il Rimino Sottovoce 2020


Carestia a Rimini (3)
1765-1768. La burocrazia che può uccidere
"Il Ponte" 31.05.2020

Ritorniamo alla lettera inviata dal Governatore di Rimini al Cardinal Legato. Essa ha la data del 27 gennaio, e contiene l'annuncio dei provvedimenti presi sabato 24 dal Consiglio Generale che, come leggiamo nel verbale dell'adunanza, ha approvato la nomina (con 44 voti contro tre) di una commissione, costituita da quattro suoi componenti, incaricati di stabilire un «piano» per riparare «al gravissimo disordine di vedersi morire di fame i Casarecci del Bargellato, ed altre Persone miserabili, che nulla possedono, come pur troppo sentesi sia sin ora seguìto». Il Governatore spiega al Legato che «dalli [quattro] Deputati suddetti si stà ora divisando la maniera della sovvenzione se in natura, o in Denari, e come regolarla». Lo scopo è uno solo, si ribadisce: «sovvenire non meno ai Casarecci del Territorio, che nulla possedono, ma anche agli altri Poveri del detto Territorio, e della Città, che non possono colle di loro fatiche procacciarsi il vivere per mancanza di maniera d'impiegarle». Il Governatore supplica il Legato di concedere il permesso di «poter creare tanti Cambj, o Censi, quanti ne richiede l'accennato provvedimento, ed ogni altra circostanza del presente luttuoso emergente».
La Congregazione dei Dodici, il 23 gennaio, ha preso atto che aumentano i depositi al Monte di Pietà, per la «tanta calamità» della straordinaria carestia la quale «affligge massime il Popolo minuto ridotto al pericolo di morire di fame». Anche su questo problema viene coinvolto mons. Garampi: «Sono tante le cause, per le quali V.S. Ill.ma interessa fervorosamente il di lei zelo per il Bene della Patria, che non dovressimo Noi accrescerlene altre colle quali soverchiamente gravarla d'incomodo. Il non essere però limitato lo stesso di lei zelo, come colla sperienza abbiamo riconosciuto, ci hà fatto credere non poterle dispiacere, che le ne aggiungiamo un'altra, che siccome, interessa il sollievo de' Poveri nelle presenti Calamità della Patria, così riescirà aggradevole a V.S. Ill.ma il dovere esercitare l'innata di lei pietà per proteggerla colla efficacia ed autorità delli di lei uffizj, onde assicurare alli medesimi Poveri, che languiscono quel soccorso, che sospirano».
Al Monte di Pietà, si scrive a Garampi, «cresce ogni dì l'affluenza de' Pegni quanto cresce la necessità di ritrarre la maniera colla quale procacciarsi l'alimento, ed evitare la morte, alla quale sentesi ogni giorno soccombere per la Fame molte, o più Persone in varie parti del nostro Territorio». La Congregazione dei Pegni l'11 gennaio ha chiesto al «Pubblico» [Governo] riminese un sussidio di diecimila scudi «con i quali aumentandosi la Cassa del Monte, soministrargli la maniera di continuare il sovvenimento ai Poveri colla prestanza del Denaro sù i Pegni, che esporranno al Monte» medesimo. Il 24 gennaio, il Consiglio Generale ha deliberato di prendere a censo quella somma, «con l'obbligazione de' Beni, e ragioni della Comunità non solo, ma anche de' Signori Consiglieri in solido et uti [come] singuli». Garampi è pregato di muoversi a Roma nella sede che ritiene più competente, magari arrivando sino al Santo Padre, perché possa essere approvata la decisione presa dal Consiglio riminese. Su tale decisione concorda anche il Legato (il 28 gennaio): «In difetto di questa sovvenzione converrà ai Poveri, ed altri morire di fame in maggior numero di quello, che sin d'ora sentesi seguire in più luoghi».
Il 27 gennaio la Congregazione dell'Annona concede alla Municipalità di Rimini licenza d'imporre i debiti per la «provvista de' Grani, e Formentone nella presente carestia». La comunicazione del Legato è del 7 febbraio. (Il Buon Governo ha stabilito fin dal 26 settembre 1766 che anche gli ecclesiastici sono obbligati «ai debiti della passata, e presente Carestia»: la copia dell'atto è partita da Ravenna soltanto il 21 gennaio 1767.) Negli spacci, con l'affollamento degli avventori, si hanno furti di pane e di denaro: così succede nella bottega di Giovan Leardini, come denuncia la vedova tre anni dopo, quando si è già risposata.
