Riministoria-il Rimino
Documenti su Giuseppe Antonio Barbari
e la Nuova Scienza in Emilia-Romagna

1. Carlo Tonini, ovvero quando il Seicento provoca il «riso»

A Carlo Tonini, quando inizia a parlare del Seicento nella sua celebre storia della cultura non soltanto «letteraria» ma (si badi bene) pure «scientifica» (1884), «si desta spontaneo sulle labbra un riso» (p. 2, II parte).
Tonini spiega sùbito perché: «ci ricorre alla mente quanto di bizzarro di strano e di ridevole ebbe deformate in tal secolo Lettere ed Arti».
Con il che si vede quanto poco gl’interessasse parlare della cultura «scientifica», oltre che di quella «letteraria» che riassume nella suprema e superba sintesi del «bizzarro, strano e ridevole».
Tonini come spiegazione aggiunge che quel secolo è «delirante» per le «bizzarrie, e stravaganze, e ridevolezze» che troviamo «eziandio fra noi» (ovvero a Rimini), come fonte di «piacevole trastullo». Ma quella di Tonini non è una spiegazione, bensì una semplice ed inutile tautologia.
Tonini poi avverte il lettore che il Seicento però fu anche il secolo di Galileo, Redi, Bartoli e Segneri, quasi ad invitare ad una moderazione del «riso» nel pensare a quel periodo.
Ciononostante, resta il fatto che, delineando un bilancio così negativo proprio ad apertura d’argomento, Tonini da una parte condiziona il lettore (influenzandolo con il suo pregiudizio) nell’illustrazione della realtà locale; e dall’altro rivela pienamente in quale ambiente culturale egli si fosse formato, e come ne fosse severamente condizionato al pari comunque d’altri autori a lui contemporanei.
Non vogliamo con ciò discolpare Carlo Tonini, il che sarebbe un’impresa inutile, visto che non è mai stata tentata sul versante dei suoi strenui e dotti estimatori. Impresa che, occorre ammetterlo, avrebbe messo in discussione anche le idee di chi ne parlava esaltando al sommo grado le presunte qualità storiche del Nostro. Il qual fatto presuppone però il possesso pure di idee (scientifiche e non solamente letterarie), oltre che di una sana e robusta erudizione in chi ne tesseva gli elogi.
Non vogliamo discolpare Tonini, dicevamo, ma soltanto documentare una realtà intellettuale che si manifesta anche in momenti precedenti del nostro (nel senso di «romagnolo») Ottocento, ricordando che nel 1837 Giuseppe Ignazio Montanari definiva il Seicento un «secolo corrotto» componendo la biografia di Giuseppe Antonio Barbari (p. 318).
Giuseppe Ignazio Montanari, pubblico professore d’eloquenza in Pesaro, e poi nel Nobil Collegio d’Osimo, appartiene alla cosiddetta «Scuola classica romagnola» i cui «esponenti di spicco o epigoni» sono Paolo Costa, Dionigi Strocchi, Giulio Perticari, Bartolomeo Borghesi, Cesare Montalti, Giovanni Roverella, Francesco Cassi, Giovanni Marchetti, Giuseppe Emiliani, Eduardo Fabbri, i fratelli Ferrucci, Michele e Luigi Crisostomo, Francesca Pignocchi, Filippo Mordani, «e giù giù fino a Terenzio Mamiani e Giosue Carducci».
Così scrive Pantaleo Palmieri dal quale abbiamo ripreso l’elenco degli «esponenti di spicco o epigoni», precisando giustamente che essa Scuola dovrebbe essere definita non soltanto «romagnola», sibbene «emiliano-romagnola e marchigiana», «volendone meglio individuare i confini geografici», perché i suoi illustri componenti (filologi amanti di «una filologia che non è né scienza né tecnica, sì gusto e studio della parola in un quadro storico ben definito), archeologi, trattatisti della lingua e dell’arte, furono «attivi tra Pesaro, Senigallia, Savignano, Cesena, Ravenna, Faenza e Bologna», sì in quella Bologna proprio di Carducci già ricordato.
Tonini cerca di salvare qualcosa della cultura secentesca, come si è visto: ricorda Galileo, di cui non appare il nome nell’indice dell’opera, come a sentenziare un’estraneità reale non soltanto simbolica. Ed a suggerire a noi lettori che forse quella è l’unica occasione in cui esso appaia.
Poi Tonini cita il medico e naturalista Francesco Redi, non sappiamo se per il suo Bacco in Toscana, nota celebrazione del vino di Montepulcano, o se per gli scritti scientifici sul veleno delle vipere e la generazione degli insetti, con i quali Redi pone le basi della biologia sperimentale precorrendo gli studi di Spallanzani contro la teoria della generazione spontanea. Redi è altrove, nello stesso volume, citato da Tonini per aver egli composto un sonetto in morte di Filippo Marcheselli, poeta e nobile riminese scomparso a soli 33 anni nel 1658.
Dopo Galileo e Redi, Tonini rammenta quel Daniello Bartoli autore della Storia della sua Compagnia di Gesù, e dei racconti sulle missioni presso gl’infedeli. Dello stile di Bartoli scrisse Giosue Carducci che era «magnifico» tale da paragonarsi a quello di Livio, come raccontava Natalino Sapegno aggiungendo che invece Pietro Giordani lo reputava «terribile e stupendo».
Pietro Giordani è fautore di un classicismo letterario di base cinquecentista, che fosse restaurazione dello stile illustre nella prosa senza affettati arcaismi, assumendo una posizione equidistante sia dal Purismo sia dal Romanticismo che costituivano per quegli intellettuali i drammatici corni d’altrettanto drammatici dilemmi presenti in ogni atto del vivere quotidiano: quello che per quegli intellettuali contava non era il valore del contenuto, ma il problema formale.
L’apprezzamento che s’appalesa in Tonini verso Daniello Bartoli, può a noi suggerire la linea di demarcazione che dobbiamo porre attorno alle parole di Tonini stesso, per distinguere i territori ‘illuminati’ dalla luce della Nuova Scienza su cui possono girovagare tranquillamente Galileo e Redi, dalle zone più tenebrose in cui la luce della Ragione fatica a penetrare se non del tutto è graziosamente respinta: ed è qui, in una foresta oscura, che risiedono nella placidità del continente letterario («hic sunt leones») Daniello Bartoli e l’altro gesuita ricordato in Tonini, Paolo Segneri i cui testi in prosa sono esemplari come documenti delle riproposta d’una tradizione cinquecentesca.
Dunque, nella pagina di Tonini il giudizio negativo sul Seicento, è attenuato dalla postilla in cui egli accosta il nuovo della prosa scientifica (Galilei e Redi) al vecchio che è l’imitazione dei modi classicisti che partono dal Cinquecento ed attraversano indenni sia il Seicento sia il Settecento, per poi orgogliosamente riproporsi in questo Ottocento iniziale di Pietro Giordani, o un poco più avanti nel tempo di Giuseppe Ignazio Montanari.
Uno studioso che non ama Carlo Tonini forse per motivi ideologici, Antonio Piromalli osserva correttamente che nel Nostro «classicista» s’avverte l’influenza di Pietro Giordani, autore nel 1816 della nota risposta alle celebre lettera di Madama de Staël sulla maniera e l’utilità delle traduzioni apparsa nella «Biblioteca Italiana». Giordani vi esaltava le radici classiche della nostra letteratura. Piromalli su Tonini (da lui definito «misoneista»), sostiene il Nostro offre soltanto «forme obsolete» di un «classicismo» che «è una spoglia inerte e ormai priva di funzione» (cfr. La storia della cultura, V vol. della Storia dal 1800 ai nostri giorni, Ghigi, Rimini 1981, p. 170).
Sulla Scuola classica romagnola, si legga il parere di Romolo Comandini.
2. Tra potere e sapere, aristocratici e cultura da Rimini a Bologna

