Riministoria-il Rimino
Lo sconosciuto Giuseppe Antonio Barbari.

Giriamo pagina, soffermando la nostra attenzione sulla figura di Giuseppe Antonio Barbari, un filosofo dimenticato. Nel 1692 Bologna gli propose la cattedra di matematica. La notizia è finita nel dimenticatoio creato dalla cultura nozionista, astratta ed inconcludente che ha preso piede presso gli storici «autorizzati» di ogni tempo e stagione.
Il 5 aprile 1757 Giuseppe Garampi scriveva da Roma al proprio maestro Giovanni Bianchi (Iano Planco) di aver ritrovato fra le «carte di questo mio archivio varie lettere di un tal Giuseppe Antonio Barbari di Savignano scritte a Monsignor Giovanni Ciampini in materie fisiche con un estratto d'un libro da lui pubblicato in Bologna nel 1678 con titolo L'iride, opera fisicomatematica. Di questo Barbari da Savignano io non ne avevo giammai avuta notizia alcuna».
Bianchi conosceva la famiglia Barbari per aver avuto fra i suoi primi scolari don Innocenzo che nello stesso 1757 è curato della parrocchia di Santa Maria del Mare a Rimini: così il 14 aprile risponde a Garampi, aggiungendo che Giuseppe Antonio era parente «di que' Barbari di Verucchio de' quali qui avemmo un Medico, che dimorò in Rimino da trent'anni, e poi ritornò a Verucchio a fare il Mercante da Seta, e che morì due o tre anni sono».

Circa Giuseppe Antonio, Bianchi precisa: «Quel Barbari di Savignano fu in Bologna scolaro del Montanari, e credo anche del Cassini, e fu condiscepolo ed amico del Guglielmini, con quale tenne carteggio per cose fisico-matematiche, e specialmente per cose astronomiche finché visse il Guglielmini. Essendogli morto un figlio in età di 20 anni, ed una sua figliuola essendosi fatta monaca in Roncofreddo mi pare che egli si ritirasse tra Filippini di Cesena. Avea varj libri matematici, che acquistò un tal Venturucci di Savignano, alcuni de' quali passarono nelle mani di Giovanni Maria Cella Mastro di Casa del Sig. Andrea Battaglini, che si compiaceva di cose matematiche. Quel libro dell'Iride del Barbari si ritrova nella Libreria Gambalunga stampato in Bologna l'anno 1678 avendo nell'anno 1677 il Guglielmini stampata una lunga dissertazione sopra una fiamma volante osservatasi in Faenza, ad imitazione della quale il Barberi dovette stampare questo suo libro dell'Iride».
Bianchi non possedeva nella propria fornita biblioteca l'«Iride», il cui titolo completo è «L'Iride opera fisicomatematica di Giuseppe Antonio Barbari da Savignano nella quale si espone la natura dell'arco celeste, e si commenta il testo oscurissimo d'Aristotele De figura iridis nel terzo delle meteore». Il Venturucci di cui parla Bianchi, potrebbe essere il notaio savignanese Giacomo Antonio, di cui in Gambalunghiana si conserva un testamento rogato nel 1699 per Matteo Bertozzi di Borghi, nel quale si legge però il cognome «Venturacci».

Il breve profilo biografico di Giuseppe Antonio Barbari poteva soddisfare la curiosità di Garampi e fornirgli una prima traccia del percorso culturale compiuto dal savignanese. I nomi indicati da Bianchi sono quelli di figure illustri nella storia della Scienza italiana, come Cassini, Guglielmini e Montanari; e di personaggi di un qualche rilievo nella nostra vita culturale cittadina come Cella. Suo ex allievo e studioso che lo stesso Bianchi considerava erudito «in mathematicis», Cella fece parte del nucleo originario dei Lincei riminese (1745), assieme allo stesso Garampi.

