Lo zio Guido
Un mio articolo apparso su "Chiamami Città" nel 2000.



Mia madre, per lui, fu una seconda mamma. Li separavano 14 anni. Per me, oltre che "lo zio", era una specie di fratello maggiore. In famiglia era stato un principe assoluto, dal quale dipendeva l'ultima parola. Mio nonno, vecchio liberale, si convertì alle idee comuniste del figlio, seguito dalla moglie, la Cina, che alcuni amici ribattezzarono la Cina Rossa, ricalcando la geografia post-bellica.
Unica a resistere, mia madre, che però non la buttava mai in politica e stravedeva per quel fratello da lei educato con disciplina svizzera. Allevò così un ribelle che, non potendo uscire di casa per regole imposte, scappava dai tetti e girava lassù.
I primi giochi intelligenti me li regalò lui, quando abitava a Bologna, in quella città per cui Fellini disse che, dopo averla visitata, si era visto il Mondo. Da noi c'era soltanto Scacci, sul Corso, dove Guido una volta era entrato da ragazzo per far cascare un'intera scatola di fialette puzzolenti. Scacci non vendeva microscopi come quello che mi donò per un Natale, quando tutti ci raccoglievamo a casa mia: loro quattro, noi tre, i nonni e la sua zia Pierina, alla quale Guido strappava racconti impossibili, come quelli sui Mattioli che erano parenti della Madonna.
Poi Guido introduceva il suo repertorio: le Magistrali di Forlimpopoli, gli scherzi ai compagni, il tic nervoso scambiato per boccacce e giustificato con tanto di certificato medico, le noci sgusciate dalla nonna che temeva un utilizzo improprio dell'involucro, il calzolaio Bronzetti sul Corso, dove entrava a chiedere scarpe grandi di dentro e piccole di fuori.
Guido aveva il gusto di raccontare, si divertiva lui prima degli altri. Soltanto di malanni non voleva parlare. Quando è giunto in ospedale e non respirava più, ha trovato il modo di ironizzare con mia moglie sull'ambiente che lo deprimeva. Prima di addormentarsi per sempre, e per conto proprio, c'era stato il sonno indotto dalle terapie, sereno come quando dovevamo svegliarlo perché lo aspettava il treno per Milano, e lui rifiutava di scendere dal letto, brontolando con mio nonno perché mancava più di un'ora.
Antonio Montanari


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