Post segnalati Blog Stampa, 2006

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Un'esperienza indimenticabile

19/11/2006. Giudici ed educazione



Il Tribunale civile di Milano ha riassunto in una breve formula la concezione del mondo che dovrebbe sottostare ai comportamenti collettivi. Se i figli sono violenti la colpa è dei genitori che non hanno impartito loro un’«educazione sentimentale» che, se realizzata, li avrebbe invece portati sulla buona strada degli ottimi sentimenti e delle cordiali manifestazioni di affetto nei confronti delle persone di sesso diverso.
Sembra facile parlare di «educazione sentimentale», soprattutto in una società che dei sentimenti non vuol farsi carico, anzi li disprezza, ma non soltanto da oggi. Ricordo una scena del 1973, l’inverno dell’emergenza petrolifera e delle domeniche a piedi. Ero su di un autobus fermatosi per accogliere due anziani che faticosamente salivano. Una signora di media età vicino a me, chiese retoricamente alla figlia adolescente: «Ma perché vanno in giro, se ne stiano a casa».
Se adesso una nipotina di quella signora che così parlò alla ragazza, dovesse dimostrare disprezzo verso le persone giovani od anziane come quei due passeggeri dell’inverno 1973, non mi sentirei di dare nessuna colpa a lei, né a sua madre, penserei piuttosto a quella che biologicamente è la nonna, forse una parola che alla signora in questione fa drizzare i capelli.
Questo mio ricordo potrebbe far pensare che hanno ragione quei giudici di oggi che dalla famiglia pretendono l’«educazione sentimentale» dei figli. Non è così. L’educazione in generale (non soltanto quella sentimentale che ne è una parte ed una conseguenza), è un processo così difficile, complesso e contorto che soltanto negli Stati totalitari ci si illude di poterla impartire come una serie di dogmi in cui credere, a cui obbedire e per i quali combattere. E con quali drammatici risultati, lo sappiamo tutti (o perlomeno in parecchi).
01/12/2006. Talenti senza parenti

Riprendo il gioco di parole dell'interessante articolo che ieri La Stampa ha pubblicato a firma Michele Ainis, intitolato: «Liberare i talenti dai parenti».
Il sottotitolo diceva: «Per oltre la metà degli italiani più dei meriti contano le relazioni. Potremo ridare slancio e fiducia soltanto togliendoci di dosso la camicia di lobbies e nepotismi».
Ecco, appunto: lobbies e nepotismi. È un sogno disperato, quello secondo cui il merito vada premiato per quello che esso vale e non per quanto esso pesa in termini di amicizie, protezioni ed appartenenza a famiglie nel senso tradizionale od in quello allegorico (cioè gruppi di potere, e diciamolo pure potere mafioso).
A quasi 65 anni, ho visto franare definitivamente l'Italia dei meriti a vantaggio di quella delle protezioni. Sembra rinnovarsi il panorama storico, umano e sociale del seicentesco mondo di don Rodrigo: si è qualcosa, si è qualcuno se si ha in mano la carta della protezione di qualche potente signorotto locale.
Non ho interessi personali in gioco, né nascoste ambizioni da vedere realizzate o premiate. Sono un osservatore distaccato, a cui premono due cose: il rispetto della dignità delle persone e la valorizzazione di quanti dedicano il meglio di loro stessi allo studio che non è un passatempo allegro ma una fatica improba.
Per comprendere quanto la valorizzazione dei talenti sia un aspetto fondamentale del nostro vivere sociale, consiglio la lettura di un libro appena uscito. Si tratta di «Camminare nel tempo» di Ezio Raimondi, il grande italianista di Bologna che racconta la sua vita nei dialoghi con Alberto Bertoni e Giorgio Zanetti.
Un libro sul quale mi riprometto di tornare in altra occasione. Intanto chiedo agli amici lettori di partecipare alla discussione con i loro commenti.
12/12/2006. Enzo Biagi, cronista

Ben tornato in tivù, dunque, caro Enzo Biagi. Con l'augurio semplice semplice che la gente capisca che i cronisti non sono funzionari di partito o di governo, che sono lecite le critiche al potere e le domande ai padroni del vapore, di tutti i vapori, dal sindaco del più piccolo comune al presidente del consiglio o ad un amministratore delegato.

Con la speranza che i giornalisti combattenti per la libertà dell'Occidente non si mascherino più da spie, almeno quando non è carnevale. Ma il dramma nazionale è che da noi ci sono sempre state troppe quaresime e di conseguenza e per reazione ci sono state pure sempre fin troppe sfilate in maschera.
Per un giornalista, l'importante è raccontare e spiegare (come diceva Indro Montanelli) quello che non si è capìto, non vestire i panni di uno 007 che cerca gloria postuma non nella penna ma nei dossier riservati.
Il mondo è pieno di imbecilli. Quelli che incartano le loro fissazioni in un giornale, come se si trattasse di un caspo d'insalata al mercato, alla fine risultato figure patetiche: si credono furbi ed intelligenti, non riescono ad oltrepassare il confine della barzelletta vivente.
Biagi rappresenta la storia di un giornalismo attento ed onesto. La disattenzione è la regola di chi vuol far carriera e non vuole grattacapi. Quanti grattacapi possa procurare il lavoro del cronista, dipende non dagli oppositori di regime ma dalla demenza di chi (ad ogni livello ed in ogni ambiente) non sa difendere il lavoro dei cronisti seri, e il quotidiano granello di democrazia che quel lavoro serio porta alla mensa comune.
Ben tornato, Enzo Biagi. Ad insegnare che l'umiltà del cronista che lei ha sempre impersonato, è molto più alta delle dignità che si attribuiscono tanti, troppi fanfaroni che circolano nell'ambiente. E buon lavoro nel segno di un'informazione democratica necessaria (oggi più che mai) come l'ossigeno per la nostra vita politica.
19/12/2006 Operazioni

Flavia Franzoni moglie di Romano Prodi, quando di recente ha avuto bisogno di una delicata operazione al cuore, si è ricoverata in una struttura pubblica. Alla fine ha detto che le sue “tasse hanno avuto come corrispettivo un servizio di grande qualità”.
Silvio Berlusconi si è fatto operare in America.
20.12.2006 Maggiolino di Natale

Una notte d'inverno un maggiolino
s'è addormentato sopra la mia maglia
nella vecchia poltrona affianco al letto.
Non potevo scacciarlo l'indomani,
rispettando il letargo già iniziato.
L'abbiamo preso e trasferito altrove
dentro una lana calda, brutta, affettuosa
che nasconde al mondo la presenza
inquietante del piccolo universo
che in lui tace mille storie ignote.
E forse annuncia il bene,
dice pace proprio nel Natale,
e chiede ascolto al muto suo parlare.


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