Gian Domenico Cassini (1625-1712) fu il successore per Matematica a Bologna del gesuita milanese Bonaventura Cavalieri (1598-1647), dal 1650 sino al 1669 quando si trasferì a Parigi su chiamata di Colbert. A Cavalieri, amico di Galileo, certamente più matematico che astronomo, va il merito di aver dato un contributo decisivo nella diffusione dello spirito galileiano a Bologna. Dalla lista superstite delle lezioni che egli impartì nel 1643 sappiamo che egli insegnava le basi del sistema copernicano e questo solo pochi anni dopo la condanna di Galileo. In Italia ed in Francia (dove la sentenza di condanna della Chiesa nei riguardi di Copernico fu fatta osservare con rigore anche maggiore che non negli stessi domini papali), Cassini ricercò con esiti positivi prove della validità del sistema eliocentrico. Egli esaminò soprattutto la questione della validità o meno, nei cieli, della fisica peripatetica. Affrontare questo problema era legittimo dato che la Chiesa, nel condannare le idee copernicane, si era astenuta dal fare ufficialmente propria questa fisica.
Alla morte di Cavalieri la scuola galileiana bolognese non presentava più personalità di rilievo. In questo periodo emergono figure di spicco non nello Studio, ma fra i Gesuiti.
Non mancano, tuttavia, in questo periodo, segnali opposti all'anticopernicanesimo gesuita, come la pubblicazione, proprio a Bologna, delle opere di Galileo, anche se incomplete, mancando, ovviamente «Il dialogo dei massimi sistemi».
Si ricollegano al filone galileiano il matematico Geminiano Montanari (1633-1687), ed il medico e biologo Marcello Malpighi (1628-1694), docente di Medicina teorica dal 1666 al 1691, che fu il primo ad usare il microscopio per lo studio sistematico delle strutture animali e vegetali. Nessuno dei due ebbe a Bologna vita facile: Montanari, probabilmente, anche a causa della sua netta presa di posizione contro l'astrologia.

Il modenese Geminiano Montanari (dopo la laurea in Giurisprudenza all'Università di Salisburgo, studiò matematica e astronomia a Vienna sotto Paolo del Buono, uno degli ultimi allievi di Galileo. Dal 1661 a Modena fu filosofo e matematico del duca Alfonso IV, alla cui morte due anni dopo, si trasferì a Bologna dove come strumento di misura applica il reticolo al fuoco di un cannocchiale per le osservazioni planetarie, realizzando una splendida «icon lunaris», una delle più accurate e vicine al vero del XVII secolo.
Nel 1664, il Senato bolognese lo elesse alla cattedra di matematica dello Studio, dove si trattenne per quattordici anni fino a quando, nel 1678, quando passò all'università di Padova dove, oltre alla cattedra di «astronomia e meteore», creata espressamente per lui, ricoprì vari incarichi pubblici per conto della Repubblica di Venezia.
Sia a Bologna sia a Padova si dedicò, con la preziosissima collaborazione alla moglie Elisabetta Dürer, all'ottica pratica e di molatura di lenti per cannocchiali.
A Bologna nel 1655 fondò l'«Accademia della Traccia o dei Filosofi» che già nel titolo riassumeva il proprio scopo, rintracciare «per l'istessa via dell'esperienza la vera cognizione della natura». Essa, ha scritto Marta Cavazza, «svolse una notevole funzione di rinnovamento culturale, per la centralità della medicina nell'ambiente bolognese e per l'influenza esercitata sulla formazione del giovane Malpighi» (p. 891). E Malpighi, come osserva Ezio Raimondi, porta alla nuova cultura un solido contributo, invitando a considerare non «così facile, come altri pensa» il mestiere dell' «osservatore» perché esso richiede, oltre a «grandissime cognizioni per dirigere il metodo, copiosissime serie d'osservazioni per vedere la catena e il filo che unisce il tutto, una mente disappassionata con una finezza di giudicio»: «non è mestiere per tutti».

