Alle mie nipotine Jennifer e Francesca
opere ed autori
sopra le foto relative al nome,sotto la
didascalia della foto
PREFAZIONE
Che l’arte sia spesso una cartina di tornasole per quanto concerne
certe situazioni della nostra società, è molto verosimile.
Forse proprio così si spiegano molti aspetti assunti dalle arti negli
ultimi tempi e che, in apparenza, possono sembrare privi d’ogni ragion
d’essere e lontani da ogni addentellato con le precedenti stagioni artistiche
e culturali.
In altre parole: fenomeni come quelli della Body art, del concettualismo,
delle performance, delle installazioni oggettuali, ecc. che molta parte del
pubblico stenta ad accettare e di fronte alle quali addirittura si ribella,
devono essere, almeno in parte, la spia di situazioni sociali e culturali che ne
giustifichino l’esistenza.
E’ questo, tutto sommato, la tesi da cui parte – anche se in realtà
non lo afferma esplicitamente – Miriam Cristaldi in questo suo ultimo –
molto criptico ma molto stimolante – saggio dedicato appunto a “Materia
Immateriale - Mutamenti e ibridazioni nell’arte del nuovo Millennio”.
Gli artisti che Miriam Cristaldi cita a esemplificazione della sua tesi,
sono tutti apparentati alle correnti dianzi citate; e basterebbero i loro nomi,
ben noti, e tra i più originali delle ultime stagioni artistiche (come Beuys,
Costa, Marina Abramovich, Giulio De Mitri, Shirin Neshat, Alessandra Tesi, Bill
Viola) a confermarlo.
Non è il caso, qui, che io mi soffermi a considerarne l’opera: lo ha
già fatto con molto acume l’autrice.
Quello che invece vorrei sottolineare, almeno di sfuggita, è quanto
Cristaldi sostiene nei brevi capitoli iniziali del libro, dedicati ad argomenti
particolarmente attuali e problematici come: “Corpo tra mutamento e
clonazione”, “Scollatura tra tempo e spazio”, “Tra inspirazione ed
espirazione”, “Dal simbolo all’oggetto: nuova iconografia” e che
costituiscono un’autentica messa a punto – teoretica ed esegetica –
dell’attuale situazione culturale.
Capitoli, come accennai all’inizio, che permettono di considerare
alcune situazioni odierne e le relative “visioni del mondo” come
rispecchianti, appunto, certe categorie estetiche presenti in parecchi dei più
interessanti artisti contemporanei e dunque quelli qui presi in esame.
Quali sono, allora, alcune delle più significative tendenze che ci si
presentano se osserviamo come si svolge e si sta svolgendo la nostra vita di
relazione e il nostro “in der welt” – il nostro essere nel mondo?
Ebbene, è sotto gli occhi di tutti che la componente spazio-temporale,
cui siamo inesorabilmente legati, è stata alterata negli ultimi cinquant’anni
dall’avvento delle infinite scoperte tecnologiche: rapidità dei mezzi di
trasporto, trasvolate atlantiche, sbarchi sulla luna, vita senza gravità
di astronauti, ecc. presenza di fenomeni virtuali in seguito
all’avvento di apparecchiature elettroniche, di simulator, creazioni di spazi
e tempi fittizi.
In generale la virtualità (divenuta ormai di moda nel linguaggio comune
e dominatrice in molti settori esistentivi) e d’altro lato tutta la serie di
fenomeni legati alle bio e neuro scienze, alla manipolazione genetica,
all’applicazione di protesi meccaniche ed elettroniche… hanno fatto sì che
la stessa corporeità umana sia divenuta, spesso, succube di condizionamenti
cibernetici, si sia robotizzata, assieme alla corrispettiva o supposta
umanizzazione (si fa per dire) dei servomeccanismi di tante apparecchiature
elettroniche dove si verrebbero a verificare effetti legati alla memoria, ma
anche condizionamenti capaci di condurre fino all’avvento di operazioni
autonome da parte di macchine dalla - si spera - apparente coscienza.
Tutti questi dati - ormai risaputi, ma che l’autrice analizza con
molta acutezza e molto distacco – giustificano parecchie delle attuali
produzioni artistiche.
Così ad esempio la presenza, da un lato, di un ritorno di interesse per
la corporeità (proprio in antagonismo con la robotizzazione di cui sopra); così
la presenza di performance di genere teatrale (proprio in contrasto con
l’avvento di videoarte, computerart, televisione ecc.); così la presenza di
forme artistiche legate alla concettualità e spesso sine materia (proprio
contro l’eccesso di meccanicità e di brutale ricorso a costruzioni basate su
macchinismi meccanici o
elettronici).
Se tutto quanto ho citato sembrerebbe un fatto positivo, esiste tuttavia
un pericolo, al quale Cristaldi non allude ma che si può ricavare dalle sue
stesse analisi.
Ed è l’aspetto negativo assunto da molte di queste forme artistiche
recenti.
Ecco: mi sembra che questo sia il lato oscuro di molta arte
contemporanea sempre derivato dalla situazione tecnico-scientifica di cui sopra,
e cioè: se è altamente positivo l’avvento
di molta body art come recupero del proprio “Leib”
(Il corpo proprio husserlianamente inteso, e Marina Abramovich ne è una
ormai leggendaria eroina); se lo è l’interesse per l’aspetto gnoseologico
dell’opera (e chi meglio di Beuys ha saputo trasformare le sue prediche
spirituali, illustrate alla lavagna, in un fatto estetico sulla scia del grande
modello di Rudolf Steiner?); e se lo è la minuziosa catalogazione
oggettuale (alchemicamente impostata sui quattro Elementi, di Claudio
Costa che appare oggi come una sacrosanta scesa in campo contro l’oggettualizzazione
mercantile di troppe odierne installazioni); è invece da considerare negativa,
o quantomeno pericolosa, l’ibridazione (termine usato troppo spesso a vanvera)
del corpo e dell’elemento elettronico (quale ci presenta ad es. un artista
come Stelarc che avvilisce il suo corpo sottoponendolo a meccanismi elettronici
eterodiretti); come mi sembra altresì
controproducente l’esuberante invasione di videoarte, priva di qualsiasi
originalità; a differenza appunto d’un Viola o d’una Alessandra Tesi, o,
per citare un altro interessante video-artista, Oursler.
