Castello D’Albertis

Giulio De Mitri  

Museo Diocesano  

Dorazio  

Danilo De Mitri  

Marc Didou  

Marcel Duchamp  

Castello D’Albertis

In fondo ad un baule, in occasione del ripristino del Castello D’Albertis di qualche anno fa, sono stati trovati negativi e lastre fotografiche. Al loro sviluppo la sorpresa è stata grande: si trattava di fotografie curiosissime, attente alla ricerca di particolari indicativi, scattate direttamente dal capitano Enrico D’Albertis, proprietario del castello omonimo che  tra il 1875 e il 1930 durante i suoi avventurosi e spericolati viaggi ne ha prodotte oltre 20.000. Viaggi direzionati in varie parti del mondo come Europa, America (del nord e del sud), Asia, Oceania.

Soprattutto rimane mitico quel glorioso periplo che l’eclettico personaggio ha compiuto attorno al continente africano - passando per la Russia servendosi della famosa linea ferroviaria “Transiberiana” - per soggiornare numerose volte in Egitto e per partecipare a importanti scavi archeologici. Viaggi che hanno permesso la raccolta di importanti cimeli che fanno bella mostra nelle sale ristrutturate del castello genovese di corso Firenze.

Oggi queste fotografie (in bianco e nero, di piccolo e medio formato) sono finalmente visibili nella mostra “Foto che capitano” (fino al 15 ottobre), giocata argutamente sulla personalità dell’autore e riproposta o articolata in vari spazi come Finale Ligure (fino al 15 ottobre), Santo Stefano a mare (dal 5 al 20 agosto), Noli (dal 8 dicembre al 8 gennaio 2007), a cura di Camilla De Palma, direttrice del castello D’Albertis, di Andrea De Pascale, giovane conservatore del museo Archeologico di Finale, e Anna D’Albertis, nipote de capitano.

Sono luoghi, questi, frequentati durante le soste intercorrenti tra i lunghi viaggi compiuti da capitan Enrico, uomo ricco di risvolti umani, curioso e attento alla ricchezza fornita dalla conoscenza di terre sconosciute e lontane, testimone indiscusso di un momento storico aperto alla proliferazione di nuove, fantastiche prospettive. I soggetti fotografici non presentano tanto vedute o panorami oleografici quanto tendono a visualizzare particolari, volti e persone come, ad esempio, una donna nera che tiene il suo bimbo per mano mentre questo si sta voltando per essere preso in braccio; oppure  si vede lo stesso capitano accovacciato su di una vecchia auto vestito con un volteggiante mantello arabo, e poi, ancora, donne africane mentre stanno raccogliendo la cocciniglia dagli alberi per estrarre il colore rosso. Vi sono anche documenti storici come le inquadrature di Genova dell’800: si vedono abbattute le vecchie case di De Ferrari e di via XX Settembre, allora denominata via Giulia, per dare avvio al nuovo assetto cittadino.

Una mostra significativa, questa, che ci permette di appropriarci di un frammento della nostra storia. Da non perdere.

 

                                                            Miriam Cristaldi

Giulio De Mitri

 

Cinque è il numero del microcosmo umano, il numero dell’uomo che forma un pentagono con le braccia e le gambe allargate mentre in Cina è numero sacro corrispondente ai cinque punti cardinali dai quali hanno tratto il nome i cinque elementi (legno, fuoco, terra, metallo e acqua) e a cui si associano i colori di base. Cinque è anche il numero delle sacre nozze, lo “hieros gamos” poiché combinazione del femminile, numero pari a due, e del maschile, numero dispari tre. E sempre per la Cina cinque sono gli elementi; i pianeti; le montagne sacre; i veleni; gli incantesimi; le virtù cardinali…

Cinque sono pure le grandi ciotole (vuote) di bronzo, patinate in oro (diametro cm. 43), corrispondenti ad altrettanti libri aperti con pagine vuote (sempre in bronzo patinato oro), di diversi spessori e grandezze, che Giulio De Mitri ha realizzato per l’installazione “Hic et nunc” da deporre in pianta stabile a Bolognano, nella piantagione-museo “Paradise” di Lucrezia De Domizio Durini.

