Baj

Baselitz

Ben Vautier

Vittoria Biasi

Enrico Bafico

Bruno

 

 

 

Ben Vautier

 

 

Per Repubblica:

 

“Promuovere la Realtà della Non-Arte, purgare il mondo dalla vita Borghese…”erano alcuni tra gli slogan di Fluxus, un movimento artistico nato negli anni ’60 (in Europa, America e in Giappone con il gruppo Gutai) che inneggiava alla multimedialità, all’interdisciplinarietà, alla rottura con la tradizione, alla massima libertà linguistica e che, soprattutto, vedeva l’arte strettamente correlata con la vita coniando il motto “Arte=Vita”.

Uno dei più fervidi cantori e tra i più caratteristici di questa corrente è proprio Ben Vautier, attualmente in esposizione da “Unimediamodern” (Palazzo Squarciafico, piazza Invrea 5/b, fino a…) con la mostra “Le hasard est partout” in cui tutto ruota intorno al tema del “caso”.

Se, come teorizza Fluxus, l’arte è simile ad un flusso-fiume che scorre e dove tocca tutto si trasforma in arte e tutti possono diventare artisti (con precisi richiami alla rivoluzione musicale di  John Cage: “suonare la città”), si comprende bene come la simbologia del caso sia pertinente e calzi bene l’espressività di questo artista francese che qui, idealmente, gioca a scacchi attraverso una grande scacchiera ricavata dai quadrati bianchi e neri del pavimento. E in tutto lo spazio espositivo, tra una ricca e corposa oggettualità, è un continuo avvalorare la tipologia del gioco quando questo dipende dalla casualità. Ne sono alcuni esempi la rudimentale ruolette e tavoli da gioco con dadi personalizzati. Come d’altronde è sottolineato il concetto dalle caratteristiche strisce composte da scritta bianca su fondo nero in cui si specifica, tra l’altro, che “L’arte è una successione di casi”, “Il caso decide” e “Possiamo fermare il caso?”.

 

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

Per Il Cittadino:

 

“Dissolvere le strutture delle rivoluzioni culturali, sociali e politiche in un fronte comune con azioni comuni… Purgare il mondo dalla vita Borghese…”erano alcuni tra gli slogan di Fluxus, un movimento artistico internazionale nato negli anni ’60 (in Europa, America e in Giappone con il gruppo Gutai) che inneggiava alla multimedialità, alla rottura con la tradizione, alla massima libertà espressiva e che, soprattutto, vedeva l’arte in stretto rapporto con la vita secondo la nota equazione “Arte=Vita”.

Uno tra le più caratteristiche personalità di questa corrente è il francese Ben Vautier, attualmente in esposizione da “Unimediamodern” (Palazzo Squarciafico, piazza Invrea 5/b, fino a tutto giugno) con la mostra “Le hasard est partout” in cui tutto ruota intorno al tema del “caso”.

Se, come teorizza Fluxus, l’arte è simile ad un fluido vitale che scorre e ciò che lambisce tutto si trasforma in arte e tutti possono diventare artisti (con intrinseci richiami alla rivoluzione musicale di  John Cage), si comprende bene come la simbologia del “caso” legata alla teoria dell’indeterminazione sia pertinente e calzi bene l’espressività di questo artista che qui, idealmente, gioca a scacchi attraverso una grande scacchiera ricavata dai quadrati bianchi e neri del pavimento della galleria.

E nello spazio espositivo, disseminato di una ricca e ridondante oggettualità, è un continuo avvalorare la tipologia del gioco quando questo dipende dalla casualità. Come nel caso di una rudimentale ruolette e tavoli da gioco con dadi personalizzati in cui prende avvio l’enfatizzazione del gioco stesso con un tipo di processualità evoluta in performance con cui Ben Vautier, il giorno dell’inaugurazione, ha intrattenuto alcuni visitatori giocando un’originale partita a scacchi.

E come d’altronde sottolineano il concetto le strisce composte dalla caratteristica scritta a mano di colore bianco su fondo nero con cui l’artista avverte, tra l’altro, che “Il caso decide… L’arte è una successione di casi… e possiamo fermare il caso?”.