Il 30 gennaio il Legato concede al Governatore di Rimini i propri poteri in materia d'Annona, e la facoltà d'imporre censi e cambi (in quantità però discreta), nella «sventurata circostanza, in cui rimangono avvolti non meno gli Poveri di cotesta Città; ma moltissimi eziandio del Territorio, Bargellato e Contado per mancanza di mezzi, con i quali provvedere alle proprie quotidiane indigenze». Il Legato definisce «provvidissima» la risoluzione presa «in tale emergenza di sciegliere quattro Deputati, i quali con zelo, e buona carità invigilino al sovvenimento de' suddetti Infelici, con stabilirne la maniera di effettuarlo, la quale sia agevole, e preordinata all'urgenza». Il 31 gennaio, dalle Congregazioni dell'Annona e del Buon Governo, parte alla volta di Rimini, dove giunge l'8 febbraio, la licenza per la nostra città di creare un debito di quaranta mila scudi «per i Grani, e Formentoni» (diecimila saranno poi dirottati il 21 marzo dal Buon Governo al Monte «affinché abbia il denaro sufficiente per supplire alle imprestanze sui Pegni»). La Municipalità di Rimini ringrazia l'abate Giuseppe Giovenardi Bufferli che ha presentato a Roma una «forte ed erudita scrittura» per appoggiare la richiesta, con un dono di quaranta scudi. Altri venti sono destinati come ricompensa all'abate Giulio Cesare Serpieri, agente ufficiale di Rimini nella città del Papa e collaboratore di mons. Garampi.
Attraverso l'organizzazione ecclesiastica della Diocesi, la commissione dei quattro consiglieri accerta che i poveri della Città sono 1.025 e quelli della Campagna 1.124, per un totale di 2.149 unità (su circa undicimila presumibili abitanti, cioè il 20 per cento). Quando il 4 febbraio il Consiglio si raduna, si legge la lettera scritta dal Legato il 30 gennaio (dove si definisce «provvidissima» la risoluzione sulla commissione di quattro deputati), prima di esaminare il «piano» che mira ad un doppio risultato: «il maggior sovvenimento pe' Poveri» e «la minore spesa per la Comunità». Il «piano» destina («o in denaro, o in Farina di Formentone»), una cifra giornaliera che va da un bajocco e mezzo per i poveri di Città, al solo bajocco per quelli della Campagna. In previsione di un peggioramento della situazione con l'aumento di numero degli «Infelici» bisognosi, si chiede lo stanziamento di tremila scudi, anziché dei 2.600 calcolati in base alle statistiche fornite dal Vescovo. Il «piano» non viene approvato subito, ma ogni risoluzione è differita «ad altro Consiglio».
La stessa sera del 4 febbraio si informa mons. Garampi sull'avvenuta presentazione del «piano»: «E per far constare al mondo, che le nostre sollecitudini non sono state prevenute da spirito di predilezione per i solo Coloni, ma essere egualmente premurosi, ed interessati per tutti quelli, che trovansi in estrema indigenza, si è col mezzo di una Deputazione fatta dal Generale Consiglio stabilito d'impiegare scudi 3.000 da prendersi ad interesse, in tante limosine da distribuirsi a quelle povere persone di questa Città, alle quali manca ora la maniera da procacciarsi il vitto colle di loro fatiche, o che sono in altra guisa miserabili, ed alli Casanoli delle Ville del Bargellato, che in questa stagione, in cui rimangono disoccupati dalle opere della Campagna, non [h]anno come sostentarsi».
La lettera contiene una precisazione sul «piano», la quale manca nei verbali ufficiali, dove si è letto soltanto che era prevista la sovvenzione «o in denaro, o in Farina di Formentone». A mons. Garampi si spiega invece che ai poveri della Città la distribuzione era prevista «in Denari», mentre per i Casanoli «in tanta Farina di Formentone in ragione di una libbra al giorno per ciascuno per [sino a] tutto il mese di aprile prossimo». I «divisamenti» del Consiglio riminese «richiedono la stessa approvazione dalla quale sono state corredate le precedenti provvidenze» ed il medesimo interessamento a Roma: di qui la necessità un ulteriore impegno di mons. Garampi, il quale risponde subito consigliando di non rivolgersi alla Congregazione del Buon Governo che non è ben disposta verso Rimini.
Il 7 febbraio i Consoli di Rimini scrivono al Legato per spiegare che la differenza tra il soccorso in denaro per le «Persone miserabili» della Città, e l'aiuto in natura per quelle del Bargellato, è stata determinata dall'ipotesi giuridica (avanzata in Consiglio) che una Bolla del Buon Governo impedisse di «fare limosine a Poveri», per cui si era deciso di sospendere e rinviare la votazione segreta. L'11 febbraio il Legato risponde: «Quanto egli è provido, e ben ideato esso Progetto altrettanto io non sarei lontano di approvarlo, se non facessero ostacolo alle mie condiscendenze» le disposizioni di una Bolla di Clemente VIII. Da una lettera dei Consoli all'abate Serpieri (del 5 aprile) sappiamo qualcosa di più: il Legato, circa la «necessità di fare le limosine» ai poveri di Città e Territorio («a quali non lice il questuare»), «non volle arbitrare se non per la ristretta somma di cento Doppie» [trecento scudi], obbligando Rimini a fare ricorso alla Congregazione del Buon Governo, la quale però non concede la sovvenzione, come i Consoli di Rimini avevano temuto. Ci si rivolge pertanto alla Congregazione dell'Annona.
