Antonio Montanari

Alle origini di Rimini moderna. 2
Mappe tra politica e cultura

1. Sotto il segno del pugnale
2. Romagna, Europa e poi Bisanzio
3. Sacco di Roma, Europa scossa
4. Se si cancella il passato
5. Mani pulite contro i delitti
6. Porto e politica, affari e malaffare
7. Mare, monti e agricoltura
8. Donne in lotta, avanza il nuovo
Appendice. Cleofe ed Elena

1. Sotto il segno del pugnale

Tentiamo di raccontare per temi le vicende storiche di Rimini moderna, tra fine 1400 ed inizio 1800. Passeremo poi alla Rimini contemporanea sino al principio del 2000. Rimini moderna nasce dalle ceneri del potere dei Malatesti, sfaldatosi lentamente, non per l'inettitudine dei protagonisti di quella famiglia, ma per una complessa serie di contrasti sociali, politici ed economici che, qui come altrove, mettono in moto ribellioni, alleanze, tradimenti.
Il più grande di tutti i Malatesti, Sigismondo Pandolfo, sperimenta tutto ciò sin dal momento in cui nel 1429 a 12 anni succede allo zio Carlo, assieme ai fratelli Galeotto Roberto (18) e Domenico Malatesta Novello (11), come lui figli naturali di Pandolfo III signore di Brescia. Essi governano Cesena, Rimini e Fano, sino alla scomparsa dello stesso Galeotto Roberto (10 ottobre 1432), assistiti dalla vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga. Contro di loro gli aristocratici creano quella che la storica Anna Falcioni chiama una pericolosa opposizione interna. Un altro Malatesti, Giovanni di Ramberto discendente da Gianciotto fallisce (maggio 1431) nel tentare un colpo di Stato, ma getta Rimini nel caos, mentre Venezia invia da Cesenatico verso Rimini alcune galere.
Lo storico Cesare Clementini (1627) ricorda che oltre agli aristocratici si muove pure quella plebe “che facilmente inchina al male”. C'è penuria di viveri. Il popolino se la prende con i macellai e le case ed i banchi degli Ebrei, accusandoli di non rispettare la domenica. Altri Ebrei aiutano i Malatesti a pagare i grossi debiti lasciati da Carlo con Roma: essi vivono a Rimini, Cesena e Fano, scrive Francesco Gaetano Battaglini (1794). Come grazioso ringraziamento, Galeotto Roberto (1432) ottiene da papa Eugenio IV (Gabriele Condulmer) di obbligarli a portare il “segno”. Secondo Battaglini, Galeotto Roberto non poteva “tollerare, che gli Ebrei già in grande numero stanziati nel suo dominio, vantando non so quale indulto impetrato da Papa Martino, vivessero e praticassero confusi tra i Cristiani senza distinzione”.
I Malatesti, costretti ad affrontare una rivolta popolare causata dalla mancanza di viveri, per portare la pace sociale nel loro dominio ricorrono a questo provvedimento fortemente in contraddizione con la realtà politica in cui vivevano. Sulla stessa strada della lotta agli Ebrei Rimini si ritrova poi nel 1489, quando per loro decide un'imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi; nel 1503 con un nuovo assalto ai loro banchi; e nel 1515 con la proposta di bandirli dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo, dopo aver loro imposto d'indossare una berretta gialla se maschi ed una benda anch'essa gialla se donne.
Il 22 giugno 1510 gli è stata però concessa l'autorizzazione a “facere bancum imprestitorum”, cioè di svolgere legalmente attività finanziaria. È un segno preciso della crisi economica locale. Come ricompensa al loro aiuto, nel 1548 Rimini gli istituisce il ghetto, anticipando la “bolla” di Paolo IV del 1555.
Il grande secolo dell'Umanesimo malatestiano si chiude nel 1498 con una sommossa aristocratica nella chiesa di Sant'Agostino, che mira a cacciare Pandolfaccio, salvato dalla plebe. I capi della congiura sono giustiziati. I loro cadaveri, appesi ai merli della rocca di Sigismondo.
Il 10 ottobre 1500 Pandolfaccio se ne va da Rimini, passata in potere al duca Valentino, Cesare Borgia. Le campagne riminesi sono inquiete, come testimoniano servizi segreti ed esponenti politici della Serenissima. Nell'autunno del 1502 e nell'estate del 1503 si registrano sollevazioni di villani a favore di Pandolfo, con distruzioni di libri e altro, come nei suoi “Diarii” scrive il diplomatico veneziano Marin Sanudo il Giovane.
Nel 1503 dal 2 ottobre al 24 novembre, Pandolfo è di nuovo signore di Rimini, ma sotto il governo veneziano: “la misera città rimase alla discrezione dei furibondi vincitori” che saccheggiarono dovunque e se la presero anche con gli Ebrei ed i loro banchi (L. Tonini). C'è uno spargimento di sangue in cui restano uccisi pure molti popolani. Il 16 dicembre Pandolfaccio cede la città alla Serenissima.
Dopo la morte di Sigismondo (1468) Rimini è governata dalla vedova Isotta e dai figli Sallustio, avuto dalla bolognese Gentile de Ramexinis, e Roberto, nato dalla fanese Vannetta de Toschi. Essi pubblicano un illuminato bando che concede la libertà di commercio d'importazione a tutti i mercanti cittadini e forestieri. L'ordine pubblico è agitato da una serie di delitti eccellenti. Nello stesso 1468 è ucciso Nicola Agolanti. Si sospetta un fatto passionale, accusando Roberto Malatesti, amante della vedova Elisabetta degli Atti che lo scagiona. Da Roberto lei ha avuto un figlio, Troilo. Elisabetta (figlia di Antonio fratello di Isotta moglie di Sigismondo), sposa in seconde nozze il futuro capo dei cospiratori del 1498, Adimario Adimari.
Nel 1470 tocca a Sallustio, trafitto da una spada. Il colpevole è individuato in Giovanni Marcheselli, linciato dalla folla. Giovanni Marcheselli è accusato dalla moglie Simona di Barignano il cui padre Giovanni è fratello di Antonia, la madre di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Una sorella di Giovanni Marcheselli, Lena, è la seconda moglie di Giovanni di Barignano, il padre di Simona.
C'è un continuo rincorrersi e rinchiudersi in una specie di cerchio politico che rappresenta la proiezione psicologica delle mura di una città o di un castello. Mura che non servono a nulla se non a delimitare (e ad esasperare) continue esplosioni di odio. Questo giro ristretto aggrava situazioni che non hanno sbocchi, come dimostra la storia di Sallustio.
Egli s'invaghisce di una giovane di casa Marcheselli. La sua pretesa di avere l'amore che desidera, è respinta nel più classico modo di quanti, abituati alla guerra, non sanno ragionare che con il pugnale. Giovanni Marcheselli uccide Sallustio. La moglie di Giovanni, Simona di Barignano, lo accusa apertamente: confessa come Sallustio “fu morto” in casa sua, si legge in una lettera di Malatesta da Fano a Ludovico II Gonzaga. Resta il sospetto che non si sia trattato di un fatto politico vero e proprio, ma di una specie di delitto d'onore: non si voleva far entrare un Malatesti nella famiglia Marcheselli.
Nel 1492 durante una festa in maschera, Raimondo Malatesti, discendente di un ramo collaterale, è ucciso dai figli di suo fratello Galeotto Lodovico, in casa di Elisabetta, madre di Pandolfaccio.
L'uccisione di Raimondo è considerata da Cesare Clementini all'origine di tutti i mali che poi affliggono Rimini, ovvero “il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori” Malatesti. Dei quali Raimondo era stato uomo di fiducia in momenti difficili. Morto Roberto signore di Rimini (1482), gli è subentrato il figlio Pandolfaccio (di sette anni), per cui in suo nome guidano gli affari della città Raimondo ed il proprio fratello Galeotto Lodovico. Il quale contro Pandolfaccio nel 1492 tenta una congiura, mandata all'aria dalla sua seconda moglie Violante Aldobrandini, sorella di Elisabetta, madre di Pandolfaccio stesso.
Nel marzo 1497 “a Rimano morivano di fame”, ricorda Martin Sanudo, citando gli aiuti inviati in città dal suo governo, e la visita fatta in laguna da Pandolfaccio e sua madre Elisabetta Aldobrandini, sorella del “conte Zoan” da Ravenna, condottiero della Serenissima.
Nell'agosto 1497 scompare Elisabetta Aldobrandini. Suo figlio Pandolfaccio governa in preda ad uno spirito di vendetta, osserva L. Tonini. Il 20 gennaio 1498 gli aristocratici tentano in Sant'Agostino la sommossa già ricordata, con la plebe che corre a salvare il Malatesti.