 

                                                                                    Miriam Cristaldi

 

Vittoria Biasi

 

 

“Bianco meno bianco” è il titolo di un video (presentato da Vittoria Biasi) - realizzato dagli artisti Toni Ferro, Caterina Arcuri, Ascanio De Gattis e Giulio De Mitri - consistente in una ricerca artistica di carattere antropologico che indaga i fenomeni culturali del nostro tempo e il comportamento del gruppo nella socialità.

Un’indagine, questa, condotta sull’uomo - in questo caso artista - in rapporto ad altri artisti e all’ambiente, concettualmente codificato attraverso una gamma modulare che da una condizione di “bianco” (spettro solare contenente tutti i colori, potenzialità dell’essere,  simbolicamente vita) degrada verso il “non bianco” (mancanza di colore, nero, negazione, idealmente morte).

In pratica, una campionatura di artisti la cui immagine della propria testa si offre alla percezione visiva nei rispettivi quattro punti cardinali. Quindi, colta nelle modalità astronomiche di nord - sud- est – ovest e perciò ripresa di fronte, di dietro, di profilo destro, di profilo sinistro. Come da schedatura scientifica.

Il video (rigorosamente in bianco e nero) mostra appunto il capo di ciascuno degli  autori fissato in sequenze fotografiche corrispondenti alle quattro canoniche posizioni.

Per scelta, qui non appaiono immagini in movimento bensì icone fisse che delegittimano la funzionalità stessa del mezzo (creando una sana distanza) per proporre invece un’ipotetica, severa, statica, campionatura di materiale umano da codificare.

Voci di sottofondo commentano il succedersi (consequenziale) di tali immagini digitali attraverso lo scandire scientifico, monotono e reiterato delle parole “Bianco meno bianco…”, finché le ultime si trasformano in un disturbo, un flusso inarrestabile di suoni...

Si potrebbe allora iniziare dalla gradazione dei capelli che dal bianco del più anziano degradano al nero del più giovane.

Le ciocche canute del primo confermano i segni di una vita matura mentre folti riccioli scuri sottoscrivono l’età più giovanile.

Ma bianco anche come l’indifferenziato, la perfezione e la trascendenza, il trionfo dello spirito sulla carne. Morte al vecchio, rinascita al nuovo. Purificazione, coscienza illuminata, movimento verso l’alto. Luce, manifestazione.

Allo stesso tempo, col “meno bianco” - togliendo cioè il bianco - si arriva all’esatto contrario:  il non manifesto, l’oscurità primordiale, le tenebre. Movimento verso il basso. Distruzione, corruzione, lutto.

E proprio tra queste polarità oscilla il lavoro dell’artista. Nessuno può dichiararsi esente da tali problematiche.

Le espressioni dell’artisticità si presentano allora come una corrente di eventi - scissi in moduli elementari (statiche video-immagini) - che possono essere descritti in termini materiali (facendo riferimento alla fisicità di ogni personaggio) oppure in rapporto alle loro conseguenze, andando a suggerire aspetti che sfuggono all’analisi fisica, ma simbolicamente capaci di configurare le identità stesse dei soggetti in questione.

Spiega Vittoria Biasi: “La coscienza bianca del nuovo millennio… scossa nella vertigine della propria apoteosi e interrogazione, emarginata e assediata nella trasformazione accelerata dei sistemi sociali… sa di esistere oltre il pensiero e le allegorie…”.

Prende allora avvio un’avventura poetica che dalla fisicità del messaggio trascende in metalinguaggio in cui, su basi modulari organiche, crescono e si sviluppano tensioni emozionali capaci di rovesciare plastiche spazialità (temporali) in fluidità di pensiero.

Un pensiero bianco, meno bianco, dove il “conoscere è ricordare il conosciuto lontano…” (Claudio Costa).

                                     

Miriam Cristaldi 

 

Genova, 2 marzo 2003

 

Enrico Bafico

“A me piace sentire le cose cantare.. Voi le toccate: diventano rigide e mute. Voi mi uccidete le cose.”, scriveva il poeta Rainer M. Rilke. Una frase che potrebbe essere sottoscritta da Enrico Bafico, artista genovese (’43) che ha recentemente inaugurato una sua personale alla galleria Rotta (via xx settembre 161 r, fino a gennaio), a cura di Germano Beringheli.

