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Collettive villa Croce

Luigi Carpineto  

Pierre Casé

Franco Carrozzini  

Celant

cina

Baj, Boetti, Costa, Ceroli, Capogrossi 

CLAUDIO COSTA A CASA JORN  

CLAUDIO COSTA(n)

Claudio Costa, Fritz Roed e Thor Heyerdahl

Trasformazione: principio che muove e guida il lavoro di Claudio Costa

Claudio Costa(Note biografiche)

Giacomo Costa  

Collettiva “Il Poliedro”

Colombara

Commenti Genova 2004

Contro e Vento

 

Contro e Vento

Nella Saletta dell’Arte del Galata Museo del Mare si svolge la mostra collettiva “Contro e Vento” nata da un progetto itinerante pensato da Gianni Notari, partito dai Comuni dell’Appennino reggiano e giunto a Genova (porto, zona Darsena, fino al 28 gennaio, tel 010 2345655) per proseguire altrove, con una preziosa raccolta di opere di artisti nazionali e internazionali vertente sul tema, per certi versi scottante, dell’Energia rinnovabile.

Un argomento, questo, socialmente serio poiché l’attenzione è direzionata sugli urgenti problemi energetici che attanagliano l’universo intero (non si contano i convegni tecno-scientifici disseminati in ogni capo della Terra che trattano questo argomento) tenendo conto soprattutto degli effetti collaterali dovuti all’inquinamento e alla graduale (ma costante) diminuzione delle materie prime atte a produrre energia per riflettere profondamente sulle possibilità di fonti alternative.

Gli artisti - attraverso la simbologia dell’arte - qui trattano di fonti rinnovabili e di energia pulita,  cercando creativamente di ridisegnare nuove empatie, nuovi progetti, nuovi rapporti tra uomo e ambiente attraverso il collante della poesia, fusa con la scienza. Tutto questo magnificamente riconducibile alla chiara ed euclidea metafora dei quattro elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco.

Pablo Atchugarry, Alfonso Bonavita, Philip Corner, Claudio Costa, Giacomo Costa, Angelo Davoli, Mauro Ghiglione, Piero Gilardi, Pietro Iori, Alessandro Lupi, Iler Melioli, Giordano Montorsi, Pietro Mussini, Fabrizio Plessi, Daniel Spoerri, Ben Vautier, Wal, Corrado Zeni sono gli artisti presenti a questa rassegna per andare “contro” corrente, contro i percorsi sbagliati e per deviare la forza del “vento” in energia pulita. Com’è appunto il titolo dell’opera di Atchugarry (Contro e Vento) in marmo bianco di Carrara che si spinge verso l’alto attraverso morbide ondosità plastiche.

Altrettanto etereo appare l’agglomerato di ondosità trasparenti riconducibili al lavoro di Melioli mentre delicate, esili ombre di luce declinano lo spazio di Mussini. Con Claudio Costa si elettrizza un campo di grafite atto ad evocare magiche energie carboniche. Il giovane genovese Alessandro Lupi presenta invece un affascinante e misterioso corpo umano realizzato esclusivamente con fili di luce.

(Sabato, domenica e festivi ore 10 – 19,30. Da martedì a venerdì ore 10 – 18).

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

CLAUDIO COSTA A CASA JORN

 

 

“Se con il “pensiero debole” si intende la filosofia degli ultimi duecento anni - specifica il filosofo Emanuele Severino durante il corso di un intervista - cioè il pensiero filosofico che da Hegel, cominciando con Schopenhauer, Leopardi e Nietzsche arriva fino ad oggi, allora il pensiero debole (filosoficamente fortissimo) è la filosofia che nega una verità assoluta, un essere immutabile, un fondamento del tutto. E’ cioè una critica al “pensiero forte” della tradizione, cui il pensiero debole si contrappone. E il pensiero forte si basa sullo “stare sopra” ogni forza che vorrebbe scuotere il sapere”, conclude Severino.

Ma se la filosofia dei nostri pensatori ha vinto la battaglia con il passato  e si dà per scontato che non esistano più la verità e l’essere assoluto, oggi il pensiero filosofico sembra avere deposto le armi. Non ci sono teorie che rappresentino con particolare intensità le crisi identitarie causate da sconvolgenti fenomeni come quello della “globalizzazione” o quello delle inimmaginabili e inquietanti prospettive fornite dalla tecnologia avanzata.

Il sociologo polacco Zygmunt Barman, che ha dedicato parecchi scritti ai cambiamenti nella società globalizzata e contro le paure postmoderne, suggerisce risposte di grande valore etico e morale spiegando che “…l’individualismo esasperato è stato una falsa liberazione che ha portato ansia, disagio e incertezza… Però c’è un antidoto: basta agganciare e sviluppare il culto della responsabilità individuale. Perché la globalizzazione ci ha alienati ma può fornirci conoscenze insospettabili. E la conoscenza è di per se stessa libertà…”.

In particolare, di fronte all “oblio dell’essere”, allo strapotere del progetto tecnoscientifico che governa il mondo e ad una così fragile e precaria convivenza tra i popoli della terra dove la specie umana, secondo Paul Virilio, “ è a fine corsa perché non è più in grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che mai”,  anche l’arte sa avvertirci dei pericoli che corre l’uomo contemporaneo, talvolta indicandoci alcune vie salvifiche da percorrere.

Una potrebbe essere quella proposta da Claudio Costa, artista tra i fondatori dell’Arte Antropologica  che da sempre ha saputo guardare al futuro nel comprendere l’importanza di una comunicazione il più possibile allargata ad una rinnovata socialità (basti pensare al grandioso progetto “Skull Brain Museum Africa ’95” attraverso cui l’artista nomina opera d’arte l’intera Africa settentrionale) e che  ha saputo “ascoltare” un passato lontanissimo (più che un recente passato manieristico di carattere postmoderno), carico di simboli e di ritualità tribali che tanto affascinano  la gioventù metropolitana odierna. Gioventù che scimmiotta certe ritualità primitive addobbandosi con selvagge pratiche del piersing e che si incide la pelle con fioriture di tatuaggi mentre ridisegna il mondo in vistosi “graffiti metropolitani”.

Costa, di fatto, ha succhiato linfa in passati remotissimi, agli albori della preistoria, ormai sepolti nella coscienza dell’uomo ma ben radicati nelle wunderkammer dei suoi simboli e del suo inconscio (vedi “Evoluzione involuzione” - Claudio Costa, ed. Masnata ’72).

Allo stesso tempo ha anticipato il “nuovo umanesimo” auspicato oggi da sociologi e antropologi come dallo stesso critico d’arte Pierre Restany quando, poco prima della sua scomparsa, ha avuto occasione di precisare nel corso di un convegno organizzato al centro culturale Satura (Genova 2002) : “ … si rende necessario l’affacciarsi di un “nuovo umanesimo” per affrontare il fenomeno societario attuale caratterizzato dalla dimensione di dolce apocalisse: un’apocalisse quotidiana recuperata dai giovani artisti attraverso l’espressione mediatica, ove si assiste al trionfo del banale per dare origine a una specie di realtà ibridata secondo cui l’arte diventa ipnotico…”.

Claudio Costa, tra i più grandi artisti della seconda metà del secolo scorso, al di fuori di scuole e schemi (amava definirsi “cane sciolto”) - più vicino ad un pensiero forte diluito però nella magica liquidità dell’alchimia - ha infatti posto l’accento sulla  “regalità” della persona secondo una visione antropocentrica che tiene conto delle grandi capacità creative e cognitive umane non disgiunte da capacità di dialogo, indispensabili motori di un universo minacciato da fondamentalismi, da euforie di potere, da incredibili e preoccupanti sviluppi tecnologici e da critiche condizioni societarie a carattere implosivo.

Per certi versi, egli si è avvicinato alla radicalità di un Beuys secondo cui  “ogni uomo è un artista”, anche il più alienato. E Costa lo ha dimostrato dedicando gli ultimi anni della sua vita ad attività arti-terapiche rivolte in particolare a degenti psichiatrici.

E il suo lavoro, basato sul “principio di trasformazione” - secondo cui il reperto oggettuale, spesso appartenente alla cultura materiale, viene trasformato in altro da sé - piano piano, inesorabilmente ed instancabilmente si è dipanato nel tempo senza mai cedere alle lusinghe estetiche del piacevole. Semmai cercando di scuotere le coscienze “addormentate” mediante opere di non facile comprensione, sovente realizzate con scostanti materiali di scarto, allo scopo di produrre nell’osservatore quella sensazione alquanto scomoda di “pugno allo stomaco” attraverso  un’estetica del “brutto” che, mi spiegava Claudio, “sarà proprio il bello del mio lavoro”.

E l’artista, assumendo il complesso compito di consegnare il passato alla storia ricorrendo a magiche “trasformazioni” dell’oggetto in disuso  (tornato a vivere grazie ad affascinanti interpretazioni di carattere antropo e zoo-morfo per poi “affogare” alchemicamente in impasti di fango o di cera liquida o di bianche calcinature) è tuttavia riuscito ad infondere nell’opera un’eccezionale, armonica, compostezza formale. 

Un’opera, la sua, facilmente direzionata verso visceralità dionisiache ma che, nella sua severità di sintesi formale, sa pure acquisire aspetti di euritmica classicità per essere anche in grado di assumere straordinarie condizioni di prezioso reperto, di misteriosa reliquia evocanti tempi remotissimi.

Ma, al tempo stesso, un’opera eccezionalmente contemporanea proprio in virtù di un’efficace ricchezza simbolico-evocativa, endogena al lavoro stesso, capace di sollecitare nell’osservatore un improvviso quanto emozionale risveglio di tutti e cinque i sensi. Nessuno escluso.

Si dispone in questo senso, nell’economia del lavoro, una sintassi di segni primari appartenenti ad un ipotetico e magico alfabeto a carattere universale, comprensibile da ogni uomo sulla terra a prescindere dall’appartenenza di questo o quello stato o religione che sia. Ieri, come oggi e domani. Sempre, nell’essenzialità di un “linguaggio primario” composto da lettere marchiate a fuoco.

Un po’ come certi segni della preistoria rivisitati dall’ arte contemporanea che, allo stesso tempo, possono alludere a codici futuribili di non chiara decifrazione ma che risvegliano immediatamente in chi osserva, la fascinosa energia degli archetipi  galleggianti nel profondo della coscienza.  

Un cammino antropologico, dunque, per altri aspetti battuto anche da Asger Jorn quando sulle tracce del primitivo ha estrapolato quei segni per accedere ad ulteriori chiavi di lettura  necessarie alla resa della sua debordante pittura.

Non cessava di ripetere Claudio “… ma quante cose abbiamo smarrito!..”, e ancora “… il gran fiato dei secoli sale verso l’aurora: fra le costole e le vertebre della colonna sento il frusciare delle palme tropicali che avevano ricoperto la terra intera…”.  E poi: “Al  <grande vuoto>  (epistemologico) preferisco il <Grande Vetro>, spina dorsale spaccata, trasparente scala iniziatica dell’Alchimia” (“Sublimato potabile”, Claudio Costa, ed. Valsecchi ’81).

Una dichiarazione, quest’ultima, che avverte del suo delicato ed appassionato tentativo di recuperare arcaiche conoscenze sapienziali per raggiungere anche le “sponde esteriori dell’artificio” prendendo a prestito la visione alchemica del mondo suddiviso nell’essenzialità dei quattro elementi Terra, Acqua, Aria, Fuoco. Operazione che ha scandito, strutturato e raccolto l’intero suo lavoro.

Riguardo alla sfera dell’alchimia egli ha avuto occasione di puntualizzare (catalogo della XL11 biennale di Venezia):

“L’artista, il facitore d’opera, l’artore, dovrà pur sempre essere un alchimista laico, un decifratore di codici celati nelle pieghe e nelle anse sotto le strade dell’umanità, è un funambolo ardito che gioca con i cuori, un esegeta disposto a rivelare i pittogrammi invisibili che avvolgono la pelle dell’uomo. Se l’alchimista dimostra essenzialmente, l’artista si mostra in profondità, con ciò che potremmo definire la poetica del grido… L’alchimista sa di proiettarsi in una disciplina che lo condurrà alla libertà della materia e dello spirito: non ha bisogno di interrogarsi dove la si rinvenga, per potervi giungere.

Cosciente di ritrovarsi nel labirinto della vita, con i mezzi a sua disposizione,  e con l’aiuto della natura, delle sue essenze, cercherà il suo filo di Arianna e sa che, quando l’avrà trovato, con l’osservanza dei principi della dottrina, potrà raggiungerne l’origine. Per lui la libertà sta, al colmo della sua storia, nel riunirsi di alfa con omega, nell’impadronirsi del mistero doppio, ma strettamente legato, dell’origine e della fine. Non cercherà tanto una liberazione dal suo stato terreno, che accetterà come naturale e necessario, quanto ne perseguirà una purificazione…

L’arte, nel suo divenire, non determina una possibile catarsi attraverso la rinuncia alla finitezza della sua condizione, ma coglie il suo momento di definizione nella liberazione di tutte le sue potenzialità espressive, nel superamento dei suoi limiti”.

