Museo di Villa Croce (fino al 14 settembre), curata da Matteo Fochessati e Sandra Solimano
“Palazzo Stella” (piazza Stella 5) brilla di luce propria.
Trasformazione:
principio su cui è fondato il lavoro di Claudio Costa
Vergine d’oliva: quando il simbolo si “scolla” dalla fonte......
Mirta Carroli e Giovanna Giannakoulos
Bill Viola ai colleghi di Brera
Angelo Pretolani, Anna Valeria Borsari, Vittoria Gualco, Lorella Salvagni, Davide Skerli, Berty Skuber
Con volo radente, “Dal Manzanarre al Reno” (mostra ideata da Angelo Pretolani), artisti di varie città italiane - non necessariamente film-maker – presentano un’opera video nello spazio di Caterina Gualco (via Nino Bixio 2)
Felice carrellata, questa, in cui appare evidente un contrasto in termini: là, dove aumenta l’artificio del supporto tecnologico, maggiormente si evidenzia una produzione di tipo naturalistico.
Vale a dire, quasi la necessità di un “bagno” nella Natura per una purificazione da contatti “inquinati” dovuti all’alta sofisticazione dei mezzi usati e alle complessità del vivere contemporaneo.
Infatti, tra gli artisti presenti, molti sono quelli che si soffermano sulla forza archetipica degli elementi, specialmente Aria, Acqua, Fuoco.
Con Angelo Pretolani, lo scorrere dell’acqua si sovrappone all’immagine di un corpo nudo fino alla sua completa sparizione, quasi a recuperare (simbolicamente) una verginità perduta.
Mentre nel segno del Fuoco prendono vita i video di Anna Valeria Borsari – lo specifico dell’arte viene sostituito da un grande falò – e di Vittoria Gualco – in tempo reale si assiste allo spegnersi della fiamma con l’esaurirsi di una candela.
E ancora, nella leggerezza dell’Aria, con i disturbi visivi (voluti) da videoamatore, Davide Skerlj lascia cadere una piuma sull’asfalto di una strada in aperta campagna, mentre Lorella Salvagni presenta la natura in un’efficace esplosione di nuvole e di acque lacustri. Così come il lungo filmato di Berty Skuber, girato negli spaziosi habitat montani, dove ci è proposto un gioioso tripudio della natura.
Lavori simbolici, dunque, di forte impatto visivo ma anche pregni di intensa spiritualità.
Miriam Cristaldi
Anna Ramenghi
Con la mostra “Eros e il sogno di Pandora”, Anna Ramenghi, pittrice genovese d’adozione, ha inaugurato la splendida “Sala Maggiore” del centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 7 febbraio), un vastissimo spazio rinascimentale al piano nobile in cui spicca il recupero dei preziosi affreschi a soffitto.
In
armonia con tali affreschi, l’artista ha
proposto qui ”(a cura di Mario Napoli), uno scenario pittorico - in parte già
sviluppato nella sede espositiva di “Rosa Leonardi V-Idea” - che ha per tema
il mito e che per certi versi si rifà a stilemi figurali dell’epoca.
Le
immagini dipinte ad olio, su tavola o su tela, quali presenze figurali acefale
(secondo un’iconografia antica), attingono infatti a modelli pittorici della
classicità (ad es. Tiziano), ma ciò che le rende contemporanee, è la fisicità
della materia carnale che lentamente non cessa di trasformarsi in spumeggiante
fioritura di rose per poi sfaldarsi in cascate
di petali.
Passando
– al centro - dal biancore madreperlaceo del corpo nudo (fonte endogena di
luce e di energia vitale), si giunge lateralmente al rosso purpureo delle rose
fino a giungere ad un disfacimento fisiologico attraverso l’ombrosità dello
spazio che circoscrive l’opera,. Spazio che affonda nell’oscurità e nel
silenzio dei bruni.
Una
vera apoteosi della forma e del colore.
Miriam Cristaldi
Eros
e il sogno di Pandora è il tema mitologico che Anna Ramenghi, pittrice genovese
d’adozione, affronta in questa mostra , inaugurando così la splendida “Sala
Maggiore” (Centro culturale Satura, piazza Stella 1, fino al 7 febbraio) un
nuovo vastissimo spazio al piano nobile - che si aggiunge agli altri
preesistenti - in cui si può ammirare il recupero dei preziosi affreschi
rinascimentali a soffitto.
Un
recupero che bene si coniuga con questa pittura a carattere classicista, che
rimanda ai miti della storia e che si rifà a modelli figurali dell’epoca.
Una
pittura, infatti, che rappresenta personaggi acefali (derivati da antiche
tradizioni) secondo stilemi rinascimentali, riferibili in particolare a Tiziano
o a certe soluzioni manieriste.
Ma
la contemporaneità dell’opera sta nel rendere l’immagine di un incarnato
fremente, vivido, fisiologicamente realistico, capace di irrorare vitalistica
energia in tutto lo scenario pittorico.
E dal corpo centrale - reso nello splendore luminescente di una carnalità madreperlacea – si passa ai rossi purpurei dei margini in cui le membra si trasmutano in un tripudio di rose carminie per poi frammentarsi in cascate di petali, fino a raggiungere lo spessore dei bruni, attutiti in silenziose atmosfere che qualificano i limiti estremi del campo pittorico.
Una
pittura, questa, ricca di accensioni cromatiche, dove il mito contribuisce a
fornire una dimensione onirica in cui i personaggi sembrano danzare in spazi
olimpici. Allora ha poca importanza la precisione anatomica quanto invece ha
rilievo la possibilità ossimorica di una coniutio oppositorum: così come la
dimensione di veglia convive con quella del sonno, e l’immanenza con la
trascendenza. In questo senso, Pandora, portatrice di sventura, si propone qui
come soffio d’amore capace di irrorare l’arsura di un mondo caduco.
Accompagnano
la mostra – negli altri locali di Satura – le esposizioni degli artisti
Chicco Beiso, Enrica Bixio, Matteo Bosi, Laura Mascardi.
Miriam Cristaldi
“In faccia al mondo. Il ritratto contemporaneo nel medium fotografico” è il titolo della mostra fotografica riguardante scatti che abbracciano il mondo nella sua globalità, dal ’70 ad oggi, in esposizione al Museo di Villa Croce (fino al 14 settembre), curata da Matteo Fochessati e Sandra Solimano con testi,oltre che degli stessi curatori, di Franco Sborgi e Angela Madesani.
Una mostra, questa, che verte unicamente sul medium fotografico, un tempo
considerato sostegno della pittura, oggi accettato come linguaggio autoreferenziale. In questa società tecnologica che ci ha abituati all’immateriale, niente
come questo mezzo espressivo si presta ad una rappresentazione di tale realtà
fortemente inoggettuale (senza corpo pittorico o forma plastica) per visualizzarne dei
frammenti decodificati e ricontestualizzati secondo le specificità
delle differenti ricerche linguistiche.
La mostra si snoda non in ordine cronologico ma tematico: “Il ritratto come partecipazione e distacco” ed inizia con immagini fortemente significative dei coniugi Becher (artisti che hanno fatto parte del gruppo Arte Antropologica insieme a Boltansky, i Poirier e il genovese Claudio Costa, ecc.). Celebre coppia di artisti che,
riferendosi al noto fotografo Sander, hanno proposto una ricerca antropologica su costruzioni industriali in disuso,caratterizzandola con tipologie da campionatura.
Thomas Ruff , allievo dei Becher, è presente con foto anonime di personaggi ripresi con la tecnica da fototessera, senza alcuna partecipazione emotiva.
Il giapponese Araki conduce invece un’indagine sul suo mondo femminile, colto con estrema raffinatezza e particolari che rivelano significati simbolici.
Con la sezione “Album di famiglia” l’artista svolge ricerche nell’ambito del privato o si rivolge al sociale: brilla per bellezza una grande installazione del francese Boltansky in cui rappresenta la data del ’38 (subito prima della 2° guerra
Mondiale, in America come in Europa) attraverso immagini di opere d’arte dell’epoca, frammiste a frammenti di cronaca, oggi storia, ad es. Mussolini in piazza della Vittoria, saluti fascisti, le prime bombe atomiche…
Sophie Calle presenta invece la sua ossessione per i cimiteri: qui sono ricostruite tombe di famiglia a metà tra realtà e finzione.