Geminiano Montanari è uno degli innovatori degli studi matematici: nel 1678 quando si trasferisce a Padova, il suo ruolo passa a Domenico Guglielmini (1655-1710) che diventa lettore dal 1689 al 1698, formando quasi l'intero gruppo che all'inizio del Settecento introdusse in Italia l'analisi. Guglielmini fu Sovrintendente alle acque e collaboratore di Domenico Cassini nel restauro della meridiana di San Petronio: la lunghissima linea che ancora oggi si ammira nel pavimento della chiesa e che andò a sostituire la meridiana realizzata ottant'anni prima, consentì una accuratezza nelle misure pari a quella che sarebbe stata raggiunta con i nuovi strumenti forniti di cannocchiali solo oltre mezzo secolo dopo.

L'ambiente bolognese fa da sfondo alla vita intellettuale di Barbari, non soltanto perché, come scrive Bianchi a Garampi, il savignanese vi era stato «scolaro del Montanari», ma soprattutto perché, secondo quanto si legge in una biografia composta da Giuseppe Ignazio Montanari, ed apparsa nel 1837, nel 1692 Barbari era stato «invitato alla cattedra di matematica» di quella Università. Cattedra a cui rinunciò «per sola umiltà».
Ad un bolognese che era stato suo compagno di studi, il generale Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) fondatore dell'Istituto delle Scienze, Barbari lascia il meglio dei suoi scritti. Un cronista savignanese del Settecento, Giorgio Faberj scrisse che Barbari «aveva corrispondenza con li Dottori della Sorbona»: forse il destinatario principale di quelle epistole fu Domenico Cassini che, abbiamo già visto, si trasferì da Bologna a Parigi nel 1669.

Il monsignor Giovanni Giustino Ciampini (Roma, 1633-1698) di cui parlava invece Garampi come corrispondente di Barbari, è uno studioso d'antichità classiche e medioevali, con una vasta produzione di cui si legge che andò a detrimento degli approfondimenti dell'indagine storica.
Oggi è ricordato perché la zona di Ciampino deriva il nome da un suo casale, conosciuto attualmente come Villa San Raffaele. Le lettere che Barbari inviò a Ciampini tra 1691 e 1697, furono ricordate da Giammaria Mazzuchelli nel vol. II, tomo primo degli «Scrittori d'Italia» (1758) p. 243.
Esse sono in Gambalunghiana tra le carte garampiane, come già annotò Luigi Tonini alla carta 206 del manoscritto 1306, «Memorie di scrittori» riminesi. Di esse sono riuscito a trovare traccia grazie alla dottoressa Paola Delbianco: sono in SC-MS. 230, «Lettere e documenti vari...».
A carta 213 del ms. 1306, Tonini riproduceva passi di due epistole di Barbari a Ciampini del 1691. Nella seconda affronta il tema del «mostro bicorporeo» di cui aveva ricevuto la figura, esponendo la sua opinione: tali fenomeni non dipendono da due uova cadute nello stesso tempo nell'utero, ma da uno solo «composto da due, dome nelle prugne e nelle cerase spesso si vede».
L'accenno dimostra l'attenzione di Barbari rivolta ai vari temi scientifici, che appare anche dalla prefazione all'«Iride». Su questa prefazione torneremo per comprendere l'importanza di un filosofo dimenticato, che Luigi Tonini nell'indice delle «Memorie di scrittori» definiva addirittura come «antiquario», cioè studioso d'archeologia.

Le parole di Tonini hanno una prefigurazione profetica in un passo di Barbari, avversario del dogmatismo aristotelico. Lo trascriviamo dalla cit. edizione bolognese presso Manolessi del 1678.