  Costa (notari)

“Sappi o carissimo che in ogni cosa creata sotto il cielo sono quattro elementi, non per vista ma per virtù, onde i Filosofi sotto la coperta della scienza dell’elemento hanno insegnato questa scienza… Per artificio del sovrano Creatore che ha creato la massa confusa – dopo essere stata  meravigliosamente  separata e rettificata – è stata divisa in quattro Elementi: a causa di questa separazione si producono cose diverse…” Così recitano alcune frasi di Hermes Trismegisto, filosofo alchimista dell’antica Grecia che Claudio Costa ha avuto occasione di leggere  e fare tesoro (tra gli altri testi) attraverso una personalissima prassi processuale che lo ha accompagnato durante tutto il suo breve ma intenso cammino artistico.

Un cammino per certi versi “illuminato a priori”, senza cioè averne piena coscienza: infatti è solo verso la fine, poco tempo prima della sua scomparsa, che si è accorto della mirabile costituzione del suo lavoro perfettamente leggibile in quattro successivi momenti corrispettivi ai quattro elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco; anche se coscientemente ha attinto spesso a piene mani all’universo alchemico ma senza pensare di formare un “corpus unico” così fortemente aderente alla teoria dei quattro Elementi. Una visione del mondo, quella alchemica, interpretata però esclusivamente da artista, al di fuori di pastoie esoteriche e filosofiche vissute e praticate dal vero alchimista.

E allora, attraverso il principio di trasformazione costantemente presente nel suo operare, ricordiamo il suo lavoro con l’argilla, cruda o cotta, che riveste, fascia o costruisce oggetti lontani nel tempo fino a raggiungere le condizioni della preistoria per “appropriarsi” delle origini dell’uomo e ri-conoscere negli antenati comuni quelle conoscenze sapienziali perdute nella notte dei tempi.

Le “colle”, le “tele acide” o i “grafiti” simbolicamente si trasformano allora in “zolle di Terra” che evocano i colori della foresta o del carbone delle miniere. Poi nascono le liquidità delle “cere”, idealmente presentabili come Acqua fangosa nella quale vengono immersi (a caldo) oggetti contadini, ossa, detriti… Oggetti qui rimasti ingabbiati, fissati nella cera raffreddata e protesi alla fruizione visiva a testimonianza di mondi scomparsi o in via d’estinzione. Seguono quindi le grandi opere calcinate di bianco o lastre di cristallo su cui sembrano posarsi misteriosi insetti volanti: pareti d’Aria vissute all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Ge-Quarto (dove l’artista è stato presente come arte-terapista e fondatore del l’Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli dall’86 fino alla sua scomparsa nel ‘95) a contatto con la follia (da follis = gonfio d’aria) su cui sono state esorcizzate e liberate paure schiodate dall’inconscio.

Infine il Fuoco dell’Africa, ricordiamo i soventi viaggi di Claudio nella “terra dei fuochi” (così da lui battezzata) segnata dal sangue di belve inferocite e da lotte fratricide o ancora dal rosso della finissima terra africana che divampa sulle tele dell’artista accanto alle ocre dei baobab, ai neri delle maschere antiche del luogo e ai verdi-bruciati dei palmizi. Quasi un cammino di sublimazione idealmente teso verso la ricerca della Pietra filosofale: “E’ una Pietra non Pietra in cui tutta l’Arte consiste… Non la troverete sulla terra perché non vi cresce: cresce soltanto nelle caverne delle montagne. Tutta questa Arte dipende da lei: perché chi ha il sapore di questa cosa ha il dorato splendore del Leone rosso…”.

 

                                               Miriam Cristaldi

                                                                        Miriam Cristaldi

                                                                        Claudio Costa, Fritz Roed e Thor Heyerdahl,

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             

 

 

Con “La via dell’arte 2003”, fotografie ed opere degli artisti Claudio Costa, Fritz Roed e del navigatore Thor Heyerdahl, sono state esposte in una significativa mostra al Museo della Ceramica “M. Trucco” di Albisola.

Accomunati da una personale visione del mondo di carattere antropocentrica, ove l’uomo è collocato al centro dell’universo, i tre personaggi sono stati accostati - ciascuno nelle proprie specificità - per avere avuto una concezione della vita  e dell’artisticità in qualche modo simile all’idea del “viaggio”.

Sia nella simbologia di un viaggio diretto verso la propria interiorità e verso l’altro da sé, sia nel  navigare faticoso nelle acque di una conoscenza acquisita con studi e contatti con civiltà in via d’estinzione.

Con uno spostamento di 365° che va dal “Villaggio globale” al “Villaggio primitivo” attraverso comparazioni, costruttivi dialoghi, e lunghi viaggi, focalizzando l’attenzione su quelle componenti  psicologiche, storiche, antropologiche, sociali, che costituiscono il bagaglio esperienzale dell’intera umanità, poiché le diversità dell’Essere sono infinite come infinitamente complesse  si presentano le sue identità.
Il senso interno, ricco di rimandi e significati simbolici, si esplica in questo caso nella capacità della mente di riflettere sulle differenze di carattere etnologico, cercando di interpretare una visione del mondo dal punto di vista dell’indigeno situato ancora in un tipo di società arcaico-patriarcale.

“Quando un vecchio muore è una biblioteca che brucia” si dice in Africa.

Il confronto col passato e con la storia antropologica può porsi allora come specchio entro cui rifletterci per “riconoscerci” in quello che eravamo e per comprendere meglio quello che oggi “non siamo più”, alla ricerca di nuove identità, nuovi modelli cui fare riferimento per vivere meglio i cambiamenti epocali e tecnologici che si susseguono ad incredibili velocità.

Questo per cogliere la complessità di una trama sociale che il passato rende ancora più intricata e che nell’evidente ridefinizione nell’attualità approda ad un’evocante full-immersion nel presente per dirigerci verso le incognite del futuro.

Affiora in questo senso la necessità di un allargamento della coscienza verso una “concezione antropologica” dell’universo in modo che la ricerca scientifica non si soffermi solo sugli aspetti del primitivismo  ma si muova verso  la contemporaneità dove la condizione umana vive l’ideologia interna al mondo telematico,  così che i potenti richiami archetipici dell’uomo “vecchio” contaminino quelli dell’uomo “nuovo”, oggi impegnato a vivere gli incredibili cambiamenti epocali.

Che poi è quello che hanno cercato di dire i tre personaggi in mostra Nella Via dell’Arte.

 

Il continente africano è sempre stato nel pensiero di Claudio Costa. Nelle sue ricerche antropologiche l’Africa, quale culla e origine del mondo, viene considerata come territorio primigenio che può far sentire, a chi vi giunge forestiero, di essere arrivato “a casa”. Ma anche Africa i cui miti e riti stanno velocemente cambiando tanto da produrre espressioni creative autoctone, figlie della contemporaneità.

E’ a questa dimensione libera e creativa cui egli si è rivolto, per attivare uno stretto rapporto di lavoro e di amicizia tra artisti occidentali e africani  e per  avviare la costruzione di Musei in quegli stati dell’Africa attraversati dal profilo cranico dell’”Homo Erectus”. Una fetta d’Africa, questa, che egli fa firmato come “opera d’arte” in virtù del suo enunciato (un rovesciamento del concetto duchampiano) secondo cui non è l’oggetto che deve essere trasferito nel Museo, ma è invece “…il Museo che deve essere spostato attorno all’oggetto, esaltandone la funzione e nominandolo OPERA D’ARTE”. Ciò per non snaturare il contesto ambientale che invece connota  ed esalta l’oggetto nella sua funzione.

Ciò, secondo le modalità di un’operazione concettuale presente in tutti i Musei creati dall’artista, in questo caso, coincidente col progetto “Skull brain museum - Africa ‘95”.

Progetto rimasto a livello utopico in cui si prefigura l’oggetto (Africa settentrionale) coronato da un anello di Musei. Anello che per statuto dell’Arte può dichiarare questa porzione d’Africa, “Opera d’arte”.

Si tratta di un grande progetto dai vastissimi significati simbolici, composto di varie tavole colorate e non realizzato sul piano fattuale a causa dell’improvvisa scomparsa dell’autore.

Ma proprio per la grande carica utopica di cui il progetto è portatore, non necessita una reale concretizzazione perché potrebbe dissolversi nel dispiego titanico di energie in un’ampiezza spazio-temporale quasi illimitata.

Prende invece corpo una connotazione “concettuale  e immateriale” dell’opera (vedi “Materia Immateriale - identità, mutamenti, ibridazioni dell’arte nel nuovo millennio”, Miriam Cristaldi, ed. Peccolo, Livorno 2003) già prevista un anno prima della scomparsa dell’artista.

Infatti, nel giugno del ’94, riferendomi  alla pre-mostra allestita nella cava di marmo La Piana (a Colonnata di Carrara), organizzata di concerto con Claudio Costa (tra gli artisti partecipanti) ed uniti da una visione artistica basata su di una comunità d’intenti, scrivevo: “…nella circostanza di questo evento, la virtualità è stata espressa al massimo grado possibile (infatti nella cava La Piana si è svolta soltanto una velocissima pre- mostra fra gli addetti ai lavori, senza spettatori) : andando oltre le mostre potranno essere concepite a livello totalmente virtuale, sparendo come eventi normalmente fruibili” (da: “Arte come pre-, la Virtus della virtualità” , Miriam Cristaldi, ed. Parise, Verona 2004).  Così vale per l’opera.

                       

 

 

Trasformazione: principio che muove e guida il lavoro di Claudio Costa

 

 

Riconsiderando l’intera opera di Claudio Costa si può affermare che tutto il suo pensiero gravita attorno al principio di TRASFORMAZIONE secondo cui la materia conferisce all’oggetto una vita autonoma simile a quella di un organismo vivente composto da un proprio codice genetico strutturato per programmare cambiamenti. Ragionamento valido anche per la struttura mentale del pensiero.

Paradigmatiche in questo senso sono, tra i primi suoi lavori del ’70, ‘71, le  “Tele acide”.

Tele imbevute di acidi diversi che continuano ad agire nello scorrere del tempo producendo un’inarrestabile erosione capace di trasformare la componente cromatica del tessuto in immagini pittoriche mutabili metereologicamente. Così come per le “Colle” (di pesce o di coniglio)  che nel tempo si distendono o si rattrappiscono cambiando forma e colore.

TRASFORMAZIONE che diventa per l’artista anche PRINCIPIO ATTIVO su cui imperniare l’ opera.

Un principio riguardante la concezione del vivere come cammino verso mete sempre nuove, producenti nell’essere trasformazioni che permettano il raggiungimento di vari gradienti di conoscenza.

Anche la cura amorosa rivolta verso la cultura materiale, quale recupero di una tradizione in via d'estinzione, nel processo operativo tende a riscoprire quegli effetti morfologici che arricchiscono l’oggettualità con significative valenze simboliche ricche di rimandi antropologici.

Ed è in questo senso che l’oggetto della cultura materiale (in disuso) acquista vita propria, densa di significati intrinseci e al contempo testimone, per future generazioni, di un recente passato da consegnare alla storia.

Noti sono gli studi dell’artista condotti sul cervello umano, da lui denominati “Craneologie”. Il cranio come contenitore osseo del cervello quale organo e fonte di pensiero, centralina della vita, metafora del mondo, ma anche simbolo della morte qualora si bloccasse la funzionalità.

La sua ansata e labirintica forma può proporsi anche come emblema del difficile cammino umano che, tra gli inevitabili intoppi e percorsi ciechi, può condurre ad una sorta d’illuminazione.

Trasformazione che, partendo dal reale, può raggiungere la sfera comportamentale e collocarsi nella fattualità della storia.

Ecco allora che gli studi a carattere antropologico-etnologico dell’artista (negli anni ’70 ha fatto parte del gruppo Arte e Antropologia con i coniugi Becker, Christian Boltanski, i coniugi Poirier ecc.) possono diventare mezzo per leggere il futuro attraverso uno sguardo complesso rivolto al passato cercando di ricostruire un mondo perduto. Un passato remotissimo, che cerca nell’origine del mondo quella conoscenza sapienzale che è stata perduta nel tempo in maniera inversamente proporzionale allo stratificarsi dei livelli culturali che si sono succeduti nello sviluppo dell’uomo contemporaneo.

O meglio, Claudio Costa TRASFORMA il concetto di “passato” in una fluida componente sanguigna capace di pompare vita ad un futuro incerto ed asfittico, passibile di metaforici “diluvi universali” paventati dal filosofo Paul Virilio in cui si può collassare da un momento all’altro “nel nulla elettronico…”.

Se lo sviluppo tecno-scientifico ha portato a nuove grandiose scoperte, al contempo si profilano rovelli etici e problematiche inedite che conducono l’uomo in una condizione di crisi d’identità.

A nuovi modelli di vita corrispondono cambiamenti radicali di pensiero.

Una visione della Natura, presa a prestito dall’alchimia (non priva di aspetti sciamanici), diventa per Costa simbolo stesso della trasformazione che essenzializza l’universo nei quattro Elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco.

Elementi che scandiscono l’intero suo lavoro in quattro rispettive fasi, partendo dalla “Terra” codificata con l’operazione museale di Monteghirfo per concludersi drammaticamente col “Fuoco” ardente dell’Africa, nel 1995. Nel nome di un’arte “…che comunica e penetra nei processi segreti della natura del tutto inverificabili scientificamente”, dove “…sappiamo che ogni forza si può misurare,  o sentire o provare o percepire, ma non potremo visualizzarla se non in simboli astratti“ (Claudio Costa).