Un lavoro, questo, fortemente simbolico collegabile sia con l’universalità delle manifestazioni allargate ai cinque continenti, sia con la tradizione ermetica o con le dottrine alchemiche per gli intrinseci richiami agli Elementi e alla pietra filosofale (metafora di un faticoso cammino verso la luce della conoscenza) proprio nella solarità della sottile patina dorata oltre che, quest’ultima, magnifica espressione della “quintessenza”  riferibile alle forze terrene.

Grandi ciotole metalliche, dunque, “… una realtà della materia, vasi contenitori vuoti - spiega meglio Giulio De Mitri - nati da un’idea progettuale riconducibile al Vaso Ermetico e capaci di racchiudere simbolicamente l’energia, luce primordiale della materia e della psiche per dare origine ad una muova spiritualità attraverso la creazione cosmica, la conoscenza e il logos”.

Un complesso percorso quindi tra ciotola e libro, due archetipi fortemente connotabili nella natura dell’uomo dove la ciotola-vaso, simbolo di grande potenza, per la tradizione Zen rappresenta la comunicazione dello spirito, dal maestro al discepolo, e allo stesso tempo è chiara metafora della vacuità quando essa ci viene posta davanti.  Come in verità sono vuoti gli Io di chi dona e di chi riceve, sempre secondo il pensiero orientale, riconducibili alla condizione di “vuoto” della mente di tale dottrina.

Ciotole-tazze che in realtà - appunto come la mente vuota -  possono accogliere tutto e il Tutto può accogliere l’universo così come i libri, anch’essi vuoti ma, di per se stessi, ideali contenitori di memoria, di pensiero e di sapere. Libro, leggibile quindi come simbolo della cultura e della trasmissione di un sapere superiore, custode della sapienza, attributo del dotto e materiale di scrittura insostituibile di qualsiasi cultura (nell’araldica il libro aperto è emblema di città universitarie). E ancora, se natura e spirito  si manifestano all’inconscio come grandi potenze della vita, il libro si propone più come possibile ricettacolo dello spirito.

Hic et nunc allora come archetipo di un “vuoto sacrale” comunicante tra ciotole e libri di bronzo (effuso in luce dorata) che attende di essere colmato dall’osservatore. Anche.

 

Miriam Cristaldi

 

 

 

                                                                         Giulio De Mitri

 

Luce come quintessenza e fondamento su cui si struttura il complesso, delicato e raffinatissimo lavoro di Giulio De Mitri. Luce in tutti i sensi: sia che investa la sfera dello spirito come espressione endogena all’opera stessa capace di creare un’aura mitico-sacrale, sia che si materializzi in fonte luminosa concreta che investe l’intera opera “smaterializzandola” del suo peso specifico.

Nascono così fotografie, installazioni, dipinti, sculture, grafica, immagini digitali tratte da video, a carattere fortemente multimediale e in piena sintonia con la contemporaneità del villaggio globale.

Ma allo stesso tempo opere come corpi luminescenti che elidono l’incombenza dell’universo planetario per alitare, aeree, in uno spazio raccolto e misterioso proprio come quello dell’interiorità.

 

