi del continente asiatico, costituita da varie sezioni espositive, installazioni, mostre tematiche, oltre ad “Asiagrafie, itinerari di segni e scritture dal Medio Oriente all’Asia Centrale”, allestita a Palazzo Doria Spinola (dal 25 settembre al 25 ottobre). La biennale si allarga inoltre all’”Action China”, presso il Dipartimento Studi Asiatici del C.E.L.S.O, con videoinstallazioni, proiezioni e una mostra fotografica., per proseguire con “Japan Design” (20 novembre – 20 dicembre) articolata in diverse sedi.

Infine l’operazione “Open”, costituita da due grandi installazioni preparate per Palazzo Ducale dal 30 settembre al 20 ottobre.

Le spaziose installazioni allestite a Villa Croce sviluppano la complessa tematica del “Labirinto” : attraverso i vari linguaggi espressivi si materializzano percorsi intrecciati, sovente senza inizio o fine, ma volti a decifrare la fatica, gli sforzi di un cammino iniziatico alla ricerca della conoscenza o della luce interiore.

C’è chi tappezza un’intera stanza con capelli (veri) incollati così a generare un alfabeto di segni incomprensibili ma suggestivi, mentre a tale materia povera fa da contraltare la tecnologia: i sedili di alcune sedie (disposte attorno a un tavolo centrale) corrispondono a monitor-video le cui immagini mostrano cieli in movimento.

E ancora, fili di rame al soffitto cui sono appesi candidi ventagli; strisce di carta (da calcolatore) tese dall’alto fino a terra così da evocare una foresta di arbusti tecnologici; filari di panneggi in caduta sul pavimento a richiamare l’idea di un percorso intricato e difficoltoso; un secondo pavimento (inondato d’acqua) è percorribile da passerelle  che attraversano teloni su cui si proiettano seducenti ombre capaci di suggerire l’idea curiosa di “spingimenti” (verso fuori o verso dentro).

Una mostra che riserva delle sorprese, da non perdere.

 

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

 

Piero Gilardi

 

Giovedì 5 ottobre, come lo scorso anno, s’inaugurano di concerto tutte le gallerie d’arte contemporanea della città mostrando, ciascuna, proposte che sono il frutto del proprio lavoro e delle personali inclinazioni.

In particolare, alla vivace galleria “Marco Canepa” (via Caffaro 20r, tel 010 2461671 fino al 10 novembre) è possibile visitare il lavoro di Piero Gilardi, noto artista torinese che ha fatto parte dell’Arte Povera e che, in seguito, si è specializzato in aspetti tecnologici fornendo agli spettatori, attraverso sofisticate tecniche digitali, la possibilità di interagire con l’opera.

Infatti, i suoi lavori, dagli anni ’90 in poi, facendo suonare e vibrare complessi e coloratissimi vigneti, sassi marini, ecc. (in gommapiuma e poliuretano espanso) riescono a simulare spazi virtuali e a suggerire immaginari a carattere fantastico-scientifici.

Giochi virtuali, dunque, attivati dagli osservatori che, al loro passaggio, mettono in funzione sensori per giungere a far parte (con i loro spostamenti) del processo stesso dell’opera attraverso un forte coinvolgimento di stimolazioni.

E’ questa l’occasione per una presa di coscienza degli aspetti tecnologici che ci circondano e che fanno ormai parte integrante del nostro presente.

Sfruttando le possibilità del computer di reagire in tempo reale, suoni e immagini assumono allo stesso tempo capacità (e sovente la necessità) di agire e di modificarsi in rapporto diretto con gli spettatori, trasformandoli    di conseguenza in  attivi inter-mediari. La funzione estetico-visiva dell’arte si arricchisce qui di una nuova dimensione fisica: dallo “sguardo” dell’occhio si passa all “agire” del corpo in stretta connessione con l’opera, secondo i canoni di un’arte interattiva.

Per fruire appieno delle opere interattive, è necessario che suoni, immagini, oggettualità subiscano manipolazioni, trasformazioni, completamenti passati attraverso l’immaterialità tecnologia attivata dall‘osservatore attraverso differenti processi a seconda delle intenzioni dell’artista.

Piero Gilardi, nell’ambito del gruppo Arte Povera della seconda metà degli anni ’70 aveva scelto di intervenire, attraverso l’opera, nella vita con il desiderio avanguardistico di sperimentare materiali nuovi: allora aveva scelto la gommapiuma e il poliuretano espanso che ancora oggi connotano il suo lavoro  in cui prende corpo una sfavillante natura artificiale dai colori brillanti, quasi più bella e accattivante del reale, per esprimere, a livello di critica, la perdita del naturale a favore dell’artificio postmoderno.