A Bologna nel Seicento «si privilegia la situazione delle scienze della natura, soggette all’innovazione epistemologica recata dal moderno metodo galileiano, in conflitto con le resistenze di coloro che all’università si professano ancora seguaci dell’aristotelismo».
Così scrive Andrea Battistini precisando: «A rendere più mosso il conflitto intervengono anche i gesuiti nel collegio di santa Lucia e i nobili della città che coltivano la scienza in veste di “dilettanti” colti, atteggiandosi spesso a mecenati che mettono a disposizione le sedi dei loro palazzi e dispensano i mezzi necessari al progresso della conoscenza» [1].
In questo contesto, prosegue Battistini, «operano il matematico Cavalieri, l’astronomo Cassini, il fisico Montanari, il medico Malpighi, tutti “novatori”, gli aristotelici Montalbani e Sbaraglia, i gesuiti Biancani, Riccioli, Grimaldi, i nobili Cesare Marsili, Cornelio Malvasia, Carlo Antonio Manzini».
In questo contesto studia a Bologna Giuseppe Antonio Barbari, sul finire degli anni Sessanta del solo XVII.
Barbari però non appartiene a quella classe nobiliare, il cui ruolo è sottolineato da Battistini, e che interessa anche a noi (per quanto cioè riguarda Rimini).
Nella Bologna del Seicento troviamo vari personaggi che partono da Rimini, e di ritorno portano e proiettano sino a Rimini la loro fama emiliana. Essi appartengono al ceto aristocratico che ha un ruolo politico in Rimini, e che ha forti collegamenti con la società ecclesiastica e quindi con il mondo politico-religioso di Roma.
Barbari è soltanto un borghese. Nardi definisce la di lui famiglia «una delle primarie di Savignano». Agiata e ragguardevole la chiama Giuseppe Ignazio Montanari. Giorgio Faberj ricordando Giuseppe Barbari, lo inserisce in un breve elenco di glorie locali, le cui famiglie «hanno decorato» la loro patria «con le virtù, e cariche sostenute, et con la nobiltà acquistata». Frase generica quest’ultima, che non permette di qualificare «patrizia» la famiglia Barbari (come invece fa il DBI alla «voce» curata da M. Gliozzi).
In calce ad una storia delle chiese savignanesi, si legge che in quella di San Sebastiano c’erano più di «sessanta tombe private delle famiglie più importanti di Savignano», tra cui appunto quella dei Barbari.
Nella stessa storia si cita un notaio Francesco Barberi (Barbari?) che fu segretario della Comunità savignanese.
Ricordiamo che in una società di poveri ed analfabeti, un minimo di sostanze e di dottrina garantiva sic et simpliciter la qualifica di gruppo socialmente superiore, ovvero degno di esser considerato nobile al punto di vendergli relativi diplomi e patacche aristocratiche.
Che i Barbari fossero ricchi e potenti nel loro paesello, lo dimostra il fatto che il Nostro può studiare prima a Rimini e poi a Bologna. Ma il potere della sua famiglia non supera il confine del Rubicone, al massimo arriva sino ad un riconoscimento in àmbito diocesano: dal quale possono essere partite sollecitazioni e raccomandazioni in quel di Bologna, senza per questo permettere al giovane Giuseppe Antonio Barbari di essere cooptato nel circolo riservato, ristretto e geloso dell’aristocrazia felsinea.
Se anche si fosse trattato, pure per il Nostro, di una «nobiltà acquistata», era pur sempre appunto quella di un piccolo paese per cui la sua famiglia non ne riceveva lustro alcuno in un contesto come quello bolognese.
Alla sua famiglia restava soltanto la piccola gloria da spendere in casa, a tutto proprio esclusivo vantaggio nei rapporti con i villici locali.
Barbari non risulta avvicinato dagli altri cittadini nobili di Rimini che operano culturalmente a Bologna. Almeno non ci sono tracce che possano documentare affinità intellettuali fra questo personaggio isolato socialmente e ‘politicamente’ rispetto agli altri conterranei che sembrano non curarsene affatto.
Appare illuminante il dato che uno dei più informati tra gli studiosi riminesi, l’ecclesiastico e nobile ad un tempo, Giuseppe Garampi [2] nel 1757 chiedesse notizie al proprio maestro Giovanni Bianchi (Iano Planco) su «un tal Giuseppe Antonio Barbari di Savignano», di cui non aveva «giammai avuta notizia alcuna», partendo da alcune lettere ritrovate da lui stesso a Roma.
Garampi era allora, come aveva scritto lui stesso a Bianchi il 24 marzo 1751, Prefetto dell’Archivio «Secreto Apostolico Vaticano»: su tale lettera si veda la mia storia dei Lincei riminesi.
Barbari appare legato solamente all’ambiente intellettuale universitario felsineo. Non è per nulla inserito all’interno di quel mondo dei potenti che dalla loro posizione sociale possono trarre garanzie di appartenenza pure alla sfera culturale che quel mondo esprime, costruisce e garantisce. Ogni nobile, anche il più ignorante, poteva contrabbandarsi come dotto grazie alla sua posizione sociale. Non succedeva il contrario, cioè che un dotto povero fosse elevato socialmente al ceto aristocratico. Ovvio, tutto ciò, si potrebbe obiettare. Non tanto, se pensiamo che poi col passare del tempo si cominciano a diffondere le idee dell’eguaglianza naturale fra tutti gli uomini, che sono alla base della cultura illuministica. (L’ovvio è l’oppio del popoli.)
Un altro riminese invece è notissimo in Bologna, negli stessi anni in cui vi arriva Barbari. Si tratta di Lodovico Tingoli (1602-1669).
Nelle Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi 1672), alle pp. 308-313 si legge la biografia di Lodovico Tingoli (che citiamo non seguendo l’ordine espositivo originale).
Suo padre Pompeo era cavaliere «e concorse la nobiltà materna ad ornarlo di luce». La madre Maddalena Rossi apparteneva ad una famiglia «tra le più cospicue» di Rimini.
«In Bologna e nel Collegio de’ Nobili [3] succhiò il primo latte delle lettere umane. Adulto apprese in Roma gli studj delle Scienze, e della Filosofia, e della profession legale».
A Roma si trovava allora suo zio mons. Cipriano Pavoni (maestro di camera di Paolo V), che diventa vescovo di Rimini alla fine del 1619 (20 novembre). Quindi il soggiorno romano di Lodovico è anteriore a questa data.
«Il genio libero, che lo portò agli studi, e alle muse, l’allontanò cresciuto negli anni dalla servitù della Corte. E’ fama che sotto il Pontefice Urbano perdesse la congiuntura dell’onor della Porpora, ricusando l’impiego di Cavaliere inviato nell’Inghilterra, a cui lo destinava il Pontefice. […] Il Genio dei suoi studi medesimi non lo distrasse però in guisa ch’ei non si vedesse seguace di Pallade, ancorché armata, e ch’ei non facesse comparir uniti que’ sì discrepanti attributi di letterato, e guerriero».
Tra i commilitoni «s’acquistò il titolo del Santo, e del Cappuccino dell’Armata».
«In Rimini non giunse forestiere, che non volgesse il piede verso la soglia della casa del Tingoli».
«Amò poco la prosa: ma sormontò il grado commune nell’eccellenza della Poesia». (A proposito di Tingoli poeta, Carlo Tonini scrisse alle pp. 187-188 della sua Storia di Rimini dal 1500 al 1800, VI, parte seconda: «Peccato, che non si tenesse esente dai difetti del secolo corrotto!».)
Fu aggregato alle più importanti accademie, tra cui quella degli Incogniti di Venezia, fondata nel 1630 da Gian Francesco Loredano [4].
Ed appunto ne Le glorie degli Incogniti (Venezia 1647) leggiamo di Lodovico Tingoli: «[…] negli arringhi pacifici assiso nel seno delle prime Accademie d’Italia coltivando gli Allori di Pindo n’ha riportato la fama d’uno de’ più eccellenti Poeti di questo secolo» (pp. 317-318). Si ricorda anche che, nelle «ultime turbolenze di guerra», Tingoli ha «dato altissimi saggi non meno d’ardimento, e di coraggio, che di prudenza, e di giuditio», mostrando «la virtù Civile congiunta alla Militare nel più sublime grado di perfettione, che si possa desiderare da’ Mortali in un soggetto degno dell’amore di tutti i cuori». (L’esemplare de Le glorie esistente in Gambalunghiana, proviene dalla biblioteca personale di padre Francesco Maria Banditi il quale lo lasciò a quella dei Teatini riminesi.)
Tra gli Incogniti c’è un altro riminese, Sebastiano Bonadies, medico e naturalista, la cui biografia leggiamo (pp. 400-403) nelle ricordate Glorie veneziane [5].
Lodovico Tingoli fu autore con Filippo Marcheselli, de I cigni del Rubicone (Bologna 1673).
Filippo Marcheselli (1625-1658), figlio di una sorella di Tingoli, fu principe dell’Accademia riminese degli Adagiati.
Questo Filippo Marcheselli (1625-1658) va detto seniore per distinguerlo dal Filippo Marcheselli juniore che era figlio di Ginevra a sua volta figlia di Lodovico Tingoli e di Lucretia Belmonti.
Ginevra Tingoli era moglie di Giovanni Battista Marcheselli.
Filippo Marcheselli juniore fu vice Custode della Colonia arcadica del Rubicone, come recita un testo in sua memoria (1711, Biblioteca Gambalunghiana segn. 11.MISC.RIM.XII.4).
Torniamo a Lodovico Tingoli. Circa la sua famiglia, dopo aver detto che suo padre Pompeo (morto nel 1616) era figlio di un Giulio Cesare scomparso nel 1582, precisiamo che Lodovico ebbe un fratello Carlo defunto nel 1668, a sua volta padre di Pietro Maria (+1674) e Domenico (+1716). [6]
Passiamo infine al ruolo di Lodovico Tingoli nella società culturale felsinea. Quando arriva a Bologna, egli trova anche un (lontano) parente.
Uno zio di Lodovico, Annibale Tingoli sposa Maddalena Gambalunga sorella di Alessandro, il fondatore della biblioteca riminese. Un loro terzo fratello, Francesco, è il padre di Ermellina (+1638) unica erede della famiglia, che nel 1603 sposa Cesare Bianchetti (1585-1658) da cui ha Giulio Bianchetti Gambalunga (defunto nel 1670). Di Giulio parla Fantuzzi negli Scrittori bolognesi, II, p. 173 («Figlio di Cesare, detto de’ Gambalunga per l’eredità pervenuta alla sua famiglia in morte di Ermellina Gambalunghi di Rimini sua Madre»).
Giulio ha un figlio, Cesare (1654-1733), che agisce all’interno dei Gelati, come testimonia un suo scritto, Introduzione e Intramezzi per musica…, pubblicato da Manolessi nel 1685. Qui Cesare Bianchetti Gambalunga è definito principe dell’accademia dei Gelati.
A proposito di Lodovico Tingoli e Bologna, infine, ricordiamo due notizie.
A. Nelle Memorie dei Gelati, a pag. 216 a proposito di Giovan Francesco Bonomi si legge che questi fu amico di Tingoli. La figura e le idee di Bonomi richiedono un discorso a parte che facciamo qui sotto nella parte n. 3, Il patrocinio d'Epicuro (1681) di Giovan Francesco Bonomi.
B. Nel 1668 esce a Bologna presso Giovanni Recaldini un volume intitolato «Il Giornale de Letterati di Bologna», con dedica a Lodovico Tingoli («fò lecito di dedicarlo a V. S. Ill.ma, che è un gran Letterato, così vengo a conformare il Dono a Personaggio cui lo Presento», scrive l’editore-tipografo Recaldini). Il volume contiene i primi otto numeri dell’omonimo «Giornale» romano. Anche questo argomento obbliga ad un discorso nella parte n. 4., Il «letterato» e la Scienza).