GIULIO DE MITRI


Il lavoro di Giulio De Mitri  nasce e si sviluppa per mezzo di una felice interazione tra differenti linguaggi - col tempo sempre più sofisticati nell'assumere caratteri tecnologici - pur mantenendo una costante visione poetica basata sull'essenzialità d'espressione rafforzata dall'efficacia di una rappresentazione simbolica che, a coda di pavone, ruota e dipana il reale nella pluralità del senso.
Un artista che, come ha detto di lui Gillo Dorfles, “sa ribellarsi all'agguato di miracoli cibernetici e di virtualità elettroniche  che possono pericolosamente incrinare qualità più peculiarmente umane" ma che costantemente sa mettere l'uomo al centro dell'universo rifacendosi a quella visione mediterranea della Magna Grecia, propria della sua terra.
Partendo da esperienze estetiche di pittura con cromie vibranti capaci di suscitare atmosfere extra-temporali (ricordiamo la presenza di  De Mitri, nei primi anni ottanta, nel gruppo “Una nuovissima generazione nell'arte italiana" di Enrico Crispolti),  l'artista, in seguito, interviene con materiali anomali, tecniche extra-pittoriche - dal collage all'assemblage -  servendosi anche di  oggettualità ricavata dal quotidiano e caricandola di valenze metaforiche non esenti da aspetti sacrali.
Ad esempio un uovo dipinto d'oro, o una piccola testina greca, diventano nell'economia dell'opera elementi scatenanti una tale quantità di significati da ribaltare l'aspetto poverista in una ricchezza di forte pregnanza alchemico-espressiva come se la materia tendesse ad una sorta di ricerca della pietra filosofale, in particolare di quell'anima mundi capace di illuminare l'intero percorso artistico.
La performance, cioè il corpo dell'artista che crea e legittima spazio, si accompagna costantemente al lavoro quasi come una scrittura vivente che, avvalorando l'esistenza e l'opera, ne sottolinea il concetto.
Poi, oltre all'uso della grafica e del linguaggio fotografico e di immagini digitali, resi sempre con qualità altamente simboliche che permettono di uscire dalle categorie spazio-temporali, l'artista si avvale anche di impianti tecnico-luministici complessi che dilatano il senso intrinseco dell'opera trasfigurando i materiali adottati in luminescenti valenze estetiche di forte impatto visivo.
Prendono così corpo particelle di luce simili a vibratile pulviscolo atmosferico che abita e si diffonde nello spazio installativo trascendendo l'aspetto “opaco" dell'immanenza materica per allinearsi alle fatiscenti, mobile ed eteree immagini digitali del video che, specie negli ultimi lavori, sottolineano, accompagnano e mettono a fuoco l'intero territorio auratico, multimediale, del complesso installativo dell'autore.
Esemplare in questo senso l'installazione “Materia Spirituale" in cui materiali come plexiglas, fibre ottiche, pigmenti d'oro e turchese, si pongono come segni e tracce evocanti un passato remoto trasfuso nell'atemporalità di un futuro che sconfina in orizzonti invisibili (alla percezione) ma leggibili con gli occhi della mente.
Una chiara simbologia in cui l'oro metaforizza radiosità solari e si fa voce di elevate spiritualità mentre il turchese evoca profondità celesti ed affondi nell'inconscio. E poi, luce, come creazione cosmica, conoscenza e logos.
Per questa mostra l'artista parte dalla fotografia di un evento performativo - che rielabora in un secondo tempo - per poi collocarla in una scatola di plexiglas retro-illuminata, parzialmente, dando origine, alla percezione visiva, ad una forte connotazione tridimensionale dell'immagine. Nasce così una “immateriale" ed elegantissima “light box" in cui l'immagine interna, fissata su pellicola trasparente, si offre alla visione come icona-simbolo, come pattern espressivo di un'auratica luminescenza capace di trasferire l'opera nelle altezze di una dimensione appartenente al mito piuttosto che planare sull'orizzontalità di una versione mondana.
Un lavoro, quello di De Mitri, che potrebbe allora annunciarsi come una sorta di emblematica “offerta" in cui l'artista - officiante - sembra richiamare, “sugli altari del mondo, la dimensione del sacro in tutti gli aspetti del possibile".

 


 

Danilo De Mitri

 

Figlie di scatti fotografici, fascinose e, illuminarei.cieli notturni, effondendo nello spazio lampi improvvisi capaci di illuminare mobilisdsimi ee che attrave brillanti immagini digitali si presentano alla percezione visiva come fluide, filamentose, scie cromatiche, possibili vie latteee che attraversono volte turchine e cieli notturni, effondendo nello spazio improvvisi lampi di luce destabilizzanti.

Mobilissimi pulviscoli atmosferici sembrano risucchiati da bagliori analogici per effondere nello spazio un’impalpabile “materia immateriale” luminescente, sovente risolta in accese e vivacissime tonalità blu-cobalto - dissolventesi in gradazioni azzurro-verdoline che svaporano su neri fondali - mentre al centro di tali luminescenze “sparano” chiarori accecanti.

Si tratta di fotografie realizzate - con macchina digitale - da Danilo De Mitri, giovane artista tarantino, figlio d’arte, che da tempo sonda le potenzialità di tale linguaggio tecnologico  per giungere ad una personale definizione dell’arte quando afferma che “… la mia luce è più di una luce fisica, è una luce interiore, spirituale, che avanza catalizzando il silenzio in un’attesa quasi religiosa…”.

E per arrivare a preziosi risultati, l’artista utilizza faretti, piccoli corpi-luce spesso in rotazione,

posizionati in uno spazio assolutamente buio per poi fotografarli sotto diverse angolazioni con  zoomate acrobatiche in modo do cogliere quella sottile, fragile, pervasiva  luce in movimento.