Scrive di lui Gillo Dorfles (2001): “… la forza di questi Elementi s’incarna nei materiali spesso trovati, anzi cercati, così che i suoi lavori assumono una perentorietà che solo attraverso un “opus magnum” – recondito forse allo stesso autore – può realizzarsi”

Costa aveva espresso un desiderio: “Vorrei che l’ultimo mio lavoro fosse un capolavoro…”.

                     

                                                            Miriam Cristaldi

 

CLAUDIO COSTA

Considerando complessivamente l'opera di Claudio Costa si può affermare che l'intero suo pensiero ruota attorno al principio di TRASFORMAZIONE secondo cui la materia conferisce all'oggetto una vita autonoma simile a quella di un organismo vivente composto di un proprio codice genetico strutturato per programmare cambiamenti autonomi, al di là dalle intenzioni dell'artista. Un ragionamento che vale anche per la struttura mentale del pensiero.
Paradigmatiche in questo senso sono, ad esempio - tra i primi suoi lavori degli anni '70 - le “Tele acide", tele imbevute di acidi che continuano ad agire nello scorrere del tempo producendo un'inarrestabile erosione (che sfugge al volere dell'autore stesso) capace di trasformare la componente cromatica del tessuto in immagini pittoriche mutabili metereologicamente.
Lo stesso vale per le “Colle" di animali, usate in quegli anni.
Trasformazione che diventa per l'artista anche “principio attivo" su cui imperniare l'intera opera.
Un principio riguardante anche la concezione del vivere come cammino verso mete sempre nuove, producenti nell'Essere trasformazioni che permettano il raggiungimento di vari gradi di conoscenza.
Anche la cura amorosa rivolta verso la cultura materiale, quale recupero di una tradizione in via d'estinzione, nel processo operativo tende a riscoprire quegli effetti morfologici che arricchiscono l'oggettualità con significative valenze simboliche ricche di rimandi antropologici.
Ed è in questo senso che Claudio Costa fa in modo che l'oggetto della cultura materiale (in disuso) acquisti vita propria, densa di significati intrinseci, facendosi testimone di un recente passato da consegnare alla storia.
Noti sono gli studi dell'artista condotti sul cervello umano denominati “Craneologie" e che magicamente ma, allo stesso tempo, inesorabilmente terminano il suo cammino con il lavoro concettualmente ciclopico intitolato   “Skull Brain Museum Africa '95" in cui il profilo del cranio dell'uomo Erectus combacia perfettamente con il profilo dell'Africa Settentrionale, nominandola (per statuto dell'arte) “opera d'Arte".
Cranio come contenitore osseo del cervello, organo e fonte di pensiero, centralina della vita, metafora del mondo, ma anche simbolo della morte qualora se ne bloccasse la funzionalità.
La sua ansata e labirintica forma può proporsi anche come metafora del difficile cammino umano che, tra gli inevitabili intoppi e percorsi ciechi, può condurre ad una sorta d'illuminazione. In questo senso è da evidenziare il suo abitare da arteterapeuta nell'ospedale psichiatrico di Genova-Quarto (dalla seconda metà anni '80 fino alla sua scomparsa) dove il disagio psichico del luogo, unito alla ricchezza umanitaria fornita da esperienze di dolore, si fa valido mezzo per comporre una visione catartico-esplorativa.
Sono da citare gli studi a carattere antropo-etnologico degli anni '70 (ha fatto parte del gruppo Arte Antropologica con i Becker, Boltanski, i Poirier...) in cui uno sguardo rivolto al passato cerca di ricostruire un “mondo perduto". Uno sguardo che trova nell'origine del mondo quella “luce" sapienziale che è stata perduta nel tempo in maniera inversamente proporzionale allo stratificarsi dei livelli culturali che si sono succeduti fino allo sviluppo dell'uomo contemporaneo e dove tutto ciò è stato magnificamente teorizzato in “Evoluzione e Involuzione" (Claudio Costa, ed. Masnata '72).
Allo stesso tempo l'artista condivide una visione del mondo presa a prestito dall'Alchimia che per lui diventa sinonimo di “trasformazione" (trasformare la materia bruta in oro) e che essenzializza l'universo nei quattro Elementi: Terra, Acqua, Aria, Fuoco.
Elementi che scandiscono l'intero cammino operativo in quattro rispettive fasi, alla luce di un'arte dove “sappiamo che ogni forza si può misurare o sentire o provare o percepire, ma non potremo visualizzarla se non in simboli astratti" (Claudio Costa).

 


 


 

Claudio Costa

Note biografiche.

 

Claudio Costa nasce a Tirana in Albania il 22 giugno del 1942 da genitori italiani.

Nel ’62 vince a Milano il premio Diomira per il disegno e nel ’63 il premio S. Fedele.

Dal ’62 al ’65 studia architettura al politecnico di Milano.

Nel ’64 vince la borsa di studio per l’incisione indetta dal governo francese e si

trasferisce quindi a Parigi presso l’atelier di S. W. Hayter (dal ’65 al ’68) dove ha l’occasione di incontrare Marcel Duchamp, punto di riferimento importante per il suo lavoro in bilico tra la scattante forza dell’idea e la calda materialità dell’oggetto trovato.

A Parigi, nel’68, vive la rivoluzione del maggio francese che condizionerà fortemente il suo stile di vita; partecipa agli ateliers liberi che si sono formati per stampare le affiches del movimento                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                             studentesco. Nell’autunno torna in Italia, a Rapallo, dove approfondisce la figura di Ezra Pound che lì aveva soggiornato per parecchio tempo.

Nel 69 inizia un lavoro con riferimenti all’antropologia e alla paleontologia (ricostruzione degli uomini primitivi). E’ di quest’anno la sua, importante, prima personale alla galleria genovese La Bertesca, spazio che ha visto nascere (un anno prima) il gruppo dell’Arte Povera. Conosce gli artisti di questo movimento con cui ha alcune affinità di materiali ma obiettivi diversi. Inizia infatti una ricerca  su materiali non specifici in arte, usati allo stato puro, senza implicazioni simboliche che individua in grafiti, amido, colla di pesce o di coniglio, acidi, fotocopie, argille.

Nel 71 pubblica per le edizioni Masnata il testo teorico “Evoluzione Involuzione” in cui scandaglia aspetti antropologici.

Nel ’72 si apre ad amicizie Fluxus, di cui condivide l’equazione arte-vita, in particolare con Filliou, Brect, Chiari, Ben, Vostell.

Nel ’73 l’interesse antropologico lo porta a studiare i riti e i miti delle popolazioni primitive  attraverso un viaggio in Marocco e contatti col museo di Wellington per la realizzazione di un                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        lavoro sulla popolazione neozelandese dei Maori

Nel ’74 è presente con una personale al museo Ludwig di Aachen, poi ad Amburgo e a Monaco con la mostra collettiva  del Gruppo Arte Antropologica in “Spurensicherung” (= Arte delle tracce) - teorizzata   da Gunter Metken - insieme agli artisti Christian Boltanski, Roger Welch, Didier Bay, Nancy Kitchel, Jean Le Gac, Anna e Patrick Poirier, Charls Simonds, Nancy Graves, Jean Marie Bertholin, Nikolaus Lang, Paul-Armand Gette, Jochen Gerz.

 Nel 1975 studia la cultura contadina e fonda a Monteghirfo, paese dell’entroterra ligure vicino ai luoghi della sua infanzia, il “Museo di antropologia attiva” basando il suo pensiero teorico sul rovesciamento del “ready made” : infatti, se Duchamp dichiara opera d’arte l’oggetto spostato nel museo, Costa - al contrario - applica lo spostamento del museo attorno all’oggetto dichiarando museo il contesto attorno all’oggetto (oggetto che rimane quindi fermo nel luogo di appartenenza mentre chi si sposta è il museo).Un museo della civiltà contadina, dunque, ma anche museo della memoria quale recupero di una civiltà in estinzione da consegnare a                             ut                         ure generazioni.                                                                           

Nel ’77 si trasferisce a Genova e teorizza l’ “Work in regress”, un lavoro nato in contrapposizione all’ “Work in progress” di James Joice; è anche invitato ad esporre a Documenta 6 di Kassel dove nella sezione “Archeologia degli umani” , curata da Gunter Metken, conclude il ciclo strettamente                                                                    antropologico col lavoro intitolato “Antropologia riseppellita”.

 Nel 1978 partecipa a Bologna alla mostra “Metafisica del quotidiano”  con opere di matrice alchemica. La scoperta della tradizione ermetica lo indirizza verso lo studio “della filosofia e della                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  magia naturali” con cicli di lavoro dal titolo: “il giallo come materia”, “Il nero come sostanza”, “la calcinazione del bianco”, “Le meduse del tempo”.

L’alchimia, in questo momento si fa oggetto di studio che concluderà nell’86 con la sua partecipazione alla Biennale di Venezia nella sezione curata da Arturo Swarz. Nell’ultimo periodo di vita Claudio Costa spiega l’intero suo percorso artistico attraverso una visione alchemica del mondo essenzializzata nei quattro elementi Terra, Acqua, Aria, Fuoco, corrispondenti alla suddivisione del suo lavoro in 4 cicli. Questo in adesione ad una lettura che esula da pratiche protoscientifiche (ormai desuete), ma che si pone idealmente come simbolo della trasformazione che l’uomo opera in sé durante il cammino della propria vita.

Un cammino che dalla nigredo della Terra arriva alla rubedo, o al fuoco dello spirito.

Nel 1981 è invitato alla mostra “Mithos e Rituals” alla Kunstalle di Zurigo dove ha occasione di conoscere Joseph Beuys che, dopo Duchamp, diventa punto di riferimento non indifferente, specie nel tipo di fede riposta nella natura e nell’uomo, in particolare nella qualità di una comunicazione  rivolta all’altro da sé.

Nell’85 è invitato alla mostra “Museo immaginario dell’Archeologia” nei pressi di Lascaux: la visita alle grotte di questo luogo lo impressiona. D’ora in poi richiami ai graffiti rupestri saranno presenti nei suoi lavori come mezzi per evocare le origini dell’uomo e come riflessione sull’origine dell’arte: egli ritiene che per vivere il presente e proiettarsi nel futuro sia fondamentale conoscere il proprio passato, specie quello remotissimo. Questo per recuperare una conoscenza sapienzale perduta nel tempo.

Nel 1986 conclude il lavoro strettamente alchemico con l’opera intitolata “Diva bottiglia (per un Museo dell’Alchimia)”, esposta alla Biennale di Venezia nella sezione “Arte e Alchimia”.

Intanto trasferisce il suo studio nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto dove inizierà un proficuo rapporto di arte-terapia coi pazienti.

Nei lavori dell’87 si evidenziano, su fondi bianchi, forme totemiche nere (con richiami a mostruosi “insettacci”, maschere tribali, robot) come espressioni di paure tratte dall’ombra dell’inconscio e  trasferite nella luce della coscienza. Vengono usati altri materiali: lamiere, legni anneriti, terre rosse, così da definire un’iconografia hard, priva di compiacimenti, meccanomorfa. Nascono in questo momento lavori in  pseudo- bronzo: oggetti rivestiti di pittura dagli effetti bronzei così da memorizzare nel presente quella mitica età storica.

Espone al Mercato del Sale la personale il “Corpo alchemico primitivo” e alla galleria La Polena, a Genova, la mostra “Bronzea, gli ultimi lavori conosciuti”.

Un granello di sabbia è diventato una pietra: nell’88 fonda nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto, l’Istituto delle Materie e Forme Inconsapevoli (Arte della persona,  ed esercita la professione di arte-terapeuta in collaborazione col centro Diurno di salute mentale.

Questo Istituto si concentra soprattutto sulle problematiche volte allo sviluppo della creatività nell’ambito psichiatrico ed incentiva incontri, relazioni, con personalità della cultura.

Nell’89 codifica una nuova materia: la ruggine, considerata cifra espressiva del suo lavoro. Egli sottolinea la naturalità di questo fungo del ferro perché è mirabilmente capace d’irradiare qualità pittoriche  oscillanti tra l’oro e i rossi bruciati e di evocare fortemente l’elemento fuoco. L’artista, per l’uso, confeziona una sorta di “ruggine prefabbricata” stendendo al sole lamine di ferro bagnate con acqua e sale.

Alla fine dell’89, inizio ’90, prendono avvio i viaggi in Africa: è  invitato da Claudio Spadoni a Malindi, in Kenya, all “African dream Village” (di Giulio Bargellini), con l’opera “L’albero della cuccagna” (tema ricorrente in quattro sue installazioni).

La cultura africana lo induce a un critico confronto con se stesso portandolo inoltre a lavorare nelle dimensioni molto grandi.  Fa uso di materiali del posto (maschere, totem, oggetti naturali e artigianali) che reinventa con libertà interpretativa. Nascono quantità di lavori tuttora inediti.

Nel giugno del ’90 è ancora a Malindi, invitato dall’amico veronese Nino Pezzino che lo soprannomina “Claudio l’africano”, nella cui casa esegue grandi installazioni.

In Italia partecipa inoltre a una serie di mostre intitolate “Arte come Evocazione” (a cura di Miriam Cristaldi, ’90-’92).

E’ presente a Parigi con la personale “Prehistorie ed anthropologie”, alla Galerie 1900-2000 con testi di Flaminio Gualdoni ed Enrico Pedrini.

A Milano , alla galleria Cavellini-Cilena,  espone “L’assedio instancabile del fare” a cura di Flaminio Gualdoni.

