RIMINI MODERNA. Indici
Rimini moderna. Indici generali
Alle origini di Rimini moderna. 1
Alle origini di Rimini moderna. 2
Alle origini di Rimini moderna. 3
Rimini moderna (secc. XV-XVIII), indice.
Rimini moderna (secc. XV-XVIII).
San Giuliano, un borgo anzi due.

Rimini moderna (secc. XV-XVIII)
1. 1. Premessa. Malatesti, Europa e Chiesa

Il quindicesimo secolo vede Rimini ed i suoi signori, i Malatesti, alla ribalta dell'Europa.
Papa Gregorio XII, eletto nel 1405, si rifugia a Rimini il 3 novembre 1408 mentre si prepara il concilio di Pisa e dopo che Carlo Malatesti (1368-1429), signore di Rimini, lo ha salvato da un tentativo di cattura.
La grande stagione malatestiana all'interno della vita della Chiesa comincia in questa occasione. Anche se ha precedenti talora dimenticati nel secolo precedente, quando nel 1357 Pandolfo II è a Praga e a Londra in veste d'inviato pontificio.
Carlo, per contattare il collegio cardinalizio, utilizza Malatesta I (1366-1429), signore di Pesaro, che in precedenza si è offerto a Gregorio XII per una missione diplomatica presso il re di Francia, inseritosi nelle dispute ecclesiastiche per interessi personali.
Rami di famiglia
La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Il capostipite è Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio che aveva conquistato Rimini nel 1295.
Da Pandolfo I sono nati Galeotto I (1299-1385) e Malatesta Antico detto Guastafamiglie (1322-1364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1315 c.-73) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, padre di Cleofe e Galeazzo.
Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe e Galeazzo. Carlo è figlio di Galeotto I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383).
Carlo a Pisa
Malatesta I è stato in affari con Urbano VI, prestandogli diecimila fiorini e ricevendo in pegno biennale il vicariato nella città di Orte (1387). Il papa gli ha anche chiesto il suo aiuto nello stesso anno per proteggere l'arcivescovo di Ravenna Cosimo Migliorati cacciato dalla città. E poi nel 1391, di difendere gli interessi della Santa Sede contro i ribelli di Ostra (Montalboddo).
I lavori a Pisa iniziano il 25 marzo 1409. Gregorio XII è dichiarato deposto. Carlo arriva a Pisa come mediatore fra Gregorio XII ed i padri conciliari, ma in sostanza quale suo difensore.
Non è accettata la sua offerta di Rimini per sede dell'assise ecclesiastica, parendogli Pisa non adatta in quanto sottoposta alla dominazione dei fiorentini, avversari di Gregorio XII.
Il primo approccio fra Carlo ed il concilio avviene attraverso Malatesta I che si era attivato dopo l'elezione di Gregorio XII avvenuta il 2 dicembre 1406, ricevendo in premio il vitalizio del 1410.
L'antipapa Giovanni XXIII
Mentre era capitano generale di Firenze, Malatesta I aveva avviato negoziati fra lo stesso Gregorio XII e l'antipapa Benedetto XIII (eletto nel 1394), entrambi deposti in contumacia a Pisa il 5 luglio 1409 e dichiarati «scismatici, eretici e notoriamente incorreggibili».
Il loro posto, su iniziativa del cardinal Baldassarre Cossa, è preso il 20 giugno 1409 da Alessandro V (che scompare il 4 maggio 1410), detto «il papa greco» provenendo da Candia.
Gli succede Giovanni XXIII il 17 maggio 1410. Il 28 giugno 1410 l'antipapa Giovanni XXIII ricompensa Malatesta I dei danni subiti e delle spese fatte nei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, «circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissime unionis». E gli attribuisce «vita durante» la somma di seimila fiorini all'anno, cifra significativa se paragonata ai 1.200 del censo.
La proposta di Rimini
Carlo Malatesti, pur avendo visto fallire la sua missione a Pisa con il rifiuto del trasferimento del concilio a Rimini, era tornato alla carica con un messaggio ai padri che però giunse quando essi erano già i conclave per scegliere «il papa greco».
Carlo interviene ancora presso i cardinali convenuti a Bologna per le esequie di Alessandro V.
Al nuovo papa Giovanni XXIII (quel Baldassarre Cossa con cui era stato riappacificato dal fratello Pandolfo III), Carlo scrive da Venezia prospettandogli vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III, al fine di «reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae».
Gregorio XII e Carlo
Gregorio XII in una bolla del 20 aprile 1411 scrive che Carlo, «verae fidei propugnator», aveva giustamente deciso «se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae».
In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, affidano un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo.
Nell'agosto 1412, Carlo resta ferito e deve lasciare il comando al fratello Pandolfo III. Il 24 dicembre 1412 Gregorio XII ritorna a Rimini da Carlo che nel frattempo ha invano tentato di costituire una lega a favore del papa.
Pandolfo di Brescia
A Carlo all'inizio di gennaio 1413 i fiorentini spediscono un messo nella vana speranza di poter convincere Gregorio XII a rinunziare al pontificato convalidando così l'elezione di Giovanni XXIII, che il signore di Rimini invece considerava nulla.
A novembre 1413 Pandolfo III, fratello di Carlo di Rimini e signore di Brescia e Bergamo, si reca a Cremona per rendere omaggio al re d'Ungheria ed a Giovanni XXIII.
Con il re d'Ungheria, che aveva sottratto alla Serenissima i territori di Treviso, Udine, Cividale e Feltre, trattative erano state intavolate da Malatesta I. Al quale si rivolge Giovanni XXIII allo scopo di attirare dalla propria parte Carlo Malatesti.
Carlo il mediatore
Per consolidare la sua posizione, Giovanni XXIII convoca un altro concilio a Roma, invocando la protezione dell'imperatore Sigismondo. Il quale impone come sede la città di Costanza. Dove ritroviamo Carlo Malatesti. E dove Giovanni XXIII è dichiarato decaduto, per cui fugge nella notte fra il 20 ed il 21 aprile 1415.
Sia a Pisa sia a Costanza, Carlo s'impone come mediatore fermo ma aperto alle altrui ragioni, oltre che sottile analista ed dotto polemista, mettendo in ombra ruolo e figura di Malatesta I. Il quale imita l'atteggiamento di Carlo a favore di Gregorio XII, ed abbandona Giovanni XXIII dimenticando il cospicuo vitalizio da lui ricevuto nel 1410.
Carlo a Costanza
Il concilio di Costanza si apre solennemente il 5 novembre 1414. Il 13 maggio 1415 vi si legge la lettera scritta da Carlo a Brescia il 26 aprile come procuratore speciale di Gregorio XII «ad sacram unionem perficendam». Per ringraziamento Gregorio XII il 13 giugno da Montefiore Conca concede un vicariato decennale in alcuni castelli della Chiesa ravennate al fratello di Carlo, Andrea Malatesti.
Carlo giunge a Costanza sabato 15 giugno. Il 16 si presenta all'imperatore Sigismondo, «significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva».
Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi ai quali illustra la sua funzione di incaricato «ad emettere semplicissima rinunzia a nome» di Gregorio XII. Aggiunge però «gli intendimenti suoi sulle formule da osservare» con richiami all'«autorità di scritture e Padri».
L'imperatore d'Oriente
Il 16 giugno Carlo incontra anche Manuele II imperatore d'Oriente, che nel 1421 diventerà suocero di Cleofe, la sfortunata figlia di Malatesta I di Pesaro.
Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei. A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe ad una sorella. Il velo dell'oblio può non essere casuale. Se ne dovrà riparlare in altra pagina.
A Costanza si trovano anche il patriarca di Costantinopoli Giovanni Rochetaillée [De Rupescissa], ed un arcidiacono bolognese nominato nel 1413 amministratore loco episcopi della diocesi di Brescia, Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe, che nel 1417 sarà presente nel conclave da cui esce eletto Martino V, e che nel 1424 sarà inviato come arcivescovo alla diocesi di Patrasso che dipendeva da Costantinopoli. Brescia, sia ripetuto en passant, era governata da Pandolfo III di Rimini, fratello di Carlo.
Dall'ottobre 1418 e sino al 1424 il pesarese Pandolfo è vescovo di Coutances in Normandia, nei duri momenti della conquista inglese nel corso della guerra dei cento anni. Il 4 luglio 1415 Carlo legge la bolla di rinuncia di Gregorio XII (scritta a Rimini il 10 marzo), stando seduto al fianco dell'imperatore Sigismondo che presiede la sessione conciliare (XIV) intitolata «Sede Apostolica vacante», per sottolineare la svolta ai fini della chiusura dello scisma.
Huss bruciato vivo
Il 6 luglio a Costanza è bruciato vivo Giovanni Huss, seguace di Wycliff e capo di una rivolta autonomistica in Boemia che impensieriva Sigismondo. Huss era stato invitato con un salvacondotto dell'imperatore. Fu attirato nella trappola dai padri conciliari che, non paghi del rogo su cui era stato giustiziato, fecero riesumare le sue ceneri per disperderle al vento come ultimo oltraggio.
Il 15 luglio all'ormai ex Gregorio XII ritornato cardinal Angelo Correr, è conferita a vita la legazione della Marca d'Ancona. Ed in tal veste egli utilizzerà i buoni uffici e le armi di Carlo per riportare all'ordine la Chiesa di Recanati passata all'antipapa Giovanni XXIII (nel frattempo arrestato, dopo la fuga da Costanza).
Angelo Correr muore a Recanati il 26 novembre 1417. Nello stesso anno a Costanza il 26 luglio è deposto Benedetto XIII per la seconda volta dopo Pisa. L'11 novembre l'elezione di Martino V, Oddone Colonna, pone fine allo scisma. Il fratello del nuovo papa è il padre di Vittoria Colonna che l'anno precedente è andata sposa a Carlo Malatesti di Pesaro, il fratello di Cleofe.
Le nozze contro lo scisma
Non è illogico ipotizzare che il nome della fanciulla sia circolato a Costanza in quel summit politico-religioso in cui l'unità della Chiesa tanto invocata non poteva limitarsi soltanto alla risoluzione dello scisma d'Occidente ma doveva estendersi anche a quello d'Oriente, più antico, più complesso e, come gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato, meno facile da affrontare e sanare.
Nella prospettiva di un nuovo quadro dei rapporti tra Roma e Costantinopoli, è progettato come fase preparatoria il doppio matrimonio fra i figli di Manuele e due fanciulle cattoliche, appunto Cleofe di Pesaro e Sofia del Monferrato. Il papa l'8 aprile 1418 autorizza i figli dell'imperatore bizantino a sposare donne cattoliche.
Martino V e i Malatesti
Chiuso il concilio di Costanza il 22 aprile 1418, Martino V torna in Italia. Il 12 ottobre è a Milano, verso il 20 va a Brescia da dove parte il 25 diretto a Mantova.
Per difendere i territori della Chiesa, il papa ha altri contatti con i Malatesti di Rimini e Pesaro. I quali nel frattempo hanno ottenuto la liberazione di Galeazzo figlio di Malatesta I di Pesaro e Carlo di Rimini catturati il 12 luglio 1416 da Braccio di Montone (1368-1424).
Per la loro liberazione, la moglie di Carlo, Elisabetta Gonzaga, si era appellata ai padri conciliari. Malatesta I ed il figlio Carlo di Pesaro avevano percorso tutte le possibili strade diplomatiche.
Per il riscatto dei prigionieri alla fine dovettero intervenire il duca di Urbino, Guidantonio di Montefeltro e Gian Francesco Gonzaga. Guidantonio di Montefeltro era coinvolto dalla moglie Rengarda (sorella di Carlo il prigioniero) e dalla sorella Battista (moglie di Galeazzo, l'altro prigioniero).
Politici e banditi
Gian Francesco Gonzaga era non soltanto figlio di Francesco Gonzaga (morto nel 1407 e fratello di Elisabetta moglie di Carlo di Rimini) e di Margherita Malatesti (+1399) sorella di Carlo, ma pure dal 1410 marito di Paola Malatesti sorella di Galeazzo e di Cleofe. Ad abundantiam, si consideri che Anna di Montefeltro, sorella di Battista e di Guidantonio, era la vedova di Galeotto Belfiore di Cervia (+1400), fratello di Carlo di Rimini.
Le ultime fasi della trattativa fra Braccio ed i Malatesti sono condotte da Pandolfo III di Brescia e Malatesta I di Pesaro. E ad accogliere il marito Galeazzo liberato (aprile 1417) si reca ad Iesi sua moglie Battista.
Quando Martino V dunque nell'ottobre 1418 passa per Brescia, vi trova Pandolfo III come suo vicario, e quale amministratore loco episcopi della diocesi Pandolfo figlio di Malatesta I e fratello di Cleofe.
Brescia, addio
Nella successiva tappa di Mantova dove arriva accompagnato da Pandolfo III, Martino V incontra Carlo di Rimini e la moglie Elisabetta. In giugno il papa ha chiesto a Carlo di appoggiare la lega che aveva formato con Napoli, ed un aiuto finanziario per pagare i soldati dello Stato della Chiesa. Carlo e Malatesta I hanno inviato un modesto contingente di soldati.
A Mantova il discorso di Martino V tocca una nota dolente per i Malatesti, quella della precarietà dei loro possedimenti in Lombardia. È quasi un annuncio di quanto succederà il 24 febbraio 1421 con la fine della signoria bresciana.
Nel luglio 1418 un inviato del papa a Brescia ha cercato di indurre Pandolfo III a stipulare la pace con Milano o in alternativa concordare una tregua di sei mesi.
In ottobre, prima dell'arrivo di Martino V, Pandolfo III ha avvisato Venezia dell'imminente visita del pontefice per convincerlo alla pace con i Visconti. Da Venezia hanno risposto che Milano aveva affidato al papa la questione di Brescia.
Visconti e Venezia
La riconciliazione fra Visconti e Malatesti avverrà nel febbraio 1419, con la promessa di Pandolfo III della restituzione di Bergamo e Brescia alla propria morte. Nel novembre 1419 Martino V lo esenta dal censo destinato alla Camera apostolica. L'anno successivo Pandolfo III rompe la tregua, ma assediato e stremato si arrende ricevendo in cambio 34 mila fiorini.
Nel 1421 inutilmente Pandolfo e Carlo di Rimini, assieme al vescovo di questa città, supplicano Venezia di accogliere la donazione di Brescia ormai indifendibile dal Malatesti, e chiedono la concessione di un prestito di seimila ducati per assoldare a sostegno della loro causa addirittura quel Braccio di Montone che aveva fatto prigioniero Carlo di Rimini e Galeazzo di Pesaro.