Tecnicamente, i negativi vengono stampati su lambda (carta fotografica) in seguito plastificata per assumere superiori gradi di lucentezza, infine biadesivizzata su m.d.f. (legno polverizzato e pressato) per raggiungere severe connotazioni di “quadro”:
Opere raffinatissime, dunque, non prive di un’aura iniziatica pur nella loro algida composizione tecnica dove tracce inanellate di luce sanno comporre fantasmatici immaginari della mente - volti a sublimazioni dello spirito - ma anche capaci di cogliere impeti naturalistici dove tracce stellari sembrano attraversare, fulmineamente, profonde e magiche densità atmosferiche.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

                                              

Museo Diocesano

 

Gli artisti liguri Aurelio Caminati, Milli Coda, Gigi Degli Abbati, Walter Di Giusto, Maria Giulia Drago, Luigi Grande, Giovanni Job, Bruno Liberti, Renata Minuto, Marcello Sergio Mogni, Palladini, Anna Ramenghi, Luigi M. Rigon, Arturo Santillo, Raimondo Sirotti, Giuseppe Trielli hanno felicemente realizzato la mostra “16 artisti per Virginia Sancta”(Virginia Centurione Bracelli, santa genovese da poco salita agli onori dell'altare) - sotto la spinta propulsiva di Walter di Giusto - nella sede del Museo Diocesano di Genova (fino a tutto gennaio 2005).

L'esposizione è corredata di un bel catalogo a colori con testi di Bottaro, Caprile, Centurione Boschieri, Fumagalli Carulli, Martini.

Una mostra, questa, scrive il cardinale arcivescovo Tarcisio Bertone, da intendere “... come una nuova forma di approfondimento della santa figura, capace di coglierne in modo sintetico e intuitivo risonanze nuove e attuali e di proporre la sua come le altre esperienze di santità all'uomo d'oggi, che chiede forse con più insistenza di scorgere intorno a sé le indicazioni che altri suoi fratelli e sorelle hanno tracciato sulla via del Vangelo”.

Un'icona, quella della santa seicentesca, che affiora misticamente e gioiosamente dai dipinti espressi nei vari linguaggi dei 16 artisti, immagine e sottintesa presenza di qualcosa che trascende i limiti dell'umano per suggerire atmosfere di rispettosa e al contempo soffusa sacralità.

Con Walter Di Giusto si assiste ad una visione, tra le altre, in chiave metafisica, magicamente filtrata di toni blu, mentre il giovane Mogni propone qui un'efficace e fantasmatica interpretazione della Bracelli, quasi ne riesumasse l'essenza antropologica. Con Degli Abbati si assiste ad una sofisticata e magistrale struttura compositiva capace di richiamare i fasti della storia dell'arte. Job presenta un'intenso primo piano della Santa nell'attimo fugace di un'improvvisa apparizione mentre Liberti configura suggestive profondità celesti evocatrici della sacra presenza. Palladini ne celebra il trionfo. Rigon evoca invece il riscatto sepolcrale. Sirotti e Trielli non cessano di creare turbinose ed appassionate atmosfere attraversate da lame di luce spirituale.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

Dorazio

 

 

“L’arte astratta non è più in funzione di rottura, ma è azione per una nuova cultura”… non adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, non ci interessa il limone, ma neppure la forma del limone…”, sono questi gli annunci del Concretismo internazionale (arte astratta) di Van Doesburg e Max Bill, affermatosi negli anni trenta del secolo scorso apparsi sul manifesto del gruppo “Forma Uno” fondato nel ’47 da Piero Dorazio, Giulio Turcato,  Pietro Consagra, Carla Accardi… Un movimento questo che si opponevano fermamente alle espressioni del Realismo, in particolare quello vicino al partito comunista di Guttuso.

Dorazio è tra le voci più forti e intransigenti che prescinde dalla realtà per riconoscere l’arte nella stessa opera “concreta” dell’artista. Il maggiore sviluppo l’artista lo conosce negli anni ’60 quando ha dato vita ad un particolare linguaggio pittorico basato sulla costruzione di “tectures” in cui s’incrociano (o si stendono in parallele) linee di colore costituenti una fitta trama interagente con intensi accordi luministici, di grande sensibilità e di forte impatto visivo.