  Mauro Ghiglione

                            Miriam Cristaldi

Con “Fresh & Clean” il giovane artista genovese Mauro Ghiglione ha presentato al pubblico cittadino (presso il bar-caffetteria “Dada” in via S. Bernardo, nel centro storico) un elegante volume in cui sono raccolte fotografie di sue opere accanto alla documentazione di un dialogo spontaneo tra l'artista e il critico milanese Angela Madesani. Un conversare, questo, in punta di piedi, senza proclami o sfide velleitarie, più incline a porsi come mezzo di riflessione sulla contemporaneità e per mettere a fuoco il pensiero, i timori, le angosce, le perplessità dell'autore rispetto alla recrudescenza dell'informazione dopo l'<11 settembre>, data in cui abbiamo assistito ad uno stravolgimento dei rapporti umani che ha gettato nello sconcerto il mondo intero per costringerlo in una condizione di continuo, soffocante, stato d'allerta. In questo senso Mauro Ghiglione afferma che di fronte ad “... un disagio ed una forma di annichilimento tale... esiste la consapevolezza che l'unica risposta possibile stia rigorosamente nel fare il mio lavoro d'artista”.

E il suo lavoro - di matrice concettuale, sempre molto rarefatto in cui l'oggetto è appena accennato o evocato da raffinatissime ed elaborate immagini fotografiche - da tempo si pone come denuncia di un palpabile disagio che investe l'intera umanità globalizzata sottolineandone i pericoli, i divieti, le violenze attraverso immagini che rivelano chiare simbologie come, ad esempio, la presenza di armi impugnate da mani sconosciute o il gioco di una bimba con la canna di rivoltella puntata in bocca o ancora la magrezza terrificante di un'anoressica accostata al corpo smagrito - tutto “pelle e ossa”- di un piccolo, povero, africano.

Inoltre, nello spazio sotterraneo del locale, è possibile osservare l'algida l'installazione dedicata al personaggio russo del secolo scorso, Rasputin, una sorta di eroe leggendario qui rappresentato in uno sfuocato ed intenso ritratto (granuloso nei pixel fotografici) accostato ad un bicchiere di cristallo, sporco di vino (o di sangue?). Accanto, in orizzontale, la fotografia del corpo ibernato – allungato a terra - del personaggio (simbolo della cultura contadina in contrapposizione alle patinate immagini cult della contemporaneità) recuperato dalle acque ghiacciate della Moscova con addosso una serie di pallottole e con le mani piegate ad artiglio nell'ultimo tentativo, disperato, di attaccarsi ad una lastra di ghiaccio per salvarsi. Dice la Madesani in riferimento all'opera di Ghiglione: “ ...la cosa che mi interessa molto è proprio questo urlo soffocato... la capacità di reagire, di mostrare lo sdegno o la paura senza mediazioni...”.

Miriam Cristaldi

Luigi Grande

 

Un’umanità abbacinata, scossa dal vento, senza veste, quasi in via di sparizione, gravita leggera su spiagge assolate, arenili lividi, accanto a  mareggiate dalle schiume verdastre.

L’uomo e la donna, interpretati da Luigi Grande, sembrano assumere atteggiamenti da “day after”, da ultimi abitatori della terra, quasi sul punto di scomparire, di perdere la propria identità, a colpi di spugna.

Infatti, membra e volti di personaggi sembrano stiano per dissolversi in fumose nebbie, colti in movimenti improvvisi e precari, simili a vaghi ectoplasmi assorbiti da turbini energetici che sconquassano qualunque elemento incontrino.

Personaggi fantasmatici dunque, immersi in una natura che assiste muta, asprigna (tonalità giallo-oliva), agli sconvolgimenti di un mondo sempre più asfittico a causa di esuberi velenosi ed inquinanti. Per questo, gli artisti creano oggi le loro “arche di Noè”, per sopravvivere ad un metaforico “diluvio” ( globalizzante condizione dell’universo) che sta radicalmente trasformando il pensiero umano e il suo rapporto con la realtà.

Un reale circostante dove la natura è allontanata dal filtro tecnologico, ibernata nelle immagini video, anestetizzata dai colori fluorescenti propri dei mezzi mediatici, suadente nella luminosità filmica di tali strumenti.