Note
1 Cfr. A. BATTISTINI, Aldrovandi a Cappellini: quattro secoli di cultura a Bologna, «Quadricentenario della parola "geologia". Ulisse Aldrovandi 1603 Bologna», a cura di G. B. Vai e W. Cavazza, Argelato (BO), 2004, p. 63. Questo testo è già cit. in altra pagina del sito «Riministoria», nel testo della relazione presentata agli «Studi romagnoli» 2004: cfr.
http://www.webalice.it/antoniomontanari1/studi/2004/barbari.sr.2004.rel.997.html.
2 Questa parte su Giuseppe Garampi si legge estesamente nella pagina http://digilander.libero.it/antoniomontanari/lui/937.barbari.html.
3 Il Collegio dei Nobili era retto dai Gesuiti.
4 Cfr. A. Montanari, Rapporti culturali e circolazione libraria tra Venezia e Rimini, «Riministoria», http://digilander.libero.it/monari/spec/936.venezia.html.
5 Nel profilo di Bonadies, che si era laureato a Padova in Filosofia e Medicina «con meravigliosa felicità d’applausi», e che è detto «poeta di molto grido» (p. 402), si definisce Rimini «Città nobilissima della Romagna» (p. 401). Si annunciano tra gli altri scritti «Vari Discorsi e Lettioni Accademiche». Bonadies fu anche accademico degli Adagiati riminesi. La biografia di Bonadies è cit. da G. Mazzuchelli nei suoi Scrittori d’Italia, II, III, 1762, pp. 1538-9. Mazzuchelli ricorda anche il matrimonio di Bonadies con Faustina Ippoliti, e la morte avvenuta il 18 maggio 1659. Di quest’ultima notizia, Mazzuchelli si dichiara debitore con Giuseppe Garampi. Sebastiano Bonadies era figlio di Girolamo e di Violante Battaglini.
6 Questi dati sono ricavati da carte dell’Archivio di Stato di Rimini, AP 731, Archivio Storico Comunale, Famiglia Tingoli. Per altre notizie, cfr. il testamento di Lodovico Tingoli del 14 luglio 1743, notaio Nicolò Righetti, in copia ms. in due fogli del 5 novembre 1646, in Fondo Gambetti, Miscellanea manoscritta riminese, fasc. 2041, e relativa scheda Gambetti n. 30, fascio 92.