Pandolfo III
La successiva carriera di Pandolfo III vede la carica di capitano generale della Chiesa (1422) e di Firenze (1423). Il 4 ottobre 1427, egli è colto da malore a Fano dove muore a 57 anni. Si narra che fosse in pellegrinaggio a piedi da Rimini a Loreto, per invocare la guarigione dai malanni che lo affliggevano, aggravati dalle fresche nozze (12 giugno) con una giovane fanciulla, Margherita Anna dei conti Guidi di Poppi.
Le cronache malatestiane costruiscono la scena della sua scomparsa, con lui «ben confesso e contrito» fra le braccia di frate Iacono della Marcha, noto per le sue predicazioni contro gli hussiti in Ungheria e gli eretici «fraticelli» d'ispirazione francescana nell'Italia centrale.
Nessuna delle tre spose legittime gli lasciò eredi. Altrettanti figli ebbe dalle sue concubine, Allegra dei Mori (Galeotto Roberto) ed Antonia da Barignano (Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta Novello). Essi dopo la morte del padre passano sotto la tutela dello zio Carlo di Rimini che li fa legittimare dal papa Martino V nel 1428.
Pesaro 1418
Nello stesso anno Galeotto Roberto prende in moglie Margherita d'Este, figlia del signore di Ferrara. Ritorniamo a Mantova nell'ottobre 1418. Qui presso Martino V arriva pure Malatesta I.
Il papa gli concede la rinnovazione della signoria di Pesaro e la sede vescovile di Coutances per suo figlio l'ecclesiastico Pandolfo, dal 22 marzo cappellano pontificio, con una rendita annuale di ottomila ducati. Poi giungono i coniugi Battista e Galeazzo di Pesaro. Lei, educata alle umane lettere, amate anche da suo padre Antonio conte di Urbino, si segnala per l'orazione gratulatoria che recita a Martino V.
A fine del novembre 1418 dal papa si reca Gian Francesco Gonzaga che l'11 gennaio successivo è creato duca di Spoleto. Nello stesso gennaio 1419 Martino V riceve anche Taddea di Pesaro, sorella di Cleofe e di Paola Malatesti moglie di Gian Francesco Gonzaga. Martino V parte da Mantova per Roma il 30 gennaio 1419, e lungo il viaggio fa sosta a Ravenna.
Verso Oriente
Nello stesso anno il papa nomina Guidantonio di Montefeltro, marito di Rengarda sorella di Carlo di Rimini, capitano generale contro Braccio di Montone. Pacificata la Chiesa d'Occidente, il papa tenta di ripetere l'operazione con quella d'Oriente. Proprio nel 1419 avviene la scelta ufficiale di Cleofe e di Sofia di Monferrato (destinata a Giovanni Paleologo, fratello dello sposo di Cleofe, e futuro basileo di Costantinopoli) che finiscono quali vittime sacrificali sull'altare di una «ragion di Stato» applicata alle questioni religiose.
Ai Malatesti sembra di aver raggiunto la vetta della loro fama internazionale. Ma nel 1429 con la scomparsa di Carlo di Rimini (14 settembre), sino ad allora gran regista di tutti gli affari del casato, e di Malatesta I di Pesaro (19 dicembre), escono di scena i protagonisti di una stagione difficile ma con momenti indubbiamente esaltanti come la partecipazione al concilio di Costanza.

1. 2. Profilo di una città, 1429-1469

La successione, 1429
Il 14 settembre 1429, il potere passa nelle mani dei tre nipoti di Carlo: Galeotto Roberto, Sigismondo Pandolfo e Domenico Malatesta Novello. Essi sono figli naturali di Pandolfo III signore di Brescia, fratello di Carlo, deceduto nel 1427.
Carlo, senza prole da parte della moglie Elisabetta Gonzaga, li ha fatti legittimare dal pontefice Martino V nel 1428. Si legge solitamente che fu il solo Galeotto Roberto a subentrare allo zio Carlo nel governo di Rimini. E che a Sigismondo e Domenico toccarono rispettivamente Fano e Cesena (cfr. Tonini, V, 1, p. 80).
Ma come osserva Anna Falcioni in base ad una precisa documentazione (Galeotto, p. 110), appare certo che essi «non governassero indipendentemente i tre vicariati» ma anzi esercitassero il loro dominio congiunto sulle città di Cesena, Rimini e Fano, sino alla scomparsa dello stesso Galeotto Roberto, (10 ottobre 1432). A loro tre si unì la vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga.
Galeotto Roberto ha diciotto anni ed è il più anziano dei tre. Sigismondo ne ha dodici e Novello undici. Per questo fatto, a Galeotto Roberto è riconosciuta la direzione della Signoria.
Nonostante la giovane età, Galeotto Roberto ha modo di manifestarvi tutta la sua abilità diplomatica nei rapporti con Roma (Delvecchio, Sigismondo II, p. 35).
Opposizione aristocratica
Contro Galeotto Roberto (ed i fratelli, dunque), a Rimini immediatamente si coagula «una pericolosa opposizione interna di matrice aristocratica in seno al consiglio» da lui stesso nominato (Falcioni, Politica, p. 142).
È un'opposizione che tra sabato 5 e mercoledì 9 maggio 1431 (come scrive Falcioni) sfocia «nell'iniziativa sovversiva di Giovanni di Ramberto Malatesti», un discendente di Giovanni lo Sciancato detto Gianciotto.
Il suo tentativo di colpo di Stato «fallì l'obiettivo ma riuscì a gettare la città nel caos», mettendo a repentaglio la stabilità dello Stato malatestiano.
Giovanni di Ramberto gli era stato affiancato come consigliere data la giovine età di Galeotto Roberto.
Galeotto Roberto sventa l'azione dei suoi avversari anche grazie alle informazioni riservate ricevute da Nicolò III d'Este. Il quale nel 1428 gli aveva concesso in moglie la figlia Margherita. Nel 1433 Sigismondo, fratello di Galeotto Roberto, sposa Ginevra sorella di Margherita.
L'avviso fornito da Nicolò d'Este, la decisa reazione di Sigismondo che, ardimentoso benché soltanto quasi quattordicenne, affronta il nemico a Cesena, la lealtà dei sudditi e le pressioni di Venezia «rigorosa custode dell'equilibrio in Romagna e nella Marca d'Ancona», fanno fallire il moto di rivolta (Falcioni, Galeotto, p. 142).
Il coraggio di Sigismondo
Circa il coraggioso comportamento di Sigismondo Pandolfo Malatesti, vale l'osservazione di Anita Delvecchio nel suo bel saggio biografico a lui dedicato (Sigismondo II, p. 37): l'intero episodio è stato «senza dubbio, accresciuto ad arte con elementi non estranei al favoloso», e dovuti ad «una pomposa retorica cortigiana» che idealizza il comportamento di un ragazzo non ancora quattordicenne (era nato il 19 giugno 1417).
E, aggiungiamo, lo trasforma in un exemplum quasi da manuale di pedagogia rinascimentale per l'educazione dei giovani principi.
Sull'intervento di Venezia, va detto che Galeotto Roberto ne riconosce il ruolo egemone nell'Adriatico (Falcioni, Politica, p. 143). Due giorni dopo il moto sedizioso Venezia invia dal porto di Cesenatico verso Rimini alcune galere (Delvecchio, Sigismondo II, p. 36).