Nel luglio del ’91 è di nuovo a Malindi, invitato da Nino Pezzino, dove crea altri lavori africani.

A dicembre è a Kampala, in Uganda. Tornato in Italia, a Verona, presso la galleria La Giarina, espone la mostra “Africa” con testi di Giorgio Cortenova e Miriam Cristaldi.

Nel ’92 fonda nell’ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto il Museo attivo delle Materie e Forme Inconsapevoli (naturale emanazione dell’Istituto omonimo) insieme a Miriam Cristaldi (critico d’arte), Luigi Maccioni (psichiatra) e Antonio Slavich (direttore dell’ospedale). E’ questo un museo-attivo di espressioni artistiche che raccoglie opere di artisti professionisti e pazienti psichiatrici. Costa espone i lavori di Davide Raggio,  un lungodegente psichiatrico considerato genius loci dell’ospedale genovese.

A Torino, alla galleria Tauro Arte, presenta “Lavori africani” con testi di Francesco Poli e Miriam Cristaldi.

I simboli accoppiati del cuore e del cervello entrano da questo momento con frequenza nei suoi lavori come metafora della Maestà dell’uomo che fa uso sapiente di questi organi dosando con oculatezza ragione e sentimento.

E’ invitato a Dakar, in Senegal, presso l’Istituto Italiano di Cultura.

E’ inoltre invitato alla V° Biennale d’Arte di Dakar.

Per la terza ed ultima volta è ancora a Malindi per lavorare, ospite, da Nino Pezzino.

 Nell’ospedale psichiatrico vede la luce il lavoro “Terre emerse” composto di lamiere di ruggine affogate nella cera liquida per simulare isole nell’oceano.

Nel ’93 espone  alla galleria Soave “Terre emerse”, a cura di Marisa Vescovo.

Inizia a Sarzana il ciclo della Virtualità ( trilogia sull’ “Arte come pre-“ a cura di Miriam Cristaldi) ove è presente con l’opera “Il sonno sospeso degli angeli”.

Per la seconda volta è invitato a Dakar dall’Istituto Italiano di Cultura con il compito di insegnare alla scuola d’Arte della città. Qui,  alla Galleria Nazionale di Dakar, allestisce una mostra pubblica con tutti i pezzi creati sul posto.

Promuove, in collaborazione con l’IMFI, nell’ex ospedale psichiatrico di Genova, il convegno”Arte: luoghi, percorsi e voci, arte tra virtualità e oggetto estetico”.

Nel ’94 è a Milano, da Massimo Valsecchi, con la mostra personale intitolata “Claudio Costa”.

Esegue la performance dell’ “Appeso” alla cava di marmo La Piana (Massa Carrara), in occasione dell’ultima operazione sulla trilogia della Virtualità, con commento di Bruno Corà.

In luglio, inscena la sua ultima performance intitolata “Arcimboldo evocato” nella piazza di Sarzana (La Spezia).

Nel ’95 si delinea il progetto “Skull Brain Museum – Africa ‘95” = “Museo del cranio e del cervello” che dichiara opera d’arte l’Africa Settentrionale.

Questo progetto evidenzia che il profilo di un cranio preistorico combacia perfettamente col profilo dell’Africa settentrionale. Nei 34 paesi, compresi in questo profilo geografico, l’artista avrebbe dovuto fondare altrettanti Musei con presenze europee e africane unite in un unico abbraccio universale.

Il 2 luglio scompare improvvisamente.

 

                                              Miriam Cristaldi

 

 

 

 

 

 

Colombara

 

 

E’ appena uscita una splendida e corposa monografia dell’artista genovese Piergiorgio Colombara (edizione De Ferrari, Genova 2005) comprendente foto (a colori  e in b. e n.) che illustrano l’intero suo percorso operativo arricchito da testi critici di Francesco Poli, Massimo Donà, Sandro Parmigiani, Marinella Paterni e da un’intervista di Maurizio Monero.

Piergiorgio Colombara è un personaggio particolarmente sensibile e profondo che oltrepassa il muro della superficialità con gli ultrasuoni di silenziosi echi; anzi, per dare voce e corpo al silenzio, negli anni ottanta crea misteriosi strumenti musicali dove le casse armoniche sono prive di corde. “Strumenti muti”, li chiama, ricchi di musicalità nel loro aspetto di fragile eleganza ma al contempo “sonori” nel far affiorare il senso della mancanza, dell’assenza, affinché l’osservatore sia costretto a codificare il vuoto con affondi nella spiritualità. Una sorta di “trascendenza estetica” che Francesco Poli dichiara  “sia destinata al fallimento non togliendo nulla all’autenticità della ricerca” mentre nell’economia del lavoro questa sembra  la corda più toccante e più convincente. Se nei decenni precedenti l’artista creava  affascinanti oggetti di rame o in ottone, dai caldi riflessi dorati, con protesi in vetro soffiato oscillanti in simbologie tra il sacro e l’alchimia, oggi crea calchi in gesso per ottenere fusioni in bronzo rappresentanti fasciature in pizzo di corpi, gambe, volti, teste, busti il cui interno è assolutamente vuoto. L’originalità di queste sculture, che sempre teorizzano l’assenza, sta nel creare delicate e preziose forme traforate in bronzo - ricavate da pizzi e merletti autentici - mosse in vellutate flessuosità come se fossero abitate dal corpo umano mentre invece risultano completamente cave. Presenze fantasmatiche, dunque, che richiamano a viva voce figure femminili in tutta la loro grazia e che riescono a suggerire un’intima, segreta realtà dell’anima. Un sottolineare certa femminilità oggi in estinzione?

 

                                               Miriam Cristaldi

 

 

 

 

 

 

E’ stata appena pubblicata una elegante e corposa monografia dell’artista genovese Piergiorgio Colombara (edizione De Ferrari, Genova 2005) comprendente foto (a colori  e in b. e n.) che illustrano l’intero suo cammino artistico comprendente testi critici di Francesco Poli, Massimo Donà, Sandro Parmigiani, Marinella Paterni e un’intervista di Maurizio Monero.

Piergiorgio Colombara riesce a concentrare, nel suo lavoro, significati di alto valore simbolico ed estetico con richiami alla trascendenza attingendo a risorse mistico-religiose attraverso oggetti-reliquia e all’esoterismo di certe valenze alchemiche dove alambicchi, imbuti, aeree forme in vetro soffiato dialogano con il “caldo” dorato dei materiali metallici come il rame e l’ottone.

Persona incline alla riflessione e per dare “voce” al silenzio, negli anni ottanta Colombara crea curiosi ed enigmatici strumenti musicali dove le casse armoniche sono prive di corde. “Strumenti muti”, li chiama, ricchi di musicalità nel loro aspetto di fragile eleganza ma al contempo “sonori” nel far affiorare il senso della mancanza affinché l’osservatore sia costretto a codificare il vuoto con affondi nel territorio della spiritualità. Spiega lo stesso Colombara: “L’interesse per il suono l’ho portato avanti con sodalizi d’arte negli anni ’70 con la frequentazione di personalità come Massimiliano Damerini… che ci ha visti insieme più di vent’anni a costruire concerti e azioni teatrali nelle gallerie d’arte, musei, teatri”.

Oggi l’artista realizza misteriose, e per certi versi fantasmatiche, fusioni in bronzo ottenute da calchi in gesso di pizzi e merletti modellati in curiose forme a tutto tondo capaci di strutturare una sorta di involucro metallico traforato al cui interno si vede nient’altro che il vuoto assoluto. E queste inquietanti “fasciature” danno corpo a magici stivali, a fantasiosi guanti, a fantomatici corpi femminili delineati secondo vellutate movenze e ritmati in estetici abbandoni. Tutto rigorosamente cavo come le classiche lenzuola che fasciano il nulla per materializzare fantasmi.

Afferma ancora l’artista: “I soggetti di queste sculture rappresentano parti di un vestiario che, abitati da fantasmi,  vivono con i loro movimenti per essere fermati in un attimo particolare… opere uscite dall’inconscio o dalla memoria di letture fantastiche…” quasi a fissarsi fuori dal tempo e dallo spazio per appartenere all’eterno.

Al contempo sculture altamente simboliche, espressioni di alta poesia segnate da accenti filosofici capaci di teorizzare una magica ed inquietante visione dell’esistenza e del mondo circostante.

Miriam Cristaldi

 

25 marzo 2005                            

 

 

“Orliquia” di Piergiorgio Colombara

 

Alambicchi in vetro, anelli di ottone, lamine di rame, piccoli objet trouvé, fogli di bronzo, cera, fili di corda o di rame, clessidre, sono i materiali con cui Piergiorgio Colombara, solido artista genovese, costruisce grandi installazioni o piccole sculture attraverso complessi e delicati collage. Guardando al mondo del mito e sondando gli asbissi del mistero, cercando il vuoto, il silenzio e descrivendo l'assenza per sottolineare la presenza.

Vengono allora in mente i suoi strumenti musicali “muti” (anni '80), senza capacità sonore (“cantare è un modo di tacere” aveva commentato Jankèlévitch), ma vibranti nel gioco di luci che scintillano sulle lamine metalliche dove l'ottone diventa oro e il rame si accende in bagliori infuocati simili a fiamma che non brucia mentre il bronzo si veste di sole. Mentre il vetro fa da “campana” che ammortizza il rumore, lo ingloba in tubi, sfere, coni per annullarsi nei calibratissimi equilibri dei materiali e fluire verso una dimensione di magica trascendenza.

Opere capaci di sprigionare energia psichica e di creare spazi oscillanti tra senso e non senso, sospesi tra realtà e finzione, ora fissando l'attenzione sul margine dell'opera, ora sulla centralità della messa in scena, giocando sovente sull'ambiguità dell'immaginario e indagando sulla profondità di pensiero. Con “Orliquia”, Piergiorgio Colombara presenta alla galleria “Il Poliedro (via V. Ricci 3/1 fino al 16 aprile) gli ultimi suoi lavori, in particolare una grande, affascinante installazione (h. m. 2) composta da complicatissimi e fragili marchingegni a carattere simbolico e analogico dove eccessi vitali lottano con ombre minacciose di morte. La “cupa insorgenza della morte - sempre presente nei lavori dell'artista - si intreccia nella rappresentazione di uno spazio rigoroso, plasmato dal silenzio e dalla levità dell'ingombro plastico” (Matteo Fochessati). Giuliano Galletta, il curatore della mostra, spiega in catalogo: “ ... il lievito di questa sublime gastronomia è la memoria. Intesa però nel senso più profondo che non è solo quello del ricordare ma quello del creare, la memoria quindi non come fonte ma come fine”.

 

                                                Miriam Cristaldi

 

 

Canne in ottone, alambicchi in vetro, lamine di rame, fogli di bronzo sagomati, piccoli objet trouvé, fili metallici, cera , sono i materiali cari a Piergiorgio Colombara, solido artista genovese con cui, da decenni, fabbrica un delicato ed etereo meccanismo installativo (o piccole sculture) che esaltano la luminosa simbologia del mito e al contempo l'oscura profondità del mistero. Ora facendo leva sul fascino luministico della luce che scintilla sui metalli (creando aloni cangianti nelle varie sfumature ologrammatiche) ora premendo il pedale su affondi ombrosi di fessure o indugiando su ossidazioni nerastre fiorite sulla pelle di alcuni metalli. Sovente richiamando alla percezione visiva curiose e creative forme musicali, ovviamente “mute” (particolare lavoro degli anni '80-'90). Il suono viene esclusivamente evocato: la sua assenza ne indica con forza la chiara, impercettibile, presenza.

Il “caldo” del metallo si alterna continuamente al “freddo” vitreo di complesse ampolle, di alambicchi rovellosi, rimandando allegoricamente a germinanti condizioni di vita e a destrutturanti pause di morte. Scrive a questo proposito Matteo Fochessati: “La cupa insorgenza della morte – sempre presente nei lavori dell'artista – si intreccia nella rappresentazione di uno spazio rigoroso, plasmato dal silenzio e dalla levità dell'ingombro plastico”.

Con “Orliquia” (tendenzioso accostamento al termine reliquia), Piergiorgio Colombara espone i suoi ultimi lavori alla galleria “Il Poliedro” (via V. Ricci 3/1, fino al 16 aprile), in particolare un'installazione alta m.2, composta dalla misteriosa e affascinante corporatura metallica che simula le sembianze di un rigonfio vestito d'epoca, proprio come se fosse indossato da una presenza fantasmatica, quindi invisibile.

Anche qui l'accenno al “vuoto” come silenzioso richiamo del “pieno”, si fa possibile rievocazione della memoria, “ intesa però - spiega in catalogo il curatore Giuliano Galletta - nel senso più profondo che non è solo quello del ricordare ma quello del creare, la memoria non come fonte ma come fine”.

 

                                                Miriam Cristaldi

 

 

 

 

Pierre Casé

 

Osservare i muri sbrecciati di un casolare antico, lasciarsi affascinare dalle macchie dell’intonaco, ammirare i segni e gli scarabocchi lasciati da generazioni precedenti era esercizio passato. Leonardo, Fautrier, Tapies, Burri, magistralmente hanno cantato le armonie pittorico-plastiche di fatiscenti superfici murarie che hanno abitato le loro città.

Anche i primi uomini delle caverne hanno dipinto le pareti tracciando segni indelebili in memoria di future generazioni.