A Roma, «con maligne imposture», si ritiene che le richieste di Rimini siano esagerate. Degli umori della capitale, è testimonianza questa missiva che il 9 maggio Garampi invia ai Consoli: «Si maligna sulla erogazione delle somme finora percettesi [percepitesi], e si tiene per esagerato ogni bisogno». Il Buon Governo spiega a mons. Garampi che per i «40 giorni incirca che mancano al raccolto, non può essere la Città tanto sprovvista, quanto si rappresenta, e che intanto la Campagna fornisce ora Erbaggi e Frutti, coi quali supplire a qualche deficienza di Pane. [...] In somma nulla è da sperarsi. [...] Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita». A Garampi il 14 maggio i Consoli rispondono che per le 40 mila anime di Città e Territorio [ma erano di più, come si è visto] vi è «la mancanza di tutti i generi necessarj al vitto umano»: la campagna non dà «frutti, ed erbe da alimentare», per cui i contadini non sono «capaci a sostenere le fatiche de' presenti necessari lavori per la coltura delle Terre. [...] Ella sa di quale natura sieno i terreni del nostro Territorio, i quali esiggono una gravissima fatica, e tutta la robustezza per lavorarli coll'aratro, e molto più colla vanga, ond'è necessario che i contadini si cibino di cose sostanziose, ed a sazietà».
I contadini, «sparuti, ed infiacchiti» chiedono alla Municipalità soccorso per non morire. Uno di loro va a Roma, e Serpieri l'incontra provandone tanta compassione. I Consoli continuano nel loro impegno, e sperano che altrettanto facciano i ministeri romani. I quali pongono ogni sorta di ostacolo sia per il debito a favore del Monte (che per mancanza di denaro non può più ricevere i pegni), sia per gli acquisti del formentone. Per il Monte, «Sua Santità ha creduto di non dover condiscendere all'istanza delle necessarie facoltà per le prestanze sui Pegni», fa sapere Garampi in febbraio, consigliando pure i Consoli sullo stesso problema: nelle «presenti calamità parmi potersi prudentemente risparmiare questo nuovo eccitamento di controversia con Mons. Vescovo, del quale può aversene bisogno in queste stesse circostanze».
Ormai i Consoli non hanno più alcuna speranza circa i diecimila scudi per gli acquisti del formentone a causa, essi sostengono con Serpieri, delle «incaute, o maligne» opinioni che girano a Roma sull'amministrazione riminese. Il nostro Consiglio Generale il 30 maggio delibera una terza «sovvenzione alli Coloni» con i sistemi usati per le due precedenti, lusingandosi (confidano i Consoli a Serpieri) «della ragionevole approvazione delli Signori Superiori». E di qualche stanziamento.
La distribuzione di formentone dura ininterrotta sino al giugno 1767, ed ascende a 7.964 staja, per una spesa totale di 40.547 scudi.
Intanto, sempre il 30 maggio, il Consiglio per ricompensare le straordinarie fatiche compiute dai quattro Abbondanzieri in occasione della carestia, decide un premio (che gli interessati avevano sollecitato) di trecento scudi in loro favore, mentre al Governatore, in segno di «gratitudine, e sincera riconoscenza», si regala un pezzo d'argento dal valore di cento scudi. Soltanto il 19 giugno Rimini può concludere, tramite Serpieri, un contratto di censo di tremila scudi relativi al «piano» urgente discusso il 4 febbraio al fine di soccorrere immediatamente chi non aveva nulla da mangiare. Il nostro cronista Capobelli può così commentare, per colpa della burocrazia romana, che «il Pontefice non pensò a solevar in conto alcuno li suoi sudditi», ma dispensò soltanto indulgenze.
(3. Fine)

Il testo qui pubblicato contiene la versione originale del 1999, che per esigenze tipografiche risulta trascritto con alcuni tagli nella pagina del "Ponte" con data 31 maggio 2020.

Fonte: A. Montanari, Una fame da morire, Carestia a Rimini 1765-1768, "Pagine di Storia & Storie", V, 11, supplemento a "Il Ponte", XXIV (14.3.1999), 11, pp. 1-8



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