2. Romagna, Europa e poi Bisanzio

Il più importante dei personaggi malatestiani nelle vicende italiani ed internazionali di XIV e XV sec. prima di Sigismondo, è suo zio Carlo (1368-1429). La vicenda politica di Carlo è strettamente legata a quella della Chiesa. Papa Gregorio XII, eletto nel 1405, si rifugia a Rimini il 3 novembre 1408 mentre si prepara il concilio di Pisa e dopo che Carlo lo ha salvato da un tentativo di cattura.
La grande stagione malatestiana all'interno della vita della Chiesa comincia in questa occasione. Anche se ha precedenti talora dimenticati nel secolo precedente, quando nel 1357 Pandolfo II è a Praga ed a Londra in veste d'inviato pontificio. Come un'ombra lo controlla il nobile francese Sagremor de Pommier che lavora a Milano da agente diplomatico e fidato corriere dei Visconti, quando Pandolfo è al loro servizio quale comandante delle truppe. Sagremor prima pensa di passare al servizio dell'impero, poi cambia idea, infine si farà monaco. A Praga il Malatesti è stato preceduto dallo stesso Sagremor che accompagnava Francesco Petrarca. Sagremor raggiunge Pandolfo a Praga per tornare a Milano a denunciarlo come spia antiviscontea. Di nuovo a Praga, Sagremor non trova più Pandolfo direttosi a Londra. Qui Sagremor lo raggiunge per dargli una lezione: lo sfida a duello. Pandolfo fa finta di nulla e Sagremor va a lamentarsi con il re Edoardo III. Il quale mette per iscritto quello che Sagremor gli ha riferito, per difendere l'onore del messo francese dei Visconti e denigrare l'italiano Malatesti.
La missione europea di Pandolfo II appare come parte di un progetto ecclesiastico che doveva tener d'occhio il contesto continentale, e che culmina nello stesso 1357 con le "Costituzioni" promulgate da Albornoz per sistemare una volta per tutte le questioni politiche nelle terre dello Stato della Chiesa, con uno stabile ordinamento giuridico ed amministrativo.
Sull'azione politica di Albornoz restano fondamentali le pagine di Gina Fasoli. Alternando trattative diplomatiche a vigorose azioni militari, Albornoz crea "un sistema di poteri locali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, ma non tanto forti da potersi unire e formare fra di loro un blocco" mirante ad ostacolare la sovranità papale. Le "Costituzioni" da lui emanate (e chiamate egidiane dal suo nome di battesimo), riprendono vecchie leggi, corrette ed adattate alle nuove esigenze. Si fornisce così "un testo che costituiva il diritto generale cui le leggi locali e particolari dovevano conformarsi".
Carlo, per contattare il collegio cardinalizio, utilizza Malatesta I (1366-1429), signore di Pesaro, che in precedenza si è offerto a Gregorio XII per una missione diplomatica presso il re di Francia, inseritosi nelle dispute ecclesiastiche per interessi personali.
La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Il capostipite è Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio che aveva conquistato Rimini nel 1295. Con Pandolfo I, il rettore della Marca anconitana Amelio di Lautrec, firma un trattato per contrastare i ghibellini ed i ribelli. Pandolfo I, come ringraziamento per la "lotta onorevolmente sostenuta" al servizio della Chiesa, riceve un dono particolare. Amelio concede in sposa (1324) la propria nipote Elisa, figlia di Guglielmo signore della Valletta, al figlio di Pandolfo, Galeotto I detto "l'ardito". Elisa genera Rengarda e muore nel 1366.
Da Pandolfo I nasce, oltre a Galeotto I (1299-1385), anche Malatesta Antico detto Guastafamiglie (1322-1364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1315 c.-1373) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, padre di Cleofe e Galeazzo.
Il 19 gennaio 1421 Cleofe sposa Teodoro Paleologo (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425). Di questo matrimonio, concluso nel 1433 con la morte forse violenta di Cleofe, i contemporanei non hanno scritto la cronaca. Ed i posteri ne hanno a lungo travisata la storia, sino agli studi di Silvia Ronchey (2006). Sul finire del 1427 o all'inizio del 1428 nasce la loro figlia Elena Paleologa, la prima erede diretta al trono di Costantinopoli oltre che di Mistra, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Nel 1442 sposa Giovanni III di Lusignano (1418-1458), re di Cipro (1432-1458), e muore l'11 aprile 1458. La loro primogenita Carlotta (1442-1487) va a nozze dapprima (1456) con Giovanni di Portogallo (1433-1457) e poi (1459) con Luigi di Savoia conte di Genova (1436-1482).
Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe e Galeazzo. Carlo è figlio di Galeotto I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383).
Malatesta I è stato in affari con Urbano VI, prestandogli diecimila fiorini e ricevendo in pegno biennale il vicariato nella città di Orte (1387). Il papa gli ha anche chiesto il suo aiuto nello stesso anno per proteggere l'arcivescovo di Ravenna Cosimo Migliorati, cacciato dalla città. E poi nel 1391, di difendere gli interessi della Santa Sede contro i ribelli di Ostra (Montalboddo).
I lavori a Pisa iniziano il 25 marzo 1409. Gregorio XII è dichiarato deposto. Carlo arriva a Pisa come mediatore fra Gregorio XII ed i padri conciliari, ma in sostanza quale suo difensore. Non è accettata la sua offerta di Rimini per sede dell'assise ecclesiastica, parendogli Pisa non adatta in quanto sottoposta alla dominazione dei fiorentini, avversari di Gregorio XII. Il primo approccio fra Carlo ed il concilio avviene attraverso Malatesta I che si era attivato dopo l'elezione di Gregorio XII, avvenuta il 2 dicembre 1406, ricevendo in premio nel 1410 un cospicuo vitalizio.
Sul finire del 1400 e nei primi anni del 1500, tutto cambia in Italia. C'è la rapida discesa di Carlo VIII re di Francia (1494), che scuote la debole politica dei nostri Stati, dimostrandone la crisi e la fragilità militare. La Lega antifrancese che poi si forma ha effetti contrari a quelli sperati: è l'apertura della penisola alle altrui mire espansionistiche, come scrive Miguel Gotor. Luigi XII guarda a Milano, espugnandola nel 1499.
Prima della calata di Francesco I (1515), c'è l'avventura di Cesare Borgia, che Tommaso Tommasi (1608-1658) descrive: “Ottenne al suo primo arrivo senza alcun contrasto la Città di Pesaro, poiché Giovanni Sforza che n'era Signor [...] lasciò, ch'ei fosse ammesso prontamente al possesso della Città. Seguì l'essempio di lui Pandolfo Malatesta Signor di Rimini; onde impadronitosi il medesimo Duca anche di quella Città, e lasciativi i necessarii presidii, se ne passò senza dimora alla espugnatione di Faenza...”.
Pandolfo tenta di recuperare Rimini, ma incontra dura resistenza, “non godendo la medesima benevolenza del popolo, che gli altri” Signori di Romagna. Poi anche Rimini cade in mano alla Repubblica Veneta, “havendo assegnata in ricompensa a Pandolfo, e suoi discendenti colla nobiltà Veneta la terra di Citadella nel territorio di Padoua, e perpetua condotta di gente d'armi”.
La Romagna per Niccolò Machiavelli “era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia”. Per ridurla pacifica e obbediente, Borgia usa il “buon governo” di Ramirro de Lorqua. Che però si mostra uomo crudele e risoluto per cui è fatto decapitare da Borgia, a Cesena sulla piazza la sera di Natale, con un coltellaccio da macellaio, come racconta il cronista Giuliano Fantaguzzi. E tutti rimasero soddisfatti e stupiti, conclude Machiavelli.


3. Sacco di Roma, Europa scossa

Nel 1526 si sparge la voce che i Malatesti "pretendevano (ed era vero) di tornare in Rimini", racconta lo storico Cesare Clementini. Non è la prima volta, dopo la sottomissione della città alla Repubblica di Venezia (1503). Nel maggio 1522 Sigismondo II figlio di Pandolfaccio se n'è impadronito, dopo il fallimento del tentativo di pochi mesi prima.
Nel 1523 Rimini è restituita alla Chiesa. Pandolfaccio l'abbandona. Suo figlio Sigismondo II vi rientra nel 1527, e lascia il governo al padre che l'8 aprile 1528 riceve l'investitura da papa Clemente VII (Giulio dei Medici). Nessuno è contento. Sigismondo si lamenta della condotta militare ricevuta dal papa. I cittadini accusano i Malatesti per "la solita tirannica crudeltà" (C. Clementini). A supplizio atroce è sottoposto il papalino Pandolfo Belmonti: fiaccole accendono il lardo porcino cosparso sul corpo, poi appeso ad un palo tra il Castelsismondo e la cattedrale di Santa Colomba. Alla fine Roma manda i suoi soldati. Il 17 giugno 1528 termina il potere malatestiano, con gli ultimi rappresentanti inetti e disgraziati (A. Campana).
A proposito di torture: in un testo dedicato al “Sacco di Roma” (Parigi, 1664), il gonfaloniere fiorentino Luigi Guicciardini annota di "non poter ritenere le lacrime, considerando quanti tormenti, e quanti danni l'huomo solamente dall'huomo riceue”, e non dalla fortuna come spesso si dice.
Nel frattempo Roma ha vissuto i giorni terribili del sacco compiuto dal 6 maggio 1527 sino al febbraio 1528, da 15 mila soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, scrive Miguel Gotor, definendolo "un episodio clamoroso, destinato a scuotere l'Europa tutta". La fede luterana nel 1525 ha segnato già la tragica repressione dei contadini sollevatisi dal 1524 nella Selva Nera, massacrati ferocemente dal duca di Sassonia.
Nelle storie di Rimini se ne parla poco. Luigi Tonini considera il sacco come una delle tumultuose vicende delle quali i Malatesti profittano per riaffacciarsi a Rimini. Più attento il suo maestro Antonio Bianchi, che rimanda al parere di “alcuni storici” che lo definiscono frutto della politica ambigua del papa che faceva paci o guerre “secondo la speranza d'ingrandire lo Stato proprio e quello de' parenti”.
Il sacco turba la vita della capitale del mondo cattolico, con ripercussioni inevitabili sulla periferia. "La percezione generale fu quella di una frattura epocale, che giungeva a sconvolgere il corso della storia", scrive G. Corabi: Roma “tornava ad essere la Babilonia punita dalla profezia giovannea", con implicazioni che riguardavano la storia dell'intera Chiesa, mentre le truppe si abbandonano "a gesti di dissacrazione e profanazione", con un rancore di stampo politico che era diffuso pure in ambienti non protestanti.
Per Francesco Guicciardini, dalla calata di Carlo VIII (1494) al sacco di Roma si consuma "la ruina d'Italia". Il quadro europeo ha visto nel 1525 la cattura e la deportazione in Spagna di Francesco I di Francia, e l'anno dopo un attacco dell'imperatore Carlo V contro Clemente VII. Il quale, scrisse Francesco Vettori, fu eletto “senza simonia” e visse sempre religiosamente e prudente quanto nessun altro uomo.
Si legge in Cesare Cantù (1865): "la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia". La barbarie superba metteva sotto i piedi la civiltà che la mortificava. I lanzichenecchi, istituiti nel 1493, sono soldati mercenari di professione, autorizzati a saccheggiare il luogo dove si trovano se non arriva regolare la paga ogni cinque giorni. È il caso di Roma nel 1527: essi sono rimasti senza soldi dopo la morte del loro generale Giorgio Fronspergh.
Una relazione diplomatica del 17 marzo, inviata a Roma ma pure ad altri Stati, faceva sperare che con la scomparsa del condottiero "questa gente s'avesse a dissolvere". Invece gli invasori restano a Roma per nove mesi. Li dimezza in numero la peste. Che colpisce anche la popolazione locale, già con più di 10 mila vittime provocate da quei soldati. Furono 6 mila soltanto il primo giorno, secondo la testimonianza di un lanzichenecco.
Il cardinale vescovo di Como Scaramuccia Trivulzio, insigne giureconsulto milanese con cattedra all'Università di Pavia, assiste ai saccheggi delle case non solo di prelati e mercanti, ma persino dei poveri acquaroli. Ai cardinali, i lanzichenecchi impongono robusti riscatti per lasciar tranquilli i loro palazzi. Ricevuti i soldi, non tengono fede alla parola data. Al cardinal Giovanni Piccolomini è riservata una cattura oltraggiosa, con calci e pugni. A suo fratello chiedono un riscatto che non serve a nulla, perché lo legano in una stalla minacciando di mozzargli il capo se la somma non sarà raddoppiata. Ricevono una cambiale. Tutte le case dei cardinali sono ripulite, e si oltraggiano le donne che vi si trovano.
Leggiamo ancora il cardinale Trivulzio, da una lettera al suo segretario Jacopo Baratero: "Tutti li monasteri e chiese tanto di frati quanto di monache santissimi saccheggiati; bastonate molte monache vecchie; violate e rubate molte monache giovane e fatte prisione; tolti tutti li paramenti, calici; levati gli argenti dalle chiese; tolti tutti li tabernaculi dove era il corpus Domini, e gettata l'ostia sacrata ora in terra ora in foco, ora messa sotto li piedi, ora in la padella a rostirla, ora romperla in cento pezzi; tutte le reliquie spogliate delli argenti che erono attorno, e gettato le reliquie dove li è parso". Un diplomatico veneto scrive che l'inferno è nulla in confronto alla vista che Roma presenta.
Il barone Camillo Trasmondo-Frangipani dei duchi di Mirabello, nel 1866 pubblicando a Ginevra una "Relazione" sul sacco di Roma scritta dal barone di Mirabello Giovanni Antonio Trasmondo (intimo di papa Clemente VII), parla di "accozzate orde di venturieri" che assunsero abusivamente il nome di esercito perché erano disordinate e prive di disciplina militare, agendo quali belve fameliche. La "Relazione" ed altri testi che l'accompagnano, sottolineano il contesto politico internazionale in cui avviene il sacco. Si parla pure delle terre di Romagna, dove ogni giorno si facevano "novità per causa di partialità", in una lettera (1531) di Mercurino Catinara, fratello del cancelliere di Spagna e commissario dell'esercito imperiale di Carlo V.
André Chastel, sulla scia di Guicciardini e Burckhardt, vede nel sacco di Roma non soltanto un evento traumatico per tutta la penisola, ma una frattura che spezza in due la vita oltre che della città del papa, pure della penisola.
In Romagna il panorama è altrettanto triste, e non per colpa di un sacco imposto da truppe straniere. Augusto Vasina registra “accanto all'abbandono delle campagne, la devastazione talora rinnovata delle nostre città per lotte intestine, saccheggi di mercenari o distruzioni per rappresaglia”. È il quadro “desolante di dissesti materiali e sociali, di fronte ai quali impallidisce ogni tradizione nobiliare, ogni memoria di vita cortigiana, per quanto splendide possano essere state”. Le masse s'impoveriscono, la finanza locale va in dissesto. Si perde il senso civico. I ceti borghesi hanno un comportamento ambiguo, smarrendo il compito della loro funzione mediatrice fra i nobili e gli strati più umili della società.
Per il sacco, Roma vive una fase di bassa congiuntura, scrive V. De Caprio: è chiuso lo “Studium Urbis”, e crolla il mito umanistico della città. Nel 1528 Rimini, passata dal 1523 alla Santa Sede, vede assaltati dalla plebe l'archivio pubblico e la cancelleria posti nel convento di San Francesco. Nel 1529 Carlo V batte le truppe di papa e Francia. L'anno dopo è incoronato a Bologna.