Ancora oggi, l’arte non cessa di fare tesoro di testimonianze di un passato non più recente. La seduzione di antiche pareti murarie di un medievale paese svizzero, vicino a Locarno, è causa dell’intera opera pittorica di  Pierre Casè, imperniata appunto ad “accumulare immagini arcaiche – spiega lo stesso autore - attraverso un processo esecutivo che distende la materia strato su strato, in un’azione che saggia e modifica con il fuoco il catrame e i pigmenti minerali…”.

La mostra, attualmente esposta alla galleria Rotta (via xx Settembre 181r fino al 19 novembre) è a cura di Luciano Caprile ed è corredata di un bel catalogo a colori.

La sua pittura tridimensionale, dato il suo forte aggetto, si attua appunto per addizione, attraverso differenti strati di sabbia, cenere, catrame, asfalto, tutti materiali “caldi” fortemente evocativi e particolarmente adatti per rendere quegli effetti di densità materica  così lontana oggi dall’immaterialità dell’universo mediatico.

Un volontario tuffo nel passato per ricordarci quello che eravamo, ma anche per capire quello che non siamo più e per prendere coscienza della necessità di nuove più calzanti identità corrispondenti ai cambiamenti epocali e tecnologici cui siamo sottoposti.

Un passato che ci aiuta a capire meglio il presente per predisporci ad un futuro incalzante denso di incognite.

I vari dittici, totem, stele, forme cerebrali denominate “Mnemosine, esposti in galleria nel segno di un “Ritorno della memoria”, si presentano con aspetti pittorici giocati sui nero-carbone, calde ocre e differenti tonalità di grigi,  quasi a richiamare alla mente la fisicità della terra, della pietra e del legno. Così a svelare un’identità appena lasciata alle spalle ma che ci può sostenere nella difficile interpretazione di un futuro sempre più mediatico.

“Il travaglio  creativo di Pierre Casè – scrive infatti in catalogo il curatore – è stato promosso dalla ruvida scorza delle antiche abitazioni della Valmaggia …. In risveglio di quella memoria che ci marchia e ci distingue e dai cui segni non si può sfuggire….”

 

 

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

Col “Ritorno della memoria”, lo svizzero Pierre Casè (Locarno ’44) coglie l’occasione per presentare la sua opera ispirata ai muri antichi, sbrecciati, fatiscenti del suo paesino, Maggia, nel Canton Ticino.

Soggetti che nella storia hanno suscitato l’emozione e la creatività di molti artisti tra cui Leonardo e più recentemente Fautrier, Tapies, Burri, mentre le pareti urbane tappezzate di manifesti hanno suggerito l’opera contemporanea di Rotella: inno di lode alla metropoli.

Così come gli uomini delle caverne, dipingevano e incidevano la roccia con punte acuminate e colori vegetali per lasciare, ieri come oggi, un segno distintivo del loro passaggio.

Segni indelebili, tracce del passato, leggibili sui muri medievali come testimonianza storica, libri aperti che ci indicano “come eravamo” e ci fa capire quello che “non siamo più…”.

Anche Pierre Casè, nei sui lavori esposti alla galleria Rotta (via xx Settembre 181r, fino al 19 novembre) - a cura di Luciano Caprile - ci mostra la sua dolente e sentita interpretazione di queste sapienti “pagine” segnate da scarabocchi, tracce, cifre in codice e dipinte come grandi tavole nere (stele, totem, mnemosine) con campi pittorici giocati sulle tonalità dei grigi e delle ocre. “I segni antichi affidati all’opera sono un andirivieni tra passato e presente, tra storia e attualità”, sottolinea l’artista in catalogo.

Un lavoro, questo, che sa raggiungere felici ed estetici esiti tridimensionali attraverso stratificazioni di materiali “caldi” come cenere, sabbia, catrame, asfalto. Elementi evocanti morbida tattilità e capacità di richiamare in vita la potenza degli archetipi Terra e Fuoco. Anche se un certa ansia per l’ordine compositivo struttura e raggela certe intime emozionalità

 

 

Franco Carrozzini

 

 

“Arte tra natura e tecnologia” è il titolo della mostra che Franco Carrozzini presenta al centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 5 febbraio).

In realtà si tratta di immagini digitali, ottenute con lo scanner, e stampate su carta come opera finita – suddivisa in spaziosi riquadri - che rappresentano le mani dell’artista mentre aprono un frutto, o ancora che tengono stretta fra le dita una conchiglia purpurea (visibile dalla parte del taglio).

La  simbologia di queste immagini naturali, “mosse” nella conformazione - estremamente essenziali ed emergenti dal fondo buio così da non interferire con elementi ambientali - richiama l’idea sacrale della nascita, l’atto di una possibile venuta al mondo attraverso le vulve aperte dei frutti.

Questo arcaico richiamo di qualità antropologica, allo stesso tempo si contamina con il linguaggio tecnologico proprio dei “pixell” del video offrendo alla visione il senso di una contemporaneità non disgiunta dalla storia dell’uomo.

E’ questo un caso di opera tecnologica dove il disincanto e lo stacco da essa permette all’artista di usare il mezzo proprio come tale e non come fine ultimo.

La sua capacità creativa ha infatti piegato l’uso dello scanner per fissare un semplice gesto: quello di premere il frutto per spaccarlo in due metà e dare corpo a un’idea, a un pensiero che vuole contenere il mistero, la magia dell’universo intero quando scatta la scintilla della vita.

 

 Giacomo Costa

 

Spiega il filosofo francese Jean Baudrillard riguardo la crisi del reale contemporaneo: “La derealizzazione del mondo sarà opera del  mondo stesso. Così il profetico inerte: la profezia che si realizza da sola”. E aggiunge: “Non è il mondo come dovrebbe essere, è il mondo come è che mette fine al mondo reale…” (“Taccuini”, 1990 – 95) volendo in questo senso avvertire della consequenziale dematerializzazione di un universo sempre più fragile nella derealizzante dimensione, ormai globale, “on line”.

Giacomo Costa, artista fiorentino presente con una personale da “Guidi & Schoen” (vico Casana 31r. fino a dicembre) - che lavora al computer con immagini fotografiche metropolitane scannerizzate e manipolate digitalmente - sembra proprio descrivere con un linguaggio personale tale destrutturante visione di un mondo monolitico perduto a favore di immaginari fatiscenti capaci di suscitare paurose vertigini e decodificanti spiazzamenti ambientali in chi osserva.

Si tratta infatti di opere basate sulla sovrapposizione e accostamenti fantastici di paesaggi urbani, affastellati gli uni sugli altri, talvolta disposti a raggiera e comunque risolti in complesse visioni affinché riescano a creare una sorta di horror vacui in cui sconnesse visioni di palazzi e grattacieli debordino dalla superficie dell’opera strozzando cieli e sottolineando taglienti fughe prospettiche. Ad accentuare lo sconquasso spaziale, sull’orlo del “crollo”, stanno le ingombranti presenze formali prive di chiare identità - a metà tra gigantesche carene di navi e “schiene”cupoliformi di mostri in cemento - che s’incuneano minacciose nella già precaria e complessa formazione urbana espressa nell’intricato linguaggio architettonico iper-metropolitano.

La sofisticata e complessa elaborazione fotografica a carattere digitale si avvale pure della dimensione luministica che gioca a rendere più “vera” (quasi dei fermo-immagini tratti da filmato) la sovrabbondante irrealtà degli eterei universi spaziali che giocano a intersecarsi e a moltiplicarsi tra loro.

Immagini digitali (in formato “panoramico” gigantesco), alcune chiuse in light-box dove la luce al neon le illumina dal retro fornendo loro una speciale qualità filmica per incarnare la realtà virtuale di un affabulante e minaccioso paesaggio alieno.

 

                                                                        Miriam Cristaldi

 

cina

Mostre, conferenze (dedicate ai temi dell’arte, scienza, filosofia, economia), seminari, rassegne cinematografiche, concerti, laboratori, film, convegni, spettacoli, seminari, programmi di ricerca e quant’altro costituiscono  un vastissimo programma che impegna la nostra città (Palazzo Ducale, Palazzo Rosso, Villa Croce, Castello D’Albertis, Palazzo della Borsa , Teatro Carlo Felice, Museo del Mare, Biblioteca Berio, Università, Accademia…) e fuori città (Museo Popoli e Cultura PIME, Milano, Wenda Gu Studio, New York, Shanghai, Università di Torino, di Macerata ecc.) in una gigantesca kermesse di respiro internazionale, della durata di 14 mesi, dedicata all’arte e alla cultura cinese con un confronto tra civiltà (oriente-occidente) nel corso millenario della storia fino alla contemporaneità.

Uno di questi eventi consiste nell’esaustiva e pregiata mostra a Palazzo Ducale – Loggia degli Abati, fino al 15 ottobre - intitolata “La via della scrittura e l’arte della calligrafia cinese”, a cura di Alberto De Simone (direttore del Dipartimento Studi Asiatici CELSO), dove si possono ammirare, nella prima sala, delicate e convincenti opere di Zhang Qikai composte di suggestive canne di bambù realizzate in fragile tela crù, dipinta con verticali ideogrammi che interagiscono con la pittura calligrafica gestuale dell’artista contemporaneo Song Gang, intercalate da suggestive e scenografiche installazioni a cura dell’allestimento  “SOS International”.

Tenendo conto che per l’universo cinese la calligrafia è intimamente legata alla pittura secondo cui un buon pittore è in primis un buon calligrafo che sa controllare “ogni variazione del pennello e la cui tecnica si fonda sulla capacità di muovere la propria mano in consonanza con il proprio spirito…”, si accede alla seconda stanza chiamata “Foresta delle steli di Xian” , il più importante museo cinese della calligrafia (vi è anche ubicato il famoso esercito di terracotta) che ha prestato per questa mostra le riproduzioni (su preziosa carta antica di circa 200 o 300 anni fa) di scritte antichissime su steli in pietra componenti le più importanti calligrafie del 3° sec. a. c., fino al 1500. L’aspetto più interessante della scrittura cinese, dalle sue origini (1500 a.c.) fino al 1955, è che ha conservato nel suo evolversi una ferrea linea di continuità formale nel tempo.

Poi si giunge alla preziosa sala dei “4 tesori” (1 pennelli antichi, 2 pietre per macinare l’inchiostro, 3 barre di inchiostro, 4 carta) con strumenti per la pratica delle nobili arti : musica, poesia, pittura, calligrafia. Quest’ultima, detta la regina, le raccoglie tutte poiché gli ideogrammi si presentano, con sequenze e contrappunti, come partitura musicale nello spazio mentre, allo stesso tempo, sanno esprimere concetti letterari sotto il segno di fascinose entità pittoriche.   

Fondamentale è la preparazione di solide “barrette” di inchiostro (alcune pregiate e antichissime a forma di spada)  che, per l’uso, vengono grattugiate su di una pietra liscia per diventare polvere di fuliggine, da sciogliere poi in gocce d’acqua. Una delicata e lunghissima preparazione nell’arco di tempo lungo, anche anni, necessario per strutturare queste barre attraverso un paziente lavoro di compattazione di polvere di fuliggine per trasformarla in solida tavola-barra.

Oltre alla sala contenente pregiati sigilli  (arte del pennello di ferro, di bronzo, di pietra e d’avorio) si arriva all’ultimo contenitore in cui sono allestite opere di noti artisti contemporanei come Gu Wenda (una trama di capelli intrecciati in cui si evidenziano segni arcaici, idealmente al limite della preistoria che abbiamo già potuto conoscere in una mostra di Villa Croce): artisti che interagiscono magnificamente tra antica scrittura cinese digitalizzata al computer con interazioni tra frammenti di paesaggio, immagini urbane, scrittura occidentale e grafica computerizzata. Un mix che segna il tempo del linguaggio globale che, delegittimando le caratteristiche locali, sa renderci al contempo, in spirito di fratellanza, figli riconoscibili dello stesso universo.

 

                                                                        Miriam Cristaldi          

                       

 

  Celant

 

“Arte & Architettura 1900/2000” è il titolo esplicativo della grande mostra di arte contemporanea (Palazzo Ducale, inaugurazione 1 ottobre ore 18) quale biglietto da visita che stigmatizza l'arte visiva di “GEnova 2004”, città scelta come capitale europea della cultura. Per questa occasione la nostra città è vestita a festa. Ristrutturazioni di strade, di palazzi e loro interni, costruzioni inedite, apertura di musei hanno fatto dire ai turisti che è la più bella e colorata città d'Italia.

Questo, per certi versi, spettacolare evento espositivo - in quanto si dirama in vari luoghi aperti della città interagendo con l'aspetto urbano-architettonico - firmato Germano Celant (curatore genovese di fama internazionale, direttore del Guggenheim Museum di New York e teorizzatore dell'Arte Povera di fine anni '60), si avvale di una spinta creativa che fonde le istanze dell'arte con quelle funzionali dell'architettura secondo un tipo di avventura di qualità “utopica”, che esce dai canoni artistici per aspirare sangue da vene alternative. Già Celant aveva aperto l'arte verso la moda chiamando ad esporre a Firenze - accanto agli artisti - uno stuolo di rinomati stilisti. Qui sono invece presenti una gran quantità di architetti delle avanguardie storiche come Malievic, Tatlin, Sant'Elia, Terragni, Mondrian, Corbusier... e contemporanei come Renzo Piano, Aldo Rossi... che, insieme agli artisti, tentano una sorta di “reinvenzione della tradizione attraverso un rapporto progressivo, non regressivo, con il proprio retaggio culturale... investendo il passato genovese di nuovi livelli di lettura e complessità”.