3. Il patrocinio d’Epicuro (1681) di Giovan Francesco Bonomi

Nelle Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi 1672), come si è visto nella scheda dedicata a «Sapere e potere», si legge a pag. 216, a proposito di Giovan Francesco Bonomi, che questi fu amico di Lodovico Tingoli.
Bonomi fu autore de Il patrocinio d’Epicuro (1681), una dissertazione che, come si ricava dal suo rivolgersi appunto agli «Accademici» (p. 113) fu letta in una qualche radunanza, forse degli stessi Gelati. E pubblicata in Bologna nello stesso anno dall’«Erede di Domenico Barbieri», stampatore, nel volume intitolato Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi [...] con altre sue prose accademiche, e poesie annesse [...]. (Si noti il particolare accenno alle «altre sue prose accademiche»: il che dovrebbe suggerire un ulteriore riferimento alle riunioni dei Gelati o di qualche altra accademia a cui il Nostro era ascritto.)
Quest’opera s’inquadra nel clima bolognese della seconda metà del sec. XVII in cui opera l’abate benedettino Vitale Terrarossa (1623-1692), allora lettore di Filosofia nello Studio felsineo, che fu maestro di Anton Felice Marsili (1649-1710). Terrarossa aiutò Marsili ad elaborare le sue prove universitarie (1668-1669), nelle quali l’idea democritea di un mondo composto «e atomis casu congregatis» è riaffermata come non contraria alla religione cristiana.
Marsili nelle sue «tesi» spiega che i professori cattolici, così come hanno potuto accogliere Aristotele, possono allo stesso modo seguire Democrito ed insegnare l’atomismo, senza timore che esso implichi la negazione di Dio.
Anton Felice Marsili nel 1670 prende gli ordini, e l’anno dopo pubblica a Bologna nelle Prose de’ Signori Accademici Gelati di Bologna (Manolessi) lo scritto Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare, al centro del quale sta la proposta della riabilitazione di Democrito. A Terrarossa Marsili si richiama, pur senza nominarlo, quando scrive che «un grande ingegno», a cui deve «obblighi di discepolo», «toglierà l’infelice Democrito dal catalogo degli Ateisti, mostrandolo genuflesso a gli altari conoscitore della Deità»: «Le Accademie vedranno imitato S. Tommaso, di cui fù detto, che Aristotelem Christianum fecit, mentre che il zelo di un Monaco Democritum Christianum faciet». [Cfr. Ombre di Galileo,«Cap. 3. Le accademie bolognesi del secondo Seicento».]
Marta Cavazza sottolinea «la freschezza dell’apologia dell’esperienza» di questo testo, la «baldanza» nell’attacco ai sostenitori del dogmatismo aristotelico dell’«ipse dixit», e la «spregiudicatezza della denuncia delle inesattezze e degli errori degli antichi autori, Aristotele e Plinio in testa, che i moderni hanno finalmente smascherato» (Settecento inquieto, Bologna 1990, p. 88).
Importante è la sottolineatura che Marta Cavazza fa della figura di Marsili: egli «fu probabilmente colui che con maggiore consapevolezza si fece portavoce della necessità di un rinnovamento della cultura cattolica che la liberasse da ciò che poteva costituire un ostacolo a una prudente assimilazione della scienza moderna» (p. 85).
In questo contesto s’inserisce il breve scritto di Bonomi. Ma Bonomi si differenzia da Marsili il quale nello scritto di cui stiamo parlando, rifiuta completamente Epicuro, definito «il più empio de’ Filosofi» (p. 301). Nella pagina successiva, Marsili annota: «Per mostrare l’empietà d’Epicuro non voglio il testimonio della Fama, già che la penna di Pietro Gassendi lo rende sospetto».
Sotto accusa presso Marsili, quindi, oltre ad Epicuro finisce Pierre Gassendi per quella sua difesa che ne fece nel De vita, et moribus Epicuri, dove leggiamo (ed. Lugduni 1658, p. 224) che Epicuro fu considerato «informis» nei secoli in cui le «bonae litterae» giacquero sepolte.
Gassendi a questo punto presenta, tramite richiami umanistici, la proposta di reintrodurre Epicuro nel coro dei filosofi, come dice il titolo del cap. VIII della sua opera. (Gassendi riabilita Epicuro sulla scia di Valla e di Erasmo, «anche se a prezzo di una cristianizzazione della dottrina del filosofo greco», Rossi-Viano, p. 362)
Marsili rappresenta l’ala che (in termini contemporanei) potremmo definire conservatrice della scuola che vuole rinnovare la cultura cattolica. A Marsili ed a quanti la pensavano come lui, il nome di Epicuro fa paura, nel solco di una tradizione che aveva condannato quel filosofo che godeva di «mala fama» perché considerato «il filosofo del piacere» (Diano, p. 7): «Quando il cristianesimo divenne la religione dello Stato romano, la scuola di Epicuro si estinse e per molto tempo ancora non sarebbe stato più possibile accettare nulla da chi aveva negato la provvidenza divina e l’immortalità dell’anima» (Diano, p. 37).
Epicuro fu riscoperto (come si è appena visto) da Erasmo da Rotterdam, secondo cui «il cristiano è il migliore discepolo di Epicuro» (ibid.).
Cosimo Raimondi nella prima metà del XV sec. propose una Defensio Epicuri contra Stoicos, Academicos et Peripateticos.
Intanto Poggio Bracciolini (1417) aveva scoperto il De rerum natura di Lucrezio che ripropone la lezione di Epicuro con una variante che però nuoce al filosofo greco laddove questi è presentato (I, 66-67) come il primo greco che avesse osato sfidare e contrastare la religione. Lucrezio identifica «religio» e «superstitio», mentre Epicuro distingueva fra una religione «vera» ed una «falsa» (Dionigi, p. 77).
Epicuro nella Lettera a Meneceo, 123 (in Lettere, Milano 1994, p. 143) spiega al proposito: «Gli dei esistono: perché la loro conoscenza è evidente; ma non esistono nel modo in cui i più li concepiscono, perché non conservano la nozione che hanno».
Lucrezio ripropone «l’insegnamento di Epicuro per il quale il raggiungimento del fine etico passa attraverso un’approfondita conoscenza scientifica». Conoscenza che deve liberare l’uomo dal timore della morte e dell’aldilà e dalla paura degli dèi (Pasoli, pp. 298-299).
Al proposito, su questo passo di Lucrezio, ricordiamo il bel commento che scrisse Concetto Marchesi: «Il problema – quale intendeva risolvere Epicuro – ha un presupposto che fa paura per la sua desolante lontananza: il presupposto della sapienza che dovrebbe creare l’isola dei beati nella plaga smisurata degl’ignari travolti dalle passioni. […] Verso quella riva tutte veleggiavano le navi dell’antica sapienza per varie ed opposte vie: attraverso l’immenso mondo delle cose, attraverso l’immenso mondo delle idee; e tutte annunziavano di essere arrivate. Vascelli fantasmi giunti in porto senza più ciurma» (p. 224).
Poi era venuto il ricordato Pierre Gassendi, «un onesto canonico di Digione», secondo cui l’atomismo di Epicuro poteva fornire una base più adeguata alla nuova Scienza (Diano, p. 40).
Ma era anche giunta, in Italia, la proposta di Alessandro Marchetti (1633-1714) che nel 1670 aveva concluso la traduzione dell’opera di Lucrezio. Essa uscirà soltanto postuma, a Londra nel 1617, «dopo una tormentata vicenda di continui rinvii per cause di censura» (Longhi, 318).
Marchetti bene riassume lo scandalo che rappresenta quella Scienza nuova per affermare la quale egli aveva intrapreso la traduzione di Lucrezio. Marchetti ha studiato Medicina a Filosofia a Pisa, avendo come insegnante Giovanni Alfonso Borelli a cui succede, e non era costituzionalmente un poeta bensì un autore di trattati fisico-matematici influenzati dalla lezione galileiana e dall’empirismo baconiano. (Su Borelli, cfr. le citt. Ombre di Galileo, Cap. 5. «Atomismo, da Napoli a Venezia».)
Marsili quindi, quando definisce Epicuro «il più empio de’ Filosofi», non fa altro che richiamarsi ad una tradizione culturale e religiosa di grande vivacità e forza nella seconda parte del secolo diciassettesimo.
Sul versante opposto rispetto a Marsili, si pone Bonomi che su Epicuro sostiene: «I suoi insegnamenti sono sani, i suoi costumi furono religiosi […]. Diedero occasione a far mal concetto di lui gl’invidiosi del suo sapere, vedendo tutta la gioventù affollata per ascoltare la di lui Filosofia, abbandonate affatto le scuole altrui» (pp. 118-119). E circa quest’invidia verso Epicuro da parte dei colleghi suoi contemporanei, Bonomi poco prima ha precisato che essa «seppe trovar colpa» nella sua innocenza, e «rinvenire errore» nella sua dottrina (p. 117).
Bonomi richiama Diogene Laerzio, secondo cui Epicuro «non hebbe per favola gli Dei, come altri filosofanti»: «Ecco, Signori, quell’Epicuro il quale pose l’umana felicità nel piacere così malamente interpretato da’ maligni, che taluno vago di piaceri suol apparsi Epicureo. […] Insegnò, è vero pur troppo, che l’umana beatitudine consiste nella voluttà, ma nella voluttà dell’animo, non del corpo, come sognano i lividi avversarj di così celebre Filosofante» (pp. 120-121). E qui riprende un passo d’Epicuro. Del quale passo dice che è costituito da «parole maschie d’un Ercole Cristiano» (p. 122).
Circa le «conclusioni» della filosofia di Epicuro, Bonomi osserva: «Io non so, se possono dir altro, anzi altro non han detto, que’ Sacri Scrittori, che dan regole a’ seguaci di Cristo, perché profittino nell’accademia delle religiose discipline. Dobbiamo sempre anteporci un grand’huomo, per emular le sue azioni, e finger, che sia in nostra presenza, osservando egli le nostre. Con tanto rispetto, che nella solitudine nulla facciamo di quelle cose, che, in sua presenza ci vergogneremmo di fare» (pp. 123-124).
Nella dedica a Giovanni Battista Laderchi Montevecchi, Bonomi scrive che Epicuro è «un Filosofo compostissimo di sentimenti quantunque dal trivio condannato per de’ più sciolti di cintola» (p. 112).
Non manca neppure in Bonomi un richiamo all’opera di Lucrezio, quando il discorso si riferisce alla vita resa tediosa dal ripetersi delle stesse azioni: «La Natura medesima compassionando l’huomo, confessa di non saper trovare cosa nuova, per tenerlo a bada» (p. 128).
La citazione di Lucrezio è presa dagli ultimi due versi di questo passo del libro terzo, che riproduciamo per esteso (vv. 940-945): «Sin ea quae fructus cumque es periere profusa / vitaque in offensost, cur amplius addere quaeris, /rursum quod pereat male et ingratum occidat omne, / non potius vitae finem facis atque laboris? /Nam tibi praeterea quod machiner inveniamque, / quod placeat, nihil est; eadem sunt omnia semper. (Se invece tutto ciò che hai goduto è perito e dissolto nel nulla, / e la vita ti è in uggia, perché cerchi ancora di aggiungere / ciò che avrà triste fine, a sua volta, e un ingrato tramonto totale, / e piuttosto non poni fine alla vita e ai tuoi affanni? / Tutto quanto difatti io escogiti e possa inventare / che ti piaccia, non serve: le cose sono sempre le stesse» (trad. di Luca Canali).
L’operetta di Bonomi su Epicuro, come si è visto, è raccolta in un grosso volume di altri suoi scritti (Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi [...] con altre sue prose accademiche, e poesie annesse [...]) , che si conclude con questa avvertenza dello «Stampatore à chi leggerà»: «L’Autore è un buon Cattolico, onde non hai da prender in senso ripugnante alle Sante Leggi minimo vocabolo di quelli, che scrive con penna poetica. Protestandosi, che cancellerebbe col vivo sangue delle sue vene riga per riga quanti volumi hà pubblicati fin hora, quando in una sillaba sola ripugnassero alla S. Chiesa Romana, et a’ civili costumi, ne’ quali si professa eziandio religiosissimo» (p. 334). (Si noti che anche la discussione filosofica è contrabbandata, per timori di censure, quale frutto di «penna poetica».)
A quest’avvertenza dello «Stampatore» fa seguito (p. 335) un sonetto di Anton Felice Marsili in lode di altri due scritti di Bonomi contenuti nel volume: Democritus, seu morales Risus ed Heraclitus, seu morales Fletus. Riproduciamo la composizione di Marsili: «D’Eraclito, Signor, l’antico Pianto, / E del Vecchio d’Abdera il noto Riso / Mirai simile al vostro dotto Pianto, / E vidi eguale al vostro nobil Riso. // O quanto allor conobbi il saggio Pianto / Esser sovente unito a incauto Riso; / Che il Riso poi và a terminare in Pianto, / E che il Pianto del Mondo al fine è Riso. // Che son gli scettri, e gli Ostri, e i Regni un Pianto, / Benché apparenza ognor abbian di Riso, / Che Riso è sol d’animo giusto il Pianto. // Che la vita di noi non è, che un Riso, / E un Riso sì, che s’accompagna al Pianto, / Ma lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».