4. Se si cancella il passato

Nel “Sito riminese” di Raffaele Adimari (1616, II, pp. 59-60) si legge: cacciato l'ultimo dei Malatesti il 17 giugno 1528, l'archivio e la cancelleria della nostra città (posti nel convento di San Francesco) subiscono un assalto.
Con lo stesso furore con cui s'era cercato di danneggiare il Tempio difeso dalla nobiltà, “la plebe, che sempre desidera cose nuove” asporta “dall'archivio, e Cancellarie, libri, e scritture” bruciati sulla piazza della fontana. Una gran parte di quei documenti è salvata “dal furore plebeo” e posta “in due stancie del Monastero di San Francesco, sotto buone chiavi”. La vicenda ha un'appendice: “andando la cosa alla longa, alcuni Frati ansiosi di vedere, che cosa fosse là dentro, scopersero il tetto per entrar dentro dette stancie, e tolsero molte delle dette scritture, le quali furono conosciute per la Città: al fin poi quando se determinò di liberar dette stancie, poco n'erano rimase, le quali restorono in poter delli detti Rev. Padri di quel tempo, alla venuta poi della F. M. di Papa Clemente Ottavo, havendone notitia non sò come le fece levare impiendone due sacchi e mandolle a Roma […] Et perciò la nostra Città, per tal causa fù priva di molte scritture importanti, e honorate […]”.Adimari parla di Clemente VIII (1592-1605). Si tratta invece di Clemente VII (1523-34), come si legge nella cronaca di padre Alessandro da Rimini (1532), pubblicata da padre Gregorio Giovanardi (1915-16, 1921). Clemente VIII passò per Rimini nel 1598.
Dalla cronaca del 1532 ricaviamo due altre notizie. Al tempo di papa Paolo II (1464-71) va a fuoco la sagrestia della chiesa di San Francesco, con perdita di manoscritti “antichissimi ed importantissimi”. Questo incendio della sagrestia forse va anticipato all'età di Pio II, a quel 1462 che vede Sigismondo Pandolfo scomunicato e colpito da interdetto il 27 aprile con la bolla papale “Discipula veritatis”. Il giorno prima, a Roma, tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono stati bruciati in altrettanti diversi punti della città (F. Arduini). Il 1462 è pure l'anno in cui Sigismondo, per la fabbrica del Tempio, ottiene un prestito dall'ebreo fanese Abramo di Manuello (A. Vasina).
L'archivio malatestiano riminese tra 1511 e 1520, per iniziativa pontificia, è spogliato delle carte superstiti a quelle fiamme. Francesco Gaetano Battaglini nelle sue “Memorie” di storia cittadina (1789, p. 44) osserva che già dall'età comunale, “apud locum fratrum minorum” (cioè nello stesso convento francescano) si trovava l'archivio comunale. Il posto dell'archivio è definito a metà del XV sec. come “sacristia Communis Arimini in Conventu Sancti Francisci”.
Le fiamme riminesi non sono però le uniche che cancellano le storie del tempo. A Pesaro il 15 dicembre 1514 vanno a fuoco la biblioteca ed i documenti della famiglia Malatesti, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. Ha osservato un eminente storico della filosofia, Paolo Rossi: “… ci sono molti modi per indurre alla dimenticanza e molte ragioni per le quali s'intende provocarla. Il 'cancellare' […] ha anche a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità”. Nelle fiamme di Pesaro scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente come Cleofe Malatesti, la cui morte (1433) è forse violenta. Cleofe fu scelta dal papa con soddisfazione del suo casato per le nozze con Teodoro Paleologo, despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
La notizia dei disordini del 1528, nella versione di Adimari, è riportata da Carlo Tonini nel suo “Compendio” (1896, II, pp. 71-72) con un'annotazione: “donde l'Adimari tutto ciò attingesse non sappiamo”. Lo stesso Raffaele Adimari dichiara la sua fonte: sono le pagine “sparse” composte dal dottor don Adimario Adimari, rettore di Sant'Agnese e figlio del cavalier Nicolò. Nell'introduzione Raffaele non precisa quale sia la parentela con il sacerdote, ma altrove lascia un importante indizio. Per la congiura del 1498 contro Pandolfaccio, scrive che essa fu organizzata nella casa dei suoi “antecessori”, cioè il cavalier Nicolò e “Adimario suo Padre” (II, p. 54). Il Nicolò padre del prete-scrittore Adimario, morto nel 1565, come apprendiamo dallo storico Gaetano Urbani ("Raccolta di scrittori e prelati riminesi"), ebbe altri quattro figli: Tiberio e Cesare (entrambi senza prole), Antonio ed Ottaviano.
Il nostro Raffaele è quindi figlio di uno di questi ultimi due. Ed il prete-scrittore è uno zio (e non prozio come talora si legge) di Raffaele. Don Adimario porta il nome del capo dei cospiratori del 1498, Adimario Adimari, che non riuscirono a cacciare Pandolfaccio, salvato dalla plebe. Da quel momento, immaginiamo, in casa sua non piaceva tanto parlare di popolo urlante. Ed il Raffaele scrittore osserva che esso “sempre desidera cose nuove”.
Tra le “cose nuove”, non mettiamo quanto racconta Clementini sul 1528. Partiti i Malatesti, durante la permanenza dei soldati che ristabilivano il dominio di Santa Chiesa, la città in tre giorni “tre muti sacchi provò”, ma senza lamentarsene essendo troppo felice del cambio di governo. Tutti allegramente festeggiano l'Arcivescovo Sipontino, presidente di Romagna, “liberatore di questa Patria”, con mille componimenti poetici. Il Sipontino, futuro legato della Provincia di Romagna (1540) e di Bologna (1548), nonché dal 1550 al 1555 papa Giulio III, è Giovanni Maria Ciocchi dal Monte. A Siponto (Manfredonia) il suo predecessore era stato lo zio, Antonio Maria. Giovanni fu “buono letterato, e nel maneggiar le cose delle Repubbliche molto destro”, come scrive fra Leandro Alberti nella celebre “Descrittione di tutta Italia” (Bologna, 1550).
Luigi Tonini osserva che le truppe dei soldati liberatori assommavano a soli tremila uomini, “stimandosi che la maggior parte del popolo si solleverebbe contro i tiranni”. Clementini classifica gli eventi come frutto di “istigazione diabolica” (II, p. 654) oppure quale ingiusta reazione al governo liberale della Chiesa (p. 641): i Riminesi “non per questo furono esentati dalle turbolenze, e travagli, e spese”, e per alcuni anni “vissero forse più travagliati, che prima”. Anche questo è un modo (elegante) di cancellare la Storia, raccontando fatti di cui non si cercano le cause. La Storia si cancella anche inventandola, come fa Carlo Tonini con il “tumulto per cagione degli Ebrei” (1515).
Sia Adimari sia Clementini sembrano riprendere Guicciardini (presidente di Romagna tra 1524 e 1526), nei cui “Ricordi” (Parigi, 1576) si trova la celebre sentenza per cui “Chi disse uno popolo disse veramente uno animale pazzo, pieno di mille errori…”. Il meglio della Politica è soltanto in un governo di pochi privilegiati. A questa categoria Clementini appartiene per il suo albero genealogico. Sua madre Ginevra proviene dalla famiglia Tingoli presente nelle storie malatestiane del sec. XV, come documentato da Anita Delvecchio. Nel 1502 Bernardina Tingoli sposa un Malatesti del ramo Tramontani, Giovan Galeotto. Un fratello del primo Tramontano sposa Antonia Almerici che dà il nome ad altro ramo. Figlio di Antonia è Almerico, padre di Raimondo Malatesti ucciso nel 1492 dai figli del proprio fratello Galeotto Lodovico. In quel delitto Clementini vide l'origine di tutti i mali che poi affliggono Rimini, “il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori” Malatesti.
La plebe ribelle di cui leggiamo, è un fantasma agitato dai potenti locali per difendere i loro privilegi e spaventare Roma.