Infatti, i soggetti della sua pittura sono oggetti d’affezione selezionati nel mare fluttuante del mondano. Ma la ricerca espressiva dell’artista  conduce alla rappresentazione di un’ oggettualità - ad es. macchine, navi, frutti - estrapolata dal contesto originario per vivere in un habitat straniante, di carattere quasi metafisico, dechirichiano. Oltre ad una resa pittorica da iperrealismo tanto la forma è resa perfetta nella pennellata asciutta e precisa.

Ma anche qui, pur nella precisione compositiva, non esiste una reale corrispondenza col vero. Per questo motivo le immagini non sono fornite di dettagli, ma essenzializzate in forme oggettuali corrispondenti più ad ideali archetipici che non alla realtà circostante.

Prendiamo ad es. la nave: l’artista la dipinge o su di un tavolo da gioco o nel mare, ma con la chiglia tendente all’infinito. Una nave  perciò che non ha limiti, come quella che può aver colpito l’immaginazione di un bambino, rimasto per sempre affascinato dalla sua imponenza. Una nave però resa verosimile per i suoi comignoli, per gli oblò, per la sua giganteggiante prua. Per la sua superficie lucida da transatlantico. Ma se si cercano i particolari, sono inesistenti.

 Una pittura, questa, particolarmente efficace quando l’artista fa interagire il reale con la finzione.

Come nel caso in cui appare un monumento rappresentato da un personaggio, girato di schiena, che sembra rispondere alla palla lanciata da alcuni ragazzi occupati a giocare sulla spiaggia.

E, come suggerisce il curatore, “i suoi oggetti recuperano dal vissuto, che è fatto di conscio e inconscio, memoria e immaginazione, deponendo sui quadri una sorta di incantamento che è valore d’anima”.

 

                                                                        Miriam Cristaldi  

Baj

 

“Une peinture n’est pas une construction de couleurs et de lignes, mais un animal, une nuit, un homme, ou tout celà ensemble”, recita il manifesto del gruppo Cobra, firmato nel ’48, per mettere a fuoco il fiorire di una nuova pittura che tiene sì conto del reale come referente, ma per introiettarlo secondo versioni da incubi notturni. In questo senso, le forme assumono aspetti di paurosi ghigni e vengono metamorfizzate in dirompenti catarsi. Tutto attraverso una grande libertà gestuale e una fisicità cromatica accentuata coi toni di massima violenza.

Corneille, tra i fondatori del gruppo, è presente alla galleria di Roberto Rotta (nipote dello scomparso Rinaldo) - via xx settembre 181r, fino a fine aprile – insieme ad Enrico Baj, artista italiano particolarmente ironico, arguto, che ha direzionato il suo innovativo lavoro verso un’irrefrenabile creatività di carattere surreale ed ha fondato (con Sergio D’Angelo) il movimento “Arte nucleare”. Noti sono i suoi “generali”, fine anni ’50, realizzati con materiali eterocliti come passamanerie, nastri, cordami, coccarde ecc., o i lavori su “Ubu Re”, legati alla Patafisica di Alfred Jarry. Sempre sul filo di una scanzonata ironia. Con risvolti per certi versi addirittura sovversivi, non esenti da implicazioni di carattere politico.

I due amici, che molto hanno lavorato con intenti comuni - anche se con linguaggi differenti - mostrano qui lavori a “quattro mani” creati appositamente per l’evento genovese.

La satira dell’uno si fonde con la pittura violenta ed accesa dell’altro, dando luogo a curiosi assemblaggi che rievocano il lungo e complesso cammino di ciascuno.

                                                            Miriam Cristaldi

Baselitz

“Baselitz in Italia” è il titolo della mostra allestita nel Palazzo della Borsa (via xx Settembre 44, fino al 17 febbraio) - a cura di Bruno Corà - con gigantesche tele, dipinte a olio (in Italia) dall'artista tedesco Georg Baselitz, un autore innovativo, anticonformista, che alla “bella pittura” preferisce risvegliare le coscienze con impatti violenti di carattere espressionista.

Un dipingere, il suo, che per rompere con la tradizione si fa carico di un linguaggio del tutto personale attraverso cui le immagini, e i rispettivi personaggi ritratti, risultano completamente rovesciati e, per questo, sovente illeggibili. Un modo di fare pittura che rispecchia la complessa personalità dell'artista e la società tedesca del dopoguerra, momento in cui la Germania è divisa in due tronconi e i disastri avvenuti costituiscono un'immensa ferita difficilmente rimarginabile.

