Antonio Montanari

La BIBLIOTECA MALATESTIANA DI SAN FRANCESCO
A RIMINI.

a) 1420. La data inventata,
b) Il Novello di Augusto Campana,
c) Mal d'amore per Novello.


1420. La data inventata
Raimondo Zazzeri nel 1887 scrive: "Sigismondo Pandolfo Malatesti fece trascrivere vari Codici che donò alla Biblioteca dei francescani di Rimini, istituita nel 1420 da Pandolfo Malatesta, padre di Sigismondo e di Domenico" [1].
Nel 1420 Pandolfo III (1370-1427) era signore di Brescia e non di Rimini, guidata da suo fratello Carlo Malatesti il quale scompare senza eredi il 14 settembre 1429. Carlo Malatesti era pure vicario della Romagna. Il 24 febbraio 1421 finisce la signoria di Pandolfo III a Brescia. L'anno dopo egli diventa capitano generale della Chiesa, poi nel 1423 di Firenze.
La data della lapide riminese del 1490 (che ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello malsano a terra), era stata inizialmente letta appunto come 1420 dall'illustre Cesare Clementini, autore del "Raccolto istorico" edito nel XVII in due tomi (1617, 1627). Clementini inserisce la notizia nella biografia di Pandolfo III (libro ottavo, pp. 221-222).
Leggiamola: nel 1420 "fu data in cura, e governo la copiosa libraria fatta da Malatesti, mel Convento di San Francesco nostro a Gio. Barotti, Teologo, come nella scrizion, posta sopra la Porta della detta libraria in Pietra d'Istria si legge.
Princeps Pandulpho Malatestis a Sanguine Cretus, / Dum Galeotus erat spes, Patriaeque Pater, / Diuini eloquij interpres Barotte Ioannes / Sum tua cura sita hoc Biblioteca loco.
Hoggi anco in essa libraria benche diminuita assaissimo si vedono quattrocento pezzi de libri, la maggior parte manoscritti".
Il testo latino è questo: «Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490».
Ecco la traduzione: «Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490».
Una lapide sfortunata, questa del 1490, se ancora pochi anni fa (2001) il suo testo latino veniva reso scorrettamente in italiano.
L'errore di autorevole fonte consiste nel fatto che si è letto come «sum» quanto va trascritto come «summa».

A proposito della biblioteca aperta al pubblico e utile soprattutto agli studenti poveri, ricordiamo che, in apertura del convegno del 1952 sulla Malatestiana cesenate, Giuseppe Billanovich "identificava i veri fruitori delle biblioteche quattrocentesche nei cortigiani e non nei loro proprietari, per i quali esse erano tesori, ornamenti, oggetti di prestigio al pari dei reliquiari".
Per questo fatto, secondo Billanovich, "le librerie umanistiche non costituiscono un effettivo luogo di studio, ma piuttosto un serbatoio cui cortigiani e uomini di lettere, gravitanti nel medesimo circuito politico-culturale attingono volumi - proprio per questo andati spesso dispersi - destinati ad essere letti, ricopiati, collezionati".
Autrice di questi passi è Enza Savino che, nel saggio sui due "Plinii Naturalis historia" della Malatestiana cesenate, trattando di quello di Jacopo della Pergola osserva: Zazzeri sosteneva tale tesi "forse sulla scorta di Giuseppe Maria Muccioli". [2]
Padre Giuseppe Maria Muccioli di Santarcangelo è autore di un catalogo settecentesco [3], dove si trova: "In fine Codicis. Et completus fuit per me Jacobum Pergulitanum die XI. Octobris 1446 pro Magnifico et Potenti Domino Malatesta de Malatestiis Arimini".
Nel "Proemio" Zazzeri scrive: "Di un Codice fu donatore alla Biblioteca Malatestiana Sigismondo Pandolfo Principe di Rimini, fratello di Malatesta Novello (Pluteo XI, Cod. I, lato sinistro)".
Secondo Enza Savino (nota 30, p. 112), nel "Proemio" Zazzeri si contraddice rispetto a quanto sostiene a p. 338: il codice, trascritto per conto di Sigismondo, "passò per vie e motivi imprecisati dalle mani dei francescani riminesi a quelle di Giovanni di Marco".