5. Mani pulite contro i delitti

Il suo nome è Francesco Biancuto da Montefiore, abitante a Monte Colombo. A Rimini fa il capo dei ribelli sostenitori dei Malatesti. A Milano ed a Ferrara invece lavora come spia al servizio di Roma e di Alberto III Pio conte di Carpi (1475-1531). I servizi prestati da Biancuto gli hanno meritato il perdono del pontefice per quanto accaduto a Rimini nel 1527, ovvero il rientro dei Malatesti che poi l'8 aprile 1528 ricevono l'investitura da papa Clemente VII.
Alberto III Pio nasce da Caterina Pico, sorella di Giovanni Pico della Mirandola, il filosofo autore del “Discorso sulla dignità dell'uomo”. Sposa nel 1494 Camilla Gonzaga (+1515) e nel 1518 Cecilia Orsini di Monterotondo. Dal 1513 è ambasciatore presso la curia romana, prima di Carlo V e, dopo la sua morte (1519), della Francia. “Uomo di molta sagacità ed eloquenza, e versato ne' politici affari”, lo descrive Pietro Verri. Grande collezionista di libri, è protettore dell'editore Aldo Manuzio, già suo maestro a Carpi. Dopo il sacco di Roma (1527) lascia la città e si trasferisce a Parigi dove muore. Alberto, come osserva S. Cavalletto (2004), dedica l'ultima parte della sua vita ad attaccare il pensiero di Erasmo da Rotterdam (1469-1536) ed il suo “Elogio della Pazzia”, il cui culmine è posto nella fede che permette di conquistare la felicità celeste, propria dell'altra vita.
Secondo il cardinale ed umanista modenese Jacopo Sadoleto (1477-1547), Alberto è un uomo di grande ingegno e valore. Girolamo Tiraboschi (1731-1794) racconta (“Storia della Letteratura italiana”) che Alberto è accusato da Francesco Guicciardini di essere un traditore, perché nel 1523 governando per la Chiesa Reggio Emilia e Rubiera, cerca segretamente di farsene signore. Il tentativo è fatto fallire dallo stesso Guicciardini che conosce bene gli ambienti emiliani, prima come governatore di Modena e poi pure di Reggio e Parma tra 1516 e 1517, per volere di Leone X. A Modena e a Reggio, Gucciardini si acquista la fama di funzionario incorruttibile ed inflessibile, scrive G. Dossena che lo descrive come uomo ricchissimo per i possedimenti terrieri e le attività commerciali in mezz'Europa. Nel 1523 è nominato Presidente di Romagna dove (secondo D. Cantimori) mantiene l'ordine con una severità analoga a quella del Valentino, anche se non altrettanto crudele.
Il profilo di Francesco Biancuto è disegnato da Guicciardini che lo dichiara suo amico. Su di lui nutre fiducia, non crede che abbia tramato contro la Chiesa: “ma quelli di Rimini ne temono assai, e tutto dì ne potresti sentire querele”, scrive al fratello Iacopo, lasciandogli il posto di presidente di Romagna, all'inizio del 1526, quando è chiamato a Roma per occuparsi della politica estera, prima di essere commissario generale dell'esercito pontificio (non riesce a fermare i Lanzichenecchi) e luogotenente di Clemente VII.
Nel testo “Delle cose di Romagna a suo fratello Iacopo” troviamo giudizi taglienti sulle città a lui affidate: lo mette in guardia sulle difficoltà che avrebbe incontrate. In Romagna occorre “avere nome e opinione di severità”. Qui “sono tante piaghe e tante ingiurie vecchie e nuove”, e gli “uomini sono comunemente disonesti, maligni”, e non conoscono l'onore. Per vincerli non basta punire tutti i delitti, ma occorre “non essere parziali, avere le mani nette, né piegarsi per lettere e intercessioni de' Cardinali e gran maestri”.
I Romagnoli “temono chi gli mostra il volto, sono assai soliti a essere rubati”. Guicciardini ha cercato di dare loro ardire per invitarli a denunciare le cose mal fatte. Critica il sistema giudiziario civile per le liti che non finiscono mai e permettono agli avvocati di protrarre le cause all'infinito e “rubare” denari ai clienti. Pure i Governatori “cercano di mettere ogni cosa in processo per tirare le sportule”, oggi diremmo tangenti.
Guicciardini spiega di aver lasciato correre per le denunce contro chi giocava “nelle città e contadi, e condannarli, massime i contadini”, ed aggiunge: “Così ho serrato gli occhi negli adulterii ed altre cose” legate alla vita sentimentale. Passando in rassegna le lotte tra fazioni dopo le morti di Leone X (1521), e di Adriano VI (1523), Guicciardini osserva: i delitti dei Ghibellini di Forlì, Imola e Ravenna, “sono stati condannati variamente secondo la qualità dei casi e delle persone”, o con il bando o con multe. Al fratello suggerisce di stare poco fermo in un luogo e di andare spesso a vederli tutti, “perché si contentano i popoli, intendendo le cose più particolarmente, i Governatori stanno con più rispetto, e molti che non hanno modo a andare in altre città, possono dire i fatti suoi”. La città peggiore per lui è Forlì, con odi che sono eterni, e con entrate della Comunità che stanno malissimo. A Cesena invece “non sono insanguinati”.
Le entrate di alcune città “si dissipano per il poco amore e disunione” degli abitanti. I governatori ed i bargelli rubano a man bassa, sono i ladri peggiori. I modi delle ruberie sono infiniti. Uno dei funzionari più corrotti, è il forlivese Antonio Numaio, addetto alle esazioni per la Camera Apostolica, “uomo parzialissimo e di mala natura”. Egli non paga gli esattori, ma ricava i soldi necessari gravando sui contadini colpiti pure dalle robuste mangerie degli ufficiali addetti alla riscossione.
Arriviamo a Rimini. Per quanti non avrebbero voluto rivedere il potere pontificio, fu usata clemenza perché non stava bene lasciar fuori della città troppa gente. Però “vi sono alcuni che non è bene graziare in modo alcuno”, di loro farà una lista. A tutti gli altri ribelli si può concedere la grazia. I contrasti tra guelfi e ghibellini sono forti, ma qui pure i Ghibellini sono partigiani del dominio temporale. Forse in odio ai Malatesti. Guicciardini parla del Porto: “una bella cosa”, se si tenesse bene in ordine, “ma va in rovina perché si riempie; e la Comunità vi spende assai, ma con tanto intervallo di tempo che non può far frutto”. Bisognerebbe farvi una spesa grossa, però la Comunità non può. Valerio Tingoli ed altri mercanti offrivano di farla loro, “ma la Comunità non acconsentì, parte per invidia, parte perché facevano qualche domanda ingorda” (A. Serpieri, 2004). Nell'ultima visita a Rimini, Guicciardini ha pensato ad un progetto, “fare venire qualche maestro intendente, e più di uno, per vedere che rimedio vi fussi buono e di che spesa”. Chiamato a Roma non può realizzarlo più.
Guicciardini si è fatto fama di persona che non può essere placata: e che “quanto più favori si adoperino meco, sia il peggio”. “Autorità e reverenza”, conclude con il fratello, non si possono conservare se non con lo stile che ha appena descritto, e che ha applicato nel suo ufficio. Nelle “Istruzioni a Messer Cesare Colombo” suo agente in Roma, Guicciardini ricorda con orgoglio: “Nello entrare mio in Romagna sono fuggiti molti facinorosi”. In un altro scritto, egli passa in rassegna tutte le accuse che gli erano state rivolte, a cui contrappone le “Difese” dove spiega che in Romagna si è fatto obbedire, ed ha avuto un nome tale da farsi temere.
Il domenicano fiorentino Remigio Nannini (1518-1580), teologo e filosofo, scrive in una biografia (1561) di Guicciardini che la carica di Presidente della Romagna era un ufficio di molta fatica e di molto pericolo per le inimicizie civili diffuse in quei popoli feroci che lui seppe tenere a freno. Altrettanto feroce era la gente di Bologna che Guicciardini andò a governare amministrando la giustizia senza far differenze. Così riuscì a raffreddare l'orgoglio e l'ardore di molte famiglie nobili, che fidandosi della moltitudine e della bravura dei loro seguaci, tenevano perturbata ed inquieta la città.