Fin dai primi anni '60, il lavoro dell'artista si basa non solo sul rovesciamento dell'immagine, ma anche su di una gestualità violenta e su di una velocità esecutiva vicini per certi esiti alla pittura d'azione americana di quegli anni (Pollock o Guston), ma anche vicina alla forza aggressiva dei Fauves per giungere ad una sorta di neo-espressionismo tedesco che rientra, negli anni '70 - '80, nella grande onda della Transavanguardia. Corrente, questa, che riporta il piacere del dipingere (dopo tanto concettuale) e che investe l'intera area europea ed americana.

Una Transavanguardia tedesca , dunque, che con Baselitz, Lupertz, Kiefer, Immendorf, riesce “coscientemente o incoscientemente a cogliere i fatti sociali esattamente tanto da delineare la situazione nazionale molto meglio delle dichiarazioni ufficiali del governo”, scriveva lo studioso Bazon Brock riferendosi a questo gruppo.

Tra i dipinti qui esposti, si evidenzia l'abbozzo veloce di un bimbo, con la testa in giù e i piedini in alto, appena costruito con veloci e larghe pennellate rosse.

Forse un avvertimento per tanta infanzia violata?

 

                                     Miriam Cristaldi

Fulvio Biancatelli

 

Ferri arrugginiti, viti, bulloni, grette, lattine pressate, lamiere contorte, nastro plastico da imballo, chiodi, fili di ferro attorcigliati, catenelle, frantumi di cristallo ecc. sono tutti poveri elementi industriali di scarto con cui l'artista, architetto e designer romano Fulvio Biancatelli (classe '57), struttura un complesso, affabulante e fascinoso alfabeto secondo un personalissimo codice linguistico, reificando tali oggetti-frammento quali scarti della società in preziose occasioni multi-espressive, ruotanti a coda di pavone in un reale riflesso nella pluralità del senso. Scrive l'autore: “Nella costruzione, quello che mi disarma è l'assoluta espressività delle materie: il canto del ferro che incatenato dal collante, tradisce una tensione imprigionata per sempre...”.

Talvolta queste “reliquie” della modernità, sull'orlo di una sparizione in favore del nuovo “immateriale” tecnologico che avanza a velocità accelerata - realtà che il filosofo francese Paul Virilio non cessa di definire come: “...una situazione in cui la specie è a fine corsa poiché non è più in grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che mai” - si accostano a piccoli frammenti di natura, anch'essi miseri relitti, trovati sulla spiaggia ed elaborati dalla forza del mare come pietre levigate, legni, conchiglie, quasi alla ricerca di un possibile, poetico innesto dove anche la natura lancia il suo grido d'allarme, pressata com'è dall'attualità di precari e vacillanti ecosistemi. “Raccolgo un po' tutto ovunque”, dichiara l'artista “perché mi chiamano a testimone di uno scempio, di uno spreco d'inciviltà...”.

E allora, con l'attenzione di uno scienziato che pone il materiale sul “vetrino” per esaminarlo, Fulvio Biancatelli depone le sue reliquie-oggetto su lastre in metacrilato trasparente (plexiglass “a freddo” che non ha subito condizioni di liquidità) come simboli di un mondo in estinzione da consegnare a futura memoria secondo armonie spaziotemporali e ritmate composizioni, chinandosi amorosamente sugli scarti-frammento per reinserirli in una vitalistica circolazione sanguigna che è specifica dell'arte. In un secondo tempo fissa gli elementi al supporto con potenti colle chimiche facendoli “cantare” per l'eternità.

Nella prassi operativa questo è il momento più delicato in cui colorate polveri di aniline - spruzzate sulla composizione - si impastano col vinavil (usato per il fissaggio) creando una magica fusione pittorica tra gli elemnti del quadro ed il supporto.

“ Poi l'attesa che il collante incateni le materie, ma sopratutto che il colore si diluisca formando sfumature sconosciute e la ruggine cerchi vie di uscita dalla trappola imbastita...” spiega ancora l'autore.