Ben vengano allora le opere di artisti come quelli analizzati da Miriam
Cristaldi e tutti quelli che sapranno ribellarsi all’agguato di miracoli
cibernetici e di virtualità elettroniche – certo indispensabili per
migliorare le condizioni di vita dell’umanità – ma che possono
pericolosamente incrinare le qualità più peculiarmente umane e essenzialmente
autonome della creazione artistica di oggi come di sempre.
INTRODUZIONE
Materia Immateriale
Siamo, infatti, testimoni diretti di una nuova era e la tecnologia
digitale sta sradicando il nostro modo di pensare, di agire e di operare. I
media si sono fatti portavoce di tali innovazioni facilmente individuabili in
tutte le aree: nascono in questo senso nuove professioni, nuovi modelli di business
on line, nuovi rapporti interpersonali, nuove dimensioni a carattere
virtuale mentre navigare in cyber-space è ormai pratica quotidiana.
Il denaro ha perso stabilità e spessore corporeo: i capitali fluttuano
nelle borse di tutto il mondo, salgono e scendono tra rialzi e flessioni
imprevedibili poiché l’incidenza sui valori economici dipende dai risultati di interscambi mondiali. Intanto in
Europa si è attuata
l’internazionalizzazione della moneta, per la prima volta una unica, l’euro.
D’altra parte le tecnologie, in particolare internet,
si sono rivelate strumenti fondamentali per favorire scambi, affari,
comunicazioni tra paesi lontani, attuabili attraverso proficui ed elastici
“ponti informativi”. Convegni, seminari, incontri, vertici, fanno a gara per
progettare massimi sviluppi raggiungibili nei più svariati settori lavorativi,
cercando di captare in anticipo i cambiamenti che con ritmo sempre più veloce
stanno investendo l’intera società.
“Chiunque alla velocità della luce tende a diventare nessuno… e
alla velocità della luce tutti gli eventi su questo pianeta tendono a diventare
simultanei” (Marshall Mc Luhan “L’uomo
e il suo messaggio” ed Sugarco, Milano1992).
Come dice Mc Luhan: ”La tecnologia ha esteso l’uomo in modo colossale e superumano, ma non ha fatto in modo che gli individui si sentissero importanti… i media tendono a ridurre tutti a piccoli uomini pur offrendo a tutti l’opportunità di diventare superuomini” (op. cit.). Questa schisi tra onnipotenza e nullità porta al problema vero che è quello di pensare a nuove identità, a nuovi parametri che ci permettano di vivere consapevolmente i grandi cambiamenti epocali, comprendendone le irreversibili trasformazioni per poterle controllare ed evitare il rischio, non conoscendole, di esserne annientati.
Se
gli sviluppi scientifici e tecnologici comportano, attraverso linguaggi
performativi, cambiamenti radicali, radicale dovrà essere la modificazione del
modo di pensare di chi li vive. E ancora, se da un lato la tecnologia ci
permette di attraversare on line, in tempo reale, l’universo intero, e
la scienza di vivere sdoppiamenti e
trasmutazioni genetiche, nascono necessariamente problemi comportamentali ed
etici assolutamente nuovi che attendono codifiche altrettante
inedite.
Potenti
e diverse sono le conseguenze di tali sviluppi: le capacità umane possono
estendersi attraverso l’infinito prolungamento di un’ipotetica protesi
tecnologica, allungata a braccio, che afferra il mondo intero mentre, in virtù
di tali potenzialità, si accorciano macroscopicamente le distanze del mondo.
Un
mondo telematico che si articola e
comunica alla velocità della luce (nella dimensione elettronica) e
che si rende fruibile, nella riduzione video, all’interno di una
stanza.
Da
qui la nascita del “villaggio globale”, termine coniato da McLuhan per
definire la riduzione del mondo (attraverso la comunicazione mediale) nella
canonica dimensione del “villaggio primitivo” (Bruce Power “Il villaggio
globale”, Sugarco, Milano 1992).
E piano piano, quasi senza accorgercene, ci si avvia sempre più verso un processo globalizzante, irreversibile, di “dematerializzazione” e di perdita d’identità.
Sta
prendendo corpo un nuovo elemento di natura fuggevole, una materia
immateriale. Materia imprendibile che corre nelle reti su sistemi di
trasmissioni-dati, costituiti da linee in fibra ottica, ponti radio, fili
telefonici.
Le
industrie pesanti, meccaniche e le officine, che negli anni ‘50,’70
lavoravano l’acciaio o il ferro oggi non ci sono più: si sono convertite in
società telematiche basate su welfare digitali, e la conformazione
aziendale appare strutturata in materiale etereo, virtuale.
L’azienda si è trasformata di fatto in parola, informazione, conoscenza. Il lavoro materiale si svolge altrove, sovente nel terzo mondo poiché meno costoso e ricco di manodopera.
Caduto
il wellstate, lo stato sociale, è
caduta al contempo la sicurezza (economica e personale) mentre, in maniera
proporzionale, è aumentata l’incertezza. Se infatti negli anni ’50,’70
c’era un eccesso di domanda (boom economico), oggi assistiamo ad un
pericoloso eccesso di offerta e viviamo perciò una società che i sociologi o
esperti del settore, chiamano del “rischio” in cui per smaltire l’offerta
è necessario presentarla arricchita di sofisticati accessori. Nasce quindi
l’obbligo di fornire un prodotto supplementato da servizi specifici che lo
rendano più appetibile.
Con
la conseguenza di tenere premuto il pedale sul consumo così da evocare il
classico esempio del serpente che si morde la coda.