Nello spazio del centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 22 ottobre), Luigi Grande - noto artista

chiavarese,  da sempre attento e instancabile ricercatore di un dipingere che vuole essere allo stesso tempo spia e portavoce delle complessità odierne - ha fondato la sua pittura tenendo conto di certi esiti formali beconiani  e rivisitando avanguardie espressioniste, in particolare Soutine.

Ma l’aotore - che sa mettere a fuoco i segni della tecnologia attraverso tracce indicative come lo specchietto dell’automobile che riflette il paesaggio - pare si diriga sempre più verso espressioni artistiche dove l’idea di pericolo si interiorizza e trova nell’habitat naturalistico una panica partecipazione. Per questo le atmosfere si tingono di toni acidi così da denunciare stati d’animo allertati, mentre le forme, nell’atto del loro dissolversi, si predispongono a creare - come scrive Giorgio Seveso in catalogo - “…quegli spazi torbidi, quei tagli sghembi, quel flou dei personaggi e dei luoghi come certe fotografie dilatate dal tempo e sono proprio quello che sembrano: pittura affascinante e sorgiva, quasi sempre ispirata…”

 

            Miriam Cristaldi

 

Stefano Grondona

"Rom" è il titolo della mostra fotografica che Stefano Grondona (Genova 1952) espone alla biblioteca Berio (via del Seminario 12, fino al 15 marzo), curata da Sergio Noberini, costituita da fotografie scattate diversi anni fa, ma proposte oggi in ricorrenza del "Giorno della Memoria".

Si tratta di grandi formati, in bianco e nero, con immagini sgranate in modo da evidenziare giochi chiaroscurali e dare così corpo a un forte pittoricismo. I soggetti fotografati sono appunto gli zingari, messi in posa o colti nell'intimità familiare, accampati sulla spiaggia di Voltri in agglomerate tende e roulotte.

Da questi visi selvatici, sorridenti o in lacrime, coi capelli spettinati o raccolti in avvolgenti foulard, si possono cogliere sguardi interrogativi, occhiate taglienti, aspre ombrosità o addirittura sentimenti di stupore e meraviglia. Molto poetici  alcuni scatti come quello della ragazza accovacciata sulla spiaggia mentre soffia sul fuoco o quello dei due fratellini che prendono il cibo (con le mani) dalla pentola in alluminio posata a terra.

I profili dei corpi inondati di luce si stagliano nitidi sulle gradazioni chiaroscurali dei fondi mentre luminescenze marine rendono impalpabili le vaporose spazialità.

Grondona, artista di rara sensibilità, negli anni '8O  ha realizzato prospettici ambienti architettonici sconfinanti nell'illusorietà attraverso ossessivi, precisi, e reiterati ritagli cartacei. In seguito si è mosso verso figuralità stravolte in cui l'uomo vive la dolorosa scissione del sé, per poi realizzare grandi formati ove la complessità dell'essere si manifesta in sequenze di quinte scenografiche capaci di operare un riscatto alla sofferenza umana attraverso tecniche di straniamento.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

Guidi e Schoen: Andrea Chiesi per  “ La Repubblica”

Secondo le sacre scritture induiste Kali Yuga, il momento in cui viviamo corrisponde ad una condizione

 umana minacciosa ed oscura in cui lo sviluppo esasperato della tecnica è inversamente proporzionale

alla dimensione spirituale, in continua fase di collasso. “Kali Yuga”, che è anche il titolo della mostra

(galleria Guidi & Schoen, vico Casana 31r , 9 febbraio 10 marzo) corrisponde all’ultima Kali e in particolare

 a quel periodo della fine del mondo (o del suo totale cambiamento) da cui prenderà vita un nuovo “paradiso

 terrestre”.

In quest’ottica, Andrea Chiesi (giovane modenese presente nella giovane pittura italiana curata da

 Francesco Bonami a Villa Manin di Udine), autodefinendosi “Kali Yuga”, non cessa di fotografare, comeA

ultime testimonianze, luoghi dismessi, abbandonati, soprattutto fabbriche o aree industriali (qui viene in mente

il lavoro antropologico dei coniugi Becher) quali reperti da consegnare a future generazioni.

Ma la sua prassi operativa non si ferma allo scatto fotografico; si passa infatti ad una seconda fase in cui

avviene un pieno recupero dello specifico dell’arte con la realizzazione di dipinti ad olio nati

da una riflessione, nel raccoglimento dello studio, sul materiale fotografico per dare corpo a luoghi

fatiscenti, ad architetture sventrate o, come in questo caso, a relitti fantasmatici tratti dal complesso industriale 

delle acciaierie di Cornigliano. Strutture deformate, queste, allungate, ridotte o accentuate soprattutto

con il pedale accelerato su prospettive degeneranti per esaltare, tra giochi raffinati

di grigie tonalità, aspetti visibilmente inquietanti.