In “Tramutazioni e travestimenti” esemplare l’opera di Robert Gligorov con ricostruzioni epidermiche ironicamente realizzate con pelle di pollo.
E ancora, In “L’uomo della folla” è riscontrabile una situazione sociale confusa e affollata come in una bella panoramica di Armin Linke (folla in preghiera) o di Paola Di Pietri.
In ultimo “Il ritratto come assenza” con una significativa foto di Tony Oursler, viene
Rappresentato un ambiente di degrado sociale mentre Giacomo Costa, in una megafoto avverte ossessioni e stravolgimenti urbani ove l’uomo non si vede ma è evocato da abitazioni di invasive megalopoli.
Tanti sono gli artisti presenti, (tra gli altri i genovesi Arena, Ghiglione, Viel e Vitone); un bel catalogo a colori e in b. n. ne mostra le opere.
Una mostra di valore da non perdere.
Miriam Cristaldi
Si avvia verso la conclusione (14 settembre) la mostra “In faccia al mondo. Il ritratto nel medium fotografico” al museo di Villa Croce, curata da Matteo Fochessati e Sandra Solimano, riferita al periodo che va dalla fine degli gli anni ’70 in poi . Un’esposizione, questa, che verte unicamente sul mezzo fotografico, oggi legittimato come linguaggio autoreferenziale, e che esprime esemplarmente l’immaterialità della condizione tecnologica che stiamo vivendo.
La
fotografia non ha infatti spessore pittorico o tridimensionalità plastica; è
un frammento di verità - impressionato sulla pellicola - estrapolato dal reale
circostante e ricontestualizzato attraverso il linguaggio poetico dell’artisticità.
Qui,
il cammino inizia felicemente con riferimenti ai noti coniugi Becher, (artisti
che negli anni ‘70 hanno fatto parte del gruppo “Arte Antropologica”
insieme, tra gli altri, a Christian Boltansky, i coniugi Poirer e Claudio Costa,
oggi maestri di numerosi giovani artisti fotografi di grido) con le loro
caratteristiche catalogazioni di architetture industriali dismesse, a loro volta
debitori delle tipiche catalogazioni a carattere antropologico attuate dal
fotografo August Sander.
La
mostra non si svolge in ordine cronologico ma per tematiche: “”Il ritratto
come contrasto tra partecipazione e distacco”, “”L’album di famiglia”,
“Ritratto come autoritratto”, “Tramutazioni e travestimenti”,
“L’uomo della folla”, “Il ritratto come assenza”. Spiccano le presenze
di artisti celebrati da biennali veneziane (Andres Serrano, Vanessa Beecroft,
Sophie Calle, Monica Carrocci, Janieta Eyre, Robert Gligorov, Armin Linke, Tony
Oursler, Thomas Ruff…) e meno noti ma significativi (Patrizia Nuvolari, Izima
Kauru…).
Ben
rappresentati i giovani genovesi Francesco Arena, Mauro Ghiglione, Cesare Viel e
Luca Vitone. Alcune mancanze: Cindy Sherman, Thomas Struth, Mariko Mori, Shirin
Neshat…
Superba
la sala dedicata all’installazione del francese Boltansky: un centinaio di
foto, rigidamente in bianco e nero, riguardanti il periodo prebellico del ’39
con storiche inquadrature del duce Mussolini, lo sviluppo dell’era fascista,
le prime esplosioni atomiche… Frammiste a queste immagini di cronaca d’epoca
stanno le riprese di opere d’arte realizzate in quegli stessi anni, atte a
comporre una sorta di diario sociologico venato di partecipata sofferenza.
Estremamente
raffinate e studiatissime nei particolari le foto di Nobuyoshi Araki.
L’esposizione
è corredata di un bel catalogo con testi degli stessi curatori e di Angela
Madesani.
Miriam Cristaldi
Rosa
Leonardi
E’ mancata Rosa Leonardi all’età di 73 anni: punto fermo di riferimento per la ricerca artistica contemporanea.
La tenacia e il “fiuto” sono le caratteristiche che hanno guidato Rosa Leonardi - gallerista di grande talento e forte impegno – a districarsi nella complessa avventura dell’arte.
Un’avventura, la sua, iniziata nel ’63 con Edoardo Manzoni alla galleria “La Polena”con ricerche astrattiste d’avanguardia (Max Bill con la scuola della Bauhaus e i Deluney), cinetiche (Mari, Colombo, Vasarely) e spazialiste (col gruppo di Fontana). In seguito movendosi sempre più verso l’astratto geometrico con italiani di punta come Magnelli, Castellani, Reggiani.
A causa di differenti punti di vista, si rompe il sodalizio con Manzoni e Rosa, nella prima metà degli anni ’70, si apre a nuove esperienze artistiche fidandosi della sua grande sensibilità e del suo intuito per l’arte contemporanea. In particolare collabora con Ida Gianelli (oggi direttrice del museo torinese di Rivoli) alla galleria genovese Saman Gallery per approdare con Da Pelo (intelligente collaboratore di Celant) alla galleria Locus Solus di via Garibaldi.
Infine nell’85, con un largo giro di boa, apre finalmente la “sua” galleria “Leonardi” di via S. Lorenzo, poi traslocata a Campetto sotto il nome composto di Leonardi-V. Idea, dando qui risalto alla video arte e qualificandosi in generale sui linguaggi della comunicazione.
Ricordiamo in questo senso la sua prima mostra col gruppo Giovanotti Mondani Meccanici e in seguito quelle significative di Maurizio Camerani, Fabrizio Plessi e Silvio Wolf.
Ma il suo “naso” le ha permesso collaborazioni importanti e non sospette (prima del la loro vertiginosa ascesa) come quelle con la svizzera Pipilotti Rist e l’italiano Maurizio Cattelan (presente in tutte le biennali e triennali del mondo). Ha inoltre presentato giovani promesse come (l’allora giovane) Roberto O Costantino, Tommaso Tozzi e i genovesi Francesco Arena (giovane artista con cui ho lavorato nel ’90 in “Arte come Evocazione”) e Mauro Ghiglione (quest’ultimo da me presentato a Rosa in occasione della mostra nella Torre degli Embriaci).
Nuovi progetti per il futuro? Risponde il figlio Gianfranco Pancrazio: trasformare la galleria in un’associazione (retta da un direttivo composto da artisti e critici) di grande apertura verso i giovani che si muovono nella ricerca (sulla scia di Rosa). Con due attività specifiche: organizzare dibattiti su futuro dell’arte contemporanea e informatizzazione della videoteca già esistente.
Al figlio Gianfranco l’augurio di un’ottima e veloce realizzazione di questi importanti progetti nonostante il difficile clima dell’arte contemporanea
Miriam Cristaldi
Paola
Sartorio à una giovane genovese (studentessa a Milano) inedita. Questa, allo
Studio Ghiglione (piazza S. Matteo 1, fino al 28 giugno), è la sua prima mostra
fotografica. Soggetto: l’acquario di Genova al porto antico. Una serie di
immagini che sembrano fissare (alla percezione visiva) il movimento stesso della
natura.
Forme
e colori colti in volo dallo scatto fotografico, fissati su carta lucente come
scìe di una nebulosa in corsa. Forme, quindi, irriconoscibili e colori
cangianti come video-icone “disturbate” dall’etere.
L’autrice
sembra qui attratta dalla liquidità della materia - l’acqua - e dalla sua
rifrazione cromatica nella luce. Al contempo ne valuta la consistenza nei
guizzi, sussulti e moti ondosi causati dai veloci spostamenti della fauna
marina. Quasi a voler generare una nuova “materia vivente” nata dalla
fusione del regno animale con quello vegetale. In forza di una presenza
energetica capace di commutarne la sostanza.
Ma
si può cogliere anche uno sguardo rivolto alla tecnologia elettronica, madre di
icone mobili: migliaia di pixell che tramutano il fermo immagine in vibrazioni
inarrestabili. Una sorta di corporeità capace di trasformarsi in vibrazioni di
luce.
Paola Sartorio è vicina, in questo senso, a certe zoomate della brava Alessandra Tesi (specie quelle riguardanti la struttura acquea) o a Nam Jun Paik, padre universale dell’esperienza video.