Galeotto Roberto, nato nel 1411, scompare il 10 ottobre 1432, poco dopo la zia Elisabetta Gonzaga deceduta il 22 luglio. Gli succedono i due fratelli che già lo avevano sino ad allora affiancato, Sigismondo Pandolfo (1417-1468) e Domenico Malatesta Novello (1418-1465). Essi nel 1433 si suddividono il potere: Sigismondo resta signore di Rimini, a Novello tocca il governo di Cesena.
Disagio della plebe
I fatti del 5 maggio 1431, secondo lo storico Clementini (Raccolto, II, pp. 245-246), vanno collegati alla «penuria, ch'era al presente de' viveri». In quelle condizioni di disagio, «la plebe, che facilmente inchina al male» ed è «pronta al risentimento», si sollevò «pigliando l'arme» contro la sede della «gabella» ed il «Palagio del Podestà».
Il giorno successivo, domenica 6 maggio, si verifica un altro assalto durante il quale i «beccarini», ossia i macellai, «saccheggiarono le case, e i banchi degli Ebrei» al lavoro nel giorno di festa non per loro ma per i cristiani.
«Beccarini» è un diminutivo, nel Clementini, della forma conosciuta «beccari», la cui attestazione riminese è nell'omonima via del centro storico che porta a sinistra dall'attuale corso d'Augusto partendo da piazza Cavour verso il ponte di Tiberio, quasi sul retro del palazzo comunale.
Censi dovuti alla Chiesa
Nella biografia di Sigismondo Pandolfo Malatesti composta da Francesco Gaetano Battaglini (Della vita etc…. Albertini, Rimini 1793, pp. 280-281), incontriamo un altro aspetto che completa utilmente il quadro d'assieme della rivolta del maggio 1431. Il defunto Carlo Malatesti non aveva pagato «grosse partite di censi» alla Chiesa, per cui, allo scopo di rappacificarsi con essa era necessario trovare «cospicue somme».
A questo scopo «erano volte tutte le diligenze» della vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga, coinvolta in quella che Anna Falcioni chiama la «signoria consortile» malatestiana su Cesena, Fano e Rimini (Galeotto, p. 111).
L'espressione usata da Battaglini («le diligenze»), indica una forma di rispetto per i successori del marito, e la preoccupazione presente in Elisabetta di sanare una situazione pericolosa sotto il profilo politico.
Il denaro che si esigeva dalla Curia romana, «parte dagli Ebrei fu pagato, che molto ricchi vivevano e faceano loro traffico in Rimini, in Cesena, e in Fano» (Battaglini, p. 281). Galeotto Roberto, dopo esser stato salvato dall'aiuto dei prestatori israeliti, cerca di punirli poco dopo (1432) con il fargli imporre dal papa l'obbligo del «segno».
Galeotto e gli Ebrei
Francesco Gaetano Battaglini racconta che Galeotto Roberto non poteva «tollerare, che gli Ebrei già in grande numero stanziati nel suo dominio, vantando non so quale indulto impetrato da Papa Martino, vivessero e praticassero confusi tra i Cristiani senza distinzione di segno alcuno; contro la quale licenza ricorrendo al Pontefice Eugenio fece sì che con Breve de' dieci di giugno commissivo al vescovo di Rimino, fu proveduto sopra tutti gli Ebrei dello Stato de' Signori. Valse ciò a Galeotto per qualunque segnalata vittoria avesse potuto coronare i suoi giorni» (pp. 300-301).
Il papa Martino qui ricordato è Martino V, in carica dal 1417 al 1431. Egli mitigò le misure prese contro gli Ebrei dal suo predecessore Gregorio XII (1406-1415), strettamente legato alle vicende dei Malatesti di Rimini. Infatti Carlo Malatesti fu da lui inviato al Concilio di Costanza come suo delegato, «ad sacram unionem perficiendam». L'Eugenio del Breve è papa Eugenio IV.
Antefatti
La presenza di Carlo al Concilio di Costanza è il momento più alto nei rapporti tra i Malatesti e la Chiesa. Con cui essi avevano fatto pace l'8 luglio 1355, ricevendo in vicariato le città di Rimini, Fano e Fossombrone con i loro contadi.
Da quel giorno i Malatesti sono rientrati nel gran gioco della politica, non soltanto come condottieri di armate mercenarie. Pandolfo II nel 1357 è a Praga e a Londra in veste di inviato pontificio, anche se gli storici ne sottovalutano il ruolo, riducendo le sue missioni a vendetta privata contro il violento e feroce Bernabò Visconti da cui aveva ricevuto l'offesa dell'arresto. A Praga risiedeva l'imperatore Carlo IV che conosceva bene la famiglia Malatesti: nel marzo 1355 aveva nominato suo vicario per Siena proprio il fratello di Pandolfo II, Malatesta Ungaro.
Liberato da Galeazzo, fratello di Bernabò Visconti, Pandolfo era fuggito da Milano partecipando ad un intrigo internazione in cui agisce da provetto politico. Contro di lui i Visconti scatenano il povero Francesco Petrarca, costringendolo a scrivere in epistole ufficiali, che il Malatesti era dominato da un sentimento di perfidia verso Bernabò che invece lo aveva amato come un fratello.
Pandolfo è fatto muovere invece dall'obbedienza al papa che nello stesso 1357 lo invita ad Avignone. Impedito dagli impegni militari con i fiorentini, Pandolfo spedisce suo padre alla corte pontificia.
Per completare il discorso sulla presenza di Carlo a Costanza, un particolare di non poco conto, è che proprio in quel Concilio si decide la sorte di una giovane Malatesti, Cleofe, nipote di Pandolfo II e figlia di Malatesta “dei sonetti”, che papa Martino V fa sposare a Teodoro despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II.
Le nozze sono celebrate il 19 gennaio 1421 assieme a quelle di Sofia di Monferrato con Giovanni VIII Paleologo. Cleofe e Sofia sono unite dallo stesso progetto di papa Martino V per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054. Come per la missione di Carlo, «ad sacram unionem perficiendam».
Ritorniamo a Galeotto. Egli scompare il 10 ottobre dello stesso 1432.
La biografia di Sigismondo pubblicata da Battaglini nel 1793 riprende la notizia del «breve» di Eugenio IV apparsa in altra opera dello stesso autore, le Memorie istoriche del 1789 (p. 228), con la precisazione che dell'esistenza del documento pontificio l'autore era stato informato dall'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi, savignanese di origine ma formatosi a Rimini alla scuola del medico Giovanni Bianchi il quale poi lo aveva avviato a Roma.
Ebrei, questione politica
Il documento pontificio obbliga a rileggere in maniera diversa quanto narrato da Clementini sugli eventi del 6 maggio, cioè l'assalto durante il quale i «beccarini» saccheggiano case e banchi degli Ebrei.
I Malatesti, costretti ad affrontare una rivolta popolare provocata dalla penuria dei viveri, allo scopo di portare la pace sociale nel loro dominio ricorrono ad un provvedimento demagogico e fortemente in contraddizione con la realtà politica in cui vivevano.
Lo spirituale e francescano Galeotto Roberto vuole punire gli Ebrei, quegli stessi Ebrei dai cui prestiti i signori riminesi erano stati aiutati nel salvare il loro potere minacciato dalle ritorsioni ecclesiastiche per le partite di censi non versate da Carlo. Galeotto Roberto fa obbligare dal papa gli Ebrei al «segno» distintivo.
Il ruolo di Roberto
Dopo la morte di Sigismondo (9 ottobre 1468), suo figlio Roberto, nato dalla fanese Vannetta de Toschi, si presenta quale pretendente al governo di Rimini in competizione con Isotta e con il fratellastro Sallustio (1450-1470), partorito dalla bolognese Gentile de Ramexinis e destinato a tragica fine di lì a poco.