Il Novello di Augusto Campana

Tanto di cappello ad Augusto Campana che nel 1932 scriveva: "Il Signore di Rimini, largamente sollecito, e cultore egli stesso, di lettere e d'arti, fu tuttavia prima di tutto un soldato e un uomo di governo; quello di Cesena, al contrario, fu tratto dalla non ferma salute e dall'indole a essere prima un mecenate e uno studioso che un uomo di stato e d'armi. Così anche la storia delle due città: mossa e commossa, tragica a volte, quella di Rimini, tranquilla per lo più quella di Cesena. A Rimini le opere della guerra, a Cesena quelle della pace. [...] Anche a Rimini le arti rinascenti e le lettere protette e onorate condussero al culto del libro, ma là il Signore è tutto preso dall'alterno gioco della politica, dalle opere militari, e dal sogno di eternare sé e la sua donna nel gran Tempio. A Cesena invece, cui manca lo splendore dei grandi nomi di umanisti, l'amore per il libro trova condizioni felici per tradursi in un'opera duratura di intelligente attività e di serena bellezza. [...] Anche quella di S. Francesco a Rimini (1490) è lecito credere che ripetesse lo schema cesenate; e aggiungerei quattro biblioteche claustrali bolognesi e tre romagnole (Imola, Forlì, Ravenna), se il fatto che erano disposte in due file di banchi, come sappiamo dagli inventari del cod. Barb. lat. 3185, bastasse ad asserire anche l'identità architettonica" [4].

Ci permettiamo di osservare:
1. La data del 1490 non indica la nascita della stessa Malatestiana riminese, ma il suo trasferimento al piano superiore, richiesto dal testamento di Valturio (clausola che i frati facciano edificare «unan aliam liberariam in solario desuper actam ad dictum usum liberarie»).
2. Ad indirizzare il povero Novello cesenate verso i libri non c'è soltanto la "non ferma salute" che ricorda Campana. C'è pure una dolorosa vicenda d'amore, verrebbe da dire. Ne riferiamo a parte. Ma c'è soprattutto quell'educazione umanistica che egli ha ricevuto alla corte di Rimini.
Elisabetta Gonzaga, donna colta e coraggiosa, moglie di Carlo Malatesti, si prende cura dopo il 1421 dell'educazione di Sigismondo e Novello, lasciati a Rimini dal padre Pandolfo III.
Elisabetta Gonzaga riversa su Galeotto Roberto, Sigismondo e Novello i frutti di una formazione intellettuale e politica di stampo umanistico, maturata nella famiglia d'origine e presso la corte riminese. Sa che la vita non è frutto del caso, ma dell'operare individuale, secondo il pensiero di Leonardo Bruni: il perfezionamento delle persone avviene «ex civili societate», sotto la guida della filosofia. Nella parte che tratta della politica e del bene comune, la filosofia «è quasi uguale nei filosofi pagani e nei nostri», scriverà Bruni a papa Eugenio IV. Bruni nel 1409 era giunto presso Carlo Malatesti, quale segretario pontificio per incontrare papa Gregorio ospite del signore di Rimini. Nel De studiis et litteris (1422-25), Bruni progetta l'incontro fra la tradizione cristiana e la filosofia greco-romana, offrendo un modello per la linea seguìta da Sigismondo nell'ideare il suo tempio [1]. Nel 1436 Bruni dedica la propria Vita dell'Alighieri a Battista di Montefeltro, moglie di Galeazzo di Pesaro.
Di Antonia da Barignano possiamo ipotizzare una silenziosa presenza accanto ai figli sino alla scomparsa di Elisabetta Gonzaga (1432). Se tollerata ed accettata, oppure soltanto ignorata, le cronache tacciono. Forse Elisabetta non volle privare Sigismondo e Novello della vicinanza della madre, che non considerava in contrasto con il proprio ruolo. Ad Antonia la cura degli affetti più intimi, a lei quella degli affari pubblici. Non un compromesso, ma un equilibrato progetto politico. Alle due dame non dovettero far velo né gelosie né egoismi. Lo scopo era eguale per entrambe, far grandi i due fanciulli sbalestrati da Brescia a Rimini in quella corte che si offriva quale «magistra vitae», con le disavventure presenti ed i successi passati. In essa i due giovani eredi maturano tramite le conversazioni con i dotti di passaggio, ed i libri letti e commentati assieme ai famigliari. Con una naturalezza nata dal desiderio di affinare gli intelletti alle prove future.

Questa parte sulla formazione umanistica è ripresa da un mio pezzo che si conclude con questa pagina:
Tra Novello (+1465) e Sigismondo (+1468) c'è un continuo scambio di idee e di materiali, così come fra Rimini e Cesena. Nel 1446 Jacopo della Pergola completa a Rimini un'edizione della Naturalis Historia di Plinio su ordinazione di Sigismondo che poi la dona a Novello (Malatestiana, S. XI. I). Nel 1451 Francesco da Figline prepara a Rimini un'altra edizione dello stesso testo per Giovanni Di Marco che nel 1474 la lascerà con tutta la sua biblioteca alla Malatestiana (S. XXIV. 5), dopo esser stato medico personale di Novello. Francesco da Figline passerà infine da Rimini a Cesena, come primo bibliotecario di quella «libraria».