Certo,
da questa iniziale ricerca, espressa con “vasche” (titolo delle opere), la
giovane fotografa sta individuando un suo personale linguaggio con cui “vuole
cogliere colori e movimenti, non tanto per bloccarli, quanto per dare un’idea
alle cose. Non c’è soluzione di continuità tra un colore e l’altro. Sono
foto di pieni, di presenze continue, di fluidi in movimento ordinato e
disordinato. Imprevedibile nello sviluppo…”, come appunto suggerisce Angela
Madesani, curatrice della mostra.
Miriam Cristaldi
Paola
Sartorio è alla sua prima mostra fotografica (studio Ghiglione, piazza S.
Matteo 11, fino al 28 giugno). La giovane, inedita, artista genovese
(studentessa a Milano), presenta “Vasche”, una serie di scatti avente per
soggetto lo splendido acquario della nostra città.
Una
sequenza d’immagini capaci di fissare (alla percezione visiva) il movimento
della massa liquida attraverso le grandi vetrate dei contenitori.
Forme
e colori sono dunque colti in volo dallo scatto fotografico, fissati su carta
lucente come scìe di una nebulosa in corsa. Forme irriconoscibili e colori
cangianti, capaci di suggerire un possibile immaginario contemporaneo composto
da video-icone sottoposte a “disturbi” in rete.
L’autrice
sembra qui attratta dalla fluidità della materia acquea e dalla sua rifrazione
cromatica nella luce. Al contempo sembra conquistata dalla scivolosa mobilità
della massa liquida provocata da guizzi, sussulti e veloci spostamenti della
fauna marina.
Quasi
a voler generare una nuova “materia vivente” nata dalla fusione del regno
animale con quello minerale. In forza di una presenza energetica capace di
commutarne la sostanza.
Proprio
come scrive Angela Madesani, curatrice della mostra: “Non è questa
un’operazione di tipo naturalistico, nessun tentativo di documentare qualche
cosa, piuttosto quello di fermare delle immagini in movimento attraverso la
semplicità di una fotografia senza trucchi”.
Miriam Cristaldi
“Palazzo
Stella” (piazza Stella 5) brilla di luce propria. Mario Napoli, il presidente
dell’associazione culturale “Satura” (ubicata al suo interno) con volontà
e costanza - ha guadagnato un’altra perla (la più grossa) alla collana degli
spazi espositivi ricavati (nel giro di qualche anno) in questa storica
costruzione.
Infatti,
dopo le precedenti inaugurazioni degli spazi espositivi “Sala Prima”, “Il
Pozzo”, la “Cisterna”, il “Portico” e la “Colonna”, siamo ora
giunti alla grandiosa e solenne “Sala Maggiore”, un ambiente vastissimo, al
piano nobile, che riflette gli splendori del palazzo rinascimentale soprattutto
nella luminosa ampiezza spaziale e nel prezioso recupero degli affreschi a
soffitto.
Uno
spazio, questo, che non cessa di sviluppare una politica culturale di recupero,
valorizzazione e riappropriazione da parte dei cittadini (quindi
dell’associazione Satura) del proprio territorio e - al contempo -
un’attività artistica che permette a tutti di relazionarsi col mondo
dell’arte, qui rappresentato indifferentemente da artisti professionisti e
personalità inedite. Una ricca e nutrita attività artistica che conta più di
800 soci e registra circa 10000 presenze.
Sabato
prossimo, alle ore 17, s’inaugura dunque la Sala Maggiore con la genovese
(d’adozione) pittrice Anna Ramenghi, con “Eros e il sogno di Pandora”, una
serie di dipinti “dedicati appunto al mito, in cui l’artista propone una
pittura fortemente emozionale - quasi viscerale - ove la materia carnale è
espressa in tutta la sua caduca e vibrante fisicità”.
Miriam Cristaldi
Serena Olivari
I simbolici “Tappeti” di Serena Olivari ( in mostra allo Studio Ghiglione, piazza S. Matteo 1, fino al 15 settembre) si presentano come emblematiche Tavole dipinte su cui si potrebbero leggere criptiche interpretazioni di eventi passati e futuri. Quasi ad esperire una sorta di conoscenza esoterica, riscontrabile in concetti segnici rinforzati da aspetti calligrafici uniti a minimi reperti oggettuali d’affezione.
Una specie di affabulante scrittura in codice, dunque, leggibile in sequenze orizzontali e verticali - dall’alto verso il basso, da oriente ad occidente (e viceversa) - come possibile riflesso di un macro e micro cosmo in trasformazione.
“Come
in alto, così in basso…”, recita a proposito la “Tavola Smeraldina”
(libro fondamentale sull’alchimia).
Si
sviluppano così sofisticate trame simili a quelle dei tappeti orientali e
leggibili come possibili cifrari in cui vi si trovano inclusi storie, leggende,
avvenimenti di ciò che è stato e di ciò che potrebbe accadere.
Trame,
quindi, in connessione con frange filiformi, con percettibili morfologie di
figurine mitologiche, interagenti appunto con cocci, tracce, frammenti minimi
del quotidiano così ad evocare, il pullulante universo del vivere.
Prende
corpo, in questo senso, una visione antropocentrica ove la fattualità
dell’uomo è posta al centro del cosmo come punto fermo cui è possibile
ancorarsi.
Ciò per far fronte alla condizione d’immaterialità in cui viviamo, frutto di una dimensione tecnologica che ci tiene pericolosamente sospesi ai fili dell’etere. Sospensione che - come avverte il filosofo francese Paul Virilio (“L’incidente del futuro”, ediz. Raffaello Cortina, Milano 2002) - potrebbe “crollare” da un momento all’altro con risultati inimmaginabili.
Ed è per questo che l’esperienza quasi astratto minimale di Serena Olivari sembra oggi avvicinarsi ad una dimensione più antropologica, ad una condizione societaria che vede la possibilità di un ancoraggio nella storia dell’uomo in rapporto al suo contesto culturale e alle sue manifestazioni materiali e simboliche all’interno delle differenti comunità.
Miriam Cristaldi
“Tappeti” di Serena Olivari
I simbolici “Tappeti” di Serena Olivari ( in esposizione allo Studio Ghiglione, piazza S. Matteo 1, fino al 15 settembre) si presentano come emblematiche Tavole dipinte su cui si potrebbero leggere criptiche interpretazioni di eventi passati e futuri. Quasi ad esperire una sorta di conoscenza magica, esoterica, riscontrabile in misteriosi concetti segnici rinforzati da aspetti calligrafici uniti ad arcani - e ridottissimi - reperti oggettuali della contemporaneità.
In questo senso, una specie di affabulante scrittura in codice, leggibile in sequenze orizzontali e verticali - dall’alto verso il basso, da oriente ad occidente (e viceversa) - come possibile riflesso di un macro e micro cosmo in trasformazione.
Trame,
quindi, in connessione con frange filiformi, ricamate con piccole figuralità di
carattere mitologico, interagenti appunto con cocci, tracce, frammenti minimi
del quotidiano così a suggerire, a evocare, il pullulante universo della
quotidianità contaminato da aspetti poetici.
Secondo
una visione antropocentrica ove il fare dell’uomo è posto al centro del cosmo
come punto fermo cui è possibile ancorarsi.
Ed è per questo che l’esperienza quasi astratto minimale di Serena Olivari sembra oggi avvicinarsi ad una dimensione più antropologica, che vede la possibilità di un ancoraggio nella storia dell’uomo in rapporto al suo contesto culturale e alle sue manifestazioni materiali e simboliche.
Miriam Cristaldi
Paolo Tedeschi
Si è inaugurata sabato scorso alla galleria “Joice & Co.” (vico del Fieno 13 r.. fino al 19 ottobre), la mostra “Il bosco è dentro” del genovese Paolo Tedeschi.
Un’esposizione composta da due quadri ad olio ed una installazione di opere fotografiche raccolte in una spaziosa e poetica “nicchia” di foglie vere.
In questo senso, l’artista compie un’excursus al di fuori dell’habitat cittadino per indagare l’ambito naturalistico filtrato dal mezzo fotografico. Un cammino dunque verso quella “selva oscura” presa a simbolo dalla visione dantesca e che qui si erge a simbolo della nostra interiorità dove si nascondono stratificazioni di luci ed ombre. Soprattutto quella materia invisibile e celata che costituisce la parte inconscia del nostro essere.
Un cammino in cui Tedeschi ci prende delicatamente per mano per condurci nell’ombrosità del mistero mostrando immagini sfuocate i cui i limiti si disperdono in effetti “nebbia”.