 

                                                               Miriam Cristaldi

 

Secondo le sacre scritture induiste “Kali Yuga”, attualmente noi staremmo vivendo un periodo di

estrema sofferenza e angoscia in cui assistiamo ad un esagerato sviluppo tecnologico inversamente

proporzionale all’attuale collassata dimensione spirituale, in caduta libera. Condizione che

prelude però a una grande, epocale trasformazione da cui potrebbe nascere un nuovo, rappacificato Eden.

Andrea Chiesi, giovane modenese - già invitato da Francesco Bonami nella prestigiosa mostra “Giovane

pittura italiana” a Villa Manin di Udine - attinge la propria visione artistica a queste fonti facendosi carico

di testimoniare, a futura memoria, i disagi del presente carezzando con occhio comprensivo e al contempo

inquieto i resti della nostra epoca industriale, mettendo a fuoco luoghi fatiscenti, macchinari in disuso, oggettualità

ingombranti ed inutili.

Per la mostra “Andrea Chiesi Kali Yuga” (galleria Guidi & Schoen, vico Casana 31r, fino al 10 marzo, a cura di

Maurizio Sciaccaluga) l’artista

ha scelto come area dismessa le acciaierie del complesso di Cornigliano, oggetto di una sua approfondita ricerca

e progettualità condotte attraverso lo scatto di numerose fotografie. Viene qui in mente il lavoro fotografico degli

artisti antropologici Becher (anni ’70), ma la prassi operativa prende una piega completamente diversa in quanto

si assiste ad un successivo passaggio che è la pittura ad olio. Infatti, dopo un’attenta selezione fotografica

(che diventa il soggetto) si passa alla realizzazione di quadri ad olio dipinti nel raccoglimento e nel silenzio

dello studio.

E nascono allora strutture plastico-architettoniche magicamente giocate sui contrasti del bianco e nero intervallati

a preziose gamme di grigi in cui prendono corpo paurose forme nerastre, ombre di oggettualità fatiscenti ma

anche possibili proiezione di angosce e violenze subite quotidianamente in una società globalizzata ed anonima.

Ma ciò che viene rappresentato “diventa anche un altro mondo, un luogo della mente, un luogo che è su questa terra

e al tempo stesso al di fuori di questa terra… Un Altrove parallelo che conserva soltanto una sottile traccia di quello

originario”.

  Galegati

Miriam Cristaldi

“… mi piace raccogliere cose con cui non so cosa fare, ma sono tutte cose che mi porteranno da qualche parte…. Non riesco ad estrapolare un’idea generale dietro al mio lavoro, ma quando collego tutte le cose insieme mi salta fuori un’immagine chiara… come un groviglio di nodi che va a formare una palla, ma se ti avvicini vedi solo corda annodata…” spiega  Stefania Galegati parlando dell’ultima sua mostra  (galleria Pinksummer, piazza Matteotti, Palazzo Ducale, fino al 15 febbraio), una giovane artista di Bagnocavallo (Romagna), già invitata in passate edizioni alla Biennale di Venezia ed attualmente, da due anni, in giro per il mondo nelle curiose vesti di  “zingara” (appunto senza fissa dimora).

Quest’esposizione si compone di complessi, immateriali e farraginosi elementi, satura di immagini “rubate” quotidianamente nelle strade e nei luoghi più disparati del globo attraverso l’occhio implacabile di una telecamera, attivo 24 ore su 24, e montate su  due video, interagenti con un’installazione di scritte (proiettate su parete) e con fotografie  di cui alcune riproducenti firme che talvolta i visitatori lasciano su quaderni di gallerie in occasioni di vernissage.

Sottolinea l’operazione la presenza discreta, ma centrale, di un “librino” (che Stefania ha avuto in dono da un’amica), motore e fulcro dell’esposizione in cui vi si raccoglie una storia d’amore, nata e sviluppata esclusivamente via internet, - dunque in forma astratta ed immateriale - attraverso scambi di e-mail tra un artista ed un collezionista.

Un groviglio di materiali, questi, nati quasi per caso, raccolti sotto l’ossessiva spinta di codificare tutto ciò che circonda ed avvolge la vita dell’autrice che, a sua volta,  rimanda a noi attraverso il sottile filtro dell’interpretazione.