Roberto ha ricevuto dal padre non soltanto un'educazione all'arte militare ma anche all'esercizio politico ed ai negozi diplomatici. Come condottiero ha mietuto brillanti successi, ma il 13 settembre 1463 ha subìto una dolorosa capitolazione proprio nella natìa Fano, mentre combatteva contro il papa per recuperare prestigio alla famiglia che Pio II stava massacrando con le carte, le scomuniche e le armi (Masetti, Roberto, p. 219).
Nel Natale 1460 il papa ha pronunciato un anatema contro Sigismondo. Il 16 gennaio 1461 ha declamato una «schiacciante requisitoria» contro di lui, offrendogli la possibilità di difendersi in un processo affidato a Nicola Cusano: «la baldanzosa risposta di Sigismondo è la continuazione di una guerra che gli doveva apparire ormai inevitabile».
Antefatti romani
Nel febbraio 1462 i sudditi riminesi sono stati sciolti dal vincolo di fedeltà. Il 26 aprile 1462 «tre fantocci raffiguranti Sigismondo» sono stati bruciati in altrettanti diversi punti di Roma, ed il giorno seguente il papa ha emanato la «bolla» Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini (Arduini, pp. 13-14).
Il 2 dicembre 1463 la Chiesa romana ha lasciato allo «splendido» (come lo chiama Maria Bellonci) Sigismondo una città «privata per lo più dei territori che aveva governato fin dai tempi del Comune» (Falcioni, Politica, p. 193).
Negli affari di Stato Roberto si è comportato sovente in assoluto antagonismo rispetto al padre. Ha preferito stare dalla parte dello zio Malatesta Novello signore di Cesena, con cui Sigismondo non andava molto d'accordo.
Novello aveva avuto forti simpatie per il governo veneziano, ed era stato trattenuto dal fratello dal concludere con esso un trattato. Poi Novello aveva ceduto Cervia alla Serenissima.
Novello aveva anche sospettato Sigismondo di essere l'ideatore di una congiura per ucciderlo. L'accordo di Ferrara fra i due fratelli (9 luglio 1453) non aveva eliminato i motivi di attrito politico che tornano a ripresentarsi sino alla morte di Novello, sopraggiunta il 20 novembre 1465.
Ebrei, il caso cesenate
Del governo di Novello a Cesena, a proposito dei rapporti con la comunità ebraica, va detto che nel 1433 egli è al centro di un episodio da meditare. Con un bando podestarile del 27 febbraio, a Cesena, Bertinoro e Meldola si ordina agli Israeliti sia donne sia uomini di non girare senza il solito contrassegno giallo sul petto, introdotto in sèguito alle decisioni del concilio lateranense del 1215 sotto Innocenzo III (Fabbri, Novello, pp. 54-55, 295-296).
A Novello si rivolgono con una supplica due banchieri ebrei, Masetto Angeli e Leone Zenatani. Essi chiedono una revoca del provvedimento e di potersi comportare «se non come semo usati».
L'espressione indica che gli Ebrei rifiutavano «uno 0 giallo» introdotto dal bando podestarile, al posto del consueto segno, un cappello giallo per gli uomini ed un velo dello stesso colore per le donne. Velo che era lo stesso imposto alle prostitute.
Novello il 2 aprile accorda agli Ebrei quanto da loro richiesto ed ordina al podestà di non molestarli più. Con tutta probabilità, la prima decisione del 27 febbraio era stata adottata per accontentare il mondo ecclesiastico locale.
Osserva Fabbri (Novello, p. 54), che la direttiva podestarile riguarda tutto il territorio della signoria malatestiana con i tre comuni di Cesena, Bertinoro e Meldola, e che «l'unico in grado di farla diramare ero lo stesso» Novello, per cui «si potrebbe pensare ad una leggerezza commessa» da costui «quando cedette alle pressioni di chi voleva mettere al margine gli ebrei».
La scelta di Novello del 2 aprile invece rientra nel quadro dei rapporti di buon vicinato con la società ebraica tanto utile con i propri traffici mercantili e monetari.
Novello aveva seguìto l'esempio del fratello Galeotto Roberto che, come si è visto, nel 1432 aveva ottenuto da papa Eugenio IV il «breve» diretto al vescovo di Rimini che reintroduceva per gli Ebrei presenti in città il previsto «segno» di distinzione. Con la differenza che Galeotto Roberto aveva fatto intervenire il papa attraverso il vescovo, mentre Novello agisce in prima persona.
Tra Sforza e Montefeltro
Roberto oltre che con lo zio Malatesta Novello signore di Cesena, si era alleato con il milanese Francesco Sforza, primo suocero del padre.
Sigismondo fu accusato di aver strangolato Polissena Sforza, sua seconda moglie. Giuseppe Malatesta Garuffi spiega che se anche l'avesse fatto, Sigismondo avrebbe agito «per giusta ragione di Stato» avendo lei rivelato al padre, in lettere intercettate dal marito, «alcuni militari segreti del consorte».
Alla scomparsa di Novello, Roberto non è riuscito a succedergli occupando militarmente Cesena. Il conte di Urbino su incarico del nuovo papa Paolo II, a cui spettava la città in base ai patti firmati da Malatesta Novello il 12 novembre 1463, doveva prenderne possesso.
Roberto giocò d'anticipo, ma cambiò programma dopo l'arrivo sotto Cesena delle milizie di Federico da Montefeltro e soprattutto dopo aver ascoltata la promessa (poi rispettata sia da Urbino sia dal pontefice) di ricevere in concessione Meldola e Sarsina assieme ad altri territori.
Pio II il grande nemico di Sigismondo era morto il 15 agosto 1464. Il successore Paolo II, Pietro Barbo ex vescovo di Cervia, era stato padrino di Roberto al fonte battesimale (Donne, p. 411).
Paolo II, eletto in un conclave veloce durato soltanto dal 28 sera al 30 agosto, utilizza Roberto per evitare che Rimini cada in mano dei veneziani che già vi hanno una guarnigione di duecento fanti (richiesta dallo stesso Sigismondo, cfr. Tonini, V, 1, p. 307) per mantenere la pace durante l'assenza del signore impegnato condottiero in Morea.
Sparsasi a metà gennaio 1465 la notizia della morte di Sigismondo, il papa invia Roberto a Rimini dove però all'inizio di febbraio arriva la smentita del decesso di suo padre.
Isotta e Sallustio
Mentre la città è al centro di questo scontro d'interessi e della contesa politica fra papato e Venezia, il potere è esercitato saldamente da Isotta affiancata dal figliastro Sallustio.
I maggiorenti riminesi sono divisi tra chi appoggia Roberto e quindi, più o meno consapevolmente, pure il papa suo sostenitore, e chi è a favore di rapporti privilegiati con Milano (Roberto è al servizio di Francesco Sforza) o con Firenze. Isotta presentandosi invece come garante della Serenissima, ha quasi tutti contro.
L'assenza di Sigismondo da Rimini per la condotta in Morea contro i Turchi, spinge Roberto a ipotecare anche il governo di Cesena, quale successore di Novello. Contro il quale Isotta nel marzo 1465 prepara una congiura, facendo arrestare e torturare un famigliare del cognato, tale Giacomo.
Da Giacomo, Isotta voleva una falsa confessione per colpire Novello, delegittimandolo agli occhi delle corti italiane e per eliminare Roberto dalla scena politica.