Questo per evitare di rimanere impaludati in superficie nelle specificità delle forme, e spingere invece l’acceleratore su di una sorta processuale di autocoscienza che induca il risalire in superficie di emozioni profonde, rimaste sepolte nel tempo.
Immagini larvate, queste, rappresentanti bambini colti nel bosco: una specie di innocenza da salvaguardare, una verginità da ri-scoprire nei silenzi dolorosi dei difficili percorsi della vita e, come spiega Maurizio Vallebona “…bosco come luogo di elementi pericolosi e perturbanti in cui si incontrerà una parte nuova ineludibile di sé che vale sempre la pena di scoprire”.
Ma anche come “simbolo della vita e, nello stesso tempo, contenitore di segreti e di paure. Custode dei misteri della nascita e della morte….luogo che ha sempre suscitato curiosità e paura…” aggiunge Fabrizio Boggiano (curatore della mostra) sottolineando il significato di questa operazione artistica nella qualità di un dono che se sapremo utilizzare potremo ritornare a udire, vedere, sentire, riacquistando così il piacere e l’emozione di questa magia che non è altro che la vita”.
Miriam Cristaldi
Trasformazione:
principio su cui è fondato il lavoro di Claudio Costa
Tutto
il lavoro di Claudio Costa si basa sulla TRASFORMAZIONE della materia conferendo
all?oggetto una vita autonoma simile a quella di un organismo vivente composto
da un proprio codice genetico in grado di programmarne il proprio cambiamento.
In
questo senso sono da citare - tra i primi esempi - le sue “ tele acide”.Tele
imbevute d’acido che - col tempo - continua ad agire producendo una
trasformazione erosiva e cromatica sul tessuto. Così come le “colle” stese
sulla tela che acquistano morfologie differenti a causa del continuo interagire
degli agenti atmosferici.
TRASFORMAZIONE,
dunque, che diventa per l’artista PRINCIPIO cui tutta la sua opera sottende.
Un principio riguardante anche la concezione della propria esistenza da
intendere come cammino in cui l’Essere incorre a continue trasformazioni per
raggiungere la conoscenza. In seguito l'artista volge l’attenzione ad oggetti
contadini (anche come recupero di una tradizione in via d'estinzione) che nel
processo operativo assumono morfologie differenti, sovente arricchite di
significati simbolici. In questo senso l’oggetto inanimato (spesso in disuso)
acquista vita propria, densa di significati intrinseci e al contempo si fa
testimone del reale che lo circonda.
Importanti
sono pure gli studi condotti sul cervello (“craniologie”): organo da
intendere come fonte del pensiero e centralina della vita umana. Poiché
possiede una forma labirintica, esso può proporsi anche come metafora del
difficile cammino umano che può condurre, tra le difficili vie
dell’esperienza, all’illuminazione.
Una
trasformazione - quindi - che, partendo dal reale, sa raggiungere la sfera
comportamentale per collocarsi nella fattualità della storia.
Ecco
allora che la componente antropologica dell’artista (negli anni ’70 ha fatto
parte del gruppo Arte Antropologica) può diventare mezzo per leggere il futuro
attraverso uno sguardo rivolto al passato (remotissimo).
O
meglio, Claudio Costa sa TRASFORMARE il concetto di passato in una fluida
componente sanguigna capace di pompare vita ad un futuro incerto ed asfittico. A
questo proposito penso ai suoi numerosi studi condotti sulle origini e sui riti
e miti dei popoli primitivi.
A
un certo punto della sua vita, l’Alchimia diventa per lui simbolo stesso della
trasformazione dato che si basa su di un sofferto passaggio che dalla
“nigredo” (il nero della terra, brutalità della confusione) all’“oro”
della pietra filosofale (l’illuminazione raggiunta attraverso la conoscenza).
Una
visione, questa, che egli prende a prestito come paradigma del mondo, letto
attraverso la metafora esemplificativa dei quattro Elementi: Terra, Acqua, Aria,
Fuoco.
All’elemento
Fuoco appartiene l’ultimo suo progetto “Skull Brain Museum Africa ‘95”.
Un
progetto che nomina “OPERA D’ARTE” una fetta d’Africa.
Precisamente
quella parte d’Africa settentrionale che combacia col profilo cranico
dell’Homo Erectus. Ancora una volta una trasformazione: l’Africa, da
territorio insanguinato - martirizzato da tribali guerre etniche - a fulgida
“opera d’arte” da porre all’attenzione del mondo attraverso una serie di
Musei che avremmo dovuto costruire laggiù con artisti del luogo (appartenenti a
questo circoscritto territorio africano) assieme ad artisti occidentali, uniti
in un unico, consanguineo abbraccio tra diversità. Nel nome dell’Arte.
Miriam
Cristaldi
Vergine d’oliva: quando il simbolo si “scolla” dalla fonte
Gli
aggettivi “immacolato”, “vergine”, “purissimo” ecc. - riferiti ad
una concezione di sacralità del corpo secondo una visione fideista e religiosa,
ovvero ad una visione del mondo abbracciata al divino - hanno perso terreno.
Il
sacro è stato profanato nella contemporaneità da una concezione materialista e
utilitarista, legata al consumo e alla dissipazione.
Il
corpo è diventato territorio d’esplorazione come unica realtà che ancora ci
appartiene.
Come
bene spiegava Pierre Restany: “Oggi il corpo diventa oggetto di comunicazione
e di racconto, un territorio prediletto per tutti gli scenari, è inseparabile
dal racconto, un racconto apocalittico da fine del mondo…”.
Un
corpo che oggi ha “… sempre più l’aspetto di guscio vuoto, di campo di
battaglia ove si sperimentano le fantasie più impossibili e che, allo stesso
tempo, è gravemente attaccabile da contemporanee pestilenze, che abita contesti
sempre più inquinati… Bello ma fragile e che dietro l’angolo sa mostrare
tutta la sua vulnerabilità di simulacro” (da “Materia Immateriale –
Identità, Mutamenti e Ibridazioni dell’arte nel Nuovo Millennio”, Miriam
Cristaldi, ed. “Peccolo”, Livorno 2003).
La
potenza degli aggettivi sopra elencati - non più applicabile all’umano come
virtù - viene allora magistralmente usata dalla pubblicità per magnificare
prodotti da commercializzare. Il loro significato simbolico, così radicato nel
nostro inconscio collettivo, soddisfa la nostra fame del sublime.
Ecco
allora che – oggi - un tipo d’acqua diventa “purissima”, il tal bucato
si definisce “immacolato” e l’olio assume la qualità di “vergine”,
anzi di più: “extra vergine”.
Se
poi il simbolo della verginità si accoppia mirabilmente con il frutto
dell’ulivo (simbolo mitologico della pace), ne risulta raddoppiata la portata
simbolica.
L’arte,
si sa, riesce a trarre dalla quotidianità gli aspetti più convincenti e più
nascosti attraverso interpretazioni di carattere metaforico-concettuale così da
“partecipare al movimento che tutte le cose di questo mondo compiono”(Beuys),
traducendole in fatti estetici.
Com’è
appunto l’intenzione di questa mostra, intitolata provocatoriamente “Vergine
d’oliva” (inaugurata alla pinacoteca provinciale di Bari - 31 maggio 30
giugno - con il contributo di Pio Monti, dell’amministrazione provinciale di
Bari e di Flash Art Museum), a cura di Vito Caiati.
Esposizione
in cui vengono colti – come scrive Caiati - “quei comuni risvolti di
sensibilita’ che un antico mai sopito confronto con il frutto (l’ulivo) e la
pianta, ufficialmente introducono i tratti essenziali della Puglia
e del Mediterraneo nelle icone rappresentative delle istituzioni”.
Nonché,
afferma ancora il curatore: “… è indubitabile l’importanza delle radici,
di un filo sottile che tiene legato l’uomo al suo mondo e che lo porta a
vedere ogni angolo della terra in un preciso modo”.
Accompagna
l’evento un esaustivo catalogo a colori con testi di Vito Caiati, Antonella
Marino, Pio Monti, Giusy Petruzzelli, Lorella Scacco.
Tra
gli artisti invitati si evidenziano i lavori di:
Joseph
Beuys, colui che per eccellenza ha nominato l’olio come propulsore di materia
energetica – si veda la paradigmatica installazione “Oliverstone” - capace
di generare quel movimento oscillante tra il calore disordinato della volontà (
= sentimento, calore, simboleggiato dall’olio) e il freddo organizzato
dell’ordine (= raziocinio, metaforizzato dalla rigidità delle vasche di
pietra).