Si vogliono qui riprodurre - apparentemente senza nesso logico e sotto la “golosa” spinta  di un’appropriazione “indebita” degli accadimenti -  certe situazioni “legate a riti e abitudini collettive” del banale quotidiano,  nella fragile specificità “di una superficie che avvolge il mondo”  come se il Sé si ritrovasse spogliato nella saga delle manifestazioni esteriori e tentasse di proiettarsi in un mondo che trova “corpo nelle vibrazioni prodotte dalla gente”, secondo una metafisica priva di profondità.

Si viene così a creare, in questo senso, una realtà corroborata da un’energia sottile “che arriva sempre per fare inciampare una natura o meglio un’esistenza da cui la spiritualità è stata bandita”.

 

                                                            Miriam Cristaldi

Galleria Ghiglione

Ghiglione 2

 

Pezzi di rilievo fanno parte della nutrita collettiva - curata da Salvatore Galliani - allo studio Ghiglione (piazza S: Matteo 68r, fino a febbraio).

Un’esposizione, questa, dove spicca un luminescente cubo azzurro dipinto da Vasarely, artista storico dell’arte cinetica (o optical art), basata su effetti ottici capaci di deformare visivamente le strutture compositive e di fornire l’idea del movimento attraverso forme statiche. Altri bei lavori  corrispondono a dipinti astratti di Piero Dorazio e Luigi Veronesi, autori di un accentuato (il primo) e delicato (il secondo) lirismo pittorico. Un’arte astratta, la loro, teorizzata dal gruppo Forma Uno che dichiara : “… non adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzo per giungere a forme astratte oggettive, non ci interessa il limone, ma nemmeno la forma del limone….” Cosa che invece interessava al Cubismo.

 E la loro pittura oscilla tra bande cromatiche ed astrazioni geometriche, intrise di luce.

Di Enrico Baj (scomparso recentemente), sono in mostra alcune opere di forte impatto visivo: la lezione Patafisica di Alfred Jarry vive nei suoi fantastici collage attraverso personaggi (famosi i “generali”) costruiti con passamaneria e tappezzerie di fondo, dando corpo ad un universo buffo, ma tragico nella sua ostensiva comicità.

Di Rotella è presente un piccolo décollage composto da manifesti strappati e riportati su tela per testimoniare azioni che quotidianamente avvengono nel contesto urbano metropolitano.

Con Jiri Kolar possiamo ammirare curiose composizioni costruite con frammenti di giornali: oggetti della comunicazione che, estrapolati dal contesto ordinario, possono suggerire - oltre al significato delle parole - esigenze visive, psicologiche, estetiche e decorative.

 

                                     Miriam Cristaldi  

 

 

“L'essenza non ha mai la possibilità di resuscitare, mentre l'esistenza ha sempre la possibilità di una seconda esistenza” scrive il filosofo francese Jean Baudrillard pensando ad una forma innata di dissociazione dalla stessa volontà umana. In questo senso, Alessio Delfino, artista savonese in mostra alla galleria d'arte “Ghiglione” (piazza S. Matteo 68r,fino al 31 dicembre), a cura di Salvatore Galliani, sembra descrivere attraverso scatti fotografici - rigorosamente in bianco e nero - un'esistenza difficile, sommessa, ai margini della società in stridente contrasto con i trionfi della tecnologia avanzata che alimenta il vivere contemporaneo. Una sorta di schisi dove l'apparire di un ambiente spettrale, disadorno, fatiscente si contamina con iconografie femminili o maschili colte nella loro sfolgorante bellezza o in pose magiche fortemente complessizzate. Quasi un mostrare - come l'attraversamento di Alice nello specchio dell'anima - una visione beatifica che illumina il buio disadorno del vivere.

Come nella grande opera “Travaux en cours” (stampa fotografica lambda su plexiglass e alluminio) dove un esultante corpo femminile giganteggia al centro, appeso ad una parete nuda (forse blocchi di cemento armato) secondo la tradizione iconografica della crocifissione. Un fascio di luce bianca esalta la crudezza della parete di fondo mentre il buio del pavimento e l'ombra che accarezza il corpo patinato attutiscono le forme restituendole a delicatezze tonali. Ma anche con l'opera “Des femmes” la bellezza del corpo femminile allo specchio (figure nere su fondo bianco) si contamina con la deformazione del riflesso così che la struttura corporea evoca certe silhouette filiformi specifiche del ragno. Grazie a “una ipotesi di simulazione del simulacro universale” (Jean Baudrillard) del mondo.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

Alessio Delfino, artista fotografo savonese, è in mostra allo Studio Ghiglione (piazza S: Matteo 68r, fino al 31 dicembre) con suggestive e rigorose gigantografie e foto di piccolo formato, tutte in bianco e nero (a cura di Salvatore Galliani), realizzate attraverso intriganti tecniche in stampa lambda su plexiglass e alluminio.