Prende così corpo una delicata “pelle” che interagisce con l'opera mediante riflessi cangianti dei rossi, verdi o blu, un'unica pasta pittorica capace di suggerire acide, violente e al contempo inquietanti atmosfere dove la materia, trasformata in catartiche accelerazioni, sembra trascendere in “liquefazioni spirituali”.

La ruggine ha qui una notevole importanza: la fioritura dei funghi del ferro crea l'idea della distanza, dello scorrere del tempo che consegna l'ovvio al passato e che rinasce nella potenza energitica di una rinnovata linfa vitale. Ciò richiama l'opera del genovese Claudio Costa, artista internazionale che sugli elementi di scarto della società (con particolare attenzione per la ruggine cui aveva dedicata, nel '90, l'intera mostra “Per case di ruggine”) aveva fondato la sua poetica.

Nel lavoro di Biancatelli, e in quasi tutta l'arte contemporanea, si nota una sorta di apologia del “frammento” poiché abbiamo perso l'idea dell “intero” attraverso cui ci riconoscevamo abbracciandone i limiti coi quali era circoscritto.

Visione, questa, che è propria del passato (fino al secolo scorso) e che oggi ci è stata tolta dal'incommensurabile grandezza del mediatico “villaggio globale” che, volenti o nolenti, universalmente abitiamo. Non potendo riconoscerci in grandezze uscenti dai nostri limiti percettivo-sensoriali nasce allora il culto, l'amore infinito per il piccolo, il micro, per ciò che in fondo è più simile al nostro “esserci” nel mondo.

Particolarmente efficaci sono anche le opere intitolate “Vitrei” , elementi composti da schegge di cristallo tratte da frantumi di parabrezza d'auto, impastate con collante e ad accesi colori d'anilina, per essere poi racchiuse in cornice di brunita lamiera (per affissioni).

Anche qui si struttura una caleidoscopica visione che riflette un micro-universo dove “ ... come i cristalli di salgemma trapassati dalla luce rossa di una candela accesa , così le schegge di vetro temperato accendono luci ed ombre sinistre dall'umore vitreo...”, suggerisce ancora Biancatelli riferendosi a queste opere dove sovente, dietro il lavoro è posta una fonte di luce che mette in risalto proiezioni cromatiche violente, capaci d'irradiarsi magicamente nello spazio circostante.

Si architetta allora una possibilità di muoversi con la materia-colore in modo topologico con una intensità di senso in cui mente e corpo trovano un'intima, vibrante unità.

 

                                                            Miriam Cristaldi

 

 biomedicina

Nell'ambito di “GEnova 2004”, come risultato di uno sforzo comune tra le Facoltà di Medicina, Farmacia e Scienze Matematiche Fisiche Naturali dell'Università di Genova, si è inaugurata la mostra “Biomedicina e Salute” - con incontri e laboratori - (Loggia della Mercanzia, piazza Banchi, fino al 3 novembre, a cura di Fabio Bonfenati e Franco Ragazzi) allo scopo di far conoscere la storia della biomedicina con illuminanti e significative testimonianze. Come quelle ricche di sorprese della ricerca e quelle che ha sedimentato, instancabile nel tempo, lo stesso Ateneo genovese, focalizzando l'attenzione su di un passato sostanzioso per passare ad un presente denso di contenuti e proiettarsi infine verso un futuro composto da “centri, personalità, risultati di assoluta eccellenza nella ricerca, nella prevenzione e nella salute”.

In sostanza, un fitto dialogo tra le ricerche condotte nell'ambito storico (sono qui presenti straordinari reperti provenienti da tutto il mondo e conservati nel museo di etnomedicina “A. Scarpa” dell'università degli studi di Genova) e quelle della realtà attuale ultima delle biotecnologie con ricerche di carattere avveniristico e che pongono interrogativi inediti.

Nella mostra sono evidenziati anche i primi passi delle Neuroscienze Sperimentali per poi proseguire negli ambiti della Neurologia e Psichiatria, Farmacia, Medicina Interna, Chirurgia, Diagnostica, Pediatria.