Giulio
De Mitri propone qui il senso di una “coniutio oppositorum”
attraverso un rigoroso e poetico elemento femminile composto da un’auratica e
luminescente zolla di terra nell’atto di essere trafitta da un fallocratico
cono, tinto d’argilla.
Fathi Hassan identifica il vaso d’olio con l’immagine di una vergine. Extra. Il corpo femminile appena abbozzato si modella sulle rotondità del vaso in un unico, unificante amplesso.
Iginio
Iurilli con “Stretta la foglia” dipinge la simbolica immagine d’una foglia
d’ulivo - chiusa verso l’interno – così da simulare la purezza d’una
incontaminata vulva.
Con “Verde oliva” Felice Levini presenta - secondo una visione alchemica - un vassoio color oliva da intendere nella sua qualità femminile del “contenere” per “porgersi” successivamente in dono all’alterità.
Per
Magda Milano la sensualità d’un corpo vergine è rappresentata dalla carnalità
di un torso femminile nudo, rivestito unicamente da acerbe, lucentissime, olive
verdi capaci di ricamare un avvincente, naturale, merletto.
Antonio
Noia mira invece a creare una “tensione interna” attraverso campiture
cromatiche in opposizione: una forma a cuneo s’inserisce tagliente nel piano
orizzontale generando correnti a ritmi contrapposti.
Vettor
Pisani, con l"Omaggio a Fontana e all'olio d'oliva vergine" descrive
ironicamente una fanciulla con le nudità al vento. Il tutto provocatoriamente
inserito nell'immateriale, ed etereo, spaccato d'oliva.
Marialuisa
Tadei fa preciso riferimento alla Vergine Santa. Imprigionata in una teca di
vetro, quest’icona religiosa sembra ricordare la frattura sacrale del termine
a favore di un’utilità mercantilistica.
Come
a dire, la trascendenza cede alla “logica” del creato.
E
ancora: da Caterina Arcuri (pittura digitale) ad Arturo Casanova (pittore di
immagini energetiche) e, - sempre nel campo dello specifico - da Patrizia
D’Orazio a Paola Gandolfi per giungere poi a Gian Marco Montesano, le cui
fonti fotografiche, datate, interagiscono con poetiche visioni.
Si
arriva quindi a convincenti risvolti luministico-metafisici di un onnipresente
Kostabi.
Così
come Giulia Lusikova, anch’essa pittrice, sa abbandonarsi all’allegoria
dell’amore, certamente in opposizione alla drammatica visione di una
Annamaria Suppa.
Nel
segno della “vergine”. D’ “oliva”…
Miriam Cristaldi
Piergiulio Bonifacio, artista e gallerista (Studio B 2 in via san Luca 2), ha eseguito per lo “Spaziodellavolta (studio di architetti in piazza Cattaneo 26, fino al 21 aprile) una sorta di mostra estemporanea composta da un grande ed unico affresco (a parete) dell’ampiezza di 365° coinvolgente l’intero spazio dello studio.
L’operazione, che comprende anche l’atto di cancellazione da eseguire a fine esposizione, si avvale di segni espressi in forme semplici ed elementari, quasi sempre geometriche, composte da linee, segmenti, lievi campiture e reticoli.
E’ questa una sintetica organizzazione di carattere “minimalista” in cui linee di colore rosa (da intendere più mentale che fisico) si aprono, si chiudono, si richiamano nell’ampiezza dello spazio generando accordi, intrecci, e prolungamenti visivi che si compongono nella mente dello spettatore.
Quasi una delicata danza, un girotondo che abbraccia totalmente le nude pareti e che idealmente partecipa alla tridimensionalità dell’ambiente con fughe prospettiche e affondi nei primi piani.
Secondo una ricerca condotta nell’ambito dell’astrazione che l’artista conduce da anni badando a rispettare la purezza formale, il tono e il “peso” del colore che si allontana sempre più dall’ordine naturale per avvicinarsi alla dimensione tecnologica attraverso l’uso di particolari alchimie in modo che il segno significante non “sfori” i limiti dello spazio.
Con l’intenzione, appunto, di coinvolgere il fruitore con una partecipazione attiva in modo che l’opera si concluda percettivamente nel suo pensiero.
Nel nome di una raffinata eleganza capace di evocare la sensibilità di un Klee.
Delicate sono infatti le cromie usate dall’artista, sovente sottolineate da nere, ma sottili campiture capaci di suggerire spazialità oltre il visibile
Miriam Cristaldi
Luigi Grande
Un’umanità abbacinata, scossa dal vento, senza veste, quasi in via di sparizione, gravita leggera su spiagge assolate, arenili lividi, accanto a mareggiate dalle schiume verdastre.
L’uomo e la donna, interpretati da Luigi Grande, sembrano assumere atteggiamenti da “day after”, da ultimi abitatori della terra, quasi sul punto di scomparire, di perdere la propria identità, a colpi di spugna.
Infatti, membra e volti di personaggi sembrano stiano per dissolversi in fumose nebbie, colti in movimenti improvvisi e precari, simili a vaghi ectoplasmi assorbiti da turbini energetici che sconquassano qualunque elemento incontrino.
Personaggi fantasmatici dunque, immersi in una natura che assiste muta, asprigna (tonalità giallo-oliva), agli sconvolgimenti di un mondo sempre più asfittico a causa di esuberi velenosi ed inquinanti. Per questo, gli artisti creano oggi le loro “arche di Noè”, per sopravvivere ad un metaforico “diluvio” ( globalizzante condizione dell’universo) che sta radicalmente trasformando il pensiero umano e il suo rapporto con la realtà.
Un reale circostante dove la natura è allontanata dal filtro tecnologico, ibernata nelle immagini video, anestetizzata dai colori fluorescenti propri dei mezzi mediatici, suadente nella luminosità filmica di tali strumenti.
Nello spazio del centro culturale Satura (piazza Stella 1, fino al 22 ottobre), Luigi Grande - noto artista
chiavarese, da sempre attento e instancabile ricercatore di un dipingere che vuole essere allo stesso tempo spia e portavoce delle complessità odierne - ha fondato la sua pittura tenendo conto di certi esiti formali beconiani e rivisitando avanguardie espressioniste, in particolare Soutine.
Ma l’aotore - che sa mettere a fuoco i segni della tecnologia attraverso tracce indicative come lo specchietto dell’automobile che riflette il paesaggio - pare si diriga sempre più verso espressioni artistiche dove l’idea di pericolo si interiorizza e trova nell’habitat naturalistico una panica partecipazione. Per questo le atmosfere si tingono di toni acidi così da denunciare stati d’animo allertati, mentre le forme, nell’atto del loro dissolversi, si predispongono a creare - come scrive Giorgio Seveso in catalogo - “…quegli spazi torbidi, quei tagli sghembi, quel flou dei personaggi e dei luoghi come certe fotografie dilatate dal tempo e sono proprio quello che sembrano: pittura affascinante e sorgiva, quasi sempre ispirata…”
Miriam Cristaldi
Marangoni
Il lavoro pittorico di Umberto Marangoni sta a significare il continuo interesse per questa disciplina artistica che, ciclicamente, sale all’apice dell’attenzione per poi sparire quando ha raggiunto una certa saturazione produttiva e uno svuotamento di linguaggio. Come nel caso attuale dove la tecnologia ha sostituito il pennello e la matita. Ma dipingere è una necessità umana, in America si sta timidamente tornando a questa antichissima pratica, trascinandosi ovviamente dietro il peso, il senso e le problematiche della contemporaneità.
Anche Marangoni si abbandona al piacere del dipingere (centro culturale Satura, piazza Stella 1, fino al 5 dicembre), soprattutto volgendo lo sguardo alla tradizione classica, ma ancor più a certe calde tonalità della scuola Romana di Scipione e Mafai, pur scavando nella psicologia umana e riuscendo ad imprimere ai suoi personaggi un certo disagio assolutamente moderno.
Infatti, i suoi protagonisti sono colti in un’atmosfera di assorta concentrazione, non attraverso una fissità ieratica (propria di certe produzioni di antiche civiltà), ma caratterizzati da una sorta di angoscia, di difficoltà ad abitare il proprio spazio esistenziale, come se potessero cedere o soccombere da un momento all’altro. Concorre a questi effetti la durezza plastica della massa muscolare quasi pronta a parare colpi improvvisi, lo scavo ombroso attorno agli occhi e un vibrare abbacinato, sottotono, dell’ambiente circostante.