Il percorso scenografico della mostra, una sorta di jam session delle arti – pittura, scultura, film, fotografia, libri – e dell'architettura, è frutto della collaborazione tra il curatore e Gae Aulenti.

Oltre alle varie installazioni sparse per la città, sono stati utilizzati numerosissimi cartelloni pubblicitari come supporto di immagini fotografiche, disegni di artisti e architetti dando così origine ad un'”espansione visiva della mostra” nel complesso ed articolato “paesaggio” della città.

Una mostra, questa, spiega Celant “... che tende a erodere i confini del possibile per entrare in un'architettura della mescolanza, che fagocita o cannibalizza i metodi dell'arte, della fotografia, del cinema e della letteratura.... a favore di proposte indefinite e magiche che evidenzino le differenze generazionali ed etniche, culturali e sociali, espressive e soggettive”.

L'intento è di mescolare le carte con nuovi canoni di lettura integrando personalità tra loro diversissime come Oldenburg e Van Bruggen con Gehry, accostando Richard Nonas a Holl, Thomas Ruff a Herzog& de Meuron o ancora, Malevic a Tatlin, Dubuffet a Schoeffer, i contemporanei Dan Graham a Kapoor, Christo a Bourgeois scoprendo come quest'ultimi aspirino in realtà a risvolti architettonici.

Un proficuo dialogo, dunque, tra arte e architettura attraverso centinaia di disegni, modelli, installazioni, fotografie, film, sculture, dipinti, mescolati insieme per “abolire le differenze, così che si capisca come dall'ibrido è sempre nata la novità”.

Tra gli artisti contemporanei sono presenti Acconci, Gordon Matta-Clark, Damien Hirst, Grazia Toderi, Wilson, Lo Savio, Nevelson, Mario Merz... modelli e disegni degli architetti, tra gli altri, Aalto, Scarpa, Mollino, Ponti, Sottsass, Botta, Aldo Rossi.

Il curatore ha inoltre fatto ri-costruire (in legno sormontato da una raffinatissima cupola color turchese), nell'area del porto antico, “Il Teatro della memoria” di Aldo Rossi, architetto postmoderno che ha segnato la storia con il “suo transito nel tempo e nell'immagine dell'architettura”, opera eletta a simbolo di questa incessante ed invasiva “osmosi tra i linguaggi”.

Altre sedi espositive della mostra: Palazzo Tursi, Palazzo Reale, piazza Fontane Marose, Caricamento, centro storico ( qui interventi di Renzo Piano, Maria Nordman, Aldo Rossi, Andrea Branzi, Dennis Oppenheim...).

 

                                                Miriam Cristaldi

 

 

 

 

 

 

 

“Questa è la più bella mostra di architettura del xx° secolo!” esclama gioiosa l'architetto Gae Aulenti che con Germano Celant ha allestito gli spazi espositivi della grande, spettacolare mostra “Arte & Architettura 1900/2000” invadendo l'intero Palazzo Ducale tracimando poi nel centro storico con grandi installazioni, ed ancora, attraversando l'intera città in 50 punti nevralgici mediante l'uso di cartelloni pubblicitari come supporto per fotografie, progetti, disegni, per un totale complessivo di 1.100 opere disseminate in un territorio di circa 4.000 metri quadrati.

Un'esposizione, questa, che ha fatto dire al curatore Germano Celant: “E' sicuramente la più grande mostra che io abbia mai realizzato”, per certi versi paragonabile ad una biennale veneziana, ma diversa per intenti e per logica delle presenze.

Qui il soggetto portante è l'architettura. Un grande osanna agli architetti di tutto il mondo - soprattutto quelli che per originalità e per certi esiti pittorico-plastici sono più vicini alle arti visive, tanto che si può parlare di “archi-scultura” - mettendo in discussione il ruolo dell'artista, qui presente fondamentalmente quando esprime capacità di carattere architettonico. Un'architettura, come spiega il curatore, “da intendere - infatti - dal punto di vista filologico e fantastico, ma anche un'architettura spettacolo, di carattere mediatico, che cambia il volto della città attraversandola... L'edificio è in sostanza una grande scultura che si colloca nel tessuto urbano e ne cambia il volto trasformando il paesaggio...”. Un esempio per tutti: il Guggenheim di Bilbao, costruito da Frank O. Gehry, assolutamente isolato dal contesto urbano; una sorta di simbolo che rilegge il paesaggio.

In pratica, una forte commistione tra le arti.

Gli architetti sovente sono stati pittori o scultori come Le Corbusier o Alvar Aalto. Sono qui visibili dipinti di Le Corbusier (una Natura Morta) e una scultura in paglia e legno di Alvar Aalto dove l'astrazione si coniuga con il naturalismo del paesaggio. E d'altra parte ci sono esempi di artisti che si sono allargati nel campo architettonico come Daan Gram, Anish Kapoor, Vito Acconci, Frank Stella o Dennis Hoppenheim. Un'architettura dunque da intendere, come nell'antichità, nel complesso e corposo ruolo di “madre” delle arti.

L'intera operazione artistica si presenta in due tronconi: la parte storica delle avanguardie dal '900 al '68 (negli spazi sotterranei del munizioniere) e quella dal '68 fino ad oggi ( piani superiori con sconfinamenti nelle piazze, strade, cortili del centro storico a firma dei maggiori artisti e architetti del mondo).

Prima di accedere a tali sezioni, ci accolgono, nell'atrio del Ducale, al piano terra, alcune vistose installazioni: quella curiosa di Oldenburg dove uno smisurato fazzoletto bianco sventola in cenno di saluto e quella mitico-arcaica di Merz in cui le forme primarie dell'igloo (simbolo della casa) sono esposte in sequenza Fibonacci. Salendo lo scalone, in alto, una grossa, turbolenta forma argentata di nuvola-che-lancia-fulmini (realizzata in scala reale), di Mangiano Ovalle, ci sovrasta minacciosa sulla testa.

La sezione storica, sempre in relazione ad una visione dello spazio plastico-pittorico, è corposamente documentata partendo dalle radici cubiste ed astrattiste per arrivare alle avanguardie: dal futurismo al suprematismo, costruttivismo, plasticismo, razionalismo fino al funzionalismo evidenziando come tutta la comunicazione creativa dell'architettura “sia sempre stata un crogiuolo nel quale si sono fuse tutte le sostanze”.

Scendendo nei sotterranei del munizioniere, si possono ammirare, tra le altre opere, “Il tunnel” del '17 di Severini, “Architettura nello spazio” di Prampolini del '20, gli stupendi disegni e progetti futuristi di Sant'Elia - vicini al costruttivismo sovietico - con il modello ricostruito della “Città Nuova”, Un dipinto tendente al rosso fiammeggiante di Balla col “Ponte della velocita” del '13, un piccolo, prezioso Sironi con “Sintesi del paesaggio urbano” dalle gradazioni ombrose nelle astrazioni lineari del contesto urbano ed una perla di Carrà con “Composizione” del '14 che sintetizza geometricamente il paesaggio. Di Rodchenko si nota la “Costruzione spaziale” nella sua purezza delle linee. Per le correnti russe si evidenzia il noto dipinto di Lissitsky “Tatlin mentre lavora al monumento alla Terza Internazionele” del '21; l'architetto Van Doesburg che ristruttura visivamente l'ambiente sovrapponendo ad una costruzione banale un'architettura di forme colorate (in stretta collaborazione con pittori e scultori) contro l'elementarismo statico di Mondrian, anch'egli presente con dipinti e progetti.

Schwitters, padre di tanta arte contemporanea, è qui in mostra con piccole “cassette” al cui interno sono incollate geometrie dipinte. Particolarmente efficace “La città cibernetica” di Shoffer con forme spaziodinamiche di grande impatto visivo. L'architetto Kiesler, memore del costruttivismo sovietico, crea cellule abitative con evidenti e suggestivi echi surrealisti come la forma naturalistica di un pesce. Che l'architetto Gehry - costruttore del grande pesce esposto nelle sale superiori - abbia visto tali opere? Di Le Corbusier - architetto che concepisce l'edificio come organismo funzionale e dinamico esprimendo ritmi e moti ondosi per sfuggire il pericolo del monumentale - sono esposti dipinti e progetti, mentre di Molnar è in visione la nota costruzione a scatola “Il cubo rosso” del '23 accanto all'affascinante progetto di un grande hangar per aerei intitolato “Grande struttura”, del '53, dell'architetto Wachsmann ( ha lavorato parecchio a Genova in quegli anni) composto da centinaia di “giunti” che stringono fasci di strutture lineari. Non manca peraltro il progetto di Wright, l'arcinota “Casa sulla cascata”, una serie di piani orizzontali sovrapposti ed articolati ritmicamente sopra il flusso d'acqua ove la natura interagisce magnificamente con l'architettura. Con Scarpa prosegue il discorso del mixage tra vecchio e nuovo, ricco di una forte sensibilità materica, qui in mostra con il progetto del padiglione venezuelano. Accanto ai dipinti astratti di Radice, brilla il progetto “Monumento ai caduti” di Como del '33 di Terragni, mentre con Mies Van Der Rohe (vicino al gruppo di De Stijl) si affronta (per primo in Europa) il tema del grattacielo come una “casa trasparente” alta fino al cielo secondo un utopismo espressionista ove la dimora dell'uomo non nasconde niente alla visione ma vive in un gioioso coctail di luce, spazio e cielo. Affascinante il progetto per il “cimitero di Urbino” di Arnaldo Pomodoro. Non mancano infine i grandi artisti degli anni '50, '60, come Burri, con i suoi “cretti”, Vedova con la sua pittura gestuale, Dubuffet con pittura su poliuretano del “Giardino di smalto” del '69, i “Concetti spaziali” di Fontana e la delicata, effimera opera di Manzoni con i “Corpi d'aria” e “Acrome”, in fibra di vetro, accanto alla lamiera pressata di Cesar del '65.

Ai piani superiori, nel troncone riservato all'arte contemporanea, si possono ammirare in un grande salone del primo piano le prestigiose opere degli artisti: Kiefer - presente con un grande dipinto dalle fantastiche visioni che spaziano tra terra e cielo; Christo - con il famoso progetto del “Reichstag impacchettatto” in cui giganteschi teli rivestono l'intero palazzo; la Nevelson - con una mastodontica e al contempo scabra opera al nero costituita da legni di scarto, articolata lungo una vasta fetta dell'immensa parete.

Negli ampi corridoi del Ducale, sempre al primo piano, si evidenziano alcune installazioni: quella plastico-architettonica di Daan Gram (curiosa e intrigante struttura in vetro specchiante intitolata “Solido triangolare”), quella di Flanagan (nota scultura apparsa in numerose riviste intitolata “Lepre che salta un metro e ottanta sull'Empire State Building” dove appunto una lepre beuysiana spicca un salto sulla cima del grattacielo) mentre all'interno delle sale del contemporaneo troneggia, accasciato sul pavimento, l'enorme pesce dell'architetto Gehry (composto da centinaia di scaglie in legno).

Il percorso vero e proprio inizia con la presenza massiccia degli architetti e designer postmoderni.

Tra gli altri, Ettore Sottsass, dalla particolare sensibilità artistica sia per l'uso del colore che per i materiali adottati, non senza certi risvolti kitsch; Gaetano Pesce, creatore di visionarie archi-sculture, con il fantastico progetto del concorso internazionale per le Halles, del '79, il cui intero agglomerato urbanistico assume connotazioni del corpo umano; Aldo Rossi, con vari progetti tra cui quello realizzato del Carlo Felice di Genova. Di lui è stato ricostruito “Il teatro della memoria” (nel Porto Antico), eletto dal curatore a simbolo dell'intera operazione artistica in quanto lavoro che esprime esemplarmente un felice connubio tra presente e passato; Alessandro Mendini, architetto e designer che recupera l'uso della decorazione e della dimensione artigianale attraverso dipinti musivi e tecniche del mosaico (ne è un esempio il coloratissimo obelisco in piazza Matteotti).

Renzo Piano è qui presente con articolati e prestigiosi progetti del “Centro Pompidou”del '71. Il suo motto: leggerezza e luminosità dello spazio abitativo. Un costruire spesso ambito nella contemporaneità che ha fatto dire al filosofo Paul Virtilio: “edifici arditi, superleggeri che sfidano la statica... cercando la spettacolarità a tutti i costi comunicando un senso di precarietà ... che danno la sensazione di poter crollare da un momento all'altro”.

Artisti invitati con caratteristiche, o richiami, all'architettura: da Warhol, col dipinto “Riflesso” strutturato secondo linee di carattere urbanistico, alle fresche ed essenziali geometrie di Sol Le Witt (minimal-art); dal concettuale Gordon Matta Clark che fotografa edifici sventrati o abbandonati in cui pratica tagli nelle pareti per mettere in comunicazione spazi differenti, al grande dipinto transavanguardista di Cucchi; da Acconci, che ha esordito anche in spettacolari progetti urbanistici come un parco giochi composto da giganteschi caschi da baseball, alla Bourgeois, con mini progetti in argento di palazzi rettorici; da Kapoor, che crea costruzioni attorno a spazi vuoti con armoniose fusioni tra architettura e paesaggio, al concettuale Dennis Hoppenheim, artista performer che nell'88 passa alla creazione di archi-sculture mettendo ironicamente in rilievo le alterazioni del paesaggio urbano attraverso spazi labirintici senza funzione, a metà tra sogno e realtà, o alle caratteristiche “Tipologie” di industrie dismesse, dei coniugi Becher (Arte Antropologica, in alcuni momenti compagni di percorso di Claudio Costa), con significative presenze delle opere fotografiche di Tomas Ruff, loro allievo.

