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RICORDO DI OTELLO PASOLINI

Nel volume «Borgo Sant’Andrea, primi appunti», Luisè editore, ottobre 2003, pp. 7-10, appare questo mio

RICORDO DI OTELLO PASOLINI


Il cardiologo gli aveva detto: «Lei è stato mio insegnante alle Scuole Medie». Ad Otello Pasolini i conti non tornavano. Nel suo archivio mentale il nome del medico non esisteva. Non è che non lo trovasse. Non c'era proprio. Discussero, ed alla fine lo specialista che stava controllandogli lo stato di salute un po' precario, fu d'accordo: era vero, aveva avuto una insegnante, non lui. «Però», soggiunse, «lei per me da quand'ero ragazzino è sempre stato il tipo ideale del professore di Lettere».
Nel raccontare l'episodio a Pasolini s'inumidivano leggermente gli occhi e s'incrinava a tradimento la voce. Quando ripensava la sua vita tutta spesa per la cultura e l'educazione, sapeva commuoversi, nonostante quella corazza d'un carattere in apparenza ruvido e talora persino scorbutico, che non cercava di mascherare in nessun modo. E se ricordava allievi che avevano combinato qualcosa di buono nella loro attività professionale, sapeva persino confidare l'orgoglio che ne provava.

C'era un fondo di affettuosa partecipazione in quel suo interrogarti, a testa bassa, senza guardarti in viso, sui problemi che dovevi affrontare, fino ad averne un riflesso di sofferenza lui stesso, che eppure di problemi ne aveva.

Concedeva il credito di un'amicizia, pronto a riscuotere il tuo debito con lui come confidenza famigliare, in una cordialità di rapporto che conosceva le sue brusche interruzioni, le correzioni che apportava al tuo discorrere (sembrava un'interrogazione scolastica d'antan in piena regola), l'arguta anticipazione del commento prima che l'interlocutore finisse di raccontare.

Impietoso nel giudizio sulle persone, ne dava la dimostrazione con argomenti incontrovertibili. Il suo discorso rispettava un registro scanzonato e beffardo, a volte soltanto sorridente, altre invece pronto a raccogliere come in un fulmine la battuta sferzante contro tutto ciò che non si mostrava autentico, ma sforzato, falso, persino pericolosamente malsano nel comportamento delle persone. Le censurava con perfetta conoscenza dei capi d'accusa, delle prove raccolte, delle colpe riconosciute e dichiarate da quel suo personalissimo tribunale che non ammetteva appello. Ogni sentenza era definitiva in quanto sinceramente sicura della sua fondatezza. E frutto di una moralità necessaria al vivere collettivo, non di moralismo ipocrita.

Non sopportava gli arroganti, i presuntuosi, i negligenti (intellettualmente parlando). Li colpiva con una derisione che condensava in formule amaramente sarcastiche, capaci di costruire un ritratto, anzi una caricatura con cui sottolineava manie, sgretolava vanaglorie, triturava i gesti fatui ed ambiziosi che comuni conoscenti esprimevano con la tranquilla abitudine di chi si considera «grande» e pretende che pure gli altri abbiano la stessa (impossibile) opinione che essi nutrono di loro stessi. Diagnosticava le ipertrofie dell’ego, le bulimie di gloria e fama con l’implacabile certezza che trovava sorgente e modello nello studio dei classici latini con cui si era formato all’insegnamento.

Pasolini sarebbe stato un cronista al vetriolo di grande successo se avesse raccolto ritratti e profili del mondo piccolo di una certa Rimini che sfilava superba tra le due piazze, lungo quel corso d'Augusto che la sua generazione aveva elevato alla dignità d’un salotto, come poi avrebbe dimostrato l'emigrato Federico Fellini nella scena della languida passeggiata di Gradisca in «Amarcord».

Ad un'altra strada Pasolini ha lasciato legato il suo nome, culturalmente parlando: la Contrada dei Magnani, ovvero via Garibaldi, con un capitolo contenuto nell'omonimo libro apparso undici anni fa. Sono pagine stupende: fanno rimpiangere che non abbia dedicato un poco del suo tempo anche alla memorialistica riminese. Il suo capitolo ha un titolo suggestivo, letterario: «Il tempo perduto». La modestia dell'autore invitava il lettore ad accontentarsi di una mano artigiana. Invece era quella d'artista genuino. Il testo si chiude con un gesto di umana compassione: «Mi reclamano i matti. Li avevo in mente non per il sadismo di riderne ancora, ma per riparare, adulto, lo scherno innocente del bambino e ricordare l'eroismo delle famiglie che ne portarono la croce». C'è qui tutto il suo carattere, sorretto da una sensibilità attenta a cogliere l'aspetto vero, profondo, essenziale di ogni persona che l'incontrava.

Nel 1950 Pasolini fu tra i soci fondatori della Società di Studi Romagnoli, partecipando al primo convegno con un saggio «Sul nome di Riccione». Quando quattro anni fa ricevette dalla Società un ricordo per il cinquantenario della sua istituzione, rimandò di mese in mese una risposta, un ringraziamento, pregandomi di scusarlo negli incontri annuali, e preannunciandomi una lettera che avrei dovuto consegnare a suo nome. Quel ringraziamento non l'ha mai scritto. Non è stata pigrizia, la sua, ma un progressivo rinchiudersi in una realtà sempre più piccola, dove s'ingrandiva il senso della sofferenza che vedeva sul volto delle sorelle, e che si rifletteva angosciato anche sul suo.

Era nato il 14 aprile 1922. Se ne è andato il 7 luglio 2003.

Antonio Montanari


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849/12.10.2003