Questo
processo dematerializzante specifico dell’universo aziendale non riesce
naturalmente a tenere conto del materiale umano, del suo aspetto emozionale. A
favore di tali mancanze pullulano oggi dei micro-valori: quasi un “sì”
creativo all’interno di significati ristretti.
In quest’ottica prendono allora campo due vie, entrambi percorribili:
dare maggiore rilievo ai micro-valori del privato e cioè dare corpo a una nuova
imprenditorialità creativa del privato o avviare nuovi tipi di socialità
concedendo un forte valore al tempo libero, che è quanto si sta attualmente
sperimentando.
Sarà
interessante sapere, ad esempio, come si trasformerà il linguaggio
giornalistico: si stamperanno ancora i giornali? Probabilmente sparirà la
categoria dell’inviato speciale per privilegiare la comunicazione esclusiva
via internet. Ma, soprattutto, quale sarà la dimensione creativa e
professionale che tale figura potrà svolgere nel rispetto di un “bagaglio
necessario alla cultura dei popoli”?
Anche
gli acquisti subiscono un processo di dematerializzazione attraverso il sistema on
line: si può rinnovare la casa, cambiare mobili, sostituire
elettrodomestici, ordinare il cibo per i pasti quotidiani stando
comodamente seduti in
poltrona. Visionando cataloghi web e navigando in rete
è possibile ordinare e ricevere il tutto sulla porta di casa.
Sempre in rete si possono virtualmente realizzare infinite possibilità: ad esempio compiere “safari”, leggere “libri”, visitare “musei” e attingere a innumerevoli siti informativi.
Così
come si può arrangiare musica in tempo reale inserendo nel computer i
relativi simboli e visualizzare l’intera partitura sullo schermo.
Anche
l’architettura contemporanea si allinea a tale condizione d’immaterialità:
oggi le strutture abitative metropolitane si fanno sempre più slanciate, snelle
e svettanti verso l’alto (per esigenze spaziali) basandosi proprio sulla
“levità” e “trasparenza” dei materiali.
I
grattacieli sembrano infatti monumenti al cristallo.
L’architetto
Renzo Piano basa i suoi progetti esclusivamente sulla dinamicità e leggerezza
della costruzione con forte predominio del vuoto sul pieno per raggiungere
l’obiettivo di “eliminare il senso del peso”.
Una
delle ultime meraviglie architettoniche, già luogo di culto, è quella
dell’architetto giapponese Toyo Ito che ha progettato e realizzato la
mediateca giapponese di Sendai, un palazzo avveniristico dove trionfa la
leggerezza del materiale (anche per il nuovo modo di costruire i pilastri
vuoti), in cui si può “agilmente nuotare come pesci nel vasto mare
dell’informazione”.
Un
palazzo dalle pareti interamente di vetro, questo, costruito come un guscio
immateriale, aereo, trasparente, che poggia su sottili e filiformi alghe
elastiche, senza muri e finestre (ritagliate da mattoni).
Per
arrivare a costruire un acquario dell’informazione, l’architetto ha
immaginato immensi spazi che avvolgono i vari piani del sapere mettendoli in
relazione tra loro. La novità di queste strutture (si stanno ora moltiplicando
in diversi luoghi del pianeta), sta nel far diventare protagonisti gli strumenti
elettronici mettendoli bene in vista.
Un
diverso canale informativo fortemente in uso è il telefono cellulare - oggi in
esubero rispetto la telefonia fissa - capace di accentuare il senso
d’isolamento che alberga nei rapporti interpersonali, pur nell’utilità del
comunicare in qualunque spazio/tempo.
Di fatto, col portatile si è continuamente esposti ad un’azione di rice-trasmittenza che obbliga ad esercitare le facoltà del mezzo movendosi in ogni luogo sotto una virtuale campana di vetro per assolvere il farsi di una comunicazione alquanto complessa, carente di presenza umana, d’ immagine, di stereofonia e di luogo specifico.
Tra
le innumerevoli invenzioni in corso, focalizzano l’attenzione i cosiddetti
Avata, i nostri alter ego on line: figurine virtuali, digitali, che
parlano e si muovono in tv. Questi visi hanno un’incredibile mobilità, e i
loro visemi (movimenti della faccia), in perfetta sincronia con i fonemi (suoni
delle parole), sono così ben realizzati che
anche i sordomuti - attraverso i movimenti delle labbra - possono comprendere
ogni parola.
Non
più, quindi, una simulazione del reale, ma immagini virtuali umanizzate
(presto potranno sostituire gli speaker televisivi in carne ed
ossa) o composte da figuralità inedite, tridimensionali, completamente
costruite al computer ben diverse dai tradizionali (e bidimensionali)
disegni animati.
È
in prima visione in questi giorni il rivoluzionario film “Final fantasy”,
tratto dai videogiochi e realizzato per la prima volta senza attori, con
protagonisti che nonostante siano forniti di nei e di rughe, in realtà sono
tutti sintetici, nati da software e da mouse. Dopo i dinosauri di
Jurassic Park e i giocattoli di Toy Story, tocca ora agli uomini essere clonati
sinteticamente. Spiega in un’intervista ad un settimanale il regista del film,
Hironobu Sakaguchi: “Questi personaggi non sembrano più generati dal computer
e d’altra parte non sono cartoni, né persone vere, ma qualcosa a metà e di
completamente inedito… il difficile sono i sentimenti, mi sono concentrato
sulle espressioni, sui dettagli del viso di ogni muscolo facciale…”.
L’ibridazione tra reale e virtuale è ormai prassi consolidata.
E
l’arte rappresenta oggi questa realtà non totalmente reale: cioè una
dimensione ambigua, una commistione tra realtà e finzione, tra reale e
immaginario.
Alla
scienza tecnologica, causa di questo, spetta un’irrefrenabile corsa su terreni
assolutamente inesplorati.