[pp. I-XI]
«Crederemo noi, ch'egli [Aristotele] approvasse che quelli li quali si vantano della di lui famiglia, fermandosi sù le parole de suoi testi, e quietandosi alle ragioni, che ivi si portano, senza dubbitarne punto, senza essaminarle prestassero loro una cieca credenza? Filosofi per certo migliori, anche al giudicio d'Aristotele stimar si devono que' moderni, li quali per disingannare tanti giurati mantenitori delle opinioni di chi che sia, hanno egregiamente mostrato, come posta sotto il piè ogni minima autorità si può ostinatamente, anzi si deve Filosofar sù l'opere della Natura. Si era in verità à poco à poco, ne secoli andati, ogni scienza ridotta ad un arte di contradire; avevano li professori di quelle degenerato in meri sofismi, essendosi per loro scopo principale previsto il diffendere, ò confutare in qualche maniera, e senza riguardo alla verità del fatto, ogni conchiusione, che loro venisse proposta; intenti, e deliberati di voler sostenere per vero, e condannare, come falso ogni concetto, che tale fosse stato giudicato dal loro maestro, à bella posta gli occhi ben chiusi tenevano per non vedere in Natura cosa, che a' sentimenti loro ripugnar potesse. Al nostro secolo anche per altri capi memorabile, e glorioso si deve finalmente il vanto di haver restituita la libertà alla Filosofia, e resala di serva, e schiava ch'ell'era dominante, e padrona. Al famosissimo Galileo, e altri bellissimi spiriti Italiani, e stranieri, dobbiamo la gloria di haver liberata e sciolta la Natura stessa da que' ceppi strettissimi, ne' quali per l'adulazione, ò più tosto scempiaggine di moltissime delle sentenze d'Aristotele, e d'altri ell'era stata imprigionata, e infelicemente ristretta. Alla natura delle cose adunque, alla verità del fatto, all'esperienze sensate (io dico) resituito il proprio luogo di base, e fondamento d'ogni umano discorso, di già vediamo à quella servir gl'intelletti, e accomodarsi le specolazioni de moderni Filosofanti, di modo che non più cose alle parole, ma le parole alle cose, si come è conveniente, si addattano. […]
Non abbiamo tantosto lasciato di farci condurre ciechi volontarij à colui, quale per nostra guida avevamo eletto, che subbito aperti un pò gli occhi, senza punto esaminare qual cammino intraprendiamo, dovunque ci par vedere qualche vestigio di strada ci vogliamo inoltrare; anzi pure ove non è strada alcuna quivi cerchiamo avanzarci, e allora solamente pensiamo di far buon cammino, quando ò al contrario delle strade tessute da gli altri, ò dove altri non ha già mai posto il piede, intraprendiamo à battere nuovi, e disastrosi sentieri. Mà ben conoscono alcuni più accorti, che l'esperienze sensate, e le apparenze corrispondenti à qual si sia cognizione non possono essere in tanto gran numero, che bastino per conchiuderne la necessità; ove per il contrario un solo accidente, una sola apparenza, alla quale sodisfar non si possa, dà sofficiente motivo, perche resti convinta di falsità. Quindi è, che non ardiscono questi alzar di facile, com'altri, fabriche mirabili di nuovi sistemi in Natura, sconvolgendo, per così dire, l'universo sossopra, ò pure à tali contigenze ridotti, si protestano, che non per verità certe e necessarie, mà come verisimili, e probabili posizioni intendono di spacciare le loro fantasie.
Libera adunque da ogni inconveniente, e ottima per ogni capo sarà una terza maniera di filosofare, se non ributtaremo, ne [né] approveremo alla cieca le speculazioni, e le fatiche degli antichi, mà facendone essame diligentissimo, cimenteremo li loro detti qualche volta falsi, con l'opere della Natura sempre veritiera. In tal guisa avverà, che e quelli, e queste insieme serviranno alle nostre inquisizioni, mentre ci mostraranno le sentenze de Filosofi precedenti d'onde abbiamo a prender le necessarie esperienze, e a qual uso servir ci dobbiamo delle già trovate al nostro proposito; e le sperienze vicendevolmente ci appriranno molte volte li sensi più chiusi, e ci faranno perfettamente intendere le sentenze più oscure di quei Savij, e in oltre ci assicuraranno della verità, e falsità di esse.