Quasi un negarsi dell’uomo alla propria intimità per privilegiare una sorta di nascondimento nel silenzioso e muto chiudersi all’alterità e potere quindi riflettere su se stesso, sul proprio destino, al problematico inizio del terzo millennio.
Miriam Cristaldi
Michel Chantal
“Con “Die Klinik” (=ultimo giorno d’ospedale), la giovane artista svizzera, Michel Chantal, espone alla “Rebecca Container” (piazza Grillo Cattaneo 2r, fino al 29 novembre) una serie di fotografie di grande formato, tratte da una performance - realizzata appunto nel singolare ambiente dell’ospedale – in cui essa interagisce tra macchinari terapeutici del luogo ed oggetti ricreati per tale spazio.
Spazi di sofferenza, dunque, visti dall’autrice non come condizione da combattere o come realtà da eludere, bensì - con spirito di assoluta accettazzione - come realtà da abbracciare con vitalistico ardore, quasi a volerli irrorare con una coinvolgente, intima, personale, energia.
In fondo, corrispondendo alla funzione dell’arte che è quella di sublimare il reale.
E allora Chantal Michel, che nelle foto si pone sempre come unico soggetto, appare in queste immagini, molto “mosse” (in alcuni casi con effetti di trasparenza o di doppi profili causati del movimento), mentre improvvisa una leggerissima danza e, vestita di bianco (nei panni dell’infermiera), pare librarsi nello spazio come una sposa felice, mentre abbraccia apparecchi sanitari o candidi oggetti da lei ri-costruiti, quasi a voler rievocare, in un’asettica visione, il luogo stesso.
Una tecnica, la fotografia, che l’artista attua sovente alternandola ad altri linguaggi come quelli della performance e del video (senza però la ricerca di effetti speciali, ma da intendere come semplice oggetto da proiezione).
Spesso l’artista si autorappresenta nella fotografia (guidando gli scatti di diversi fotografi) con sottile ironia e capacità trasformiste: ora “giocando” col proprio corpo raggiungendo la fissità di una bambola, ora raddoppiandosi (corporalmente) in una sorta di visione schizofrenica, ora coricandosi attorno a una grande aiuola fiorita per esaltare l’idea di una natura amica, ora abbracciandosi ad oggetti d’affezione raggiungendo quasi aspetti feticistici… Insomma, una caleidoscopica interpretazione della donna contemporanea vista nella complessità dei ruoli e delle mansioni. Ma anche uno sconfinamento della propria identità.
Una sua grande e significativa video-installazione in cui lei si presenta sotto diverse fogge, è attualmente visibile in una grande sala di Villa Croce, nella mostra “ Il Viaggio dell’uomo immobile”
Miriam Cristaldi
Con “Die Klinik” (ultimo giorno d’ospedale), la giovane artista svizzera, Michel Chantal, presenta da Rebecca Container (piazza Grillo Cattaneo 2r, fino al 29 novembre) grandi foto tratte da una sua performance negli spazi asettici, e per certi versi inquietanti, dell’ospedale.
Scatti fotografici in cui l’autrice, vestita di bianco (camuffata da infermiera), volteggia aerea e spumeggiante in questo difficile contesto, interagendo con i macchinari sanitari e con oggetti da lei ricostruiti, rievocanti il luogo stesso.
Spazi di sofferenza, dunque, che l’autrice non vive come realtà da eludere o come condizione da rimuovere, bensì come realtà da accettare in toto, quasi a volerla innervare di una propulsiva, coinvolgente, e personale energia.
Di fatto, sublimare il reale è compito dell’arte.
E in queste immagini (volutamente) molto mosse, in cui Michel è protagonista assoluta (nei suoi lavori si autorappresenta sempre come soggetto), appaiono disturbi visivi come doppi, tripli, profili delle forme, in alcuni casi disfatte in evanescenti scie di luce, così da restituire allo spazio suggestivi effetti d’immaterialità.
Come appunto immateriale appare tutto il lavoro dell’artista, ora giocato col linguaggio fotografico, ora con quello video (senza però ricerche di effetti speciali) o ancora, con quello della performance, “giocando” col proprio corpo per raggiungere la fissità di una bambola, per raddoppiarsi in una sorta di visione schizofrenica o per coricarsi attorno a una grande aiuola (esaltando l’idea di una natura amica), o ancora, per abbracciare oggetti d’affezione con aspetti di carattere quasi feticistico…
Insomma, un’ironica e caleidoscopica interpretazione della donna contemporanea.
Una sua grande video-installazione è attualmente presente a Villa Croce.
Miriam Cristaldi
Mirta Carroli e Giovanna Giannakoulos
“Carta-ferro, ferro-carta” è il titolo della mostra realizzata dalle artiste Mirta Carroli (Ravenna ‘49) e Giovanna Giannakoulas (Roma ‘50), presso la galleria “Ellequadro” (vico Falamonica 3, fino al 6 novembre) e a “Mente Locale” (Palazzo Ducale, piazza De Ferrari).
Curiosamente, mentre l’una ritaglia - da lastre di ferro - forme aeree che appiattiscono la scultura in disegno, l’altra, al contrario, esegue dipinti su carta - srotolata nello spazio - per assumere connotazioni scultoree.
Infatti Mirta Carroli estrae, da pesanti lastre metalliche, agili e sottili corpi filiformi, spesso appuntiti, sovente piegati per andare a configurare nello spazio libere strutture geometriche secondo un certo rigore analitico, ma al contempo modulati con cadenze ritmiche capaci di sottolineare leggerezze plastiche ed equilibri armonici.
Il ferro brunito, perduto il senso del peso, acquista identità segniche che lo trasformano in traccia, scia nello spazio, per formulare misteriosi alfabeti di qualche remotissima civiltà o inafferrabili codici di qualche immaginario pianeta.
Quasi in opposizione a tale meccanismo, Giovanna Giannakoulas dipinge svelte figurine di frettolosi personaggi urbani su lunghe strisce di carta da intendere come simbolico scenario della contemporaneità.
Si viene così a creare un articolato percorso nello spazio, una lunga ed arrotolata fascia che sguscia nell’ambiente per incunearsi in sequenze di cornici vuote.
Come a dire, lo specifico dell’arte esce dai limiti.
Miriam Cristaldi
FRANCESCO MUSANTE
Il mondo di Francesco Musante (personale alla galleria “IL Cancello”, vico Falamonica 8, fino al 20 maggio) è quello della fiaba: uno di quei racconti che si sviluppano in spazi notturni dove sul fondo di un cielo turchino, punteggiato da miriadi di stelle, germoglia un universo pullulante di vita.
Piccole casette, torri medievali, sirene, ombrellini, procaci fanciulle, trenini, lune, dai lontani ricordi chagalliani, volano agravitazionali (senza peso) nel buio della volta celeste assieme ad oggetti dello specifico dell’arte: matite, penne, pennini, pennelli, tele, cavalletti. In unione alla costante presenza d’un simbolico maestro (l’autore?) che dipinge “nel silenzio della sera” i sogni ambientati in magici mondi.
E allora, su queste tavole buie, accese da polveri siderali, danzano nello spazio oggetti e personaggi realizzati con lievi e morbidi segni, mentre i colori esplodono in tutta la loro forza timbrica come festoso concerto di squillanti note.
Così le campiture rosso magenta si stagliano infuocate su fondi cobalto e i verdi vescica si accostano all’oro delle lune e delle stelle.
Nasce un pattern visivo che ricorda un poco il lavoro di Gentilini, ma qui la forza del colore è del tutto particolare: trasparente, incontenibile e urlante. Le silhouette figurali sono strutturate secondo morfologie bidimensionali ma, alla percezione visiva, assurgono ad effetti tridimensionali dovuti agli aggettanti esiti del colore “sparato”.
Al contempo, Francesco Musante (di Vezzano Ligure) usa la scrittura come segno significante, come elemento creativo interagente con la pittura. E la componente grafica, costituita da lunghe e preziose scritte, è sovente usata come cornice, come spazio che circonda l’opera.
O come ricamo e trine che conduce l’attenzione al centro del lavoro, caricandolo di senso.