Sigismondo fa però sapere ai diplomatici di Venezia che la successione a Cesena spettava a lui e non al figlio. Di Roberto non ci si poteva fidare, sostiene pubblicamente Sigismondo, perché avrebbe potuto tradire il casato e cedere il governo di Cesena al duca di Milano.
Il 5 ottobre 1465 l'ambasciatore milanese a Venezia scrive a Sforza che Sigismondo voleva rientrare in patria per raddrizzare le proprie cose con il papa allo scopo di riavere tutto od in parte il suo stato, ed anche perché aveva saputo dell'aggravarsi di Novello. Appreso che Roberto era stato inviato da Sforza a Cesena, Sigismondo temeva che Milano volesse impadronirsene.
La scomparsa di Novello
Il 21 novembre (Novello è morto la sera prima, ma l'ambasciatore ovviamente non lo sa ancora), il diplomatico milanese scrive un rapporto in cui ipotizza un accordo fra Roberto ed i fiorentini per cedere loro Cesena nel caso fosse riuscito nei suoi intenti di salire al potere. Il 25 novembre, dando la notizia della scomparsa di Novello l'ambasciatore riferisce che a Venezia si dà per certo che lo Sforza sta dalla parte di Roberto.
Il colpaccio di Roberto di conquistare il potere a Rimini attuato in proprio o per conto del papa, è respinto da Isotta. La quale fa processare, torturare ed impiccare un consigliere di Sigismondo, Iacopo Anastagi, accusandolo di essere un traditore in quanto fautore di Roberto. (Cfr. Campana, Isotta, Donne, p. 378).
La cosiddetta «congiura di Giacomo Anastagi» consiste nella proposta da lui fatta a Isotta di richiamare Roberto a Rimini. Scacciato dalla corte, Giacomo fu accusato d'aver voluto assicurare la successione a Roberto. La confessione gli fu estorta mediante tortura. (Cfr. Soranzo, Morea, pp. 243-247.)
Una libreria
Iacopo Anastagi lascia una bella biblioteca di cui conosciamo l'inventario (in R. Banker, A legal and humanistic library in Borgo San Sepolcro, «Rinascimento», II s., XXXIII, 1993, pp. 163-191). In essa si trovava l'orazione ufficiale tenuta da Giannozzo Manetti (Oratio Iannottii Manetti vulgaris ad Sigismondum, n. 185) a Vada nel 1453 quando al signore di Rimini sono confermati da Firenze «l'autorità del governo e 'l bastone» del proprio esercito.
Manetti è autore dei dieci libri Adversos Iudaeos et gentes pro catholica fide, ed assume Dante a simbolo della dignità umana, paragonandogli per i tempi più remoti la figura di Socrate (cfr. GARIN, L'umanesimo italiano, p. 70).
La presenza dell'orazione di Giannozzo Manetti nella biblioteca di Iacopo Anastagi, permette di ipotizzare che questi (strettissimo e fidato collaboratore di Sigismondo), abbia fatto confluire nella propria raccolta personale alcuni testi appartenenti al principe per cui lavorava. Anastagi possedeva anche due codici del De re militari di Roberto Valturio.
Roberto, Isotta e Sallustio
Roberto Malatesti dopo la morte del padre non si getta immediatamente nella mischia, ma prima accetta di amministrare la città assieme a Isotta ed al fratellastro Sallustio.
Isotta e Sallustio nel 1466 erano stati dichiarati da Sigismondo eredi di tutti i suoi beni. Il governo di Isotta, Roberto e Sallustio passa alla storia per un illuminato bando che concede la libertà di commercio d'importazione a tutti i mercanti cittadini e forestieri (Donne 2, p. 596; Masetti, Roberto p. 229).
Gli avvenimenti successivi al 9 ottobre 1468, giorno della scomparsa di Sigismondo, rivelano i contrasti esistenti in città ed all'interno di casa Malatesti. Isotta e Sallustio informano Venezia della «continua intelligenza» di Roberto con il signore di Milano (Masetti, Roberto, p 228) e delle continue insidie ed azioni dei fiorentini per controllare la situazione riminese.
Venezia risponde mandando un suo messo, Giovanni Elmo che, con la sua presenza, era garanzia indispensabile alla linea di Isotta.
Roberto dal papa
Intanto Paolo II convoca Roberto a Roma, facendosi promettere di restituirgli la città e quindi implicitamente di aiutarlo a cacciare Isotta ed i suoi alleati veneziani.
Roberto accetta, allettato dalla promessa di altri vantaggi territoriali dopo quelli ottenuti con la ricordata vicenda di Cesena del 1465. Roberto ha la segreta certezza di riuscire a non rispettare i patti, e di servirsene per poter prendere il potere a Rimini. Dove poi rientra da Roma.
Le cronache scrivono che il suo arrivo a Rimini avvenne segretamente, e forse lo fanno per creare attorno alla sua figura un alone di mistero allo scopo di segnalare la sua sagacia politica e la sua abilità strategica. («Sagace», è detto in cronaca veronese, Masetti, Roberto, p. 229.) Roberto non aveva bisogno di nascondersi, dato che aveva accettato di unirsi ad Isotta ed a Sallustio nel governo della città.
L'accordo con il papa è ancora una volta (come per Cesena) un fatto strumentale alla successiva mossa alla quale Roberto stava pensando: destituire Isotta, restando al potere soltanto con Sallustio.
In un secondo momento (aprile 1469) Sallustio è allontanato da Rimini con una condotta militare a Napoli nella lega antipapale guidata da Milano, Firenze e lo stesso re partenopeo.
1469, le bombe del papa
Il pontefice scalpita, rendendosi conto di essere stato beffato da Roberto che non ha mantenuto la promessa di prendere Rimini in nome della Chiesa. Paolo II invia a giugno i propri soldati contro Roberto.
Rimini vive un momento drammatico che avrà conseguenze gravissime nei tempi successivi. Un intero quartiere, il Borgo Nuovo di San Giuliano, è letteralmente cancellato (come racconta Luigi Tonini, Mille…).
Nell'agosto dello stesso 1469 le truppe papali entrano in città attraverso il fiume Marecchia. Roberto riesce a ricacciarle indietro, impedendo loro di proseguire verso l'antico foro romano.
Dal Borgo Vecchio di San Giuliano (che s'estendeva dal ponte di Tiberio sino alle mura poste dietro l'omonima chiesa), i pontificii bombardano Rimini, e poi ripiegano nella campagna dopo aver distrutto con le fiamme quasi completamente il Borgo Nuovo.
La gloria militare di Roberto risplende nelle cronache che ne esaltano il valore per aver combattuto ferocemente con le poche forze armate a disposizione. Ma il destino della città è segnato in maniera terribile dal quel fuoco che avvolge il Borgo Nuovo.
Cambia il volto della città
Questi avvenimenti, accaduti tra giugno ed agosto 1469, cambiano il volto della città. Ad essi però, da parte degli studiosi, non è stata prestata la necessaria attenzione.
Nel 1469 Rimini è dapprima bombardata con 1.122 colpi (Paci in Tonini V, 1, p. 335) dalle truppe pontificie appostate lungo il Marecchia (J. AMMANNATI, Commentari, Minuziano, Milano 1506, pp. 409-411), e poi vede bruciare «gran parte» del Borgo Nuovo di San Giuliano (Tonini, Mille, p. 152) che sorgeva dalla cinta malatestiana dietro la chiesa omonima lungo un chilometro e mezzo sino alle Celle «ove le strade per Bologna e per Ravenna fanno trivio» (Tonini, IV, 1, p. 443).