Note

1. Citazioni bibliografiche
Canali = Luca Canali, vedi sub Dionigi
Diano = Epicuro, Scritti morali, introduzione e traduzione di Carlo Diano, Milano 1994
Dionigi = T. Lucrezio Caro, La natura delle cose, I, testo e commento a cura di Ivano Dionigi, Milano 1994
Longhi = Silvia Longhi, La poesia burlesca, satirica, didascalica, «Manuale di Letteratura italiana, 2», Torino 1994
Marchesi = Concetto Marchesi, Storia della Letteratura latina, I, Milano-Messina 1975
Pasoli = B. Gentili, E. Pasoli, M. Simonetti, Storia della letteratura latina, Bari 1976
Rossi-Viano = Storia della filosofia, 3. Dal Quattrocento al Seicento, a cura di P. Rossi e C. A. Viano, Bari, 1995

2. Notizia bibliografica (dal catalogo URBS)
Giovan Francesco Bonomi, ovvero Giovanni Francesco Bonomi
Autore: Bonomi, Giovanni Francesco, da Bologna, 1626-1705.
Titolo: Il Seneca di Giovanfrancesco Bonomi ... con altre sue prose accademiche, e poesie annesse ...
Pubblicazione: Bologna, Eredi di Domenico Barbieri,
Anno di pubblicazione: 1681.
Descrizione fisica: [12], 383 p. 15 cm.
Note: Front. agg. inciso.
Lingua: Italiano
Biblioteca Apostolica Vaticana, Ferraioli.V.6553

3. Notizia bibliografica su Lucrezio
Il testo del De rerum natura, è reperibile integralmente nella versione originale ed in quella tradotta su Internet a questo indirizzo: da <http://www.biblio-net.com/lett_cla/testi/drn_liber_i.htm> (libro primo) a <http://www.biblio-net.com/lett_cla/testi/drn_liber_vi.htm> (libro sesto).

4. Notizia bibliografica su Bonomi e Giuseppe Malatesta Garuffi
Nella Gambalunghiana si conservano le traduzioni dal latino (fatte da Giuseppe Malatesta Garuffi), di due opere di Giovan Francesco Bonomi: Il Chirone d'Achille e l'Heraclito.
Dagli spogli gambalunghiani (catalogo di Piero Meldini): «Sc-Ms.462 Sec. XVII. Bonomi, Giovan Francesco. 1. Il Chirone d'Achille [...] del Signor Giovan Francesco Bonomi, translato dall'idioma latino al volgare da Don Giuseppe Garuffi... 2. Heraclito [...] del Signor Giovan Francesco Bonomi, traslatato [...] da Don Giuseppe Garuffi... 112 cc. 192X125. D.IV.6 4.D.IV.27» (v. anche Sito Gambalunga).
Nello stesso manoscritto sta il testo attribuibile allo stesso Garuffi intitolato De modo figurarum astrologicarum describendi (cc. 99-110). Su questo ms. si veda la parte n. 5, Garuffi, un prete astrologo.
Garuffi è anche l’autore di composizioni su Lodovico Tingoli (ms. gambalunghiano 474, Miscellanea) e dell’orazione funebre per lo stesso (cc. 57-59). (V. catalogo Meldini: «Sc-Ms.474 1669-1673. Garuffi, Giuseppe Malatesta. 1. [Vaticini e profezie sui romani pontefici raccolti da G. M. Garuffi]. 2. Index philosophicum, mathematicum, medicum, physiognomicum et morale... 3. In [...] Ludovici Tingoli [...] mortem oratio funebris. 4. [19 poesie] ecc. 126 cc. 200X135. 118 DP.I.A.7 D.IV.110 4.D.IV.39».)