Propostoci un quesito cercaremo, che cosa ne abbiano determinato li migliori Filosofi; osservaremo sopra quali ragioni, sù quali esperienze sian le loro opinioni fondate, indi conforme, che le trovaremo ben assodate, e stabilite, ò pur al contrario di poca sussistenza, e fermezza, concordi, ò pur discordi da altri naturali esperimenti, liberamente giudicaremo della verità, e falsità di quelle; e simili, ò vero contrarie alle loro poneremo le nostre conchiusioni; succederà in questa maniera, che noi con utilità nostra indicibile verremo ad haver per compagni, e come aggiutanti de nostri studii quegli uomini dottissimi; e facendo delle loro dottrine con accuramente essaminarle, quel conto, che siamo tenuti, arrichiremo di preziose cognizioni il nostro intelletto, senza che prestiamo loro quella ferma credenza, o cieco assenso, che à gli oracoli divini solamente si deve.
E quanto al nostro vero fine sopranaturale, e chi non vede, che una tale Filosofia toglie di mano il coltello, leva l'occasione del precipizio à quei pazzi furori, e empij insieme, de quali, altri perche troppo credono à Platone, ad Aristotele, à Democrito, ad Epicuro, non credono à sufficienza à Christo, e al Vangelo; altri prorompono in qualche bestemmia, allora che pensando aver molto bene inteso tutto ciò, che v'hà possibile à sapersi in Natura vogliono troppo temerarij divisare, giusta quello, che portan li loro poco sani intelletti de gli arcani astrusissimi di nostra Fede? Se leviamo ogni momento, ogni forza all'autorità di qualsivoglia Filosofo; se riduciamo tutta la nostra scienza à riconoscere non solo il suo principio, ma il progresso, e l'avanzamento ancora dalle apparenze sensate, vi sarà chi non capisca, che da tali principij, e da tale scienza non possono aver gli uomini argomento alcuno, e molto meno dimostrazione perfetta circa le cose insensibili, e sopranaturali, quali solo sono ogetto della Fede; e che però alle verità rivelateci, e a forza di miracoli massimi, e inumerabili a noi persuasi, col sangue di tali, e tanti Martiri, e con l'approvazione d'infiniti uomini per la prudenza, integrità di vita, e dottrina inarivabile confirmate, dobbiamo divota soggezione, che le creda, e non una temeraria curiosità, che la ricerchi?
Ah che non si ritrova, e non si è già mai trovata quella scienza, che orgogliosamente deffinita abbiamo per una cognizione certa, e evidente delle cose, per mezzo delle loro cause ottenuta. Quei dottissimi ancora de quali doppo tanti secoli vive gloriosa memoria, se penetraremo al fondo li sentimenti loro, evidentemente ci apparirà, che una sola minima conchiusoncella non hanno saputo, non hanno potuto veramente dimostrare. In somma egli è verissimo, che Iddio Mundum tradidit disputationi eorum, ut non inveniat homo opus quod operatus est Dominus. Anzi io credo a punto, che a gl'huomini sia stato nelle Matematiche concesso un tal saggio della vera scienza, perche resti abbattuta, e rintuzzata la superbia di coloro, quali non conoscendo il pochissimo, ò niente, che sanno, si persuadono di possedere una ben distinta cognizione de secreti più reconditi della Natura, e dell'Autore di quella. Un saggio solamente, come dissi, e questo ben imperfetto della vera scienza, anche nelle Matematiche noi abbiamo, e non è da dubitarne; poiche oltre ogn'altra opposizione, che addur si potrebbe, ecco, che se delle astrazioni loro proprie le ritogliamo per congiungerle à qualche ogetto degli esistenti in Natura, perdono tantosto quella loro necessità, e seguendo la parte più debole alla incertezza delle naturali nelle scienze medie declinano. Mà, vaglia il vero, la Filosofia, e in particolare la naturale, cioè quella, che tratta degli enti sensibili, e delle affezioni, e cause loro; non hà già cominciato a questi tempi ad esser trattata a forza d'esperimenti sensati, perche se bene quelli li quali ultimamente hanno professato tale scienza avevano perduto insieme l'essercizio, e l'uso delle sperienze; nulladimeno li più antichi, e li Principi delle Sette quali di proprio capo filosofarono, e sopra quelle posero il fondamento delle loro opinioni. Anzi, se io non m'inganno, la sola Analogia, che scontrarono paragonado gli effetti men cogniti, e l'opere di Natura più astruse con altre più manifeste, dirà loro in tutto, ò per la maggior parte il modo di sciogliere ogni quistione, e render qualche ragione di ogni accidente sensato.