6. Porto e politica, affari e malaffare

Francesco Guicciardini nel 1526 denuncia la crisi del porto di Rimini. C'è bisogno di lavori urgenti: va in rovina “perché si riempie; e la Comunità vi spende assai, ma con tanto intervallo di tempo che non può far frutto”. La Comunità non ha i soldi necessari, né ha accettato la proposta di Valerio Tingoli e di altri mercanti cittadini che offrivano di tirarli fuori di tasca loro.
Guicciardini ha pensato di “fare venire qualche maestro intendente, e più di uno, per vedere che rimedio vi fussi buono e di che spesa". Chiamato a Roma, appunto nel 1526, non può realizzare il suo progetto. Sul finire del sec. XVI, c'è chi propone di spostare il porto sull'Ausa, perché la corrente "della Marecchia", trasportando al mare ghiaia ed altro, rende di difficile gestione il canale, i cui interramenti "ostacolavano l'accesso delle barche con sensibile danno pel commercio della città" (A. Mercati, 1941).
Sull'Ausa, racconta L. Tonini (1848), è posto l'antico porto di Rimini: di esso non si sa se fosse formato da un seno di mare come si legge in Clementini, “o se invece vi concorresse pur la Marecchia”. Secondo G. Rimondini (2008) i due porti di Rimini sono un'invenzione di Clementini.
Annotava G. Moroni (1852) che l'antico porto, divenuto inutile fu demolito nel XV sec., “adoprandosene i materiali a edificazione di chiese”. E che nel 1615 era posta la sua ricostruzione per munificenza di Paolo V. In L. Tonini (1864) si conferma la notizia sull'utilizzo dei molti marmi del porto antico anche da parte di Sigismondo Malatesti per il Tempio di San Francesco. Tonini ricorda poi che da Roma sono decretati due sussidi per il porto, nel 1562 (500 scudi annui) e nel 1591, aggiungendo che per esso “già erano state impiegate molte somme inutilmente” forse non soltanto per la forza del fiume ma pure per l'imperizia dei tecnici. Tutte queste vicende proiettano le loro ombre agitate sul sec. XVIII per il quale gli aneddoti storici sulle rivalità tra i dotti fanno dimenticare la vera sostanza del problema: i politici che governano non sanno prendere le giuste decisioni. Ecco perché il malaffare dei compromessi e dei favori uccide lentamente l'affare economico della vita portuale così strategica per Rimini. I fatti.
All'inizio del 1700, su consiglio del card. Ulisse Giuseppe Gozzadini, legato di Romagna, sono eseguiti lavori di riparazione alle sponde. Alla riva destra, le palizzate sono sostituite completamente da un'opera in muratura. Il Comune spende più di 70 mila scudi. In seguito all'alluvione del 1727, "caddero i nuovi moli (perché malamente costruiti) nel Porto; e questo solo danno fu calcolato in quindici mila scudi. Le acque erano a tale altezza che dall'Ausa alla Marecchia verso il mare giunsero a sorpassare l'altezza degli alberi più elevati", scrive Luigi Tonini (1864), riprendendo la "Cronaca" del conte Federico Sartoni (1730-1786).
Nel 1744, prosegue Tonini, essendo stata trascurata la sponda sinistra per più anni e non essendo stata essa prolungata come la destra, ci fu "lo sconcio che la corrente, espandendosi presso alla bocca, perdesse di forza a portar oltre le ghiaie, le quali per conseguenza otturarono il canale".
L'argomento del porto tiene banco in città. Ne abbiamo testimonianza dall'intervento di Giovanni Antonio Battarra, nel 1762. In esso, racconta Carlo Tonini (1884), si dimostra "come il Comune, aggirato da pratici ignorantissimi, gettava il pubblico danaro in provvedimenti inutili e male divisati". "Quante volte il fiume ebbe rovinato il canale, fu chiesto il parere" di Battarra, prosegue C. Tonini: "E quando il danno montò al colmo, egli presentò un piano, il quale fu bensì accolto; ma poi pessimamente eseguito da chi aveva interesse (così dice il Rosa) di screditarlo". Michelangelo Rosa (1894) racconta che il piano di Battarra fu anche "alterato a capriccio". Battarra (1714-89) è un filosofo, il che in quegli anni significa anche scienziato. Nel 1755, ha pubblicato la "Storia dei funghi dell'agro riminese", un'opera in latino, conosciuta in tutt'Europa.
Battarra vuole difendersi dalle critiche e dalle malignità cittadine, dopo che quel piano (come spiega Rosa), è stato "pessimamente eseguito da chi non si fece coscienza di volere innanzi lo sconcio e il danno" dell'ideatore. E, quando apre nel dicembre 1762 il suo corso pubblico di Filosofia, Battarra tiene due discorsi sul porto, che pubblica l'anno successivo in volumetto: è questo l'intervento a cui si riferisce C. Tonini. A sostegno delle sue tesi, Battarra ricorre anche all'autorità di Galileo: per un arco di quarto di circolo, l'acqua si muove più velocemente che per la corda di esso. La velocità del fiume serve a tener più pulito il canale. Precisa il nostro: "Mi rido che il condur acque per linea retta sia in tutti i casi la regola più certa, per farle giugner più presto e con più velocità al lor destino".
Come si vede, la disputa scientifica si accende, e non la ripercorriamo avendola ricostruita sulle colonne del “Ponte” il 6 ottobre 1991, presentando anche documenti inediti. Ci soffermiamo invece su quel punto in cui C. Tonini riprende l'opinione di Battarra; “il Comune, aggirato da pratici ignorantissimi, gettava il pubblico danaro in provvedimenti inutili e male divisati“. La situazione è talmente tesa che, quando il Comune decide di effettuare non il prolungamento dei moli ma la distruzione di quello di destra per procedere all'espurgazione del canale, ci scappa fuori un tumulto di pescatori e marinai per merito o colpa del quale i lavori sono sospesi, si dice ufficialmente: ma in realtà non c'erano soldi in cassa per portarli a termine. Era il 26 aprile 1768.
Il Governatore riminese, conte Vincenzo Buonamici di Lucca, aveva scritto al vicelegato papale Michelangelo Cambiaso che i battelli non potevano entrare nel porto. Ma non era vero: tra gennaio e il 16 marzo 1768, ne erano giunti 79.
Si contrappongo autorità che scrivono cose non rispondenti al vero, ed i lavoratori del mare che non riescono a far ascoltare la loro voce se non con un tumulto, sul quale poi i benpensanti contemporanei e posteri hanno ricamato in abbondanza. Quel tumulto non è un semplice dato di cronaca, è il sintomo di un malessere che dimostra l'inadeguatezza del regime aristocratico che regge le sorti della città.
Un documento collocabile tra 1625 e 1668, racconta di una “lite” intercorsa fra la Municipalità ed un Ordine religioso, quello dei canonici regolari agostiniani di San Giorgio in Alga che aveva ricevuto in affidamento il monastero di San Giuliano nel 1496 nell'omonimo Borgo. In occasione della fiera che vi si svolgeva, i monaci volevano affittare alcune stanze di loro proprietà. La Municipalità si oppone, non ritenendole “opportune ad abitazione di onorati mercatanti”, in quanto erano state ridotte dal monastero “a stalle d'animali, et a postriboli di femmine di mondo”.
A quell'ordine appartiene Vanzio Vanzi, fattosi monaco nel 1609: era figlio di Giovanni, il padre del quale (Lodovico) era fratello del celebre giurista mons. Sebastiano vescovo di Orvieto.
I politici che governano non sanno prendere le giuste decisioni, abbiamo scritto sopra. Aggiungiamo a loro discolpa un dato oggettivo che riguarda tutta la nostra regione. Come scrive G. Tocci (2004), lo scontro tra i poteri locali e quello centrale provoca situazioni in cui sono precluse possibilità di sviluppo e di progresso. Nelle singole città tornano le rivalità tra le fazioni locali. Il governo romano è incapace di assorbire le differenze fra le singole situazioni dello Stato pontificio. Un esempio illuminante è dato dal fatto che nel 1558 Rimini è obbligata a partecipare alle riparazioni del porto di Ancona.