La mostra si avvale di un ciclopico catalogo (circa 800 pagine a colori e in bianco e nero con capillare documentazione di tutte le installazioni, sculture, dipinti, fotografie, progetti, modellini e quant'altro presente) attualmente non ancora in visione per la difficoltà di raccogliere e stampare la mole di lavoro.

Un particolare curioso: Celant, teorico e fondatore dell'Arte Povera di fine anni '60, ha qui ignorato il suo gruppo (per decenni protagonista nei musei d'arte contemporanea) se si esclude la presenza di Mario Merz, recentemente scomparso.

Una mostra-evento, questa, che coinvolge tutta la città, eccezionale per approfondimento artistico, scientifico, tecnico e specialistico, che mostra una visione dell'arte al di fuori degli ismi o di particolari correnti, ma tutto in prospettiva di vaste dimensioni come quella “magna” dell'architettura.

Un'architettura spettacolare, a carattere utopico e fantastico perché, spiega Celant:”... i committenti di oggi richiedono un'immagine forte e connotata così da trasformarla in strumento d'uso efficiente , ma anche comunicativo e mediatico”.

Un'architettura, insomma, che sia al contempo pubblicità e informazione.

 

                                                Miriam Cristaldi

 

Collettiva “Il Poliedro”

 

“Ogni arte è un gioco di posizionamento e ogni volta che un artista viene  influenzato da un altro,  riscrive in parte la sua storia dell’arte , afferma Michael Baxandall. In effetti, un folto numero di artisti liguri, esposti nello spazio del Poliedro (via Ricci 3), nella mostra intitolata “1950-2000. Pittura genovese e ligure da una collezione privata”, rappresentano un significativo spaccato di situazioni artistiche - nella disciplina pittorica - specie del secondo dopoguerra dove, in alcuni casi, si evidenziano espressioni antesignane mentre, in altri, prendono corpo riflessioni autonome su movimenti in atto.

Si viene così a creare un complesso di opere che potrebbero fornire l’esempio di come si potrebbe, oggi, strutturare una nutrita ed esemplare collezione d’arte ligure.

Di Giuseppe Allosia è presente un piccolo, prezioso dipinto di pittura nucleare (dripping) dei primi anni ’60. Con Rocco Borella si richiama la pittura astratta del Bauhaus, in particolare si rilevano le felici creazioni pittoriche denominate dall’artista “cromemi”. Franco Buzzone è qui presente con una pittura astratto geometrica e gestuale (anni ’60) in cui è assente la figurazione. Mario Chianese propone un dipinto  anni ’70 estremamente sintetico, al contempo carico di sommessa poesia, con dati di natura essenzializzati nei suoi elementi percettivi di colore-luce. La pittura informale di Gianfranco Fasce, invece, si basa su colori naturalistici, filtrati essenzialmente dalla forza della luce. Di Giannetto Fieschi ammiriamo una personalissima e drammatica figurazione in cui si riscontrano richiami all’arte antica e contemporanea mentre Enzo Maiolino si avvicina all’astrazione classica dell’astrattismo italiano degli anni ‘30, con estremo rigore e profonda conoscenza di tecniche incisorie. Tino Repetto è in mostra con un paesaggio informale a carattere psicologico, tendente ad una visione interiore. Mario Rocca espone un intenso e vivace paesaggio a carattere informale-espressionista, con spessori volumetrici, memori di un lontano cubismo. Emilio Scanavino è rappresentato da un grande e suggestivo dipinto dedicato alla ricerca sul segno in cui nodi e viticci si attorcigliano in spasimi viscerali. Con Raimondo Sirotti si riscontra un rigoroso informale anni ’60, estremamente interiorizzato e con nessun cedimento all’estetica. E ancora, Plinio Mesciulam con un pregiato dipinto del periodo MAC e un’originale “segno precario” del ’75  ove si registra la ricerca sulla “macroscopia del segno”. Particolarmente aggressiva e drammatica la pittura astratto-espressionista di Mario Moronti. Di Vittorio Ugolini si può ammirare la pittura lirico-informale, ricca di accenti luministici intrecciati a poetici “atti di vita”.

Sono anche presenti le significative opere di Daniel Bec, Giancarlo Bargoni, Silvio Bisio, Aldo Bosco, Attilio Carreri, Silvio Cassinelli, Arnaldo Esposto, Gianni Stirone (Tempo 3)

 

                                     Miriam Cristaldi

 

 

 

        L'arte esce dagli spazi canonici per entrare nelle strade

 

Da tempo, decenni, l'arte esce dagli spazi canonici (gallerie, musei) per andare incontro alla gente. Negli anni '60, il movimento Fluxus (allargato in tutto il mondo) ha invaso gioiosamente gli spazi urbani con il motto secondo cui l'arte fa equazione con la vita. Anche oggi, come ieri nelle città sensibili all'arte contemporanea, assistiamo a queste giocose, ironiche discese in campo come espressione di un fatto culturale allargato a tutti.

Tra le varie installazioni cittadine, quali espansioni della mostra di Germano Celant “Arte & Architettura 1900/2000” allestita a Palazzo Ducale, si evidenziano: quella estremamente raffinata, quasi magica, della ricostruzione in legno del famoso “Teatro del mondo” - dell'architetto postmoderno Aldo Rossi - alto 20 metri, progettato per la Biennalee di Venezia del '79, qui montato in piazza Caricamento e che, in decenni precedenti, ha viaggiato sulle acque del Danubio, caricato su di un largo barcone.

In piazza De Ferrari è visibile il “Chiosco per Genova 2004”, dell'architetto Gaetano Pesce, al cui interno vi sono gli splendidi decollage di Mimmo Rotella, realizzati con una performance dal vivo il giotrno dell'inaugurazione della mostra.

In piazza Matteotti brilla , per luce e colore, “La torre del filosofo” dell'architetto, designer Alessandro Mendini, una sorta di obelisco dove la componente pittorica denuncia un richiamo a certi valori artigianali, mentre in piazza Fontane Marose giganteggia una cisterna di benzina (del tedesco Hans Hollein) dipinta in oro e sovrastata da corna, anch'esse dorate. Qui la simbologia del petrolio che vale oro è abbastanza chiara, ma la presenza delle corna sembra connotare l'opera di risvolti apotropaici di carattere mitico-rituale.

Nell'atrio di Palazzo Bianco, l'artista Dennis Oppenheim presenta una smisurata tartaruga sul cui guscio è adagiato un faro alto 7 metri, simbolo di Genova nell'immagine della Lanterna. L'allegoria sembra voler spiegare Genova come una città in lento cammino (il rettile) e al contempo precario (faro instabile posato su di un corpo in movimento). Nel vicino atrio di Palazzo Tursi si evidenziano i “Giardini di vetro” dell'architetto Andrea Branzi dove forme orizzontali in vetro, quale rigida espressione tecnico-razionale, si armonizzano e interagiscono con elementi della natura come alberi, rampicanti e prato. Un coktail tra severo controllo e libera creatività.

Nei giardini di via XII Ottobre, troneggia un frammento di costruzione, reale, con cui Renzo Piano si è servito per costruire il Centro Culturale Jean Marie Tjibaow, per gli indigeni della Nuova Caledonia. Una costruzione, questa, dedicata alla cultura kanek e che s'ispira alle capanne della tradizione artigiana del luogo intracciando il legno vivo in modo simile a come lo intrecciavano gli indigeni per ottenere cestini.

In piazza S. Matteo un piccolo edificio in mattoni ingloba al suo interno un abito nuziale in bronzo e filo spinato della nobildonna Cornelia: una denuncia contro il benessere e la vanità dell'artista Anselm Kiefer.

 

                                                Miriam Cristaldi

 

  Baj, Boetti, Costa, Ceroli, Capogrossi

 

8-4-2005

 

“Quando muore un vecchio africano è una biblioteca che brucia” si dice nel continente nero. Ed è vero, ma a testimoniare la storia , le abitudini e gli usi rimangono fondamentali i reperti oggettuali molte volte trasfusi dal sapore dell'arte. Come le fantastiche, inedite (allungate) maschere in terracotta di Bura (nome del delta interno del Niger): piccoli gioielli tribali dagli occhi sintetizzati in debordanti linee taglienti ed una piccola bocca arrotondata in forma geometrica, in esposizione nella mostra “Africa, anima del mondo”, galleria Marco Canepa (via Caffaro 3, fino al 21 maggio).
E' qui presente un nutrito corpo di antichi oggetti artistici africani volutamente e sapientemente accostati ad opere di artisti contemporanei - Baj, Boetti, Costa, Ceroli, Capogrossi - che in qualche modo sottendono a questo affascinante mondo primitivo e, per certi versi, ancora arcaico. Opere a cui, nel secolo scorso, i più grandi artisti europei hanno attinto a piene mani. Per fare qualche nome: Picasso, Braque, Leger, Giacometti, Brancusi e lo stesso Moore.

Artisti che hanno intuito l'importanza di uno svecchiamento del continente europeo attraverso nuove visioni di mondi esotici, polinesiani, africani ecc. “smantellando il mito della centralità europea... avendo compreso come la nostra stessa classicità comportasse una relazione organica con il mondo semitico, con il mondo mediorientale, con il mondo africano.” afferma il filosofo Massimo Cacciari intervistato da Giuliano Arnaldi, curatore della mostra.

Conseguenze a cui la filologia arriva solo negli ultimi decenni.

Un cercare armonia dunque “tra veneri di Milo e veneri nere” che non corrisponde proprio all'idea di globalizzazione, cui oggi l'arte soggiace...

 

                                                            Miriam Cristaldi

 Marco Canepa

“Quando muore un africano è una biblioteca che brucia”, si afferma nel continente nero.

Ed è vero. Ma esistono reperti oggettuali di grande valore e di alta testomonianza che racchiudono in sé preziose memorie e che, allo stesso tempo, sono diventati “libri aperti” cui i maggiori artisti del secolo scorso hanno attinto a piene mani. Ne sono un esempio: Picasso, Brancusi, Braque, Leger, Moore e lo stesso Giacometti. Artisti che hanno capito in anticipo sui tempi come si possa svecchiare il continente europeo con trasvolate in lidi esotici “smantellando il mito della centralità europea.... attraverso una relazione organica con il mondo semitico, con il mondo mediorientale e con il mondo africano”, spiega il filosofo Massimo Cacciari in un'intervista con Giuliano Arnaldi, curatore della mostra “Africa, l'anima del mondo”/ galleria Marco Canepa (via Caffaro 3, fino al 21 maggio).

E' qui presente un nutrito corpus di antiche ed affascinanti opere africane, alcune inedite, sapientemente accostate a lavori di artisti contemporanei – E. Baj, A. Boetti, M. Ceroli, C. Costa, G. Capogrossi - che in qualche modo hanno attinenze con l'universo tribale di un'Africa martoriata.

Oggetti africani straordinari, essenzializzati in linguaggi ieratici come le calde, inedite, maschere in “terracotta di Bura” (nome del delta interno del fiume Niger), modellate circa mille anni fa eppure estremamente moderne nella loro essenzialità linguistica: piccoli gioielli sintetizzati in taglienti linee d'occhi (chiusi) e piccole bocche ridotte a cerchi in forte aggetto. Altrettanto inediti ed attuali i “perizoma” costruiti secoli addietro dalle donne Mbuti (pigmei della foresta dell'Ituri, in Congo) ricavati da cortecce battute e dipinte, vicino a certe espressioni della nostra pittrice romana, Dadamaino. Estremamente curioso il “rotolo di peghiera” copta, usato in Etiopia, in pelle di agnello: una lunga striscia con scritte le orazioni che, una volta lette, si arrotola attorno al collo per pendere come un ciondolo.

Quasi un cercare armonia “tra veneri di Milo e veneri Nere”, esenti dalla realtà attuale della globalizzazione cui oggi anche l'arte non sfugge...

 

                                                Miriam Cristaldi

 

“Noi siamo e facciamo la storia solamente quando siamo in grado di capire e cambiare, di essere capiti e cambiati”, ha scritto Houphouet Boigny. Da qui il titolo di una straordinaria mostra “Africa, capire e cambiare” in cui sono esposte signifiucative  opere scultoree africane ( appartenenti al xx secolo) capaci di evocare riti, miti, leggende di una cultura a noi così lontana, ma per certi versi così vicina in quanto madre e culla dell'intera umanità (Loggia della Mercanzia, piazza Banchi, fino a metà ottobre). La rassegna è a scopo umanitario ed il ricavato è interamente  utilizzato per la costruzione di ospedali africani.

“Quando muore un africano è una biblioteca che brucia”, si dice riguardo alla carenza di testimonianze scritte: in questo caso, le sculture scolpite nel legno o riprodotte in bronzo si fanno magnifici testimoni, segni significanti, simboli di una civiltà in via di estinzione. Una civiltà martoriata, sottosviluppata, dilaniata da guerre civili, volta verso faticose e difficili identità, il cui ambiente naturale – per contro – risulta preziosamente lussureggiante e, in parte, incontaminato.