Et in ciò forsi consiste tutto il più profondo di ogni nostra scienza, e non è rimasta a noi altra maniera d'investigare le incognite cagioni, e di essaminar le già trovate ragioni di qual si sia effetto di Natura, se non ricorriamo all'Analogia di qualche altro simile accidente più cognito. Applichiamo allora (anche senza avvedercene alcuna volta, perche questo è un metodo innato in noi, e inseritoci nell'animo dalla Natura) con qualche proporzione al primo caso men noto, e se troviamo, che da quella posizione posta per vera ne sieguono gli effetti quali si sperimentano in Natura, concludiamo d'haver trovata una buona ragione, e per il contrario siamo certi d'haver malamente filosofato allora quando non s'accordano con quello, che il senso ne mostra le conseguenze le quali sieguono necessariamente la nostra posizione. In tal caso però andiamo investigando ancora, ò in quel medesimo sogetto, ò pure in altro una qualche simile Analogia, e alcune volte ne componiamo, quando ci torna commodo, di avolte insieme sin tanto, che ci troviamo aver fabricata una posizione, che sodisfacia a tutti gli accidenti, e sensate apparenze. Vero è, che anche questo metodo non è bastante per procacciarsi una cognizione scientifica, e infallibile di quello, che ci habbiamo proposto, perche sarebbe necessario dimostrare, provar concludemente, che in nisuna maniera diversa da quella, che noi proponiamo salvar si potessero tutti gli accidenti, e apparenze di quel sogetto. Mà una tal dimostratione è impossibile, già che infinite sono le posizioni imaginabili quali tutte potrebbero servire a tal effetto, e di quì aviene che molte volte ne incontriamo diverse, le quali perfettamente sodisfannno al nostro bisogno, e però il nostro intelletto dubbioso allora, e irresoluto più che mai, non avendo onde appigliarsi più all'una, che all'altra di tali posizioni, riconoscendole tutte per possibili, si avede, che di quel sogetto aver non puote scienza alcuna, ne meno probabile. Che se mi sarà richiesto perche non essendo ne meno questo modo di filosofare, abile a farci conseguire una cognitione certa, e scientifica delle cose, lo preponiamo nulladimeno a quello delli Aristotelici d'oggi dì; dirò, che almeno in una tal maniera si cerca di dimostrare alcune cose men note, e più dubbie per mezzo d'altre più cognite, e più certe, e non aviene a noi, come à quelli, che le premesse sono sempre ò più, ò egualmente incerte, e incognite, come le conchiusioni espresse alquanto differentemente, in modo, che ogn'uno, che dubbita delle conchiusioni, hà ragione di dubitar maggiormente delle premesse. Vedasi il Chiaramonti gran Filosofo Peripatetico nella sua Fisica Risolutiva, ecc.
In fine, che questo e non altro sia stato il metodo, col quale hanno filosofato Platone, Aristotele, Democrito, Epicuro, e gli altri migliori Filosofi, oltre à quello, che essi hanno lasciato scritto in diversi luoghi dell'opere loro, e ciò che ne ha detto Galeno, gran fautore di questa dotrina, basterà per conoscerlo evidentemente, e restarne pienamente persuasi, considerare con diligenza, qual ci sia delle quistioni, che hanno trattate, e andar investigando, onde abbiano dedotti li principij fondamentali, sopra de quali si reggono quelle smisurate fabriche delle loro specolazioni, e trovaremo per certo, che la sola Analogia predetta ha prestato tutto il fondamento.
