Bernardo Asplanato (Porto Maurizio 1922) è un abile pittore figurativo imperiose che si colloca nell’area della tradizione del fare pittura ma con un’artisticità del tutto personale che sa guardare ai grandi del Rinascimento ma anche alle violenze gestuali di un espressionismo nordico, frammisto a intendimenti strutturati sulle morbidità tonali evocatrici di un certo delicato pittoricismo che chiama in causa lo stesso Beato Angelico.
Soprattutto Asplanato è qui in mostra nel chiostro di S. Maria di Castello ( fino al 14 maggio) con opere di grande spessore culturale di arte sacra, particolarmente approfondite sul mistero di Cristo e della sua Passione e Morte attraverso grandi quadri pregni di una forza endogena che deborda dalla pelle della pittura per avvolgere misticamente e rendere compartecipe lo spettatore attraverso convincenti affondi nella sfera della spiritualità.
In particolare, l’artista - soprattutto in alcuni drammatici crocifissi - sa descrivere con estrema sintesi l’aspetto formale attraverso una ferrea griglia geometrica che sbalza in aggetto la struttura plastico-corporea connotandola di una fisicità quasi petrigna. Sono, in questo senso, riscontrabili le sintetiche geometrie di Felice Casorati che è stato maestro dell’autore nella frequentazione dell’Accademia Albertina di Torino. Ma a questa solida composizione planimetrica si sovrappone una particolarissima gestualità di forte impatto visivo, tendenzialmente “ventosa” come se volesse, in un impeto di travolgenza mistica, far vibrare le forme nel più profondo delle viscere per avvicinare la passione di Cristo alle sofferenze di un’umanità oggi così fragile perché schiodata dai valori di sempre.
Scrive il vescovo di Imperia riferendosi al lavoro di Bernardo Asplanato: “Da tali opere emerge con forza una religiosità che si nutre di una spiritualità incarnata e che evoca magnificamente il Mistero del Verbo Incarnato: Dio ha davvero assunto umana carne, è diventato veramente uomo…. E grida all’uomo la necessità di trascendere la propria carne per entrare nella spiritualità” mentre Monica Zioni suggerisce: “Teologia e Poesia si compenetrano in queste tele in cui l’artista, con alta tensione spirituale e forza emotiva, ha espresso la sua fede, scegliendo toni diversi per rappresentare i momenti della vita terrena del Figlio”. Con grande passione.
Miriam Cristaldi
Si è inaugurata sabato scorso la “Viadellarte”, un originale percorso che accomuna e mette in rilievo attività commerciali e creatività artistica di negozi e gallerie d’arte compresi nello spazio del centro storico di vico Falamonica e vico del Fieno. Una cosa del genere si ripete felicemente da anni a Roma.
Gallerie presenti: “Ellequadro Documenti” con mostra di Paolo Atchugarry, “Joice & Co” con opere di Guido Castagnoli , “Guidi” e “Araghi” con collettive.
“La scultura di Atchugarry nel suo gusto per l’astratto e la stilizzazione simbolica, ha certamente i caratteri del tempo che l’ha vista affiorare alla luce…tuttavia in essa respirano in maniera nuova i marmi del passato, la scultura classica e la scultura della tradizione europea…” scrive in catalogo Paolo Frasson. In realtà, questo scultore uruguaiano (nato nel 1954 a Montevideo), abituato a misurarsi coi marmi ciclopici di Carrara, guarda certamente a certe soluzioni barocche dove la “piega” e il panneggio hanno grande importanza. Ma la piega barocca in lui si irrigidisce, si appuntisce, perde la morbidità del “soffio” per stendersi, come inamidata, nello spazio installativo. E tende a dirigersi verso l’alto, attraverso ritmi ondosi e cadenzati, sovente risolti nelle asprezze di punte acuminate. Un richiamo, questo, a certe soluzioni surrealiste, mentre la materia del calcare acquisisce aspetti di morbidità tattile dovuta a qualità del modellato.
Un modellato che rende i marmi rosati lucidi e carezzevoli, connotati da aspetti di fisicità carnale in cui i tagli, le pieghe, le sequenze, scandiscono inflessioni armoniche. Modulazioni, però, tese all’aggressività, a creare aguzzi punti di collisione che tradiscono possibilità d’incombenti minacce o di probabili pericoli…
Immateriali oscillazioni
“Non c'è speranza di raggiungere una consapevolezza anche solo approssimativa del Sé, giacché, per quanto siano le cose di cui noi possiamo acquistare coscienza, resterà sempre una quantità indeterminata e indeterminabile di inconscio, che appartiene anch'esso alla totalità del Sé”, ha affermato C. G. Jung in “L'uomo e i suoi simboli”, ed. TEA, insistendo su come il Sé si identifichi con lo scopo della vita poiché corrisponde alla “più perfetta espressione della combinazione di destini che determinano l'individuo”.