In seguito l’artista si abbandona a maggiori libertà superando la ferrea disciplina delle textures. Si possono ammirare significativi lavori alla galleria “Marco Canepa” (via Caffaro 20r, fino al 20 gennaio 2007), rappresentativi delle diverse fasi dell’artista in cui tracce lineari e puntinistiche di colore rendono vibratile e luminoso il campo pittorico, richiamando alla percezione (per certi versi) i pixell televisivi quando rappresentano il noto disturbo visivo composto da filamenti e puntinismi di luce

Immagini storiche, dunque, precorritrici (alla lontana) di un immaginario tecnologico e allo stesso tempo fantastico, fautore di magnifici e analogici arcobaleni del pensiero.

 

 

                                                Miriam Cristaldi

 

“… non adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, non “ci interessa il limone, ma neppure la forma del limone…”, è questo uno tra gli enunciati promossi dal Concretismo Internazionale (arte astratta) sbandierato da Van Doesburg e Max Bill, affermatosi negli anni trenta del secolo scorso: parole pubblicate sul manifesto del gruppo “Forma Uno” fondato nel ’47 da Piero Dorazio, Giulio Turcato,  Pietro Consagra, Carla Accardi… che si opponeva vivamente alle espressioni del Realismo, in particolare a quello di Renato Guttuso dell’area comunista.

Dorazio è tra le voci più forti e intransigenti di quegli anni: prescinde dalla realtà per riconoscere l’arte nell’opera “concreta” realizzata dall’artista. Il maggior momento di sviluppo lo conosce negli anni ’60 in cui ha dato vita ad un particolare linguaggio pittorico basato sulla costruzione di “textures” in cui s’incrociano (o si dispongono parallele) per dare corpo a una fitta trama di linee di colore interagenti con lame di luce, di grande sensibilità e di forte impatto visivo. Poi l’artista si è abbandonato a maggiori libertà. Si possono ammirare significativi lavori alla galleria “Marco Canepa” (via Caffaro 20r, fino al 20 dicembre), rappresentativi delle diverse fasi dell’artista in cui tracce cromatiche lineari (o puntinistiche) rendono vibratile e intensamente pittorico un campo visivo fortemente eccitato, richiamando vagamente all’appercezione i pixell televisivi. Immagini storiche, queste, precorritrici di un immaginario tecnologico contemporaneo oltre che creatrici di acrobatici arcobaleni del pensiero.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

 

Marc Didou

 

Con l “Immateriale della Materia - dalla scienza dell'immagine alla creazione artistica”, il giovane artista francese, Marc Didou, presenta i suoi lavori in mostra sia alla galleria “Martini & Ronchetti” (via Roma .... fino a metà novembre) che nelle sale del museo di S. Agostino (inaugurazione il 27 ottobre insieme a quella del Festival della Scienza) attraverso un'operazione sottilmente concettuale basata sull'uso (per la prima volta in arte) di immagini strettamente scientifiche come quelle della TAC o della risonanza magnetica.

Immagini, queste, caratterizzate da multiple sezioni che stratificano e suddividono il corpo umano in vari piani accostati. Col risultato artistico di comporre forme che, alla percezione visiva, appaiono, per certi versi, simili all'intuitivo linguaggio plastico-frazionato del grande artista romano Mario Ceroli. Con la differenza che qui le immagini sono rigorosamente figlie della scienza (perchè fornite esclusivamente da apparacchiature utilizzate in medicina per la diagnostica) per essere rielaborate attraverso complesse anamorfosi che restituiscono l'interezza dell'opera solo attraverso l'immagine virtuale che uno specchio curvilineo - posto davanti all'opera - riflette costantemente.

In galleria sono esposti raffinati ed originali “ritratti” di Marc Didou, in marmo rosa del Portogallo, illeggibili ad una prima visione realistico-percettiva - dato che hanno subito un processo anamorfico destrutturante ricomponibile solo nella forma specchiante riflessa - ma leggibili esclusivamente come astratte ed armoniche silhouette che abitano creativamente lo spazio circostante.

Nel museo di S. Agostino, affiancati da un percorso scientifico realizzato dalla facoltà di Medicina e Chirurgia, e dalla divisione di Risonanza Magnetica di Genova, i visitatori avranno modo di approfondire le leggi di ottica e di anamorfosi e di diagnostica per immagini.

Accompagna l'operazione un video che illustra il metodo di lavoro dell'artista.

