il Rimino Sottovoce 2019

Antichi Maestri sempre presenti
Lettera al "Corriere Romagna", 5 febbraio 2019

Quello che noi siamo e facciamo oggi, è anche il frutto delle esperienze vissute nel passato.
Ultimo giorno di scuola della prima media, 1954. Salutiamo Romolo Comandini, nostro insegnante di Lettere regalandogli un libro, le "Lettere dei condannati a morte della Resistenza". Egli lo apre e ne legge alcune pagine, piangendo. Per la prima volta scopriamo il vero volto della Storia, con atrocità e tragedie. Più avanti negli anni avrei compreso il motivo di quel pianto.
Nel 1942-43, richiamato alle armi, Comandini si trova ad operare in zona di guerra, in Jugoslavia: "[…] se si guardano i bimbi", scrive in un inedito, "un nodo sale alla gola: sono ombre di se stessi. Hanno fame. Vedo alcune madri che colle mani sgranano spighe di grano, che poi viene macinato tra due pietre". È il 13 giugno 1943, giorno di Pentecoste, nel villaggio di Zaton in Dalmazia, verso le 10 del mattino: i soldati italiani spartiscono con quelle madri e quei bimbi il loro rancio.
La VII Compagnia comandata dal tenente Comandini è poi inviata in una località vicina. Nel frattempo, tredici donne (la più giovane ha 17 anni), vengono passate per le armi da altri militari italiani: con loro, sono fucilati anche un ragazzo di 16 anni e quattro uomini. Tutte le diciotto vittime sono ufficialmente considerate "favoreggiatori ribelli", e responsabili dell'uccisione di alcuni appartenenti a bande anticomuniste italiane, avvenuta ad otto chilometri da Zaton, villaggio da cui non si poteva né entrare né uscire, per ordine delle nostre autorità. Fatto prigioniero, Comandini è deportato in Germania, dall'ottobre 1943 all'agosto 1945.
Il destino volle che la mia prima supplenza appena conseguita la laurea avvenisse nella primavera del 1966 al Valturio del preside Remigio Pian che aveva come suo vice proprio Romolo Comandini. Su di lui ricordo le parole del prof. Carlo Alberto Balducci: egli ebbe un temperamento "incapace, non dico di risentimenti e di odii, ma nemmeno di antipatie e di estraniazioni".
Nell’anno scolastico 1968-69 Balducci mi accolse affettuosamente come giovane collega alle Magistrali, rette da un galantuomo come il prof. Giorgio Magnani di Bologna. Erano giorni inquieti. Magnani non si destreggiò come usa nei pavidi. Governò saldamente con rispetto verso tutti e soprattutto per far rispettare da tutti la legalità. In un collegio dei docenti, in cui ci furono accese discussioni sulla vita scolastica e su quella che allora di chiamava la contestazione, si sentì sommessa ma ferma la voce di Balducci: "Anche a noi non piace questa società". Era una frase che allora mi passò via veloce, nel clima incandescente di quei momenti. Ma essa mi è tornata spesso alla mente, negli anni successivi, sempre legata all'immagine del prof. Balducci. E sempre quelle parole mi hanno fatto riflettere, perché dentro portavano il segno non di un ribellismo giovanilistico, allora tanto di moda, ma di una consapevolezza religiosa e storica di quanto chiede l'umanità nella difficile (o impossibile?) ricerca della giustizia terrena.
Egli aveva un atteggiamento di mitezza e di modestia, non voleva mai metterti a disagio, anche quando la sua autorevolezza culturale avrebbe potuto incutere timore, almeno a noi di una generazione abituata al rispetto dei più anziani e dei più degni. Era stato preside del Serpieri, passò al Classico, succedendo ad Arduino Olivieri. Poi, preferì tornare all'insegnamento, che forse riteneva più consono al suo spirito di educatore. E di cristiano che cercava di vivere con umiltà il Vangelo.


Alla pagina Romolo Comandini, grande maestro di vita.
Alla serie degli articoli Viva la squola.
Alla sezione speciale "Viva la squola".

Antonio Montanari



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