Un lavoro, questo, che investe interamente l'uomo e il suo habitat giocando sulla dicotomia tra sfolgoranti effetti patinati del corpo (sovente femminile) in stridente contrasto con l'ambiente spettrale, disadorno, fatiscente che lo circonda.

Quasi a sottolineare gli eclatanti sviluppi della tecnologia digitale che alimentano la contemporaneità e allo stesso tempo un mostrare il buio, l'isolamento, la complessità di un vivere ai margini di una società in via di grandi trasformazioni.

Gli scatti fotografici mettono qui a fuoco il disagio e la fatica del vivere, percepiti attraverso folti addensamenti d'ombra e asprezze spaziali, accentuate dalla ruvidità dei blocchi in cemento armato del fondo e da detriti sparsi in terreni disadorni.

Con “Travaux en cours” (lavori in corso) si assiste all'immagine - seminascosta dall'ombra - di un aitante lavoratore, probabilmente sfinito, che giace abbandonato su di un ponteggio che dalla finestra penetra sul pavimento di una stanza afosa (lo indica la presenza sulla sinistra di un ventilatore), disadorna e colma di detriti dove la bellezza del corpo stride con la realtà circostante.

E ancora, su fondo luminoso di un'altra foto, si stagliano le fattezze nerastre di un corpo femminile piegato sul pavimento entro cui vi si riflette con particolari effetti scenografici che lo avvicinano alla morfologia di un ragno dalle lunghe zampe nere. La bellezza può qui trasformarsi in mostro.

Particolarmente felice l'immagine - orizzontale e fortemente ingrandita - in cui appaiono solamente due occhi giovanili che ti guardano ridenti: ciò lo si può capire dallo scintillare di una luce dilagante nelle pupille e dal raggrumarsi di folte rughette attorno ad essi come se il mondo fosse annullato per esserci solamente con uno sguardo che guarda al futuro e ride al passato. O viceversa?

 

                                                            Miriam Cristaldi

 galleria Pinksummer

 

9, 12, 2004

Sono in esposizione a Palazzo Ducale presso la galleria Pinksummer di Antonella Berruti e Francesca Pennone (piano terra, fino al 22 maggio) le opere del gruppo genovese  “A 12” (architetti-artisti con riferimento concettuale all’autostrada Genova-Roma) riguardanti  problematiche spazio-temporali. In particolare si tratta di un lavoro condotto sulle fobie legate allo spazio, magari causate dallo stress della vita moderna ma che in realtà non nascono dalla complessità nevrotica di certi spazi metropolitani bensì risultano più facilmente riconducibili a ricordi ancestrali legati all’abitazione dell’uomo nella natura selvaggia con attivazioni di meccanismi psichici correlati agli istinti di sopravvivenza.

Tutti in qualche modo abbiamo provato qualche difficoltà a muoverci in spazialità o troppo aperte o troppo soffocanti, troppo abissali o troppo elevate. Un caso emblematico, qui preso ad esempio, è quello di Pascal che in seguito ad un pauroso incidente in carrozza (ha rischiato di rovesciarsi sull’orlo di un precipizio) era ossessionato dalla paura del vuoto pertanto si muoveva sempre portando con sé oggetti ingombranti (come una sedia) ad uso protezionale.

Non a caso la mostra si intitola “Heebie Jeebies”, un termine colloquiale inglese che significa ansia, disagio psicologico “… ed il cui suono buffo ci divertiva associare ad esso il ritratto austero ed un po’ inquietante di Pascal, non tanto come scrittore ma come caso illustre di fobico spaziale” – spiegano gli autori. L’estetica dello spazio attinente  agli equilibri della società contemporanea viene qui espressa, con richiamo a lavori concettuali degli anni settanta (Mochetti, Fabro, Colombo,                    ), con opere significative e particolarmente efficaci tra cui citiamo “Parete portatile” per non cadere in abissi fobici; “Camicia di debolezza” un doppio maglione per portare il peso dell’angoscia in due; un “Metro multiplo” per ridurre a misure maneggevoli misure infinitamente grandi; un “Tracciatore” al raggio laser per illuminare con la luce della ragione ostacoli complessi applicati a spazi specifici o a luoghi della quotidianità.