Mal d'amore per Novello

Nel 1434 il sedicenne Novello, per iniziativa di Sigismondo, firma il contratto di matrimonio con Violante che aveva soltanto quattro anni e mezzo: è la premessa ad un accordo politico fra le loro famiglie che si erano continuamente combattute. Le nozze giungono otto anni dopo, il 4 giugno 1442 a Gubbio, dove la corte feltresca ogni anno soggiornava a lungo.
Lui ha 24 anni, lei soltanto dodici. Per questa sua età immatura ai fini coniugali, dopo le gioiose feste pubbliche i due giovani sono costretti alla separazione. Violante resta ad Urbino, poi è spedita a Roma, mentre sullo sfondo si delinea un inquietante quadro politico: «Il costretto ed indecifrabile soggiorno di Violante a Roma» aumentava il dissidio tra lei ed il fratello Federico, dopo la morte del padre Guidantonio nuovo duca d'Urbino, contro il quale s'indirizzavano le accuse dei nemici d'aver cacciato la sorella dalla propria casa e dai propri beni.
Violante, nella notte del 23 luglio 1444 quando cui venne ucciso suo fratello Oddantonio, fa voto di rimanere pura ed illibata per sempre. Immaginiamo quindi con quale spirito giunga tre anni dopo a Cesena, accolta dalla città come se le nozze fossero state celebrate il giorno prima. Passati pochi giorni Novello cade infermo per un'emorragia ad una gamba: l'imperizia del suo medico personale lo costringe a ricorrere alle cure di quello del fratello Sigismondo a Rimini. Scrisse Fantaguzzi che Domenico, «fattosi alazare una vena grossa d'una gamba», rimase storpiato.
Le cronache del tempo ricordano Violante bella quant'altri mai, semplice e mansueta, ma anche piena di ogni festevolezza. Nel 1458 avviene il dramma della sorella Sveva, accusata di adulterio e di tentato veneficio dal marito Alessandro Sforza, signore di Pesaro. Il fratello Federico, scrivendo al cognato duca di Milano, riesce a salvare Sveva dai malvagi tentativi del consorte (che per ben tre volte cercò di farle bere del veleno), rinchiudendola in un convento di Pesaro. «Profondamente scossa nell'anima, Violante volle farsi in qualche modo partecipe del dolore di Sveva», e decise di astenersi anche dal cibo. Ma pensò anche alla salute dei propri concittadini: il marito concordò con lei quando gli propose la demolizione del vecchio ospedale di San Gregorio fuori Porta cervese, per fabbricarne uno nuovo, detto del Crocifisso, nei pressi del duomo.
Novello muore nel novembre 1465 quando Violante ha 35 anni. Qualche tempo dopo, con il nome di suo Serafina, lei si ritira a Ferrara in un monastero dove scomparirà nel 1493.

La lunga parentesi sulle vicende famigliari di Novello serve soltanto a dimostrare che è molto arduo fare storia della cultura partendo dalle notizie psicologiche di un personaggio, come succede "a contrario" per Sigismondo Pandolfo Malatesti.
Di lui la Savino ha scritto che "secondo l'immagine consegnata dalla storiografia locale, non coltivò interessi da bibliofilo né tanto meno da bibliografo con la stessa costanza e passione del fratello". Le fonti citate in nota sono Antonio Piromalli (1953) ed Augusto Vasina (1978).
In difesa di Sigismondo ricordiamo quanto ne scrisse Valturio ("De re militari", XII, 13): alla biblioteca dei Francescani, Sigismondo dona «plurima denique sacrorum ethnicorum librorum, ac omnium optimarum artium volumina una donatione contuleris», «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline». Sono testi latini, greci, ebraici, caldei e arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci, da Aristotele a Cicerone, da Aulo Gellio al Lucrezio del De rerum natura, da Seneca a sant'Agostino, sino ad Diogene Laerzio ed alle sue Vitae degli antichi filosofi. Sono gli stessi autori che il ricordato medico riminese Giovanni di Marco, già in contatto con la corte malatestiana della sua città, morendo lascia nel 1474 alla «Libraria sive Bibliotheca» dei francescani di Cesena.
Per altre notizie, si veda il mio "Sigismondo, filosofo umanista".


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