M. C.
PARTE
PRIMA
L’atto
rituale trasmette il soffio vitale
creatore
di ogni nuova impresa
(Gustav
Jung)
IL
CORPO TRA MUTAMENTO E CLONAZIONE
Scienziati,
filosofi, artisti, storici dell’arte, si sono riuniti per discutere gli
estremi confini delle biotecnologie cercando d’indagare questo secolo,
denominato dall’economista Jeremy Rifkin “biotech” (Jeremy Rifkin
“L’era dell’accesso”, ed. Oscar Mondatori, Milano 2001), e soprattutto
tentare di capire come queste avventure scientifiche
possano incidere sulla società, sull’economia, sul lavoro, in pratica
sulla qualità della vita di questo pianeta.
Per
la prima volta, oggi, il corpo umano subisce mutazioni così radicali da
tagliare irrimediabilmente il cordone ombelicale con l’uomo dei millenni
precedenti.
Infatti,
s’interviene direttamente sul suo codice genetico, in particolare sui genomi
(il corredo delle informazioni genetiche), capaci di trasmettere i caratteri
ereditari in tutte le speci di animali e vegetali. Una nota importante da non
sottovalutare: si stanno compiendo studi sull’origine e sull’evoluzione
della specie umana mediante l’analisi del DNA di diversi gruppi etnici
(genetica delle popolazioni) pervenendo così ad una conoscenza esatta dei
nostri antenati. (vedi enciclopedia della scienza e della tecnica, De Agostini)
Gli
studi attuali d’ingegneria genetica portano alla rivoluzionaria possibilità
di modificare il patrimonio genetico di un organismo intervenendo sui singoli
geni di una cellula per produrre DNA confezionati su misura.
Una
pratica, questa, ancora esente da vincoli internazionali se si eccettuano alcune
norme deliberate da singoli stati. Si possono perciò immaginare infiniti
risultati, anche se per ora solo teorici: per esempio prefigurare l’uomo
volante se solo si riuscisse ad alleggerire il peso delle ossa…
Nascono
qui problemi di difficile comprensione e le domande da sempre fondamentali si
trasformano in rovelli per
l’etica e la filosofia.
La
bonaria immagine della pecora clonata Dolly è il simbolo odierno di tale
rivoluzione scientifica: nonostante la pacifica
apparenza essa nasconde in sé una scoperta sconvolgente che è simile, per
portata, solo a quella della bomba atomica.
Dice
il filosofo Paul Virilio: “Stiamo assistendo ad un’apocalisse, alla fine di
un mondo che vede la nascita di quello nuovo, da qui il pericolo di
un’estetica siderale della sparizione e non più dell’apparenza…” (Paul
Virilio “L’incidente del futuro”, ed. Raffaello Cortina, Milano 2002)
La
nuova umanità potrà nascere dalla polverizzazione di questa?
In
tale civiltà post-umana, concepita su uno stretto, ibrido, rapporto tra natura
e artificio, tra reale e virtuale, tra scienza e tecnologia, il corpo - privato
del suo naturale codice genetico - inaugura una svolta epocale con cui ci si
dovrà rapportare creando nuovi paradigmi a cui fare riferimento.
Una figura umana emblematica, questa del terzo millennio, carica di aspettative e allo stesso tempo di angosce a motivo di “inimmaginabili correlazioni che si dovranno configurare tra i vari saperi”. “Oggi conosciamo solo anime individuali rese asfittiche dall’incapacità di correlare la loro sofferenza quotidiana con il dolore del mondo”, spiega Umberto Galimberti, in risposta ad una lettera su di un settimanale di moda.
Si
potranno allora ipotizzare condizioni dell’essere umano capaci di sciogliere
nodi rappresentativi di vecchia costituzione a favore di modelli extra.
La
struttura corporea si arricchirà di equipaggiature tecnologiche già in parte
oggi accessibili come
computer portatili, ridottissimi data glove, micro
telefonie-cellulari (attivati da microprocessori) che permetteranno di camminare
per strada in perfetto assetto di full-
immersion in rete, così da poter rice-trasmettere in tempo reale, 24 ore su
24, ed assolvere a qualunque necessità, prevista e non.
Inoltre
il corpo sembra oggi lanciato verso nuove primavere: lo conferma la figura dei
bisnonni d’oggi corrispondente a quella dei nonni di ieri. In questo senso
paradigmatico è il sistema americano di vita collettiva pensata per anziani,
basato su attività sociali, sportive, turistiche, culturali, con possibilità
di lifting ed operazioni estetiche attraverso frequentazioni di cliniche
specializzate.
E’
di questi giorni la scoperta, in America, del gene dell’anzianità: sarà
probabilmente possibile, nel prossimo futuro, garantire (geneticamente) longevità
a tutti.
Il
sistema di trasmissioni-dati assottiglia il mondo e lo astrattizza in percorsi
comunicazionali visualizzabili in piccoli
monitor.
Monitor-video
che assorbono le dimensioni di altezza, larghezza e profondità
per restituirle in immateriali interfacce.
La
stessa natura - che ha abbattuto le differenze tra il giorno e la notte e che ha
subito forti allontanamenti dall’esperienza umana - è anch’essa percepibile
attraverso la lente della tecnologia.
Ad
esempio è noto come i bimbi pensino
che il latte nasca da scatole-contenitori e che le
mucche siano quelle dipinte di viola appartenenti alla pubblicità
televisiva.
Inoltre
le statistiche dimostrano che anche la sessualità trova una collocazione non
trascurabile nella dimensione on line:
la rarefazione dei contatti fisici risulta essere un procedimento già
avviato. L’erotismo può essere consumato in rete.
Una
rarefazione inquietante che polverizza la fisicità della materia per
direzionarci verso un lanciatissimo e inimmaginabile work in progress.
Rarefazione e immaterialità che possono permettere straordinari eventi come operare chirurgicamente “a distanza”: ciò è avvenuto con il chirurgo che ha “operato” il paziente da lontano, oltre oceano, attraverso l’uso di sofisticatissime apparecchiature computerizzate.