Qui, nella fresca e suggestiva video-registrazione delle diverse performance realizzate da Caterina Arcuri, è possibile assistere ad un continuo oscillare tra realtà e sogno appunto per esprimere il dicibile e l'indicibile e per penetrare quella parte più nascosta dell'anima quando si apre all'originaria “notte cosmica” - prima che si formi la coscienza dell'io - attraverso faraginosi percorsi nel passato e scorribande nel futuro con incursioni tra il dentro e il fuori di sé passando continuamente tra le due strettoie che marchiano a fuoco l'esistenza dell'uomo: la vita e la morte.
Con simultaneità in luoghi diversi e sincronismo di azioni parallele, l'artista inizia il percorso attraverso l'immagine luminosa di un involucro traslucido (una sorta di sacco amniotico in cui prende vita una forma larvale) che si agita, vive e respira. E' l'autrice stessa, avvolta nel cellophan, che evoca un probabile evento fetale, scandito e ritmato dal sonoro in cui si registra l'alitare di un respiro incombente. Il suo?
Ma presto il respiro è cancellato da sibili ventosi che costringono persone adulte a piegarsi e a ripararsi il viso dagli attacchi tempestosi: chiara simbologia della violenza, degli strappi dolorosi della contemporaneità, delle ferite che curvano l'uomo fino alla “deposizione” sulla propria, personale, “croce”.
Un immaginario, questo, che
Caterina Arcuri mostra abilmente servendosi sia di icone dipinte della
tradizione che della sua stessa persona, concettualmente sovrapposta ad esse con
azioni simili e parallele.
Poi, cambio di scena: una ciotola di rame (simbolicamente l'offerta di sé alla
divinità) s'ingigantisce in primo piano fino a diventare vasca, metallico
contenitore di morte: lentamente vi appare - all'interno e in posizione centrale
- il viso dell'artista (attorniato da mele,, frutto dell'albero della conoscenza)
galleggiante sul pelo dell'acqua che piano piano affonda fino a scomparire
ingoiato da ribollenti gorgoglii.
Con l'immersione nell'acqua e con l'eclissarsi del volto, potrebbe allora, antropologicamente, manifestarsi il desiderio di ritorno allo stato primordiale: morire alla vecchia vita per rinascere a quella nuova o affondo dell'anima nelle spire del mondo fino all'annullamento di sé per permettere l'attuarsi della “trasformazione” (“... il chicco di grano per dare frutto deve morire...”).
Acqua, allo stesso tempo, come potenzialità dell'esistenza, origine e tomba di tutte le cose, prima forma della materia, per Platone “Liquido della verifica totale” simboleggiante la Grande Madre, liquido della luce e metafora del flusso continuo del mondo esperienziale che cancella, purifica, rigenera.
Ma acqua anche come elemento di distruzione, caos primitivo, minaccia incombente che trascina nell'oblio, nel nulla qui metaforizzato da immagini sfuocate ed evanescenti - in bianco e nero - dove una figurina in primo piano si allontana lentamente per poi dissolversi, inghiottita dalla nebbia o da successive immagini di mare in tempesta, ribollente in onde schiumose.
Quasi un grido di allarme per l'uomo contemporaneo “gettato come palla da biliardo verso un futuro sempre più accelerato” (Claudio Costa) o, come avverte Paul Virilio ne “L'incidente del futuro” (ed. Raffaello Cortina) quando precisa che “la specie umana è a fine corsa perché non è più in grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che mai”.
Caterina Arcuri, con volo planare, ha qui acutamente materializzato, nell'immateriale mobilità delle immagini-installative, lo scenario del mondo terreno con incursioni nella sfera celeste: una specie di inquietante e misterioso inferno nitschiano (per esempio nella riduzione scabra del bianco e nero) insieme ad affascinanti paradisi evocati da festosi cinguettii e brillantezze cromatiche aventi la capacità di rifuggire o, al contrario, di incarnare la “vita “.
Con immagini dal corpo abbastanza fluido e pregnante da “passare” nel futuro.
Miriam Cristaldi