All'interno dei percorsi medici, corre un percorso artistico con opere che in qualche modo si riferiscono all'uomo, al suo corpo e alle sue patologie. In questo contesto, si evidenziano i lavori del genovese Claudio Costa (quasi a un decennio della sua scomparsa), artista e arteterapeuta nell'ex ospedale psichiatrico di Genova-Quarto e fondatore delle Materie e Forme Inconsapevoli.

In particolare quello riguardante il “Combattimento tra cuore e cervello” ('93) dove, su di una consunta lamiera arrugginita, fissata ad una spalliera di palestra (simbologia di aspri contesti dell'attualità), sono deposti gli organi “straziati” del cuore e del cervello accanto ad una specie di rostro. Elemento, questo, che procura la “spaccatura” del cuore, mentre il cervello rimane ammutolito e prigioniero ad una finestra ingabbiata. Quando l'opera è stata fatta era il periodo appena posteriore alla guerra del Golfo e, come una Cassandra, stava a denunciare i pericoli cui si andava incontro. Anche Davide Raggio, paziente psichiatrico e genius loci di Quarto, amico ed estimatore di Costa, è qui presente con i caratteristici suoi “Pinocchietti”, creati con canne del parco dell'ospedale ed (alcuni) incisi a fuoco, e con altre opere originali tra cui un dipinto con bassorilievi in “sassomatto”, pasta ottenuta con cenere di sigaretta o con terra essiccata. Un artista autsider, mancato anch'egli da pochi anni, che si serviva di scarti della natura e di oggettualità rinvenuta nell'ospedale per creare curiosi personaggi che riteneva fossero vivi e che comunicassero con lui un misterioso linguaggio del “cuore”. In attesa di una grande mostra che documenti quegli anni che hanno connotato la presenza di Costa con la direzione di Antonio Slavich.

 

 

                                                Miriam Cristaldi

 Bruno

“Mi piace osservare gli oggetti posati distrattamente sulla scrivania e fotografarli nella loro <armonica> confusione, dilatarli in uno spazio fluido che tutto amalgama ed armonizza…”, così precisa il giovane Alessandro Bruno ricordando in un certo senso la visione frontale dei famosi “tableau piege” ( tavoli con resti di cene consumate) realizzati dal grande artista Daniel Spoerry, verso gli anni ‘70.

La fotografia scattata dal giovane genovese  (classe ’65) viene in seguito elaborata digitalmente al computer per poi essere ingigantita  e trattata manualmente con vivaci e brillanti interventi pittorici. Difficile capire dove sta la fotografia e dove sta la pittura perché quest’ultima, resa con un sottile processo di sofisticato iperrealismo, cerca di rendere il “vero” più vero del vero per modellarlo in fantastiche e spaziose scenografie.

Su di un codice dell’attualità fatta di oggetti sparsi frettolosamente sul ripiano - che riempiono fino all’inverosimile l’intera superficie - come dischi, quaderni, pennarelli, CD, bottiglie, bicchieri, libri, posacenere ecc., Alessandro Bruno (s’inaugura la mostra a giorni - galleria “Marco Canepa”, Via Caffaro 20 r. fino al 31 marzo) traccia un suo codice linguistico di cromie accese “che ha già sintetizzato la realtà esterna” e che sottolinea, evidenzia, corregge e fonde tra loro i vari elementi del banale quotidiano veicolandoli nella sanguigna circolazione dell’arte attraverso un mobile e scorrevole fluido. Flusso che allontana la fissità del reale per trasferirlo in atmosfere dilatate dove il tempo e lo spazio restano sospesi. 

Spiega ancora l’autore: “mi muovo nel visibile nei luoghi e nelle forme dove più si manifesta la volitiva attività dell’uomo, la sua dominante presenza sulla natura… i luoghi dell’architettura contemporanea credo che siano quelli  dove maggiormente trovo un soggetto, un’ispirazione…”. 

I luoghi a cui allude l’artista sono in particolare quei non-luoghi privi d’identità e tutti uguali nel mondo, teorizzati dall’antropologo francese, Marc Augé, quali aeroporti, stazioni, supermercati ecc. e che Bruno ha particolarmente privilegiato nei suoi precedenti lavori.

Un universo, questo, senza valore e che l’autore - attraverso delicati interventi di software e di hardware - riesce a definire con elementi linguistici capaci di emettere una forza energetica e primitiva di notevole impatto visivo.

 

                            Miriam Cristaldi 

 

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