“La
fuga nell’immaterialità erotica, la traslazione nel cybersex, il
rifugio nella sessualità virtuale rappresenta l’apertura a una mutata
percezione tecnologica, una forma di eccitazione artificiale e intensificata,
una compenetrazione di neuroni e pelle, un’accensione orgasmica…”
suggerisce Teresa Macrì, che continua: “ …questo corpo programmato,
clonato, replicato, manipolato, de-naturato è divenuto semiosi cibernetica…e
invera una nuova carne sintetica, una materialità artificiale, una
biocompatibilità tra natura meccanica e
tecnica chirurgica” (Teresa Macrì, “Il corpo postorganico”, ed. Costa
& Noland, Milano 1996)
In
effetti, il corpo umano è sempre più potenziato da interne protesi metalliche,
in plastica o al silicone, come chiodi, arcate dentali, ricostruzioni in acciaio
di frammenti ossei, by-pass, ricostruzioni mammarie, chip e
microprocessori (per attivare il funzionamento di alcuni organi inefficienti),
ecc., mentre ad uso esterno si moltiplicano le perforazioni carnali con tecniche
del piercing.
Una
tecnica, questa, che modifica la superficie corporea e, al contempo, un mezzo
utile per appropriarsi del proprio corpo o, ancora, un modo di liquidare
l’ultimo confine (la pelle) che separa la persona dal reale circostante:
un’eliminazione del dentro e del fuori per favorire un’unica corrente
osmotica. Ma anche un linguaggio estetico capace di aprire una nuova via di
comunicazione.
Comunicazione
che per taluni versi può richiamare certe ritualità con cui i popoli primitivi
cercavano di appropiziarsi il favore degli spiriti. Un’inquietante, sottile
violenza, il piercing, attribuibile anche a connotazioni di protesta e di
rifiuto della norma.
Se
la violenza rivolta verso se stessi assume caratteri fortemente distruttivi può
diventare patologia anoressica, oggi fortemente in espansione, specie
nell’universo femminile. Si manifesta allora come estrema denuncia di un
profondo disagio attraverso l’ostentazione (al mondo) della propria magrezza:
un corpo fatto d’aria, inesistente, leggero e fluttuante come quello delle top-model
dove magrezza è anche sinonimo di felicità e di benessere.
Più
sottilmente, lo stretto rapporto tra corpo e protesi metalliche può prefigurare
l’uomo bionico: una fantasia contemporanea sull’uomo-robot, nata
dall’associazione di componenti organiche con quelle meccaniche (il
personaggio “Frankenstein”, di Mary Shelley, ne è la fonte letteraria).
In
arte si contano numerosi casi di simbiosi tra
corpo e tecnologia: Vito Acconci, Bill Viola, Stelarc, Antunez forniscono esempi
significativi di tali ibridazioni.
Spiega
Mario Perniola a questo proposito: “Ciò che suscita inquietudine e
costituisce un enigma è proprio il confluire in un unico fenomeno di due
dimensioni opposte: sembra che le cose e i sensi non combattano più tra loro,
ma abbiano stretto un’alleanza grazie alla quale l’astrazione più
distaccata e l’eccitazione più sfrenata siano quasi indistinguibili” (Mario
Perniola “I situazionisti”, Castelvecchi, Roma 1998)
Incalza
Lorenzo Taiuti: “Superare o rinnovare le strutture simboliche e rifondare
l’immaginario è l’obiettivo delle tecno-arti” (Lorenzo Taiuti “Corpi
sognanti”, Feltrinelli, 2001).
Un
coacervo di emozioni e fantasie sintetiche potrebbero dare l’avvio ad
avveniristici programmi scientifici che superino le vie dell’inconscio
freudiano.
Allo
stesso tempo un corpo, quello odierno, che virtualmente attraversa le reti
telematiche per raggiungere ogni parte del mondo e che “…con la tecnologia,
estende e amplifica le funzioni sensomotorie, psicologiche e cognitive della
mente…” (Teresa Macrì op. cit.).
Ecco
perché oggi, in arte, riprende con intensità il linguaggio performativo: qui
si evidenzia l’artista come soggetto, capace di mettere in moto energie,
umori, sensazioni, condivisioni, incitazioni “…per arrivare alla forma
embrionale della materia e poter ricominciare dal punto zero della storia
dell’arte…” (Mircea Eliade, 1963),
mentre l’oggetto perde significanza, si smaterializza o diventa presenza
accidentale che ruota attorno al soggetto.
Afferma
Pierre Restany: “… oggi il corpo diventa oggetto di comunicazione e di
racconto, un territorio prediletto per tutti gli scenari possibili, è
inseparabile dal racconto, un racconto apocalittico da fine del mondo…” (op.
cit.).
Un
corpo post-umano che, per quanto la medicina e le biotecnologie
perfezionano, migliorano, imbelliscono, mutano o clonano, ha sempre più
l’aspetto di guscio vuoto, di campo di battaglia ove si sperimentano le
fantasie più impossibili e che, allo stesso tempo, è gravemente attaccabile da
contemporanee pestilenze (Aids) e aggredibile da funzionamenti impazziti di
cellule (tumori) e che abita contesti inquinati. Un corpo bello, ma fragile, che
la televisione ci mostra sempre più giovane e incorruttibile. Ma che dietro
l’angolo mostra tutta la sua
vulnerabilità di simulacro.
Se
fino ad oggi la tradizione filosofica ha sempre privilegiato la superiorità
della mente rispetto al corpo, oggi si assiste al processo contrario: il corpo
è egli stesso l’universo dell’informazione, delle percezioni e delle
emozioni sensoriali, “…siamo tutti chimere, ibridi teorizzati…dei cyborg.
Il cyborg è un’immagine condensata di fantasia e di realtà materiale, i due
centri congiunti che insieme strutturano qualsiasi possibilità di
trasformazione storica…(Donna Araway “Manifesto cyborg”, ed. Feltrinelli,
Milano 1995).