5. Notizia bibliografica su Bonomi (Schede Gambetti)
In Gambalunga, nelle Schede Gambetti, scatola 15, n. 144, è presente la voce Bonomi (Giovanfrancesco) Bolognese, in cui si leggono alcune notizie interessanti relative a Lodovico Tingoli.
Esse si riferiscono ad un’opera di Bonomi (Del parto dell’Orca idee in embrione, Heredi di Evangelista Dozza, 1667), in cui è ripetutamente cit. Tingoli medesimo.
In quest’opera anzitutto (p. 171, I tomo) c’è un sonetto di Tingoli («Commenda il mio Eraclito […]», intitola Bonomi), a cui lo stesso Bonomi risponde con altro analogo componimento (p. 172).
Poi c’è una lettera di Bonomi a Tingoli (p. 343, I tomo): «Avvegnaché io mi ritenga nel cuore il vivo originale di Vossignoria nulla di meno mi è giunta gradita la bozza desiderata del di lei Ritratto, per lo desiderio grande, che io tengo di far pubblica apparire in alcune mie prossime stampe la stima, che io faccio di Vossignoria, e della sua valorosa Penna. […]».
Questa lettera (senza data) rimanda a p. 214, II tomo (sempre 1667), ove è pubblicato il ritratto del nostro Tingoli con dedica in latino, nella sezione del libro intitolata «I favoriti d’Apollo». (Ogni sezione ha un frontespizio tipograficamente autonomo, come se si trattasse di opera a sé stante.) A p. 215 segue un sonetto dedicato a Tingoli.
Infine, alle pp. 279-305 c’è una sezione con tre elementi dedicati al rapporto fra Bonomi e Tingoli.
Bonomi scrive una lettera d’apertura della sezione, diretta a Tingoli, lettera che prende spunto dal componimento inviatogli dal riminese sulla vita di corte (pp. 279-281), intitolato nel volume «Del Sig. Lodovico Tingoli à Giovanfrancesco Bonomi, dissuadendolo dalla Corte alla quale venne da virtuoso Personaggio fortemente invitato».
Il componimento di Tingoli è presentato alle pp. 282-293.
Segue la risposta poetica di Bonomi alle pp. 294-305.
La lettera di Bonomi, posta ad apertura della sezione, è fortemente autobiografica: «Questo furor poetico è un certo prurito, che quando serpeggia per le vene à stento se gli può far riparo» (p. 280).
Circa la vita di corte scrive Bonomi nella lettera d’apertura della sezione: «Non hà dubbio alcuno, che dentro alle Corti la virtù si muore à lenta febbre […]. Chi vive in Corte muore in paglia» (p. 280). I due componimenti poetici (in quartine) di Tingoli e di Bonomi sviluppano questo tema.

Ringraziamento.
Per la compilazione di queste notizie e di questa pagina, un sentito e sincero ringraziamento debbo esprimere alla dottoressa Cecilia Antoni della sezione Fondi Antichi della Biblioteca Gambalunghiana di Rimini, per la preziosa ed attenta collaborazione da lei ricevuta nelle mie ricerche.


4. Il «letterato» e la Scienza

4.a. «Il Giornale de Letterati di Bologna»
Nella pagina intitolata «Sapere e potere», abbiamo inserito un’annotazione finale relativa all’uscita nel 1668 a Bologna de «Il Giornale de Letterati di Bologna», con dedica al riminese Lodovico Tingoli
Il volume, come si è già scritto, contiene i primi otto numeri dell’omonimo «Giornale» romano. Quindi in sostanza non c’è alcuna differenza fra l’edizione apparsa a Bologna e quella presentata nella capitale dello Stato ecclesiastico.
In un prezioso volume, La Biblioteca periodica, apparso nel 1985 presso il Mulino, il saggio di Giorgio Panizza relativo al «Giornale» felsineo, sottolinea la «prontezza con cui Bologna segue la novità appena proposta da Roma all’Italia e all’Europa, nel confronto stretto in particolare con il Journal des Sçavants parigino, ma anche con le Philosophical transactions londinesi» (p. 23).
Panizza, soffermandosi sulla dedica a Tingoli (noto poeta allora, e ricordato ancor oggi nelle storie letterarie), osserva che essa sembra come in contraddizione con lo spirito presente nella redazione romana, la cui attenzione «era tutta tesa al versante scientifico, sia in senso proprio sia in quello di una nuova erudizione storica»: «Il fronte avanzato dell’impegno intellettuale era, insomma, dopo la metà del secolo, ben altro da quello della poesia» (p. 28).
La «casella» della poesia vuota a Roma, è stata «riempita nella Bologna dell’Accademia dei Gelati» (p. 28). In questa ristampa, aggiunge Panizza, si ritrova dunque «una fedeltà in proprio di Bologna al fare poesia, punto da allineare con altri ben noti e non importa ora se più elevati» (p. 29).
Anche se non si «possono tracciare» schemi netti, conclude Panizza, «pare ugualmente chiaro che, sia pure ristampando quello che a Roma è uno degli sforzi più complessi di dar voce alla continuità della scuola galileiana, qui si tratti più della cultura dell’Aldrovandi che di quella di Malpighi e Cassini, per parte loro ben legati direttamente al giornale» romano (p. 29).
In una nota a questa parte, Panizza riporta (per confermare la sua interpretazione), un’osservazione di Angelico Aprosio contenuta in una lettera del 1666, e riferita ad un’ode di Tingoli: lettera in cui si parla di «quelli che pensano veder macchie nel Sole». Tale osservazione, sottolinea Panizza, considera Galileo e seguaci come dei visionari.
Tralasciando la frase di Aprosio che non riguarda l’attività dei Gelati bolognesi nel suo complesso, ci permettiamo soltanto di osservare che nelle Prose di quest’accademia (1671) appaiono anche testi filosofici come quello di Anton Felice Marsili, intitolato Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare (pp. 299-318). All’interno della stessa accademia opera il poeta Giovan Francesco Bonomi (amico di Lodovico Tingoli), che è pure autore del Patrocinio d’Epicuro (1681) il quale testimonia un’attenzione ai problemi non soltanto letterari.
Infine va sottolineato che Anton Felice Marsili nel 1687 tiene a battesimo nella propria abitazione due accademie, una «aperta per le materie ecclesiastiche», l’altra per «le filosofiche sperimentali». Siamo, è vero, a quasi un ventennio dal «Giornale de letterati», ma la scansione cronologica con l’orologio alla mano che s’adatta alle gare sportive e che condiziona il risultato delle stesse, non credo possa adattarsi alla comprensione e valutazione dei fatti culturali che andrebbero visti e spiegati in un arco di tempo ben più ampio della successione (… notarile) di qualche lustro.
Piuttosto è da esaminare la questione perché sia a Roma sia a Bologna, cioè in quell’Italia seicentesca che era soltanto un’espressione geografica non ben delineata oltretutto per ovvi motivi politico-militari, oltre che economici, perché in quell’Italia si preferisse definire le questioni «letterarie» anziché «filosofiche».