Cercavano li Peripatetici, (e sia per modo di essempio) quali si fossero le cause di quell'accidente, che è comunissimo à tutti gli enti sensibili, dico della mutazione, che tuttogiorno in quelli scorgiamo, e incontratisi ad oservare nelle cose artificiali un simile accidente, mà di natura più cognita, perche la mutazione di tale dipende da gli uomini, quali ora le fabricano, ora le distruggono, notorno, come al farsi delle dette cose artificiali vi concorrono, primo l'artefice, che le fabrica, cone il Fabro, lo Scultore; secondo, la materia, della quali si fanno, come ferro, pietra, ò legno; terzo, la forma, ò figura della cosa da fabricarsi, e questa à apunto è cagione, che questo pezzo di legno sia una Statua, mentre il rimanente dell'altro nella figura solamente differente resta un tronco, ò pure un Scanno per quanto in somma, e per ultimo vi concorre il fine, cioè, ciò che muove l'artefice à far qualunque opera, come per ornamento delle case, e de tempij, si fanno le Statue, per sedere aggiatamente lo Scanni. Applicarono adunque li Peripatetici tutto ciò che nelle cose artificiali avevano osservato alle naturali, e trovando, che non ripugnavano in modo alcuno, mà più tosto mirabilmente concordavano li conseguenti di una tal posizione con gli effetti, che sperimentiamo in Natura, conchiusero, che per render ragione della mutazione delle cose naturali si dovessero assegnare per cause esterne l'efficiente, e il fine; e per interne, e costituenti due cose componenti li sogetti medesimi, delle quali per similitudine sudetta, una chiamarono materia, e forma l'altra.
E per à punto di qui è, che nelle quistioni più difficili, che circa questa materia, e queste forme vanno gli Aristotelici tutto il giorno facendo, come per ispegare la dissidenza, che dalla materia hanno esse forme, e la deduzione di questa dalla potenza di quella (come dicono) sono forzati ricorrere alle mutazioni accidentali, e alla dipendenza, che hà dal marmo la forma della Statua, da ferro la forma della Spada. Anzi Aristotele medesimo nel settimo della Metafisica, volendo sciogliere la contradizione, che trovava frà il suo assioma ex nihilo fit, e la generazione delle forme (le quali è pur necessario si faccino di niente, altrimenti s'incorrerebbe in un processo in infinito) conchiuse con una similitudine delle cose artificiali, dicendo, che non fit aes neque sphera, sed aenea sphera.
Insomma à me pare, che tutta la nostra scienza, e più evidentemente quella parte, che naturale si addomanda, sia sopra tali Analogie, e similitudini fondata; e che il sapere consiste nel poter dar ad intendere à se stesso, ò spiegar ad altri con qualche essempio ben noto, e sensate esperienze, ciò che occultamente si fà in Natura; e che in sostanza non abbiamo altra certezza, ne altra evidenza, che vere siano tali posizioni, se non quella, che loro si deve, perche sodisfano à tutte le apparenze proprie del proposto soggetto, e non ripugnano à niuno di tanti altri accidenti, che si osservano in Natura.»
[p. 31]
«Chi non fosse à pieno sodisfatto di questa dottrina, e vi trovasse cose da apporre veda di questa materia Renato des Chartes, e il Gassendi nelle Meteore, e il P. Grimaldi Giesuita nella sua Fisicomatesi De Lumine Coloribus et Iride».

Cultura a Rimini tra 1600 e 1700. Indice.
Antonio Montanari

"Riministoria" è un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", Ë da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 07.03.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 05.08.1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67, 21.03.2001. © Antonio Montanari. [2057, 29.06.2014, 18:00]. Mail
Antonio Montanari 47921 Rimini. Via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173