In
questo senso stanno avvenendo trasformazioni secondo cui non siamo più creature
dotate di soli cinque sensi. “La tecnologia ce ne ha dati centinaia: possiamo
osservare l’universo attraverso tutto lo spettro elettromagnetico; udire le
vibrazioni…captare le forze molecolari. Possiamo contemplare l’universo
dall’esterno e averne una visione d’insieme; sentirci vicini alle stelle
grazie all’analisi spettrale. Per farlo, dobbiamo però convertire i dati
trasmessi in una forma interpretabile dai cinque sensi originali” (Myron W.
Krueger).
Probabilmente
l’energia che ha sostenuto la mente (che fin’ora abbiamo largamente usato)
si veicolerà alle capacità sensoriali dell’uomo che acquisirà di
conseguenza una più complessa e pregnante fisicità. Questo come reazione
all’immaterialità tecnologica per evitare il pericolo di una possibile,
consequenziale, estinzione.
D’altra
parte avverte Gillo Dorfles: “…
una delle innate prerogative dell’uomo è quella di volere – e sapere –
rendere la propria immagine attraverso mezzi artistici, quasi a convalidare
l’aspetto narcisistico e insieme di auto protezione antropologica e
psicologica che fa parte dei più profondi istinti dell’uomo, sin dalla sua
prima infanzia e sin dall’infanzia della stessa umanità” (Gillo Dorfles
“Ultime tendenze nell’arte d’oggi” ed. Feltrinelli, Milano 1987).
Il
tempo e lo spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto,
perché
abbiamo già creata l’eterna
velocità onnipresente.
(Filippo
Tommaso Marinetti)
LA
VELOCITA’ :
SIMULTANEITA’ DEGLI
EVENTI
Per
questa volata nel domani, si sta correndo oggi contro la barriera del tempo e la
velocità ci sta portando all’estremo dell’accelerazione, eliminando il più
possibile la sostanza opaca, la materia inerte, per dare corpo all’etereo del
tempo globale, concepibile
attraverso l’intercomunicazione spaziale del pianeta Terra.
D’altra
parte quest’incredibile velocità comunicazionale, destinata a moltiplicarsi
infinitamente nel futuro prossimo, “ha facoltà di rovesciare le coordinate
culturali poiché il cambiamento d’oggi non è assolutamente paragonabile ai
milioni d’anni passati” (da rivista “D’Ars”), quando l’uomo viveva
la sua esperienza nell’universo ai ritmi di un’estrema lentezza.
Una
velocità che, nella consapevolezza umana, tende ad abolire il tempo e lo spazio
e a far affiorare i fattori
inconsci. Spiega Paul Virilio “L’immaginario tecnoscientifico non ha smesso
di ruotare attorno al concetto di sparizione: inesorabile messa in opera della
spoliazione del Mondo, della sostanza del mondo vivente” (op. cit.).
Si
sta assistendo ad una drammatica ed euforica catarsi e si partecipa a
cambiamenti che danno avvio a nuove condizioni di vita e di pensiero.
Tutto
è passibile di manipolazione, mutazione, clonazione e se si volesse (per ora a
livello teorico) si potranno - in un prossimo futuro - riprodurre le energie
dell’universo a un certo istante
della sua evoluzione, magari “tornando indietro nel tempo attraverso la teoria
del bing bang quando la materia dell’universo (nei suoi primi istanti)
era estremamente condensata e la sua energia altissima” (enciclop. De
Agostani, op. cit.).
La
velocità è di fatto il risultato di “qualunque comunicazione, il paradigma
con cui ci si misura e con cui si stabiliscono i rapporti d’informazione: sia
per il microcosmo ove s’inviano e si ricevono dati necessari a governare la
vita biologica che per l’universo cosmico, sistema di riferimento che a sua
volta individua e registra il moto di ciò che avviene al suo interno” (enciclop.
De Agostani, op. cit.), poiché la velocità di un corpo, come la sua posizione,
può essere specificata solamente rispetto a un sistema di riferimento fissato
(si può in questo caso riferirsi a velocità relative).
D’altra parte conoscere la posizione di un corpo nella sua traiettoria in funzione del tempo non è poi così fondamentale dato che assistiamo a nuove correlazione di simultaneità degli eventi.
Nel
mondo della produzione, basato su continue innovazioni e costanti aggiornamenti,
con prodotti dal ciclo vitale sempre più breve, “tutto invecchia molto
in fretta: in un’economia la cui
unica costante e il cambiamento, avere, possedere, accumulare ha sempre meno
senso” spiega l’economista Rifkin (op. cit.). Sembra infatti che nel
prossimo futuro sia possibile accedere sempre più al franchising (una
combinazione di vantaggi reciproci), fenomeno in cui si uniscono tutti le
componenti del “nuovo approccio reticolare
all’attività economica” (op. cit.). In questo senso le società di
servizi predispongono “pacchetti” composti da formule di attività e marchi,
fornendo così una produzione di massa di concetti (immateriali) piuttosto che
di prodotti fisici.
Si
sviluppa in tal modo il “diritto di accesso” (Jeremy Rifkin, op. cit.),
cioè l’usufruire (anziché possedere) di proprietà
private.
In arte, nei primi anni del secolo scorso, la velocità ha caratterizzato il movimento Futurista. Qui, velocità fa equazione con energia, giovinezza, macchinismo, patriottismo, guerra.
La civiltà della macchina (simbolo dell’eros) e le possibilità intraviste in questo genere di sviluppo hanno riempito - a quel tempo - gli animi di fiducia, di velleità e di orgoglio tanto da credere ad un grandissimo potenziamento delle risorse umane.
Una fede, appunto, illimitata “nel progresso e nelle capacità della tecnologia per rinnovare e rinsanguare il mondo” (Lara Vinca Masini op. cit.).
Il manifesto futurista esalta infatti
“la velocità… il movimento aggressivo, il coraggio, l’audacia, la
ribellione… la guerra come igiene del mondo” per concludere con la celebre
frase “Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una
volta ancora, la nostra sfida alle stelle!”.