7. Mare, monti e agricoltura

Passata sotto il dominio veneto nel 1503, Rimini ottiene condizioni di favore per la sua vita economica nei patti (detti “Capitoli”) approvati dal Doge. Ce li ha tramandati integralmente Cesare Clementini.
Sono tolti i dazi sul commercio dei grani, e sul metter nei magazzini grano, biade e vino. Il vino esportato a Venezia dai cittadini, abitanti di Rimini e del contado, e dai proprietari stessi, paga il dazio secondo le regole della terre soggette alla Repubblica nella Dalmazia. Delle somme riscosse per condanne e pene, fanno a metà il Comune di Rimini e la Camera ducale veneta. Si riconoscono a Rimini questi privilegi, consuetudini ed immunità: libera navigazione da e per il nostro porto con qualsiasi tipo di mercanzia, senz'obbligo di andare a Venezia. Le esenzioni per il commercio, sia via terra sia via mare, previste soltanto per i periodi di fiera, sono estese a tutto l'anno. Il transito verso Bologna è libero con il consueto pagamento dei dazi, senza l'obbligo di condurre le merci a Venezia, “eccetto i minerali, e altre mercantanzie espressamente dal Senato proibite”. I riminesi possono richiedere dall'Istria tutto il legname di cui abbiano bisogno.
Un punto particolare dei “Capitoli” è quello che prevede l'affidamento degli Uffici in città e in tutti i luoghi ad essa sottomessi, soltanto “a Cittadini, e ad altre persone idonee” dei medesimi luoghi. Le ricompense agli incaricati non debbono aumentare. Tutte le spese per l'organizzazione della vita pubblica (ovvero le paghe a Rettori della città, giudici, custodi delle porte, e così via elencando), non debbono essere sostenute dalla Repubblica veneta ma dalla città di Rimini. Altrettanto interessante è il patto che impone di gravare su cittadini o contadini per le spese pubbliche soltanto in tempo di necessità o di sospetto di guerra. L'obbligo di alloggiare le truppe, dando loro paglia e legna, spetta soltanto agli uomini del Contado e non ai cittadini, “come è stato solito”.
I cittadini e gli abitanti di Rimini che siano proprietari di terre nel Contado, possono liberamente portare in città “tutte le frutta” che vi raccolgono senza pagare dazio, bolletta o colletta. Tutte le cause, civili o criminali che siano, debbono essere discusse in città per minore spesa dei sudditi. A cittadini ed abitanti è garantito un prezzo di favore per l'acquisto del sale. Chi nei fatti recenti di rivolte e saccheggiamento abbia subìto un danno, faccia conoscere la verità in modo che i Rettori possano procedere a “sommaria giustizia senza strepito di lite”. Per il dazio pagato da chi non è riminese, è prevista la misura della metà da versare alla comunità locale e dell'altra metà per la Camera ducale di Venezia.
Per cinque anni non sono ammesse denunce di forestieri a carico di riminesi, relative a fatti antecedenti al dominio veneziano. Infine al Comune di Rimini è concesso di tenere una casa a Venezia per ospitarvi i suoi cittadini, con privilegi ed immunità goduti dalle altre città suddite della repubblica.
Clementini ricorda poi che al Senato di Venezia piacque concedere, senza esserne stato richiesto, che “tutti i fuorusciti, e Ribelli potessero liberamente rimpatriare”, e che gli fossero restituiti i beni già confiscati. Era una misura di pacificazione, come suol dirsi, per chiudere una pagina scottante del passato. Ma il Provveditore di Rimini Domenico Malipiero volle proseguire con le condanne e le confische, per cui gli interessati (“particolarmente i Belmonti, e gli Adimari”) si rivolsero al Senato. Che così stabilì: le delibere già prese per confische, vendite ed alienazioni sono sospese e non vanno eseguite. Intanto a Roma il cavalier Carlo de Maschi, “Legista celeberrimo Riminese”, fatto senatore dal papa e “poco prima levato dalla devozione de' Malatesti”, cerca di convincerlo a recuperare Rimini alla Chiesa. Il che avviene il 26 maggio 1509, dopo la sconfitta di Venezia, il 14 maggio da parte della lega di Cambrai. (Nel 1503 dal 2 ottobre al 24 novembre Pandolfo IV è di nuovo signore di Rimini, ma sotto il governo veneziano.)
Nei “Capitoli” veneziani, ci sono alcuni aspetti da considerare. Quando si dichiarano non ammissibili per cinque anni le denunce di forestieri a carico di riminesi, per fatti antecedenti al dominio veneziano, si è consapevoli che nei momenti più inquieti possono agire dei provocatori che manovrano la cosiddetta plebe. Come dimostra Francesco Guicciardini per anni successivi, c'è chi agisce localmente ma ha legami con le altre realtà italiane. Abbiamo incontrato Francesco Biancuto: a Rimini fa il capo dei ribelli sostenitori dei Malatesti, a Milano ed a Ferrara invece lavora come spia al servizio di Roma. Il perdono concesso a fuorusciti e ribelli è una conseguenza di questa decisione puramente politica, di calmare le acque.
Infine ci sono i provvedimenti economici che alleggeriscono i costi dei prodotti e favoriscono le esportazioni ed i commerci in entrata. Questo aspetto è legato alla condizione geografica di Rimini. Con il porto può guardare ad Oriente, tenendo d'occhio proprio Venezia i cui mercanti, come insegna Carlo M. Cipolla, già dal Duecento sviluppano tecniche d'affari superiori a quelle tradizionali di Bisanzio. La campagna riminese produce in quantità che variano secondo gli anni: ci sono i periodi di maltempo e di passaggio di truppe, spiega Carla Penuti, che rovinano campi e raccolti. Ne deriva quel flagello della fame che un canonico bolognese, Gian Battista Segni, nel 1602 definisce più crudele della peste. Le carestie, spiega Penuti, caricano le amministrazioni cittadine di spese e blocca il capitale privato per trovare cibo. Ne patisce anche il settore manifatturiero, lasciato senza investimenti.
Oltre alle campagne ed al mare, ci sono infine pure le montagne. L'Appennino non ci separa dalla Toscana, ma ci unisce ad essa. Lo dimostrano la vicenda di Dante esule a Ravenna e quella delle origini dei Malatesti, per le quali esiste un preciso itinerario tra Romagna, Marche e Toscana.
Nel 1121 c'è un atto relativo ad Ugo detto “Malatesta” e ad un monastero della Toscana, San Lorenzo di Coltibuono. Nel 1129 lo stesso “Malatesta” si avvicina alla Romagna, figurando proprietario di un terreno sulla costa marchigiana a Casteldimezzo, fra Cattolica e Pesaro. Infine il 18 aprile 1131 il nome di Ugo appare in un atto relativo alla località riminese di San Lorenzo in Monte. Un “Istrumento del 1132” (sempre per San Lorenzo in Monte) reca fra i testimoni “un Ugo Malatesta”, come scrive L. Tonini. Nel 1184 una Berta degli Onesti di Ravenna è moglie di tal Malatesta, che lo storico ravennate Vincenzo Carrari battezza “Minore”.
Questo viaggio nel passato della nostra storia, ci offre l'occasione di due brevi annotazioni, giostrate su autorevoli opinioni di illustri studiosi. La prima è di un grande storico della Letteratura, Ezio Raimondi, che, a proposito del Rinascimento, ha spiegato la necessità di ridisegnare una sua “geografia nuova”, con il canone della “complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo”. Trasferendoci in campo storico, piuttosto che seguire la catena dei fatti, dovremmo seguire il modello “di una maglia o rete” di Carlo Emilio Gadda, con fatti e figure che s'intersecano fra loro. Gadda sostiene poi che occorre avere coscienza di questa “complessità”, sulla quale torna Raimondi.
L'altra annotazione è di Cipolla: la storia economica per riuscire comprensibile deve essere anche storia sociale. Né la prima né la seconda tipologia di indagine sul passato, sono state sviluppate a Rimini, per cui i provvedimenti veneziani appaiono semplici elenchi che riguardano l'alta politica e non tutta la vita di un territorio.


8. Donne in lotta, avanza il nuovo

Manca una storia economica e sociale di Rimini moderna. Come pure quella delle idee che vi circolavano. Molti aspetti della sua vita sono così ignorati o travisati. Ha scritto un celebre storico della Scienza, Paolo Rossi: "Anche il passato è pieno di cose nuove e sconosciute". Tra cui possiamo porre il discorso sul ruolo svolto dalle donne lungo i secoli.
Spesso e volentieri ce la siamo cavata con il solenne macigno di Francesca peccatrice, raccontata da padre Dante col commosso ricordo dal luogo infernale dei lussuriosi. La "verità" storica della vicenda malatestiana, non ha documenti che la attestino. Il passo di Dante è fonte letteraria e non cronachistica. Ma forse si è trattato di un omicidio politico, non d'un duplice delitto d'onore.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni avrebbe potuto per invidia progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, protagonista stimato della scena nazionale. Francesca sarebbe la vittima non di un dramma amoroso, ma di una terribile questione politica che rispecchia il modo di operare di quella società che considerava le donne sempre soggette al volere ed al valore del maschio, simbolo del potere più assoluto. Il quale faceva cancellare tutte le versioni non ufficiali dei fatti. Secondo Boccaccio, il matrimonio fra Giovanni e Francesca è un fatto politico, seguendo usi e costumi del tempo, perché riconosce la fine di una lunga e dannosa guerra tra i Malatesti e i Da Polenta.
Questo contesto politico del potere che decide la sorte delle donne, si ripete nel 1418. Nella prospettiva di un nuovo quadro dei rapporti tra Roma e Costantinopoli, è progettato come fase preparatoria il doppio matrimonio fra i figli di Manuele II imperatore d'Oriente e due fanciulle cattoliche, Cleofe Malatesti di Pesaro (educata a Rimini) e Sofia del Monferrato. Il papa Martino V l'8 aprile 1418 autorizza i figli dell'imperatore bizantino a sposare donne cattoliche. Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei.
A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe alla sorella Paola Gonzaga. Il velo dell'oblio può non essere casuale. E conferma quanto s'è visto per Francesca. Alla cui vicenda Cleofe Malatesti s'avvicina, proprio per il silenzio che ne avvolge la sorte.
È un'altra donna a cambiare il volto della cultura malatestiana riminese, quell'Isotta che troviamo sepolta nel nostro Tempio, e che mette in ombra le immagini di Sigismondo Pandolfo quale condottiero ed uomo di guerra. Anche grazie a lei, il Tempio resta sino ai nostri giorni la testimonianza d'una novità assoluta, il desiderio di rinnovare il grande sogno umanistico dell'incontro tra le culture, proprio mentre le armi reggevano e regolavano le sanguinose divisioni.
Per constatare come cambi la posizione della donna nella gestione della vita famigliare e nella società, saltiamo qualche secolo ed arriviamo a quello XVIII, con Diamante Garampi. La quale dimostra la più esemplare volontà di essere l'unica padrona della propria vita, in un momento in cui sta nascendo il più grande scontro, per l'età moderna, tra le nuove idee scientifico-politiche e le posizioni conservatrici o reazionarie (ci si scusi il linguaggio tipicamente odierno) delle forze politiche in campo in tutt'Europa.
Diamante si ribella al volere del padre Francesco (fratello del celebre card. Giuseppe) che ha deciso il suo futuro, combinandone il matrimonio secondo il costume del tempo. Diamante richiama la figura goldoniana di Mirandolina su cui ha scritto Franca Angelini (1993): "vincitrice del Cavaliere", è però "vinta dalla legge che incombe sulla condizione femminile, l'ubbidienza al padre", che nel caso specifico significa dover sottostare all'interdizione del passaggio da una classe sociale a un'altra. Nel Manzoni s'incontra poi la figura della Monaca di Monza, sulle cui labbra egli pone queste parole: "Già lo so che i parenti hanno sempre una risposta da dare in nome de' loro figliuoli". Parole che fanno il paio con quelle pronunciate da don Rodrigo a proposito di Renzo e Lucia: "Son come gente perduta sulla terra; non hanno né anche un padrone: gente di nessuno".
Al 1700 appartiene pure una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci che peregrinando per l'Italia da Torino alla Sicilia, dalla Calabria a Padova, approda a Rimini attorno al 1750. Suo padre Bartolomeo, un celebre Pulcinella, è morto nel 1746. Arcigna custode delle misere sostanze che ricava dall'esercizio dell'arte, è la madre che nel 1749 l'ha spinta a sposare un tal Celestini. Costui la trascura e maltratta, facendola vivere nei più gravi stenti. L'unica cosa preziosa che Antonia Cavallucci possiede è la bellezza. Uomini di ogni età, assistendo ai suoi spettacoli, ne sono talmente affascinati da trasformarsi in una folta schiera di corteggiatori sognanti.
A questa schiera appartiene il medico riminese Giovanni Bianchi (ovvero Iano Planco) che la invita l'11 febbraio 1752 ad una serata della Accademia dei Lincei riminesi, rifondati dallo stesso Bianchi sei anni prima. Il fascino che la ragazza esercita su di lui, le costa caro. Bianchi l'allontana da sé, al fine di arginare quello che appariva un vero e proprio pubblico scandalo. Antonia Cavallucci è costretta a riparare a Bologna dal suo protettore che la munisce di presentazioni per amici, i quali avrebbero dovuto provvedere ad accoglierla e ad aiutarla. La sfortunata situazione coniugale è aggravata dalle difficoltà di trovar scritture, nonostante il successo che riscuote ogni volta che si esibisce. Forse, a renderla invisa ai benpensanti ed ai custodi della pubblica moralità, è la sua stessa avvenenza, facilmente scambiabile, da quelle menti, per un veicolo di seduzione diabolica, sulla scia di opinioni allora comuni.
Torniamo alla nostra Diamante. Suo padre aveva progettato le nozze della figlia, scegliendo come consorte il marchese Pietro Belmonti, un loro parente. Lei non è d'accordo. A diciotto anni, il 25 aprile 1764, Diamante Garampi sposa Nicola Martinelli (non ancora ventiduenne). Diamante il 16 ottobre 1763 si rifugia nel monastero di Sant'Eufemia, dove si trattiene sino all'8 gennaio 1764, quando fa ritorno alla casa paterna. Qui resta per sei giorni, prima di isolarsi in un altro convento, quello delle monache di San Matteo, il 13 dello stesso mese, allo scopo di prepararsi alle nozze con Nicola Martinelli.
Contro il volere dei padri della politica vanno le donne romagnole nei momenti più caldi della storia settecentesca. Succede a Cervia il 17 agosto 1796 quando, come racconta il canonico Pietro Senni, esse sono furenti ed animano con successo i salinari alla rivolta, per denunciare la violazione dei contratti. È una sfida che, dal basso, i tempi nuovi lanciano ai detentori del potere, abituati a guardare ai popolani con l'atteggiamento paternalistico di chi concede qualche beneficio, ma ignora del tutto ogni discorso basato sul concetto di giustizia, proprio mentre per le strade d'Europa l'ammaestramento rivoluzionario s'espande facilmente con i nomi di libertà, eguaglianza e fraternità, coagulando forze eterogenee, e suscitando reazioni altrettanto diversificate.
Altre donne s'agitano nel porto di Rimini durante la "rivolta dei pescatori" (30.5.1799-13.1.1800), mirante ad eliminare il tradizionale sistema di rappresentanza, basato sui due ceti di Nobili e Cittadini (i borghesi). Lontani dal diretto controllo della cosa pubblica, i pescatori però sono uno dei motori dell'economia locale.