4.b. I «Letterati» d’Italia
Il «letterato» del Seicento può essere simboleggiato da Daniello Bartoli (1608-1685), autore dell’Uomodi lettere difeso ed emendato (1645), e vissuto in una solitudine che è l’opposto del senso della comunità (fatta di scambi e comunicazioni) che caratterizza l’«uomo di Scienza». Anzi, è proprio la diffusione delle idee tramite i giornali scientifici, a capovolgere l’immagine del «letterato» ‘solitario’ alla Daniello Bartoli.
Per ciò che riguarda la situazione italiana del Seicento, Carlo Dionisotti (Storia d’Italia, Documenti, V.2, Einaudi, Torino 1973, p. 1391) sottolineava la differenza di comportamento tra «uomini di lettere» da una parte, e scienziati, filosofi e storici dall’altra: soltanto questi ultimi ebbero la capacità «di guardare attentamente a quel che si veniva producendo fuori d’Italia».
E proprio mentre avviene questa divisione fra le due culture, ufficialmente (cioè attraverso i canali istituzionali dei «giornali»), si continua a celebrare la figura del «letterato» che diventa un termine dalla connotazione più vasta di quella originaria (ed ovvia) dell’«uomo di lettere».
Il «letterato» a cui quei giornali si rivolgono è uomo di cultura, di dottrina, di sapere. In lui si concentrano ragioni ed esperienze non limitate soltanto al campo della Letteratura sic et simpliciter. In lui si manifestano interessi e specializzazioni che riguardano oltre che le Arti anche le Scienze, per usare una formula fondamentale in Lodovico Antonio Muratori.
Quando nel 1703 Muratori teorizza pubblicamente la sua «Repubblica letteraria», puntualizza che essa doveva aver per oggetto di perfezionare appunto «le Arti e le Scienze». Quindi, ad un certo punto della nostra Storia culturale, proprio sul finire del sec. XVII, la sensibilità culturale più attenta ai processi innovativi diffusi in Europa (da Inghilterra e Francia), avverte le novità che circolano, ed interpreta in modo nuovo il termine «letterato».
Se nella prima metà del sec. XVII il «letterato» è soltanto il narratore ed il poeta, nella seconda matura lentamente la coscienza che lo stesso «letterato» può (deve?) spaziare nei vari campi del Sapere, come spiega Benedetto Bacchini nel suo «Giornale» parmense del 1686, dove propone un ideale enciclopedico attento a «diverse scienze» e ad «arti distinte».
Questo passo di Bacchini rappresenta idealmente la congiunzione fra quelle che Ezio Raimondi ha chiamato «le ragioni del Settecento» [1] e le esternazioni barocche che rinchiudono l’uomo di Lettere in un circolo (né virtuoso né vizioso, soltanto reale) in cui Marinismo e Classicismo si rincorono creando un vortice che rapisce le cose, le nasconde o le cancella facendo primeggiare l’arguzia sull’evidenza, mascherando nell’abilità tecnica l’esigenza di verità che dovrebbe essere il termine primo ed ultimo dell’«uomo di Lettere» (emendato o da emendare…).
Già in mezzo a queste estenuazioni barocche fiorisce la consapevolezza che la realtà non è soltanto il suo mascheramento poetico, ma è pure quella lucida descrizione matematica che Galileo sintetizza nell’immagine del «libro» dell’universo.
Lo spirito galileiano è stato esaminato da Raimondi [2] anche sotto la particolare angolazione della parola «curiosità».
Cesare Ripa (1625) definisce la «curiosità» come «il desiderio sfrenato di coloro che cercano di sapere più di quello che devono». E Agostino Mascardi (1627, Discorsi morali…) la chiamava «stolta» ponendola in relazione alla vicenda di Adamo e d’Eva, e prefigurando nel peccato originale quello ordinario di chi vuol pascere l’ingegno «con l’esca lusinghiera di scienza disutile».
Sul finire del Seicento e per tutto il Settecento la «curiosità» invece è la molla utilizzata per raggiungere un sapere sul quale punta la sua attenzione sistematica Muratori quando (cfr. Raimondi, ib., p. 141) distingue due tipi di erudizione: quella «oratoria o all’antica» e quella «di gusto moderno, su tipo scientifico», come l’exemplum bacchiniano dimostra. (Sul tema, cfr. la nota 218 della mia Storia dei Lincei riminesi.)
Raimondi conclude la citazione da Muratori con la constatazione che il suo tono «non suona diverso da quello delle pagine del Malpighi, già care al Bacchini» (ib., p. 142).
Il nome di Malpighi ci riporta a quella seconda metà del Seicento in cui la sua lezione scientifica detta nuove regole non soltanto nel campo specialistico della sua ricerca, ma all’intera società culturale, ed al modo d’intendere la figura dell’intellettuale, del «letterato», del filosofo (ib., pp. 138-139).
Raimondi segnala il «baconismo originale e attivo» di Malpighi, quando questi esprime consapevolezza e necessità di una grande accademia moderna che vedesse gli scienziati collaborare tra loro.
Proprio grazie a questo «baconismo» malpighiano e ad altri fondamentali influssi che da Inghilterra e Francia derivano alla nostra cultura, in Italia può nascere e maturare la consapevolezza che il «letterato» è colui il quale non dimentica l’universalità enciclopedica di un sapere che non è più esprimibile nel far versi, scrivere storie, emanare sentenze più adatte a chi parla da un confessionale per perdonare le «colpe» (o presunte tali) di chi vi si accosta.
E questo avviene proprio mentre l’idea di «colpa», come per la «curiosità», trascolora in quella di un merito, di una dote positiva necessaria all’operazione culturale.
Si dovrebbe a questo punto considerare l’aspetto religioso per verificare quanto esso pesi e condizioni l’evoluzione culturale italiana, dalla Controriforma (Concilio di Trento, 1545-1563; Congregazione dell’Indice, 1559), alla condanna di Galileo del 1633…
Ma son cose troppo note per richiamarle, anche se en passant.
Piuttosto merita la segnalazione il fatto che, come sostengono illustri storici, il nostro dramma storico nazionale è quello di non aver avuto una Riforma ma soltanto una Controriforma, che oggi poi in àmbiti cattolici tradizionalistici si ribattezza (si mutano semplicemente i nomi, non la sostanza delle cose) tout-court una Riforma anch’essa.
Da quella Controriforma e dalla nostra divisione politica, nascono tutti i fatti conseguenti che portano alla subordinazione della cultura al potere sia laico sia religioso.
All’Italia è mancata poi una rivoluzione come quella inglese del 1649-1660 che ha permesso lo sviluppo di una Scienza libera con l’abolizione della censura e, soprattutto, dei roghi per eresia.