Oggi
ci si può idealmente collegare a questa matrice storica nella forma di
un’immaginazione fantastica che pervade l’uomo nell’attraversare in rete
l’universo intero.
Ma
i contesti sono diversi: la tecnologia odierna, ad alta definizione - che
garantisce la possibilità di una comunicazione interplanetaria e “in tempo
reale” - può comportare il
pericolo di una sparizione del reale circostante, rimanendo l’umanità
sospesa ad un’infinita ragnatela di fili invisibili nell’etere che, come
sospetta Paul Virilio, potrebbe crollare da un momento all’altro paventando il
simbolismo di un prossimo “diluvio universale”.
Nella
scena contemporanea gli artisti presagiscono tali pericoli: i loro linguaggi
espressivi, figli dell’epoca elettronica, non cessano di immaginare paesaggi
apocalittici da visionari day after.
Nel
quotidiano, il termine velocità è sempre più sinonimo di morte.
A
una domanda su di un settimanale alla moda (“Donna”), Paul Virilio risponde:
“Quanto alla velocità, all’accelerazione costante dei nostri apparecchi e
macchinari, credo sia una specie di violenza non sancita. Lo diceva bene Paul
Morand: la velocità trasforma una carezza in uno choc mortale”.
I
morti per incidenti stradali, a causa dalla velocità, sono equiparabili ai
caduti di una nuova, invisibile, quotidiana e metodica guerra bianca.
Velocità sempre più come rischio, pericolo, possibilità di distruzione.
“
Chiunque alla velocità della luce tende a diventare nessuno…” ribadisce
Marshall Mc Luhan.
L’immaginario
scientifico unifica quello dei
telespettatori
che
l’11 settembre 2001 credevano che l’attentato al World Trade Center
fosse
un film catastrofista.
(Paul
Virilio)
SCOLLATURA
TRA TEMPO E SPAZIO
Il
tempo oggi subisce forti accelerazioni in quanto stratifica e “accumula”
avvenimenti di portata eccezionale e che si succedono con ritmi sempre più
ravvicinati: la guerra del Vietnam, la caduta del muro di Berlino, il
frantumarsi dell’ideologia marxista, il violento risveglio di etnie sopite in
Iugoslavia, la nascita di repubbliche democratiche, la guerra del Golfo, il buco
nell’ozono, la strage dell’AIDS, il genocidio del Ruanda, il crollo delle
Torri gemelle… Avvenimenti così fortemente incisivi per la nostra esperienza
da sembrare concentrati in un presente continuum, senza la possibilità
di uno spazio temporale che possa “consegnare i fatti alla storia” (Marc Augé
“Non luoghi” ed. Eléuthera, Milano 2000).
Manca
il tempo per prendere le distanze e poter valutare serenamente, diventando così
dei possibili “testimoni passivi” (Marc Augé, op. cit.) d’avvenimenti che
ci assorbono e ci vengono incontro “al di fuori delle intenzioni o delle
previsioni” (op. cit.)
Un
tempo che “ …secondo alcuni non
è più principio di intelligibilità poiché l’idea di progresso che lo
implica si è arenata con la scomparsa delle speranze e delle illusioni che
avevano accompagnato il secolo scorso…” afferma Marc Augé che aggiunge:
“Se oggi gli storici dubitano della storia è perché essi
incontrano difficoltà non solo a fare del tempo questo principio di
intelligibilità, ma ancor più a iscrivervi un principio d’identità” (op.
cit.).
E
continua: “L’accelerazione della storia corrisponde infatti ad una
moltiplicazione di eventi il più delle volte non previsti… e questa
sovrabbondanza di avvenimenti si sovrappone alla sovrabbondanza della nostra
informazione” (op. cit.).
“Con
la riduzione del tempo e dello spazio nel modello degli eventi non c’è solo
un grande aumento della quantità dei dati per l’esperienza quotidiana, ma
l’azione e la reazione tendono a fondersi” (Marshall Mc Luhan, op. cit.)
cosicché l’intervallo tra l’una e l’altra non esiste più. “L’antica
consapevolezza di causa ed effetto si
trasmuta nella consapevolezza della simultaneità” (op. cit.).
Di fatto, oggi gli eventi avvengono simultaneamente in tutta l’ampiezza del pianeta, senza possibilità realizzative di progetti o di obiettivi a lungo termine: tutto si realizza nell’istante del presente.
Se
si pensa alle generazioni passate che hanno vissuto esperienze dirette di guerra
partecipandovi in prima persona, si può constatare quanto sia diversa oggi la
condizione umana occidentale che assiste indirettamente, da muta testimone
(quasi senza partecipazione), agli orrori consumati in video di ininterrotte
guerre o guerriglie.
Una
condizione definita da Mc Luhan come “ terza guerra mondiale, ovvero una
guerriglia per televisione senza distinzioni fra fronti civili e militari”
(op. cit.).
L’attacco
terroristico dell’11 settembre alle Torri newyorchesi insegna.
Il
reale orrore del terrorismo islamico (visto in diretta in alcuni frammenti) è
stato mediato dal linguaggio video che ci ha proposto un racconto
“addomesticato” attraverso il quale il reale si è contaminato col
linguaggio virtuale della fiction (cui la tecnologia ci ha assuefatti).
Cosicché il reale ha assunto connotazioni da film.
Un’informazione,
quella on line, allo stesso tempo sovrabbondante e capillare poiché
riusciamo in tempo reale ad essere informati di tutto ciò che di più eclatante
succede nel mondo, ma filtrato da punti di vista magari parziali, non
obbiettivi, poiché gli stessi mezzi comunicazionali macroscopizzano e isolano
gli avvenimenti dal loro contesto naturale con il rischio di distorcerne
l’autentica portata.