Il Borgo Nuovo è attestato dal 1248, ed era sede della fiera che prendeva nome dal luogo (vedi Statuti del 1351).
I bombardamenti del Borgo Nuovo di San Giuliano hanno un precedente nel 1356, con un analogo episodio accaduto in quello Vecchio: come si legge in Tonini, IV, 1, p. 151. Partendo dall'Annalista Cesenate, Tonini scrive: "Aggiunge lo stesso Annalista che ai 17 di Ottobre (1356) Francesco Ordelaffi Capitano di Forlì venne coi cavalli e coi fanti forlivesi e cesenati sin al Borgo San Giuliano di Rimini, facendovi abbruciar molte case, e traendone molti uomini e molta preda".
I bombardamenti e la distruzione del Borgo Nuovo di San Giuliano non sono elementi di sfondo come purtroppo appaiono a chi (e sono quasi tutti quelli che ne hanno scritto) riduce la storia ad una serie di fatti diplomatici e di illustri biografie.
Essi si presentano invece come un totale sconvolgimento la cui portata è avvertibile soltanto se li collochiamo in un contesto più ampio di quei fatti diplomatici e di quelle biografie che solitamente sono presi come contenitori con cui spiegare tutto.
Le fiere
L'aspetto economico di questo contesto consiglia di ricordare un dato non secondario. Il Borgo Nuovo sembra timidamente rifiorire all'inizio del 1500 con la «fiera delle pelli» che si tiene per la festa di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno. La segue quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo Borgo Vecchio (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio).
Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre (cfr. R. Adimari, Sito riminese, Brescia, Bozzòli, 1616, II, p. 9), inglobando pure quella detta di san Gaudenzio nata in ottobre nel 1509.
La concentrazione delle tre fiere in un unico appuntamento (successivamente tra 8 settembre ed 11 novembre), è l'effetto del declino commerciale ed economico della città, a cui non si sa reagire. Nel 1627 esse (come unica «fiera generale») sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre (C. Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit, pp. 416, nota 1, e 455).
Nel 1630 è sospesa la «fiera delle pelli» per la pestilenza (C. Tonini, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 459), preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce invece la fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio (riscoperta soltanto di recente).
Il Borgo Nuovo resta soltanto un vago ricordo storico ben sottolineato da Luigi Tonini (Mille, p. 152) che ipotizza la sua estensione sino alla chiesa delle Celle dove forse sorgeva la «porta nuova» di cui si legge in un atto gambalunghiano del 1310: «Anche una sola linea di case di qua e di là della strada poteva formare un bel borgo». Di quelle case, sottolinea Tonini, «si sono viste le fondamenta quando, in questi anni, il fiume si è avanzato fino a corrodere parte della strada maestra».
Sallustio ucciso
Riandiamo al 1469. Il drammatico esito della campagna militare pontificia sembra quasi istigare la popolazione a ribellarsi per disperazione e non per condividere il progetto politico di questa o di quella parte.
Sallustio scompare presto dalla scena. Nella notte dell'8 agosto 1470 il suo corpo è trovato senza vita sopra un mucchio di letame dietro la casa della famiglia Marcheselli a cui apparteneva la giovane di cui egli si era invaghito (Masetti, Roberto, pp. 211, 260, 236 Malatesti). Ed un cui componente, Giovanni Marcheselli, fu accusato del delitto. (Un fratello di Sallustio è il canonico Galeotto, abate di San Gaudenzo dal 1500 al 1527.)
Linciato dal popolo (che era guidato da Gasparino Bianchelli, amicissimo di Sallustio Malatesti: cfr. Clementini, II, p. 509) e ridotto in fin di vita, Giovanni Marcheselli fu lasciato morire vicino all'anfiteatro. Le autorità quattro giorni dopo fecero bruciare il suo cadavere.
I Marcheselli subirono la condanna dell'esilio, mentre su Roberto presero a circolare voci che lo volevano mandante dell'omicidio del fratellastro Sallustio. Roberto si difese accusando i Marcheselli che erano imparentati con un condottiero della Chiesa. Per questo motivo essi risultavano un «mortalissimo» nemico dei Malatesti (p. 237).

Rimini moderna (secc. XV-XVIII)
1. 3. Plebe partigiana e delitti politici

Come la plebe fa politica
La scena che ci è stata tramandata del popolo che fa giustizia sommaria di Giovanni Marcheselli, sottolinea il comportamento delle masse urbane riminesi che assumono il ruolo di una vera e propria parte politica. Ruolo che si era già espresso quando, all'epoca della cosiddetta congiura di Iacopo Anastagi (1465), a Rimini era stata diffusa la falsa notizia della morte di Sigismondo per favorire un cambiamento politico a tutto favore della Chiesa. In questa occasione appunto «una buona parte del popolo […] si dichiarò risoluta di porsi sotto il diretto dominio» di Roma.
Dopo Sallustio (secondo le vecchie storie) sarebbe toccato anche a suo fratellastro Valerio, protonotario apostolico, finire assassinato nello stesso anno (1470) a Longiano. Recenti studi però dimostrano, attraverso documenti inediti, che Valerio non fu mai ucciso (Copioli, Agolanti, p. 87).
Giovanni Marcheselli aveva sposato la già ricordata Simona di Barignano, cugina di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Come scrive Rosita Copioli in pagine preziose per tutta la storia di Rimini e non soltanto per quella della famiglia Agolanti che è al loro centro (Copioli, Agolanti, pp. 87-88), è proprio Simona a confermare la responsabilità del marito nel delitto che ha per vittima Sallustio Malatesti.
Con la propria testimonianza, Simona «di fatto provoca la morte» di Giovanni Marcheselli. Il quale era fratello di Lena andata in sposa in seconde nozze a Giovanni di Barignano, il padre di Simona sua moglie, nata dal precedente matrimonio.
Delitti e parentele
Abbiamo già veduto che Giovanni di Barignano è fratello di Antonia la madre di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Quindi Simona moglie di Giovanni Marcheselli è nipote ex fratre di Antonia moglie di Pandolfo IV Malatesti, la quale è pure la nonna di Roberto Malatesti. Quindi la parentela esistente fra Simona di Barignano (moglie di Giovanni Marcheselli) e Roberto Malatesti può aver portata la donna a raccontare la verità sul comportamento del proprio marito, piuttosto che a rinchiudersi in un silenzio di convenienza.
«Dà sempre una certa vertigine l'insistenza di questi matrimoni doppi o tripli con le stesse famiglie, o peggio ancora da parte delle stesse persone», ha osservato Rosita Copioli (Agolanti, p. 88). Quei matrimoni rispondono ad una politica che, nello specifico momento di cui parliamo, mira a realizzare un collegamento degli aristocratici contro Roberto Malatesti (Copioli, Agolanti, p. 87).
Però tale politica non riesce ad impedire né gli scontri (anzi sembra provocarne sempre più), né il disgregarsi del tessuto della vita pubblica che degenera in faide personali le quali fanno sprofondare progressivamente la città. Infatti la situazione riminese peggiora nel 1482 alla scomparsa di Roberto «il Magnifico» con la successione del figlio Pandolfo IV detto «Pandolfaccio».
Va tenuto in considerazione anche il contesto generale della situazione generale, ne parla Rosita Copioli (Agolanti, p. 101) ricordando «un'Italia presa d'assedio dagli eserciti stranieri».