4.c. I «Letterati» di Roma (e Bologna)
Sul «Giornale» romano (e quindi bolognese di cui stiamo parlando limitatamente al volume dedicato a Tingoli con i nn. 1-8 di quello romano), appaiono recensioni su opere e scritti di Francesco Redi, Geminiano Montanari, Giovanni Alfonso Borelli, Domenico Cassini e Marcello Malpighi.
Sempre per Bologna, si consideri che Geminiano Montanari fa parte dei Gelati (cfr. Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna, Manolessi 1672, pp. 264-267), e che nelle Prose di quest’accademia (1671), egli pubblica un suo saggio (pp. 369-392).
Infine due citazioni. Riproponiamo la lettera di Malpighi al segretario della Royal Society, Robert Hooke dove si descrive la situazione culturale italiana: «Presso di noi gli studi languiscono tanto che possono trovare conforto con le sole scoperte degli stranieri. Scoperte che ora sia sono rare sia pervengono tanto tardi alle nostre mani che qui gli studi non progrediscono ma sopravvivono a stento» [«Caeterum apud nos ita languent studia ut solis exterorum inventis solamen inveniant haec modo vel rara sunt, vel tam sero ad manus nostras deveniunt ita ut hic literae nullum incrementum capessant, sed vix subistant»: cfr. Correspondence of Marcello Malpighi, London 1975, pp. 850-851, lettera 395]. La denuncia di Malpighi rimanda proprio alla questione che qui abbiamo cercato d’affrontare, cioè il prevalere dei «letterati» sui «filosofi».
La seconda citazione è dal volume Alma Mater Librorum. Nove secoli di editoria bolognese per l’Università (Padova 1988, p. 156), dove si ricorda che, nella seconda metà del Seicento, assistiamo all’«infittirsi degli interessi antiquari, scientifici e letterari», con «sempre più frequenti contatti fra intellettuali, che si riconoscevano come cittadini di una ideale “repubblica delle lettere” sovrannazionale».
Le due citazioni si collegano fra loro. Malpighi stesso avverte la necessità della «ideale “repubblica delle lettere” sovrannazionale». Nel medesimo tempo egli denuncia le difficoltà che l’ambiente italiano presenta perché possa esservi una diffusa adesione ad essa. In questo contesto va inteso l’esperimento bolognese del «Giornale» dedicato a Tingoli: non un rifugiarsi nella «poesia» ma il tentativo di aiutare a mutare il concetto di «letterato» come uomo che vuol sapere di Scienza e di Filosofia anche se non ne è un abituale frequentatore professionale.
Circa i «letterati» bolognesi come Lodovico Tingoli e Giovan Francesco Bonomi e le loro composizioni tutte ispirate alla mitologia (vedi Del parto dell’Orca idee in embrione nella scheda 3. Il patrocinio d’Epicuro), esse meriterebbero un esame critico per verificare se tutto l’armamentario che espongono sia anche una specie di dichiarazione d’impotenza nel contesto politico-culturale in cui operano, oltre che la convinta adesione ad un indirizzo culturale.
Ci soffermiamo soltanto su qualche aspetto del problema. Il classicismo, con il suo carattere esemplare (proposto dagli Umanisti), ha scritto Paolo Rossi, è rifiutato dagli scienziati del Seicento con «toni fortemente polemici» perché esso rappresenta quella cultura libresca contro la quale ci si scaglia arrivando al rifiuto di «ogni e qualunque tradizione» [3].
Nasce così la querelle della supremazia dei moderni rispetto agli antichi. Se il passato è oscuro, si guarda soltanto al futuro [4].
Alessandro Tassoni, in àmbito letterario, nel 1620 con Ingegni antichi e moderni, sostiene (anche in base alle scoperte scientifiche della sua età), la superiorità della cultura moderna su quella dei greci e dei romani. Offre così uno spunto all’Académie française, dove la querelle «si spostò su temi prettamente letterari e si trasformò in un confronto sulla qualità dei poeti classici con quella dei moderni» [5].
Alle liriche di Bonomi e Tingoli s’addice la definizione di quel «barocco estremo» che finisce «con una cattedrale di parole che soltanto palesavano dubbi e mai certezze» [6].
«Cattedrale di parole»: nel contempo s’avanzano le nuove istanze di quanti vogliono costruire i nuovi edifici (oltretutto laici, né politicamente subordinati né teologicamente vincolati) dalla fondamenta, dopo aver fatto tabula rasa (come si è letto nell’esemplare sintesi di Paolo Rossi).
In questo contrasto non risiede una contraddizione insanabile ma il senso dialettico della realtà in divenire che scopre il presente come interrogazione, e non quale certezza sicura su cui fondare il continuo processo di passaggio dall’oggi al domani.
Tingoli e Bonomi esemplificano quelle istanze classicistiche che s’impongono nella fase declinante del barocco [7], e restano a testimoniare il senso del passaggio di cui s’è appena detto, dalla «vecchia» società culturale in crisi a quella nuova in costruzione, più che rappresentare la consapevolezza di un ruolo dominante della stessa «vecchia» società in cui però s’affacciano gli studiosi delle Scienze che parlano un linguaggio tutto diverso.
Possiamo prendere come esempio di convergenza fra le esperienze letterarie e quelle filosofiche, il sonetto che l’arcidiacono Anton Felice Marsili compone in lode di due scritti di Bonomi, il Democritus, seu morales Risus e l’Heraclitus, seu morales Fletus: «D’Eraclito, Signor, l’antico Pianto, / E del Vecchio d’Abdera il noto Riso / Mirai simile al vostro dotto Pianto, / E vidi eguale al vostro nobil Riso. // O quanto allor conobbi il saggio Pianto / Esser sovente unito a incauto Riso; / Che il Riso poi và a terminare in Pianto, / E che il Pianto del Mondo al fine è Riso. // Che son gli scettri, e gli Ostri, e i Regni un Pianto, / Benché apparenza ognor abbian di Riso, / Che Riso è sol d’animo giusto il Pianto. // Che la vita di noi non è, che un Riso, / E un Riso sì, che s’accompagna al Pianto, / Ma lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».
La riflessione teorica del pensatore Bonomi fornisce materia alla poesia (dilettantesca) di un altro pensatore, Marsili. Il giuoco letterario s’intesse di funambolismi per arrivare alla moralità conclusiva (neutra, rattristante ma pur sempre, o anzi ancor più pedagogica) sulla vita dove «lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».
Quel sonetto illustra emblematicamente come un fermo-immagine, il lento transito dal «letterato» al «filosofo», con l’arcidiacono che verseggia con la grazia di un poeta qualsiasi, in apparenza lontano dalla gravità del pensatore che affronta altrove i «massimi sistemi».
Percorrendo queste due strade (la lirica ed il saggio filosofico), Marsili testimonia il convivere a Bologna, in quegli anni, di due parti diverse in un dibattito che s’avvia dalle più accese polemiche (Galileo docet), ed approda alle nuove «certezze»: il sapere è continuo interrogarsi, studio delle cose altrettanto nuove, non «certezze» acquisite per sempre, come dimostra Giuseppe Antonio Barbari.
In questo contesto i nuovi (ed innovativi) «Giornali» forniscono ai «letterati» uno specchio in cui potersi scoprire anche «filosofi». Ecco perché tutto l’armamentario poetico che riscontriamo in Bonomi può apparire, come dicevamo, una specie di dichiarazione d’impotenza nel contesto politico-culturale ufficiale, in cui egli opera, oltre che (o addirittura più che) l’adesione ad un preciso indirizzo culturale che volgeva al tramonto.

NOTE AL TESTO
[1] Si tratta di un titolo di sezione del secondo volume dei suoi I sentieri del lettore (il Mulino, Bologna 1994, p. 131).
[2]Ib., p. 66.
[3] Cfr. il saggio di Paolo Rossi, Lo scienziato, in «L’uomo barocco», a cura di Rosario Villari, Laterza, Bari 2001, p. 317.
[4]Ib., pp. 318-319.
[5] Cfr. G. Bellini-G. Mazzoni, Letteratura italiana. Storia, forme, testi. 2.2, Il Seicento e il Settecento, Laterza, Bari 1991, p. 31.
[6] Così osserva Francesco Erspamer nel suo saggio L’età del barocco, in «Manuale di Letteratura italiana. II. Dal Cinquecento alla metà del Settecento» di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.248.
[7] Cfr. nel cit. Bellini-Mazzoni, p. 221.
5. Garuffi, un prete astrologo

Nella pagina su Giovan Francesco Bonomi (n. 3 di questa serie di Documenti), abbiamo ricordato che a Giuseppe Malatesta Garuffi è attribuibile un breve testo ms. intitolato De modo figurarum astrologicarum describendi (Sc-Ms.462, cc. 99-110, Biblioteca Gambalunghiana di Rimini).
Si tratta di istruzioni tecniche su come compilare un oroscopo. Tra gli autori citati c’è Regiomontano, ovvero Iohannes Müller, il principale astronomo del Quattrocento, le cui Tabulae directionum (Firenze 1524) Garuffi utilizzò (con rinvii ‘anonimi’ nel proprio testo), usando l’esemplare tuttora conservato in Gambalunghiana (segn. BP. 664). Regiomontano è detto Monteregio sia nel volume del 1524 sia nel ms. di Garuffi.
Garuffi poi cita Tolomeo ed il calendario gregoriano per correggere le tavole di Regiomontano.
Sempre in Gambalunghiana si conservano altri mss. di Garuffi che però non sono opera sua, bensì copie di testi del gesuita Egidio Francesco De Gottignies di Bruxelles il quale fu suo maestro a Roma nel Collegio Romano.
Si tratta di Matematica Experimenta (Sc-MS. 470), Tractatus de sphera armillari (Sc-MS. 471), Philosofia astronomica (Sc-MS. 472), Cosmographia (Sc-MS. 473).
Nel manoscritto 473 a c. 5v. troviamo una descrizione dei nove corpi dell’Universo: Terra, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno, Stelle fisse.
Gli sviluppi successivi della Scienza hanno dimostrato che quei corpi erano soltanto otto, eliminando le Stelle fisse che fisse non erano troppo…
A fianco dell’elenco dei nove corpi c’è un foglietto inserito fra le cc., con tre disegni relativi al sistema tolemaico, tyconico e copernicano sul tipo della celebre tavola di Athanasius Kircher (Iter extaticum, 1671) che però contiene sei sistemi (tolemaico, platonico, egiziaco, tyconico, semi-tyconico, copernicano, vedi immagine qui sotto).


Kircher, i sei sistemi planetari

Torniamo al ms. di Garuffi De modo figurarum etc. In esso troviamo elencati otto corpi: sette pianeti di cui egli parla in sèguito alla c. 6r. § XV. Septem Planetarum vires, più la Terra.
Le elencazioni degli otto corpi procede in questo ordine: Sole, Luna, Saturno, Mercurio, Giove, Marte, Venere, Terra.
Per Sole, Luna, Saturno, Mercurio, Giove, Marte, Venere, i segni sono quelli consueti, mentre per l’ottavo ce n’è un altro di cui non trovo traccia in nessun testo. Vedi immagine sotto.


Immagini tratte dai ms. di Garuffi


Antonio Montanari


"Riministoria" è un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", Ë da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 07.03.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 05.08.1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67, 21.03.2001. © Antonio Montanari. [2042, 27.06.2014, 18:55]. Mail
Antonio Montanari 47921 Rimini. Via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173