 

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

Marcel Duchamp

 

 

  Marcel Duchamp è uno straordinario personaggio del secolo scorso considerato il fondatore dell’arte contemporanea: un artista geniale attraverso cui tutta l’arte attuale – dall’installazione alla performance, dalla fotografia alla produzione filmica - gli è debitrice.

Tutte le espressioni linguistiche di oggi sono partite da lui che, con gesti dissacratori, è riuscito a rompere i ponti con la tradizione (la rappresentazione del mondo attraverso i canonici linguaggi della pittura e della scultura) facendo saltare, in arte, l’antico (e purtroppo superato), armonico  rapporto tra uomo e società.

Duchamp (1887 – 1968) è il simbolo stesso del linguaggio concettuale, una forma d’arte che trova nelle idee quella ricchezza straordinaria capace di soddisfare i palati più fini dei fruitori. Per questo, dopo aver concluso le ricerche cubo-futuriste che impazzavano in quel momento storico (1911), con un colpo da maestro ha spezzato il pennello per dare origine ai “ready made”: oggetti non costruiti da lui ma estrapolati dal contesto abitativo senza l’esecuzione di interventi personali (se si esclude il cambio di posizione nello spazio) per essere trasportati nel Museo che, per statuto dell’arte, nomina l’oggetto stesso “opera d’arte”.

La scelta dell’oggetto è fondamentale per Duchamp che vi impiegava moltissimo tempo prima di compiere quella decisiva. Tra i tanti ready- made ricordiamo i più eclatanti come “La ruota di bicicletta”, “Lo scolabottiglie”, “Fontaine”, “The door” (la porta che allo stesso tempo mentre apre una soglia ne chiude un’altra). Riteneva che la libertà era importantissima per l’artista e che doveva essere usata attraverso un’estrema creatività (“libera creatività” era il suo motto).

Ora, a Villa Croce è stata inaugurata un’esemplificativa mostra del Maestro francese intitolata “Marcel Duchamp: una collezione italiana” in cui si presenta per la prima volta  in Italia la collezione di Luisella Pignone composta da 150 opere tra disegni, grafiche, ready-made e fotografie che documentano la ricca attività concettuale di questo artista, vero faro e punto di riferimento di ogni espressione d’arte dal ‘900 ad oggi.

A cura di Sergio Casoli con catalogo Skira curato dal gallerista e collezionista Arturo Schwarz.

Dopo l’accurata e severissima selezione dell’oggetto, Duchamp passava al “colore” spiegando che ogni oggetto aveva un suo “colore verbale” corrispondente al proprio titolo, di solito coincidente con il nome stesso.

Vi sono anche in mostra le diverse incisioni che Duchamp ha raggruppato sotto la denominazione di “Grande Verre” o più specificamente “Mariée mise à nu par ses célibataires, meme”  (la cui storia troverà la conclusione  mezzo secolo dopo nell  “Etant donné”, opera a cui lavorò per gli ultimi vent’anni della sua vita, 1946 – 1968) composte dalla Sposa, Nove stampi maschili, Setacci o Crivelli, Testimoni oculari,  Mulino ad acqua e Macinatrice di cioccolato, qui disposte in varie sezioni ma che l’artista aveva raccolte sull’unica superficie di un grande vetro, quindi sottoposte ad azione di”raffreddamento” e di “smaterializzazione” appunto attraverso il supporto trasparente della materia vitrea.

“Grande Vetro”: opera da molti considerata alchemica (l’opus magnum dell’alchimista) e che ha richiesto da parte dell’autore la sua piena attenzione, dal 1915 al ’23. Vi si evidenzia un ironico accostamento dell’uomo alla macchina ma più sottilmente potrebbe essere letta anche come una “tavola” ricca di riferimenti riconducibili alla tradizione ermetica.

Nella sezione delle “Boites” (scatole) si distingue un lussuoso cofanetto verde in cui sono raccolti un assortimento di 93 fogli a stampa dei bozzetti del Grande Vetro, riprodotti da Duchamp dopo avere saputo che la sua opera più importante si era frantumata.

L’artista ha sempre creduto che “la pittura non deve essere solo visiva o retinica. Deve interessare anche la materia grigia, il nostro appetito di comprensione”.

Infatti quando l’arte scopre una verità attraverso il fulmine di un’idea è come se per l’appetito corporale gli venisse offerta una succosa bistecca.

Una mostra da non perdere.

 

                                               Miriam Cristaldi

 

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