Appendice. Cleofe ed Elena

Ginevra, 1999. Al Musèe d'Art et d'Histoire arrivano i resti della cosiddetta mummia di Mistra, l'antica Sparta capitale della Morea. Sono reperti ossei, biologici e vestimentari che un gruppo internazionale di studiosi di varie discipline deve sottoporre a restauro e ad analisi molto sofisticate. Li guida Marielle Martiniani-Reber, famosa archeologa dei tessuti all'università di Lione. Nel 2000 è lei che fornisce l'identikit della mummia, una giovane aristocratica occidentale, anzi un'italiana. Silvia Ronchey ne scrive raccontando della "Flagellazione" di Piero della Francesca ("L'enigma di Piero", 2006).
Quella giovane si chiama Cleofe Malatesti, ed è nata a Pesaro all'inizio del XV secolo dal signore della città Malatesta I, detto "dei Sonetti o Senatore" (1366 ca-1429) e da Elisabetta Da Varano (1367-1405) di Camerino. Malatesta I è figlio di Pandolfo II e Paola Orsini (pronipote di un fratello di papa Niccolò III); nipote di Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1299-1364); e pronipote di Pandolfo I nato da Malatesta da Verucchio "il centenario". Fratello di Malatesta Antico è Galeotto I (1301c-1385) che nel 1367 sposa Gentile da Varano, sorella di Elisabetta madre di Cleofe. Da loro nascono Carlo (1368-1429), marito di Elisabetta Gonzaga (sorella di Francesco che sposa Margherita sorella di Carlo...), e Pandolfo III (1370-1427) signore di Brescia nonché padre di Sigismondo Pandolfo Malatesti e di Domenico Novello, rispettivamente signori di Rimini e di Cesena.
Malatesta "dei Sonetti" oltre a Cleofe ha altri sei figli (che elenco in ordine sparso). Galeotto muore a 16 anni (1414). Galeazzo "l'inetto" nel 1405 sposa Battista di Montefeltro. Paola nel 1410 sposa Gianfrancesco Gonzaga (figlio di Francesco e Margherita Malatesti). Di Carlo diremo fra poco. Taddea, moglie (1417) del signore di Fermo Ludovico Migliorati, muore nel 1427. Infine c'è Pandolfo (1390-1441), nel 1424 inviato quale arcivescovo alla diocesi di Patrasso dipendente da Costantinopoli. "Grande religioso di bona vita" e "dottissimo in iscienza" lo descrive Gaspare Broglio.
Nel 1415 Pandolfo è presente al concilio di Costanza e nel 1417 al conclave che elegge Martino V. Arcidiacono bolognese (1404), governatore dell'abbazia di Pomposa (1407) ed amministratore "loco episcopi" (1413-1418) della diocesi della città di Brescia governata da Pandolfo III, egli è poi vescovo di Coutances in Normandia sino al 1424, nei duri momenti della conquista inglese durante la guerra dei cento anni. Nel 1430, quando Patrasso passa dal dominio veneziano (iniziato nel 1424) a quello bizantino, Pandolfo fugge dalla propria sede e ritorna a Pesaro. Nel 1429 a difenderlo presso i sovrani bizantini si è recato suo padre, approfittando di una fallita missione a Mistra affidatagli da Venezia.
Ritorniamo al corpo esaminato a Ginevra. Se è di Cleofe, resta il mistero di un particolare autoptico: "una perforazione all'altezza del cuore, la cui natura non è certa", scrive Ronchey. Ciò conferma l'ipotesi di una drammatica fine della giovane che "visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito" (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425), sposato il 19 gennaio 1421. Così nel 1782 Annibale Degli Abati Olivieri Giordani per primo rivela la drammatica vicenda di Cleofe, pubblicando la lettera inedita inviata nel 1427 da Battista di Montefeltro a Martino V, Oddone Colonna, per invocare un intervento "in difensionem" della cognata.
Malatesti e Montefeltro sono imparentati con il papa tramite due sue nipoti: Vittoria Colonna nel 1416 ha sposato Carlo, fratello di Cleofe; Caterina Colonna dal 1424 è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro (1377-1443), fratello di Battista. La prima consorte di Guidantonio era stata, dal 1397 al 1423, Rengarda dei Malatesti di Rimini.
Le nozze del 1421 tra Cleofe e Teodoro sono state combinate durante il concilio di Costanza (1414-1418). Carlo Malatesti signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385, sabato 15 giugno 1415 arriva a Costanza quale procuratore speciale di Gregorio XII "ad sacram unionem perficendam". Carlo è molto legato a Cleofe che di frequente soggiorna presso di lui a Rimini. Il 16 Carlo si presenta all'imperatore, "significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva" (L. Tonini). Lo stesso 16 giugno Carlo incontra pure Manuele II imperatore d'Oriente e futuro suocero di Cleofe. Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi, dimostrandosi mediatore sapiente e fermo ma aperto alle altrui ragioni. A Costanza si trova pure il patriarca di Costantinopoli Jean de la Rochetaillée.
Anche il padre di Cleofe ha acquisito benemerenze religiose nei tormentati anni dello scisma occidentale (1378-1417). Nel 1410 l'antipapa Giovanni XXIII lo ricompensa dei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, "circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissimae unionis", attribuendogli "vita durante" la somma di seimila fiorini l'anno, pari a cinque volte il censo che il signore di Pesaro pagava a Roma.
A Giovanni XXIII, Carlo di Rimini ha scritto prospettando vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III di Brescia, al fine di "reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae". Gregorio XII in una bolla (20.4.1411) scrive che Carlo, "verae fidei propugnator", ha giustamente deciso "se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae". In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo. Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito per cui lascia il comando al fratello Pandolfo III.
Nell'ottobre 1418 Martino V, mentre sta ritornando da Costanza, fa sosta prima a Brescia e poi a Mantova. A Brescia avviene il suo incontro con l'arcidiacono Pandolfo, fratello di Cleofe, amministratore della diocesi. A Brescia il papa trova il signore di Rimini Carlo accompagnato dalla moglie Elisabetta Gonzaga, e Malatesta I di Pesaro. Il quale ottiene dal pontefice due provvedimenti: la rinnovazione della propria signoria e la sede vescovile di Coutances per il figlio arcidiacono.
Per cancellare la storia di Cleofe, bastano le fiamme che nel 1462 distruggono a Rimini gran parte dell'archivio malatestiano (poi spogliato delle carte superstiti su iniziativa pontificia fra 1511 e 1520); ed a Pesaro il 15 dicembre 1514 la biblioteca ed i documenti della famiglia della sposa bizantina, dopo che nel 1432 e nel 1503 un "arrabbiato popolo" vi aveva distrutto le scritture pubbliche. In quelle fiamme scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente, scelta dal papa con soddisfazione del suo casato: per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
Sopravvivono soltanto le memorie orientali. E resta la leggenda del ritorno in patria di Cleofe: forse accreditata dagli stessi Malatesti per nascondere la sconfitta politica subìta, o forse diffusa dalla Chiesa al fine di mascherare le proprie colpe. Roma, consapevole di possibili tracce accusatorie lasciate a Pesaro ed a Rimini dalla clamorosa vicenda, avrebbe provveduto a distruggerle. Sono semplici ipotesi. Come quella di Silvia Ronchey circa la fine di Cleofe: una morte che ha "poche probabilità di essere stata accidentale", e che sarebbe dovuta alla "longa manus della curia romana".
Cleofe "probabilmente assassinata, certamente travolta dal doppio gioco al quale era stata costretta fin dal suo arrivo a Bisanzio", visse cercando un impossibile equilibrio sul filo che collegava il papa ed il consorte. Giocò con coraggio una partita che da sola non poteva vincere. Ronchey ipotizza l'uccisione di Cleofe per evitare che mettesse al mondo un erede al trono bizantino. Se un figlio maschio fosse nato, "il corso della storia avrebbe potuto essere diverso": "se la storia potesse farsi con i se".
Le nozze di Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421 assieme a quelle di Sofia di Monferrato con Giovanni VIII Paleologo. Sofia e Cleofe sono state unite nello stesso progetto di Martino V (che secondo Ronchey scelse "personalmente" la Malatesti), per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Assieme Sofia e Cleofe s'erano imbarcate a Venezia per Costantinopoli. Il prologo del viaggio di Cleofe era stato segnato dal triste presagio dell'imbarcazione costretta dal maltempo a rientrare in porto a Rimini, per cui dovette compiere via terra il viaggio sino alla laguna. Anche di Sofia di Monferrato le cronache del tempo offrono scarse notizie: nell'agosto 1425 Sofia scappa da Costantinopoli, poco dopo la scomparsa del suocero Manuele II. Cleofe muore nel 1433, lasciando una figlia, Elena, nata tra 1427 e 1428.