Affascinanti e curiosi sono le stilizzazioni dei corpi delle sculture: sviluppate verso l'alto, seguendo la forma dell'albero da cui è tratto il legno, con le teste molto grosse rispetto al corpo poiché sono considerate sedi dell'intelletto.

Le differenze dei costumi, le varie altezze delle fronti, il rilievo delle labbra, il taglio degli occhi,  la forma appuntita o meno dei seni, sono tutti indizi che denunciano l'appartenenza a questa o quella etnia, tribù,  villaggio. Sculture, queste, la cui raffigurazione umana è sempre risolta in forma frontale, simmetrica, volta ad un'astrazione capace di richiamare il concetto di divinità, spesso rispondente ad antichi canoni formali conservati nel tempo. Opere che sanno di antico, di tribale, per certi aspetti rustici e asciutti nel tipo di modellato ligneo, quasi presenza totemica e al contempo espressione di una umanità sofferente e allo stesso tempo orgogliosa nella sua integrità.

Fierezza di una prestanza fisica quasi selvatica e, per il versante femminile, simbolica figuralità resa nei suoi asspetti di fertilità visibili nei particolari sviluppati del ventre e del seno. Anche gli animali interagiscono con l'uomo.

Particolarmente felice la scultura di un elefante che si fa al contempo sedia, poltrona di guerriero.

E ancora, giganteggia nella sede espositiva un grande, sferico tamburo Senoufo, della Costa d'Avorio, evocatore di tam tam e di vertiginose danze tribali.

Sono qui presenti, tra gli altri, lavori della Costa d'Avorio, Burkina Faso, Gabon, Zaire, Ghana, Nigeria, Guinea, Sierra Leone, Mali.

                                   

                                                            Miriam Cristaldi

Con arditi e curiosi accostamenti tra antica (e moderna) arte occidentale e primitive quanto affascinanti opere africane, si è da poco inaugurata la galleria “Archetipi” di Arnaldo Giuliani, in via Caffaro 29 r. (tel. 0108685595).

Difatti una splendida Madonna col Bambino del '500 si accosta magnificamente ad una misteriosa maschera Fang (della regione africana del Gabon) il cui viso allungato e sintetizzato in segni minimi richiama in particolare certe stilizzazioni del nostro contemporaneo Mimmo Paladino.

Anche l'opera del contemporaneo, biellese, Urano Palma, composta da tavolo con sedia, realizzata in materiale speciale - tutto traforato - che alla percezione visiva risulta similee a “corteccia rosicchiata”, dialoga con artistiche cortecce battute (e dipinte) da pigmei dell'Ituti, con raffinati e colorati tessuti in rafia degli Mbuti e con gli Shoowa, preziosi velluti conosciuti sin dal 1600, fabbricati nel Kasai.

Anche una magica scultura di Marx Ernest o un astratto dipinto di Picasso convivono qui con maschere delle più significative etnie africane (una in legno scuro, incorniciata da un'arruffata retina nera, è di particolare d'effetto) e con deliziose, stilizzate, terracotte di svariate popolazioni di più di mille anni fa.

Una gran carovana, questa, del “Tribale Globale” che dal continente nero è sbarcata a Genova.

Opere africane cui l'arte moderna come quella contemporanea (Picasso e Giacometti insegnano), hanno attinto a piene mani e che hanno fatto dire a Claudio Costa, artista genovese scomparso un decennio fa (aveva fatto dell'Africa una seconda patria) :” Là ci sono le nostre radici: per capire il presente è necessario conoscerle affinché si possa riacquisire quel tipo di conoscenza sapienzale che era patrimonio dell'uomo antico e che oggi, con l'incalzare di un progresso accelerato, è andata letteralmente perduta”.

Un oggetto copto dell'Etiopia particolarmente curioso è quello che rappresenta un “Rotolo di preghiera” che si tiene legato al collo, composto da una lunga striscia arrotolata di pelle d'agnello su cui sono scritte le preghiere e che si srotola per farne uso. Vi sono anche figure-feticcio di antenati che diventano oggetti di sacrifici propiziatori, presenti nella “medicina” della scultura come soggetti di osservanze rituali. E' inoltre presente in galleria, per consultazioni, una ricca biblioteca su opere africane.

Ha detto Henry Moore riferendosi alle arti primitive: “La qualità che più colpisce in queste arti... è la loro intensa vitalità... arte dove l'ispirazione non è degenerata in artifici e sottigliezze intellettuali”.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

Luigi Carpineto

 

In greco, il termine utopia significa “nessun luogo” ovvero concezione immaginaria di un mondo che si contrappone alle difficoltà e accidenti della realtà storica in cui si vive.

Se Jean Paul Sartre aveva teorizzato l “Essere e il nulla” e vedeva l'esistenza umana come un “buco”, un vuoto che si allarga per accogliere invano il Sé, l'utopia di Luigi Carpineto lo porta invece a descrivere “visivamente” il vuoto. Come? Facendo galleggiare in spazi del supporto - volutamente lasciati bianchi - oggetti (dipinti) tratti dal banale quotidiano.

Insomma, l'habitat umano, in questa pittura, risulta volutamente inghiottito, completamente fagocitato dal rovello del pensiero, dalla complessità del vivere contemporaneo in cui tutto è sottoposto a ridefinizione in attesa di nuove, future identità.

Nello sconcerto di oggi, dove alle crisi societarie si susseguono sviluppi tecnologici impensabili, l'uomo fa fatica a trovare l'armonia nell'immaterialità che lo circonda.

Siamo infatti testimoni di una nuova era e la tecnologia digitale sta sradicando il nostro modo di pensare, di comportarci e di operare (vedi “Materia Immateriale”, Miriam Cristaldi, ed. Peccolo, Livorno 2003). Sta prendendo corpo un nuovo elemento di natura fuggevole, una materia immateriale imprendibile, che corre nelle reti su sistemi di trasmissioni-dati, costituita da linee in fibra ottica (tecnologia digitale), ponti radio, fili telefonici, antenne paraboliche...

Luigi Carpineto, in questo contesto, si ferma. Toglie la spina. Per riflettere.

E, quasi eseguendo un lento esercizio di antropologia, prova a ridefinire poveri oggetti d'uso quotidiano come “Dentifricio con spazzolino da denti” , “Piatto con forchetta e coltello”, “Abat-jour con sveglia”, “Saggina e contenitore di spazzatura” o, ancora, “Vaso con fiori” ecc., corrispondenti anche ai titoli delle opere.

Un azzeramento totale della corsa tecnologica e un provare a “rimembrare” ciò che sta per scomparire o per subire processi trasformativi. Come il sillabare faticoso di un bambino alle prese con le lettere dell'alfabeto.

In questo senso, un memorizzare ciò che sta per entrare nel museo di un antico e recente passato.

Sì, perché tali oggetti sono appena abbozzati rudimentalmente nel loro profilo con una linea marcata (quasi sempre nera) simile ai contorni specifici del timbro. Forse per voler fissare nel vuoto, in un precario spazio-tempo al di fuori delle categorie, ciò che è più riferibile ai concetti della mente.

Quasi un lento, faticoso sillabare una realtà in via di trasformazione.

Allora prendono corpo “oggetti-embrionali” come labili tatuaggi fissati nella roccia del pensiero, secondo lo stile ruvido dei primordiali graffiti.

Segni essenziali, questi, che nella loro forza incisiva, tendono a mostrarsi più come espressione simbolica che come mera oggettualità.

Come per il dipinto dove si materializza la silhouette di una scopa (in granaglie) accanto al circolare profilo di un bidone per rifiuti. Decise geometrie libere che rimandano agli archetipi.

O ancora quello della “Veranda” dove l'essenziale costruzione che struttura le vetrate laterali (sormontate da un fantasmatico architrave), è attraversata al centro da una croce nera (le maniglie), fornendo idealmente l'immagine di una possibile, arcaica, architettura di natura sacrificale.

Forse un'ara pacis?

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 

Giorgio Croce,   Genova 1 - 2 – 2005

 

 

        

         CroceEccessi visionari del terzo millennio

 

 

“A partire da un frammento di sapere o di memoria letterale, il sogno è capace di ingenerare una perspicacia psicologica, una divinazione degli altri e del loro modo di pensare molto superiore alla conoscenza che noi abbiamo della realtà... i volti sembrano venire da altrove, quando siamo noi che disponiamo di tutto...”, scriveva Jean Baudrillard (“Taccuini 1990- '95” ed. Theoria, Milano) riferendosi al sogno come processo di alterazione del reale e considerandolo come straordinaria condizione in cui si vive “per eccesso”.

Anche il giovane architetto, e artista genovese, Giorgio Croce, con la sua pittura fantastico-visionaria vive una dimensione d'eccesso simile a quella del sogno: il suo frammentato, complesso e affabulante immaginario visivo - di natura surrealista - come un piano sussultorio è attraversato da balzi euritmici che spaziano dall'astrazione geometrica a quella naturalistica, da un virtuosismo di carattere iperrealista a una sintesi iconografica dove il reale si erge a simbolo, fuori dall'immanenza e dal contingente, senza precisi nessi e legami logici.

Qui la funzione di controllo è completamente allentata e il giudizio è sospeso. Un po' come i calcolatori elettronici che con le loro fantastiche performance sono scollegati dalla coscienza umana.

E il racconto dell'artista non si sofferma a creare un unico grande spazio in cui nascono, crescono e muoiono molteplici avvenimenti ma, come in un caleidoscopico puzzle, si articola in numerose finestre, ciascuna: spazio, privilegiato alveolo, cuore e centro di un micro-racconto che vive e si alimenta (in simbiosi) con quelli circostanti. Oppure, al contrario, vengono a contatto tra loro realtà incommensurabili che, elidendosi, finiscono per ignorarsi. Solo per un attimo sembra che ogni cosa abbia un significato, per poi accorgersi subito dopo che, installata una nuova gerarchia di rapporti, tutto subisce un'invisibile trasformazione diventando oggetto di contemplazione di una golosa e assetata percezione visiva.

Anche il gesto oscilla in linguaggi differenti, ora duro, incisivo come graffito rupestre, ora morbido e ondeggiante come piega barocca (riferimenti all'espansione spazio-dinamica del Borromini), o in altri casi ancora, debordante e irrefrenabile come il veloce defluire dell'acqua fiumana. Mentre gli orizzonti sono sempre mobili, alla ricerca di un possibile centro che attiri le periferie.

Il principio di indeterminazione e di contraddizione animano costantemente la struttura processuale del lavoro, andando ad alimentare fonti di energia che - attraverso il duttile collante dell'ironia - sanno direttamente collegarsi al centro dell'uomo, alla sua capacità creativa. Prendono corpo, in questo senso, espressioni esilaranti rese da un' esagerata distorsione formale che allenta il senso tragico dell'opera. Sottile filo rosso, questo, che permette salti di qualità e collegamenti tra differenti livelli ramificati nella molteplicità delle letture e nella complessità dei linguaggi adottati.

Spiega infatti l'autore: “Il mio, è un parlare più lingue nello stesso tempo. Il difficile è esprimere contemporaneamente l'idea di unità”.

Se in genere i dipinti ad olio sono ottenuti con violenze cromatiche sovente basate sulla forza dei complementari (in particolare del rosso/verde), nel dipinto “Collisione biologica”, 2005, la tavola cromatica è invece giocata sui contrasti del bianco-nero contaminati da cromie sanguigne.

Qui, l'autore descrive, e mette in comunicazione, due emisferi opposti.

Quello superiore, reso da chiare morbidità pittoriche - diluite in atmosfere tonali - è scosso da un unica chiazza rossa: vampa di fuoco simboleggiante un possibile vessillo. Solo l'accenno ad un larvato onphalo (ombelico del mondo) può fornire l'idea di un'amplificazione spaziale di tipo prospettico.

Al contrario, nella parte sottostante, s'individua una forma collinare molto scura, al cui interno germinano segni nerastri (a questo colore si associa l'idea del buio, della notte, del nulla, legati al silenzio e alla passività, ma anche quella di profondità di sentimenti e di capacità introspettive), astratti e pesanti come gli arcaici graffiti rupestri. In questo spazio curvilineo - accanto a simbologie polinesiane e a indecifrabili scritte - si autoalimenta e vive affastellato una sorta di codice biologico suggerito da spirali e da sinusoidi. Evidente allusione, questa, alla biologia e ai pericoli della manipolazione genetica, cui l'artista spesso allude nel suo lavoro.

La morte è qui poeticamente evocata da una grande ad annerita forma d'uccellino - irrigidito e senza vita - con le zampe piegate e rivolte verso l'alto (visibili gli accenni all'universo figurale di Goya).

Ad unire i due mondi sta, in posizione quasi centrale, una figura allampanata maschile nella cui silhouette si staglia un personaggio femminile che stringe un neonato. Il complesso figurale, esageratamente allungato in altezza ed appena accennato da pennellate nere attraversate da tocchi rossastri della gonna, si staglia sullo sfondo simbolicamente come axis mundi (asse del mondo), capace di mettere in comunicazione cielo e terra. Ma al contempo, la curiosa parvenza di carattere (quasi) grottesco stempera la drammaticità del contingente per proiettare l'opera fuori dal tempo e dallo spazio.

 

                                               Miriam Cristaldi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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