Spiegano ancora gli artisti: “Lo spazio con caratteri propri non si può leggere e interpretare  in relazione a chi lo usa…. Le relazioni che s’instaurano sono assolutamente personali e spesso insondabili. Come le fobie e i modi per affrontarli”. Qui sono snocciolate alcune modalità.

 

                                                                        Miriam Cristaldi

galleria “Pinta”

“Cell photos”, immagini luminose da cellulare, lievemente confuse (qualità proprie di tali icone), stampate su carta e scannerizzate al computer per poi essere fissate su foglio di plastica, sono state in esposizione alla galleria “Pinta” che - con rinnovata veste e tanta vivacità culturale - ha riaperto i battenti nella nuova sede di via Caffaro 1/20 e che oggi propone invece “Alchimia e desiderio” (fino al 26 febbraio), una collettiva che ospita, tra gli altri, Claudio Ruggeri, Giovanni Rizzoli, Lucio Pozzi e Marco Vinicio.

Sono le prime foto a colori da cellulare, quelle sopra citate, perchè l'autore, il noto artista americano Gerald Pryor, ha trasferito (da pioniere) nel mondo dell'arte quest'ultima innovazione tecnologica formulando un linguaggio innovativo esteticamente forte dove l'immagine ingrandita presenta forme e colori sgranati (qualcosa di simile alle pennellate impressioniste), ma anche dove l'aspetto pittorico si fonde magicamente con quello tecnologico-digitale.

Basando il lavoro su una doppia funzione dell'immagine stessa.

Ora piccola e al naturale (perciò più nitida e percepibile come frutto della visione), incastrata al centro dell'opera, ora fortemente ingrandita, appena sfuocata, così da apparire come sottile e delicato frutto della percezione.

“ Con il cellulare in mano basta tenere la macchina fotofrafica aperta e la vita entra nell'immagine...” spiega Gerald Pryor , artista con vocazione d'insegnante: professore alla New York University, maestro a Venezia di tanti giovani artisti e titolare di una cattedra all'università di Shanghai, in Cina. E' inoltre stato maestro del giovane, scomparso, Felix Gonzales Torres, grande star degli anni '90, mitico artista paragonabile solo al neworchese Basquiat (anni '80).

Performer spericolato, Pryor usa il proprio corpo come indispensabile mezzo per interagire con l'opera (si sparge di colori o di crema per poi aderire al lavoro fotografico lasciando “impronte fantasmatiche” di forte impatto visivo). Si occupa anche di video-arte.

Il suo lavoro non ha niente di brutale, di eccessivo o di violento, ma corre su binari che conducono diritti al cuore: la dolcezza della luce esalta l'abisso dell'ombra in un abbraccio senza fine.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

Gerald Pryor, artista americano, insegnante alla New York University, maestro a Venezia di tanti giovani artisti, titolare di una cattedra all'università di Shanghay (Cina), performer spericolato, espone i suoi ultimi lavori fotografici alla galleria Pinta (retta da Claudio Ruggeri), uno spazio culturalmente vivace che dopo alcuni anni di “latitanza” ha felicemente riaperto i battenti in via Caffaro 1/20 (fino al 28 marzo).

Un operare, quello di Pryor, sul filo della tecnologia con mostre composte da immagini tratte dal cellulare. Una tecnica pionieristica che si avvale dell'ultima scoperta digitale usando le foto luminose del cellulare per stamparle su carta, quindi scannarizzarle al computer per poi fissarle su fogli di plastica. Di questi tempi, la fotografia si sta dimostrando un linguaggio artistico inesauribile: lo stesso Oliviero Toscani ha avuto modo di dire in una recentissima intervista televisiva che mai come oggi l'immagine fotografica a carattere digitale ha delle possibilità espressive infinite, certamente più delle inmmagini mosse dei film, perché su di essa si fissa l'attenzione interattiva dello spettatore.

“Con il cellulare in mano basta tenere la macchina fotografica aperta e la vita entra nell'immagine...”, spiega Gerald Pryor, che con “Cell Photos” presenta una serie di immagini ingrandite composte da forme e colori sgranati. Qualcosa di simile al linguaggio divisionista strutturato nell'affascinante e luministica scomposizione cromatica, ma anche dove l'aspetto pittorico si fonde magnificamente con quello tecnologico.

Giocando sugli incastri e sulle differenze di formato.

Un'immagine ora piccola e perciò più nitida, collocata al centro dell'opera, ora ingigantita, un poco sfuocata, così da sembrare più frutto di un'operazione mentale che uno scatto realistico.

