Fellini nella storia di Rimini.
«La famiglia lo annoiava, la scuola lo esasperava...»

[2005]

Archivio 2013

Il 20 ottobre 1946 nel settimanale umoristico romano «Il Travaso delle idee», Federico Fellini ricorda l'inizio dell'anno scolastico in seconda liceo classico comunale a Rimini, e spiega in terza persona la sua regola di vita studentesca: «Fellini per onor di firma deve assolutamente arrivare tardi». Agli esami sostenuti nel luglio 1938 a Cesena nel regio istituto Vincenzo Monti, è stato bocciato in Cultura militare, materia riparata ad ottobre con un otto che impreziosiva una pagella magra come lui: tutti sei, tranne i sette di Greco e d'Italiano. Agli inizi del 1939 è andato a Roma. La famiglia lo annoiava, la scuola lo esasperava e Rimini non sembrava «offrirgli più niente» (Kezich 1988, p. 30). Federico ha già lavorato alla radio, in teatro, al cinema. Da tre anni è sposato con Giulietta Masina, e sta scrivendo assieme a Roberto Rossellini il copione di Paisà (tutto suo è l'episodio del monastero sulla Linea gotica con i frati che parlano il nostro dialetto, ibid., pp. 125-126). Nel 1972 racconterà la Rimini d'anteguerra in Amarcord (premio Oscar nel 1975), ritratto simbolico dell'Italia del Ventennio, applicando una sua massima: «Noi passiamo la seconda metà della nostra vita a cancellare i guasti che l'educazione ha fatto nella prima». Amarcord dimostra «come una città di provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani di un ‘poeta', l'ombelico del mondo» (Gori 1992, p. 11).
Il regista dei Vitelloni torna ogni tanto a Rimini di notte per riabbracciare la madre. È snobbato, felicemente ignorato o soltanto dimenticato dai conterranei. La gloria lo bacia in fronte, il suo nome gira per il mondo, ma i riminesi fanno finta di niente. Chi tiene le redini della città manovrando forzieri o firmando delibere, non ha tempo da dedicare ad un sognatore. Nella vita ufficiale, pubblici amministratori ed imprenditori d'assalto sembrano due mondi separati. Ogni tanto s'incontrano a metà strada, con precise intenzioni e non per fortuite occasioni. La riviera soffocata dal cemento e la città senza una decente viabilità nascono così. Fellini in Amarcord narra Rimini con quel misto di odio e di nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria, anche se il film «per l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e personaggi reali» (Kezich 2002, p. 38). Aggiunge gustose trovate per dimostrare che il vero di ogni racconto è frutto pure della fantasia. I concittadini non potevano amare un «poeta» che ironico sosteneva: la «mia» Rimini è una «dimensione della memoria». Oltretutto «inventata, adulterata, manomessa». E ricostruita a Cinecittà con l'aiuto delle immagini commissionate a quell'autentico maestro del foto-giornalismo che fu Davide Minghini (1915-1987).
Per Rimini, Fellini è stato uno psicoanalista invisibile ma temuto. La città non ha mai bussato alla sua porta. Il regista ha reagito con una di quelle magie che lo affascinavano. Ipnotizzandola quasi per amabile dispetto, le ha fatto compiere gesti inconcludenti come la promessa di una mai donata casina sul porto, alla festa in suo onore il 25 settembre 1983 nel Grand Hotel. D'altra parte lui non avrebbe saputo che farne, abituato a vivere nella Roma dalle eterne seduzioni che ne facevano la «metafora della grande madre prostituta» (Kezich 1988, p. 423). Rimini restava una cartolina un po' appassita come le viole del pensiero spedite un tempo dalle fidanzate timide. Alla fine ci fu la malattia proprio nel luogo felliniano per eccellenza, il Grand Hotel illustrato in Amarcord. Nel 1993 il funerale a Federico di ritorno da Roma, con un affollato abbraccio riappacifica tardivamente la città con lui. L'anno dopo se ne va anche Giulietta Masina. Riposano insieme nel nostro cimitero.
Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre presente. Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa. Tutta sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.
Bibliografia
Gori 1992, Gianfranco Miro Gori, A come Amarcord, Rimini, Guaraldi
Kezich 1988, Tullio Kezich, Fellini, Rizzoli, BUR, Milano
Kezich 2002, Tullio Kezich, «Amarcord», le memorie di Fellini premiate con l’Oscar, «Corriere della Sera», CXXVII, 308, 22 dicembre 2002, p. 38
Antonio Montanari

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