Nel 1421 Cleofe Malatesti sposa Teodoro Paleologo despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II. Sul finire del 1427 o all'inizio del 1428 nasce la loro figlia Elena Paleologa. Nel 1433 Cleofe muore, forse vittima di un delitto politico. Elena è la prima erede diretta al trono di Costantinopoli oltre che di Mistra, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Nel 1442 sposa Giovanni III di Lusignano (1418-1458), re di Cipro (1432-1458), e muore l'11 aprile 1458. Elena è la seconda moglie di Giovanni III. La sua prima sposa, Amadea di Monferrato (1420-1440), è figlia di Giangiacomo (1395-1445) fratello di Sofia, unita in matrimonio con Giovanni VIII Paleologo e cognata di Cleofe. Le nozze di Sofia e Cleofe sono state celebrate il 19 gennaio 1421. Le due giovani erano partite assieme da Venezia per Costantinopoli nell'agosto 1420. Nell'agosto 1425 Sofia (+1434) scappa da Costantinopoli. La madre di Amadea di Monferrato è Giovanna di Savoia (1392-1460) figlia di Amedeo VII il Conte Rosso (1360-1391).
Si chiama Carlotta la primogenita di Elena Paleologa e Giovanni III. Carlotta (1442-1487) andrà a nozze dapprima (1456) con Giovanni di Portogallo (1433-1457) e poi (1459) con Luigi di Savoia conte di Genova (1436-1482). Il titolo di re di Cipro passa ai Savoia che lo conservano (puramente onorifico) sino al 1946. Luigi di Savoia è figlio di Ludovico (1413-1465) e di Anna di Lusingnano, sorella di Giovanni III. Anche Luigi è alle seconde nozze, dopo quelle (1444) non consumate ed annullate (1458) con Annabella Stuart, figlia di Giacomo I di Scozia.
La secondogenita di Elena rinnova il nome della nonna Cleofe ed ha breve vita. Carlotta regna tra 1458 e 1460, prima di Giacomo II il Bastardo (nato nel 1418 da Marietta di Patrasso) che per legarsi a Venezia nel 1468 sposa Caterina Cornaro. Giacomo II uccide il ciambellano di Elena, Tommaso di Morea. Contro Carlotta nel 1459 cerca al Cairo l'aiuto del sultano Al-Achraf Saïd ad-Din Inal. Giacomo II muore il 7 luglio 1473. Il 28 agosto nasce l'erede Giacomo III che scompare il 26 agosto 1474. Caterina Cornaro (1454-1510) regna dal 1473 sino al 1489. Nel 1463 Carlotta è fuggita a Roma. Qui scompare nel 1487 (ed è sepolta in San Pietro).
Riprendiamo le due notizie relative ad altrettante fughe di spose italiane: Sofia da Costantinopoli (1425) e Carlotta da Cipro (1463). Anche per Cleofe è stato accreditato un inesistente ritorno in patria, associandolo a quello del fratello arcivescovo di Patrasso nel 1430, quando al dominio veneziano subentra il bizantino. Saltiamo al 1794: a Rimini appare un volume dedicato agli scritti di Basinio Parmense (1425-57), curato da due eruditi, i fratelli Francesco Gaetano ed Angelo Battaglini. Angelo è bibliotecario alla Vaticana. L'opera comprende nel primo tomo le "Notizie intorno la vita e le opere di Basinio Basini" (pp. 1-42) del padre Ireneo Affò dei Minori Osservanti (1741-97, dal 1785 alla morte prefetto della Biblioteca Palatina di Parma); un testo di Angelo Battaglini sulla "corte letteraria" di Sigismondo (pp. 43-255: esso riguarda i letterati forestieri alle pp. 43-160, e quelli riminesi, pp. 161-255). Nel secondo tomo c'è il lavoro di Francesco Gaetano, "Della vita e fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta" (pp. 257-698).
Battaglini spiega che tra le tante altre notizie che non avrebbe potuto elencare, c'è quella che Cleofe "infine tornasse a casa". Lasciato il modo verbale della certezza usato in precedenza, ricorre al congiuntivo per indicare un'ipotesi. Battaglini non aggiunge altro, confidando nella capacità dei lettori di cogliere il senso di quello scarto stilistico, tanto discreto da poter passare anche inosservato. Sembra essersene accorto invece Luigi Tonini con l'acribia che gli era propria. Anche se non cita Battaglini, Tonini in una breve scheda su Cleofe annota: "Morì nel 1433, dicono in Pesaro". Questo si legge a p. 334 del quarto volume, tomo primo della sua storia di Rimini. A p. 335, Tonini però aggiunge che Cleofe fu condotta in Italia dal fratello Pandolfo arcivescovo di Patrasso.
Tonini tralascia la drammatica situazione vissuta da Cleofe, e testimoniata nel 1427 da Battista di Montefeltro con la lettera a papa Martino V. Tonini (morto nel 1874) non poteva ignorare quella lettera in difesa di Cleofe, oltretutto riproposta a Londra nel 1851 dallo scozzese James Dennistoun (1803-1855) e da Filippo Ugolini in un testo edito ad Urbino nel 1859. Da queste omissioni di Tonini, nasce la leggenda del ritorno di Cleofe in Italia, durata sino al libro di Silvia Ronchey da cui siamo partiti ("L'enigma di Piero", 2006).
1433, visita l'Italia l'imperatore Sigismondo, il protagonista del concilio di Costanza. A Roma è incoronato da papa Eugenio IV. Diretto al concilio di Basilea, sosta il 30 agosto ad Urbino ed a Rimini il 3 settembre. Ad Urbino gli rende omaggio un messo di Elisabetta Malatesti moglie di Piergentile Da Varano e figlia di Galeazzo di Pesaro e di Battista dei Montefeltro signori di Urbino. Piergentile è stato arrestato agli inizi di quell'agosto, e suo fratello Giovanni II ucciso poco dopo dai fratellastri Gentile IV Pandolfo e Berardo III (ammazzati poi nel 1434), figli della prima moglie Elisabetta Malatesti sorella di Malatesta I di Pesaro. Elisabetta nel 1441, alla morte dell'arcivescovo Pandolfo, è nominata sua erede.
Battista pronuncia davanti all'imperatore Sigismondo una commossa orazione latina per chiedere quanto anche sua figlia Elisabetta implorava per Piergentile, ovvero grazia e liberazione. Tutto è inutile, Sigismondo se ne lava le mani avendo ricevuto una diffida dal papa. Piergentile è decapitato il 6 settembre 1433. Battista aveva ricordato all'imperatore anche le sventure dei Malatesti. Ovvero, è immaginabile, pure la sorte di Cleofe oltre alla recente cacciata da Pesaro. Dove essi possono tornare nello stesso settembre 1433 grazie ad estensi e veneziani, e ad una rivolta popolare, quando Carlo devasta il contado ed assedia la città.
La sosta a Rimini dell'imperatore serve a Sigismondo Pandolfo ed al fratello Novello per fortificarsi, ricevendo un'investitura laica contrapposta a quella papale "in temporalibus". Ispirati da una rigida Realpolitik, essi non hanno tempo per pensare a Cleofe ed a Mistra. Dove Sigismondo va per la crociata in Morea del 1464-1466 al soldo di Venezia. Francesco Gaetano Battaglini nel riproporre il poema "Hesperis" di Basinio Parmense in lode di Sigismondo (per i trionfi su Alfonso d'Aragona, 1448), annota: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende" da certi suoi versi dove racconta di "quell'Elena figliuola di Cleofe" regina di Cipro che aveva "recato seco sfortunatamente l'erronea credenza del padre [...] con ingiuria della Chiesa latina".
Battaglini rimanda al brano di Basinio riassumibile con il titolo del libro settimo in cui è contenuto: "Ad Cypri reginam agnatam suam navigare se velle simulat" (il titolo inizia: "Dum Sigismundus meditatur Neapolim ne, an Iberiam invadat..."). Battaglini spiega: "quello che forse prima non si sapeva, s'intende da' versi di Basinio in quel luogo del libro settimo, dove fa che Sigismondo imbarcandosi, finge che il suo navigare abbia ad essere a Cipro per visitare quella reina. La quale egualmente sarebbe piacciuto di ricordare, sendo quell'Elena figliuola di Cleofe".
Di Elena nel 1647 Giovanni Francesco Loredano, ricorderà la vendetta consumata contro Marietta di Patrasso, amante del marito Giovanni III, con il taglio del naso e delle orecchie, nel tentativo forse di farla abortire della creatura che aveva in seno, il futuro re Giacomo II il Bastardo. Anche Elena era allora incinta. Della primogenita Carlotta.
Sigismondo non poteva essersi dimenticato di Cleofe, vissuta "per lo più" (Clementini) alla corte di Rimini, dove lui stesso era stato portato fanciullo da Brescia nel 1421, l'anno delle nozze della giovane pesarese. Di lei certamente aveva sentito parlare dai famigliari, con narrazioni che risalivano al concilio di Costanza. Navigando verso la Morea nel 1464, Sigismondo non poteva non avvertire il peso di una storia ormai lontana nel tempo e rimossa nella memoria politica, tuttavia sempre presente alla sua coscienza di principe indocile ma sapiente. Il suo sguardo era senza i sereni accenti immaginati dalla poesia di Basinio: la bella Cleofe aveva generato Elena "alle spiagge dolci di graziosa luce". Anche Elena era già scomparsa, a trent'anni, nel 1458.
Basinio aggiunge che il glorioso Malatesti aveva concesso a Cleofe d'andare ad uno sposo greco, essendosi degnato d'imparentarsi con gli antichi Achei. Non un greco qualsiasi, però, bensì un grande re. Che la condusse alle patrie rive. Sotto la retorica encomiastica di Basinio, c'è una verità storica: il ricordo di Cleofe era presente nella corte riminese, anche se il poeta nulla dice della sua sorte.
Con Sigismondo Pandolfo i Malatesti svolgono un ruolo politico europeo che ha salde radici. Il nonno di Cleofe, Pandolfo II, nel 1357 è a Praga ed a Londra, non soltanto per sparlare dei Visconti dai quali era stato umiliato, ma per svolgere una missione da agente segreto al servizio della Chiesa. Con la quale la sua famiglia si era rappacificata l'8 luglio 1355.
Antonio Montanari

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