Si tratta di opere a tecnica mista con colori ad olio e acrilico su tavola di legno compensato, materiale che riesce a fornire quegli effetti di maggior luminosità cromatica.
Un lavoro che piace a tutti. Adulti e piccini.
Miriam Cristaldi
Occhiomagico
“Ogni
cosa che passa è solo figura. Quello che è inattingibile, qui diviene
evidenza”, scrive Fabrizio Boggiano - citando Goethe - a proposito del lavoro
fotografico di “Occhiomagico”, un artista che frequenta le migliori gallerie
d’arte fotografica e che attualmente è in mostra da “Joice &
Co.“(vico del Fieno 13 r) fino al 25 gennaio.
Immagini
(di una certa dimensione), le sue, quali risultato di una riuscita ed osmotica
fusione tra tecnica fotografica e digitale, stampate su pellicole luminose
capaci di produrre un forte impatto visivo.
Esse
ritraggono l’universo femminile nudo, colto in un contesto assolutamente
spiazzante, quasi di carattere metafisico, che allontana i soggetti dal reale
per collocarli nel magico e significativo universo del simbolo.
Ogni
figura femminile è infatti inquadrata in spazialità geometriche a carattere
prospettico – quindi in habitat trasfiguranti – ed è posta vicino ad
oggetti metaforici (conchiglia, uovo, mela, graffiti musivi, cornice,
maschera…) che ne travisano il senso.
In
pratica - sono questi - segni significanti che inglobano l’immagine per
sospenderla nel limbo che tracima dall’immanenza del reale.
Quasi
un esserci al di là dell’apparenza.
Miriam Cristaldi
“Cari colleghi, il video non è solo il pennello del futuro (tesi sostenuta da Nam June Paik, fondatore della ricerca video) ma la nostra vera matita”, spiegava Bill Viola ai colleghi di Brera nel ’72, sostenendo che l’immagine elettronica ha un suo spessore plastico-visivo, appunto la “matita” di oggi.
Infatti, nella mostra “Il viaggio dell’uomo immobile” , a cura di Sandra Solimano, recentemente inaugurata al museo d’arte contemporanea di Villa Croce (Genova, 29 ottobre – 1 febbraio 2004) come del resto nell’attuale panorama artistico mondiale, è la tecnologia il linguaggio che domina la scena, correndo sulle rotaie della scienza.
Ma con diversi approcci e intendimenti di pensiero, secondo le differenti proposte degli artisti invitati.
C’è chi ricerca effetti spettacolari (Gruppo Azzurro, Yuan Shun, Alexander Hahn), chi con minuscola proiezione ottiene il massimo degli effetti (Bill Viola, Laurie Anderson), chi blocca la comunicazione mediale per privilegiare circuiti chiusi (Nam June Paik), chi cerca interazioni col visitatore (Studio Azzurro, Edmond Couchot e Michel Bret), chi esibisce l’oggetto tecnologico rinunciando alla funzione estetica della video-immagine (Maurizio Bolognini), chi gioca tra reale e virtuale ( Fabrizio Plessi, Jean Pierre Giovannelli), chi evoca luoghi della memoria con proiezioni luminose, spazi sonori od oggetti d’affezione (Peter Sarkisian, Monika Bravo, Philip Corner, Mari Oyama, Peter Sarkisian), chi usa filmati speculari per creare labirintici, caleidoscopici percorsi da video-giochi (Franziska Megert), o ancora, chi impiega la videocamera come mezzo per stravolgimenti formali od ossessive reiterazioni (Tony Oursler, Chantal Michel), infine chi non usa la tecnologia ma, attraverso uno specchio deformante, riequilibra effetti di spiccata anamorfosi (Marc Didou).
In questo senso, la curatrice invita lo spettatore: “…a far temporaneamente parte di un microsistema di comunicazione aperta, che attinge ad altro per rimandare ad altro ancora, in una sorta di simulazione di quanto avviene nella macrorealtà”.
Una mostra, questa, che riesce a raggiungere alti livelli soprattutto coi lavori di Bill Viola, Nam Jun Paik, Laurie Anderson e Gruppo Azzurro.
Su di un piccolo telo bianco, nel buio della stanza, è proiettata la magica immagine (in bianco e nero) di un volto maschile che appare e scompare sotto l’azione di un disturbo visivo a “tempesta di neve” capace di produrre effetti di densa foschia e a caricare l’opera di forti connotazioni simboliche. Una sorta di sindone leonardesca che Bill Viola presenta per evidenziare il concetto di una possibile nascita e morte dell’umanità intera.
Con Nam June Paik, fondatore della videoarte insieme a Bill Viola e Gary Hill (quest’ultimo assente), si viene a bloccare la funzione video per privilegiare un tipo di proiezione a circuito chiuso (su tre schermi), dell’immagine poetica - rovesciata - di un pendolo antico, tratta dall’oggetto stesso posto al centro dello spazio installativo.
Quasi un abbraccio consanguineo tra reperto archeologico e nuova tecnologia mentre allo stesso tempo si visualizza la perdita del tempo cronologico per l’insorgere di una comunicazione circolare infinita, al di fuori delle coordinate spazio-temporali.
L’ironica ed affascinante micro installazione di Laurie Anderson (artista che eccelle anche nel campo musicale come compositrice) è basata quasi sul niente, ma con impatto visivo sorprendente.
Arrivando nel buio dell’ambiente, appare - a terra – una donna incredibilmente piccola (alta solo 20 cm.), che gesticola seduta su di una poltroncina. In realtà è il video - proiettato su di una minuta polttrona di creta posata sul pavimento - che ritrae l’artista stessa mentre spiega alla sua psicanalista vicende da lei definite “situazioni alchemiche”. Sembra qui di essere capitati nel mondo micro di Gulliver. Colpisce l’immagine dell’autrice così rimpicciolita tanto da essere alta solo pochi centimetri, assolutamente reale nella perfetta proiezione video ma al contempo assolutamente virtuale e inesistente come persona umana.
Un piacevole “gioco” in cui l’artista può continuamente spingersi a “disincarnarsi”.
Molto complessa e seduttiva la videoinstallazione “Il soffio dell’angelo” (Gruppo azzurro) dove sulla volta dipinta da affreschi antichi sono proiettate immagini di nudi acrobatici (rievocazione degli angeli barocchi che volteggiano nelle antiche volte dipinte) con spettacolari effetti visivi di moderni angeli in volo, collegati interattivamente ai visitatori, coinvolti nel farli piroettare, o scomparire, attraverso il soffio su alcune piume (vere) fluttuanti nello spazio (collegate con dei sensori alle immagini proiettate).
E ancora, un lavoro sull’immaterialità particolarmente azzeccato è quello di Edmond Couchot e Michel Bret. Al soffio del visitatore, le immagini digitali di alcune trasparenti e piccolissime piume si sparpagliano nel video provocando (ad ogni soffio) percorsi infiniti, assolutamente inediti.
La mostra è corredata di catalogo (ed. Neos, Genova 2003) con foto a colori e con testi di Sandra Solimano, René Berger, Lola Bonora, Viana Conti, Vittorio Fagone, Maria Perosino, Frank Popper, Sandro Ricaldone.
Miriam Cristaldi
Laurie Anderson
Sorprendente, curiosissima, magica è l’immagine luminosa di una piccolissima e gesticolante donna, alta da terra solo pochi centimetri, che appare alla visione (nel buio dello spazio installativo), all’interno della mostra “Il viaggio dell’uomo immobile”, a Villa Croce. Sembra di essere precipitati nel fantasioso e micro universo gulliveriano. In realtà si tratta di un film - proiettato su di una minuscola poltroncina di creta alta cm.20 - che ritrae la stessa autrice, Laurie Anderson, mentre sta animatamente discutendo con la sua psicanalista.
L’ironica ed affascinante micro-installazione basata sul niente ha, per contro, un impatto visivo molto forte.
Colpisce l’immagine dell’artista così fortemente rimpicciolita e così reale nella proiezione filmica (con sonoro), ma allo stesso tempo assolutamente virtuale ed inesistente come persona umana.
Un raffinato gioco, quello della Anderson, con cui si trastulla volentieri tra reale e virtuale per spingersi “alla magia del corpo disincarnato”.