Se
il tempo sembra allora scorrere in un eterno presente, spezzato nella sua
successione con la storia (attraverso una sorta di immanente continuum crono-scope)
e bloccato nella sua continuità col futuro (assorbito dall’attuale velocità
d’azione), anche lo spazio sembra subire una trasmutazione: esso non viene più
fruito fenomenologicamente, ma assottigliato e allontanato dal filtro della
tecnologia che ce lo consegna in immateriali icone, nella dimensione virtuale
propria del video.
Un
orizzonte digitale che accorcia le distanze e che ci permette di essere presenti
là dove arriva l’occhio tecnologico della telecamera.
D’altronde
anche i mezzi contemporanei di trasporto (aerei boeing) in poche ore
riescono a farci fare il giro del mondo e i satelliti artificiali possono
virtualmente farci “passeggiare” nello spazio.
Questo spazio - visibile e percepibile in tempo reale sui teleschermi - riduce la spazialità della terra (del resto percorribile in tempi brevi) attraverso un processo di restringimento e di dematerializzazione che è causa di forti “mutamenti di scala”.
“Viviamo
l’era dei mutamenti di scala in relazione alla conquista dello spazio e della
terra…” commenta l’antropologo Augé, che precisa: “ Viviamo
una lusinga spaziale di universi ampiamente fittizi, essenzialmente
universi di riconoscimento nella moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e
immaginari e nelle spettacolari accelerazioni dei mezzi di trasporto…”(op.
cit.).
“Spazio
simultaneo” lo definisce Mc Luhan, “simile a una sfera
il cui centro è dappertutto e i cui margini non sono da nessuna parte:
uno spazio compresso e indivisibile…” (op. cit.).
In questo spazio tecnologico, specifico del nostro villaggio globale, sottolinea ancora Augé “… antropologicamente l’individuo deve ridefinire la sua collocazione nella società poiché tali spazi si nutrono sempre più di nonluoghi… ” (op. cit.).
Termine
che lo studioso usa per definire quei luoghi anonimi, privi di identità e di
storia che frequentiamo quotidianamente, come ad esempio le autostrade, i
supermercati, aerostazioni, distributori di benzina, stazioni di ristoro, aerei,
pullman, automobili…
La
frequentazione sempre maggiore di questi nonluoghi può portare il
cittadino ad una perdita d’identità, al disagio
del non riconoscersi in tale anonimato spaziale: da qui l’esigenza di
confrontarsi con solidi punti d’appoggio, e in particolare di rapportarsi a
luoghi carichi di senso come i luoghi antropologici della storia.
E’ noto che l’esigenza culturale di ridefinire i confini personali sta portando gli agglomerati cittadini ad un riappropriamento della cultura locale e che a fronte delle antiche divisioni razziali assistiamo oggi ad un fortissimo risveglio delle etnie e in generale ad una ripresa di quelle culture che in passato hanno caratterizzato quel borgo, quella regione o quello stato.
Particolarmente
calzante e riferibile alla condizione che stiamo vivendo è il nuovo termine “glocale”
configurabile come sintesi tra globale e locale: due dimensioni
rappresentative della complessità del vivere odierno che condividiamo in
esperienza simultanea.
Poiché
se da un lato “…l’uomo è pericolosamente lanciato come palla da biliardo
sul panno-pelle della realtà…” (Claudio Costa in “AFRIca”, op. cit.),
dall’altro deve potersi ancorare a qualcosa di solido: un qualcosa che può ad
esempio provenire dalle “sicurezze” dei luoghi antropologici o del bagaglio
esperienziale, entrambi necessarie affinché possano riflettere quelle
componenti umane specifiche del sé, e divenire terreno fertile da cui potranno
germogliare nuove mitologie.
Con
la caduta delle ideologie e delle grandi narrazioni e con le crisi societarie
dovute alla formazione di nuovi assetti politico-economici, l’uomo sembra oggi
ripiegare verso un sofferto isolamento, in arte visualizzabile nelle proposte di
narrazioni private, di elucubrazioni narcisistiche, generatrici di ideologie
personali, volte alla ridefinizione di nuove, più calzanti identità.
Questo
processo è facilmente riscontrabile nel lavoro delle ultime generazioni dove il
vissuto e l’esperienza personale diventano distillati coi quali è
possibile leggere il mondo, considerandolo da altri presupposti.
Mai
come oggi, a fronte di un’omogeneizzante dimensione culturale di “cittadini
del mondo”, spinti nell’universalità della comunicazione, è così
prepotente, doloroso e acuto il senso di solitudine nell’uomo, vivibile come
possibile spogliazione del proprio essere.
Da
qui il pericolo di perdita dell’intimità (o intimità esacerbata dalla
carenza di comunicazione umana, inversamente proporzionale all’eccesso di
comunicazione mediale) come della possibile sparizione dell’antropos.
Un
primo passo verso il riconoscimento del sé paradossalmente può compiersi
attraverso il confronto col passato e con la storia antropologica: come specchi
entro cui rifletterci possiamo allora “riconoscerci” in quello che eravamo
per comprendere meglio quello che non siamo più…
Quello
che non siamo più ci può essere utile per verificare i mutamenti, le
complessità, le ibridazioni del vivere nel nuovo millennio, proprio cogliendo
quelle differenze che ci stanno
ri-definendo.
Un
cammino creativo, che permetta di uscire dalle secche di una afasia strisciante,
potrebbe prendere avvio “da nuovi
approcci con le scienze attraverso una possibile ed auspicabile contaminazione
tra etno-antropologia, comunicazione e arte” (Massimo Canevacci, atti del
convegno “Arte: luoghi, percorsi e voci” Museo-attivo delle Materie e Forme
Inconsapevoli, Genova 1993), saperi che possono sinergicamente attivarsi
attraverso “un incrocio ermetico, dato che forte è la sensazione di una sorta
di attesa da parte di molte discipline affini verso una discesa antropologica
nel campo creativo…”(M. Canevacci, op. cit.).
Un
tempo e uno spazio, allora, da ri-codificare per trovare una collocazione nella
complessità del reale e un’identità con cui
ri-conoscersi.