Da ricordare che l'artista americano è stato maestro dello scomparso Felix Gonzales Torres, grande star degli anni '90, paragonabile solo al mitico artista neworchese Basquiat degli anni '80, anch'egli scomparso, bruciato giovanissimo da una vita “border line”.

Questo lavoro è esteticamente “forte”, senza eccessi o violenze formali, estremamente poetico nell'originalità dell'immaginario visivo.

 

 

                                                                        Miriam Cristaldi

 

MAURO GHIGLIONE

Mauro Ghiglione è un giovane artista genovese profondamente sensibile ai disagi, angosce, violenze, incomprensioni, totalitarismi che abitano il mondo contemporaneo dove  “l'uomo è lupo all'uomo" e dove i dislivelli economici e gli infuocati fermenti di guerriglia trovano picchi sempre più alti.
In questa difficile, complessa, disarmonica e annichilita società senza pace (soprattutto dopo il trauma dell'11 settembre 2001), l'artista pensa che l'unica, non violenta, ma allo stesso tempo efficace possibilità d'intervento sia quella di rilevare attraverso il proprio mestiere i divieti, le sopraffazioni, gli inganni, i pericoli di un universo improvvisamente messo di fronte alla propria “incoscienza tecnoscientifica", stigmatizzato da una accelerata ipercomunicazione (che se da un lato ci unisce tutti in un unico villaggio globale, dall'altro ha reso l'uomo sempre più solo rendendo il debole più debole) causata da impensabili sviluppi tecnologici e scientifici chiamati da Paul Virilio “illusionismi o arte del falso al servizio di un'arte della menzogna: una serie di manipolazioni delle apparenze, di inganni. La <società dello spettacolo> è passata in pochi decenni dalle vecchie minacce totalitarie alle minacce globali passando dal campo elettrico al campo elettronico mondiale" - di cui non s'intravedono i risultati finali. Sono così cancellati i limiti entro i quali ci eravamo modellati per dare origine ad un'inevitabile, dolorosa, perdita d'identità a carattere individuale e collettiva.
Come ossimorico “silenzioso grido" d'allarme e al medesimo tempo come opera di svelamento di deformanti squilibri, il lavoro di Ghiglione intende appunto risvegliare le coscienze prendendo voce e corpo da matrici concettuali con l'accesso ad interventi multimediali.
Disegni, oggetti, fotografie, fonti luminose, filmati, immagini digitali, fili di luce, riflessi, proiezioni, colonne sonore, sono i mezzi con cui l'artista compone il suo sofisticato, sintetico e raffinatissimo linguaggio espressivo dando origine ad un lavoro estremamente pulito, asciutto, scabro di immagini, segnato da precise e delicate valenze estetiche.
L'impiego che fa l'autore della tecnologia è quello di “piegarla" ad una dimensione antropocentrica - rovesciando cioè la funzione per cui è stata creata attraverso un processo di allontanamento, di straniamento delle capacità macchiniche mediante l'uso ridotto, rallentato o fermo delle immagini. Ne nasce così un'interpretazione che mette a fuoco una nuova dinamica dell'uomo contemporaneo in funzione del suo habitat (andando anche a ritroso nel tempo e, in questo senso, avvicinandosi alla visione antropologica di Claudio Costa di cui Ghiglione si dichiara discepolo) - in cui appunto la persona è il centro dell'universo secondo il "nuovo umanesimo" tanto auspicato anche da Pierre Restany.
Appunto per evitare pesanti dipendenze e avviare un processo di superamento di tali mezzi tecnologici, l'artista opera al loro stesso interno come, ad esempio, nell'installazione “Passencore” composta da due filmati in cui un uomo scende (o sale) le scale - a seconda se si guarda l’originale o il suo riflesso - realizzati rigorosamente in bianco e nero e con immagini che si muovono con estrema lentezza, rifacentesi in qualche modo ai vecchi film-Luce.

E’ stata invece pensata per questa occasione l’installazione “G.R. Passencore"  strutturata attraverso una grande, rudimentale immagine fotografica in bianco e nero in cui è rappresentato il corpo impallinato di Gregory Rasputin (eroe contadino russo trascinatore di popoli, qui espresso come metafora della metafisica) recuperato dalle acque ghiacciate della Moscova con la mano alzata ad artiglio nel tentativo di salvarsi. Sopra la lastra fotografica viene proiettata un fascio di luce azzurra (della stessa misura dell'immagine) capace di rimandare simbolicamente al trascendente, così come il corpo di Rasputin sembra tendere, con il gesto della mano, al cielo. Come a dire che il corpo morto della metafisica non cessa di evocare il celeste.

 

 

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