La versatile artista americana, icona della contemporaneità, molto nota anche come compositrice musicale, si esplica al contempo nei diversi ruoli di scrittrice, cantante, regista, fotografa, esperta di elettronica,
La sua consacrazione nell’olimpo discografico si ha con “O Superman”, salita al secondo posto delle classifiche inglesi e con il successivo “Big Scienze”, primo di una serie di sette album. Ha effettuato tournée negli Stati Uniti e all’estero con spettacoli il cui linguaggio si estende dalla semplice parola all’ evento multimediale. Tra le mostre ricordiamo quella “Dal vivo”, del ’98, curata da Germano Celant per la fondazione Prada a Milano.
Miriam Cristaldi
Villa Croce
Con l’ossimoro “Il viaggio dell’uomo immobile”, Villa Croce inaugura un’importante esposizione d’arte contemporanea (fino al 1 febbraio 2004, a cura di Sandra Solimano, catalogo con testi di René Berger, Lola Bonora, Viana Conti, Vittorio Fagone, Maria Perosino, Frank Popper, Sandro Ricaldone), con presenze di primo piano, in cui la tecnologia è assoluta protagonista dei linguaggi.
Lo scenario artistico che si presenta è basato su immagini video, tecnica che ormai dilaga nelle ultime biennali, quadriennali, Documenta Kassel, e che agilmente si presta a manipolazioni - ardite e spiazzanti - dell’immagine contemporanea.
Un’immagine luminosa, mobile, quella digitale, con possibilità di riprese in “tempo reale” e di subire “stacchi”, sovrapposizioni, stravolgimenti di contesto, oppure guidata da cervelli elettronici o ancora interattiva con lo spettatore per fornire soluzioni visive impossibili nella realtà ma tipiche del sogno come, ad es., nuotare nell’aria o camminare sott’acqua o essere assorbiti da un labirintico e lunghissimo tunnel ad imbuto (Franziska Megert), oppure, spogliati dalle vesti, piroettare acrobaticamente nello spazio senza cadere mai (Studio Azzurro)…
Addirittura con risultati assolutamente inediti, come quelli dell’originalissimo lavoro di Laurie Anderson, una delle artiste che eccelle nel campo della performance (notissima anche come compositrice musicale) e delle prestazioni multimediali.
La tecnologia nelle sue mani riesce a produrre effetti spettacolari. Su di una statuetta di creta di circa 20 cm., posata a terra, è proiettata l’immagine dell’autrice seduta mentre spiega vicende da lei definite “situazioni alchemiche”. Questa piccola figurina che gesticola a terra, nel buio della stanza, sembra un personaggio del mondo-micro di Gulliver, assolutamente reale nella proiezione video, ma al contempo assolutamente virtuale e inesistente come presenza umana. All’artista piace infatti giocare con la “magia del corpo disincarnato”.
Altro lavoro fortemente suggestivo è il video di Bill Viola: su di un piccolo telo bianco è proiettata l’immagine in bianco e nero di un volto maschile che appare e scompare sotto l’azione di un disturbo visivo (a “tempesta di neve”) riuscendo, nella densa foschia visiva, caricarsi di effetti altamente simbolici. Quasi un nascere e morire continuo nella materializzazione di questa sorta d’impalpabile sindone.
L’immaterialità della condizione tecnologica viene qui esaltata nel lavoro di Edmound Couchot e Michel Bret: ad un leggero soffio del visitatore (con la bocca sul monitor), un video interattivo mostra l’immagine lievissima di una piccola piuma bianca che si riesce appena a vedere per poi sparire oltre i limiti del monitor.
Anche il lavoro dI Nam June Paik è particolarmente significativo per la neutralizzazione della funzione video..
Di fatto il monitor non funziona con l’immagine video, ma su di esso è proiettata (rovesciata) l’immagine di un orologio a pendolo (attraverso il funzionamento di una camera oscura), tratta dall’oggetto stesso posto lì davanti. Come a voler mostrare una tecnologia amputata, per creare una distanza dal mezzo, lui, mago del video, un personaggio storico che ha piegato la tecnica in funzione dell’uomo e, con Gary Hill e Bill Viola, è fondatore della Video Art (seconda metà anni ’60).
Molte presenze d’alto livello, tra cui Fabrizio Plessi (un video con l’immagine del fuoco è posto sotto a fasci di legna creando un’affascinante interazione tra reale e virtuale), Tony Oursler, Philip Corner, Michel Chantal…
Una mostra da non perdere.
Miriam Cristaldi
Vittorio
Valente
Vittorio
Valente, vivace ed originale artista genovese attualmente in mostra a Villa
Croce” con l’installazione “Virus” (a cura di Edoardo Di Mauro e di
Sandra Solimano, fino al 21 settembre), nasce ufficialmente alla fine degli anni
’90 con il gruppo “Arte come Evocazione” con cui evoca il mondo
scientifico attraverso la materializzazione fantastica di cellule e spermatozoi.
Analista
di professione, il suo mestiere lo ha portato ad indagare l’universo biologico
investigando prima sui “dermascheletri” - strutture ossee rivestite di
un’affascinante quanto seduttiva “pelle” (morbida al tatto) nella materia
viscido-vellutata del silicone - poi sulle forme prolifere, invasive e
velatamente minacciose dei “virus”.
Difficile
se non impossibile trovare ascendenze nel panorama artistico in quanto
l’autore è scopritore di un nuova prassi operativa che fa uso inedito di un
materiale plastico della contemporaneità, magnificamente adatto a simulare
caratteristiche tattile-visive dell’epidermide. Anche perché egli si serve
normalmente di un’oggettualità alla deriva che
“rinasce” all’arte attraverso “bagni” nelle gocce di silicone.
Ma
accanto all’aspetto ammaliatore, caricato anche dalla forza del colore
“sparato” (rosso vescica, verde ramarro…) convive un aspetto insidioso e
minaccioso con potenzialità
addirittura devastanti. Si nascondono infatti in queste decine di forme
“virali” in continua espansione (le installazioni
sono passibili di variazioni nel tempo
con l’aggiunta di nuovi elementi), lamette da barba, aghi di siringa
(prudentemente protetti) che denunciano la pericolosità di tali “batteri”.
Un
chiaro invito a riflettere sul potere scientifico della biotecnologia, oggi
pericolosamente in grado di manipolare fattori genetici e dare avvio a ciò di
cui fin ora è stato esclusivo terreno della fantascienza.
Miriam Cristaldi
Yuan Shun
Con “Over playground” (= sul piano da gioco), l’artista coreano Yuan Shun inaugura una personale alla galleria Artra (cortile Palazzo Ducale, fino al 15 dicembre) come evento collaterale al “Viaggio dell’uomo immobile” di Villa Croce, ove l’artista è presente con una installazione simile a questa.
In realtà, è lo scenario da gioco infantile che ispira il lavoro di Yuan Shun, proiettandolo però in ambienti diurni e notturni di diverse metropoli del mondo attraverso una sorta di fiammeggianti e frenetici luccichii, che si accendono e si spengono ininterrottamente (come nei videogiochi), al centro della sala espositiva, e che si collegano ad otto video (posizionati all’esterno a raggera) con cui sono evocate le città internazionali di Amburgo, Hong kong, Istanbul, Berlino, Shangai, Haifa (con l’aggiunta di due interpretazioni sul porto di Genova) per mezzo di un materiale visivo confezionato dall’autore nei viaggi realizzati dal ’99 ad oggi.
Al contempo l’artista, pur facendo un disinvolto uso della tecnologia e dichiarandosi interprete della condizione attuale di globalizzazione mediante un abbraccio virtuale al mondo intero (attraverso il richiamo visivo e sonoro di immagini-video girate in diversi luoghi della terra), sa suggerire modalità estetiche ricche di aspetti fortemente simbolici.
Infatti, se in un primo momento l’opera sa suscitare inquietanti interrogativi sulla condizione d’immaterialità in cui viviamo oggi, sospesi con la tecnologia ai fili delle reti planetarie, per contro sa indicare un’ascesi verso il territorio del sacro mediante le seicento luci rosse (a intermittenza), posizionate a terra secondo un codice linguistico simile (per conformazione formale) al funzionamento degli ideogrammi orientali.
In particolare, questa estetica del fluido e dell’immateriale, registra una corsa in avanti ma con l’occhio rivolto all’indietro. Cioè quasi un additare - attraverso il gioco e la spettacolarità scenica - quei valori che da sempre contraddistinguono l’uomo nell’universo delle presenze.
Miriam Cristaldi