Dieci anni dopo, il 6 marzo 1492, durante una festa in maschera, Raimondo Malatesti, discendente di un ramo collaterale dei signori di Rimini (la cosiddetta «branca Almerici»), è ucciso dai figli di suo fratello Galeotto Lodovico. La storia personale di Raimondo (figlio di Almerico Malatesti e di Amabilia Castracani) s'intreccia con quella del fratello Galeotto Lodovico e con la vicenda politica dei Malatesti riminesi.
La guerra di Ferrara
Nel 1482, l'anno dopo la morte di Maometto II e la riconquista di Otranto, scoppia la cosiddetta «guerra di Ferrara»: Venezia attacca Ercole I d'Este (1431-1505) il quale vede intervenire in sua difesa il re di Napoli (di cui Ercole I aveva sposato la figlia Eleonora) che invade il Lazio. Qui le truppe pontificie sono comandate dal nostro Roberto «il Magnifico» che, coprendosi di gloria al servizio della Chiesa (Masetti, Pandolfo IV, p. 25), vince una memorabile battaglia a Campomorto (presso Velletri).
Una cronaca di Gaspare Broglio (oggi mutila, ma giuntaci attraverso Clementini: cfr. Tonini, V, 1, pp. 386-388), permette di registrare il brillante ruolo militare svolto in quella difficile guerra da Raimondo Malatesti a cui Roberto aveva attribuito la carica di capitano.
Raimondo è salvato da Pietro Benci mentre stava correndo il rischio di restar ucciso o fatto prigioniero dal nemico. Risalito a cavallo dimostrò un coraggio ineguagliabile da qualsiasi paladino, scrisse Broglio.
Roberto si ammala gravemente dopo la vittoria di Campomorto. Raimondo è con lui. Il papa invita Roberto a Roma, dove il signore di Rimini è portato ormai in fin di vita, ma ancora lucido.
Roberto pensa al governo della città e decide di spedirvi con urgenza Raimondo al quale affida «gli opportuni provvedimenti per la conservazione» del potere a Rimini e nel suo Stato (Tonini, V, 1, p. 394). Raimondo giunge a destinazione poco prima della scomparsa di Roberto.
Rimini è praticamente nella mani di Raimondo e di suo fratello Galeotto Lodovico che detiene l'incarico di governatore delle armi.
Morto Roberto (che riceve esequie solenni e sepoltura a Roma in San Pietro) gli subentra il figlio Pandolfo IV che ha soltanto sette anni, troppo pochi per essere lasciato solo a guidare Rimini. Il governo della città è affidato a Raimondo il quale chiama al proprio fianco il fratello Galeotto Lodovico con il compito di controllare le milizie e la custodia della fortezza.
Galeotto tutore di Pandolfo IV
Nel giro di tre mesi, con decreto pontificio del 21 dicembre 1482, Galeotto diventa tutore di Pandolfo IV. La lettera ai cittadini riminesi di Pandolfo IV è del 3 gennaio 1483. Galeotto è stato scelto in quanto governatore di Rimini, e per la sua lunga esperienza politica (dal 1471: cfr, Tonini, V, 1, p. 488). Durante questi tre mesi Raimondo deve affrontare una situazione potenzialmente pericolosa, la congiura di palazzo che si vuole macchinata da Alberto Petrucci che era stato podestà di Rimini dal 1465 al 1472.
Petrucci si dichiara colpevole («Albertus confessus fuit») del tentativo di far prendere il potere ad un nipote di Roberto, figlio della di lui sorella Lucretia che nel 1456 aveva sposato Alberto d'Este figlio naturale di Nicolò III (1384-1441) di Ferrara e quindi fratello di Ercole I (1431-1505) di Ferrara (Tonini, V, 1, pp. 470-471. Baroni, Donne, II, pp. 685-686. Di questo figlio di Lucrezia non si sa nulla, Baroni, Donne, II, p. 693).
Nicolò III è passato alla storia anche della letteratura per la tragica vicenda di sua moglie Parisina Malatesti innamoratasi del figliastro Ugo, che ispirò tra gli altri Bandello, Lope de Vega, Byron, D'Annunzio.
Malatesti ed Este
I rapporti matrimoniali fra i Malatesti e gli Este sono particolarmente importanti nello scenario storico regionale del tempo (Baroni, Donne, II, pp. 684-685.). Le nozze di Lucretia ne sono una conferma. Guardando nuovamente a Ferrara, Sigismondo Pandolfo Malatesti (che nel 1433 aveva sposato Ginevra, figlia di Nicolò III al pari di Alberto marito di Lucretia figlia naturale dello stesso Sigismondo), cerca un consolidamento politico, dopo aver ottenuto la legittimazione dell'erede nel 1453 (Baroni, Donne, II, p. 685).
A proposito delle nozze fra Sigismondo e Ginevra: quando sono celebrate. lui non ha ancora compiuto sedici anni, e lei ne ha meno di quattordici. Galeotto Roberto fratello di Sigismondo sposa invece Margherita, sorella di Ginevra. (Baroni, Donne, II, pp. 684-685.)
Al processo Alberto Petrucci confessa che il piano suo e di altri faziosi mirava a catturare proprio Raimondo Malatesti, definito «strenuum virum» (Tonini, V, 2, pp. 299-301).
Quando nel 1487 Pandolfo IV sposa Violante Bentivoglio, figlia del signore di Bologna, la pratica è perfezionata da Raimondo Malatesti che si reca presso la corte della giovane. Successivamente Raimondo diventa governatore delle armi, subentrando a Galeotto.
Il titolo di «gubernator» per Raimondo appare in un documento del 19 giugno 1492 pubblicato di recente, e che ci mostra in maniera evidente la causa della sua stessa fine. Galeotto era stato spodestato dal fratello, in cui vedeva un ostacolo insormontabile alla propria carriera politica.
Dopo l'uccisione di Raimondo (6 marzo), immediatamente Galeotto è «gubernator». Il delitto non lo danneggia, né chiude la strada alla sua voglia di potere. Che egli continua a percorrere ideando una congiura su cui ritorneremo tra breve.

1. 4. Crisi, dalla dinastia alla città

Crisi di una dinastia
Nel marzo 1497 «a Rimano morivano di fame», ricorda il veneziano Sanudo che cita gli aiuti inviati in città dal suo governo, e la visita fatta in laguna da Pandolfo IV e sua madre Elisabetta Aldobrandini, sorella del «conte Zoan» da Ravenna, condottiero della Serenissima (Malatesti 271-272, nota 39 p. 304).
Vediamo ora come s'origina la parentela fra il ramo riminese e quello «Almerici» (con Raimondo ed il fratello Galeotto), ricostruendo il loro albero genealogico.
Partiamo dal capostipite Galeotto I (morto nel 1385) da cui sorgono i due rami: quello riminese di Pandolfo (1370-1427) e quello di Gaspare, detto «branca Almerici». Da Gaspare derivano in successione Raimondo ed Almerico che dà il nome alla «branca». (Raimondo Malatesti chiama Almerico il proprio figlio in onore della moglie Antonia degli Almerici di Pesaro. Tonini, V, 1, pp. 486-500.)
Almerico ha due figli: Galeotto Lodovico (che sarà tutore di Pandolfo IV detto «Pandolfaccio») e Raimondo assassinato nel 1492. Da Galeotto Lodovico nascono Gaspare e Pandolfo, gli uccisori dello zio Raimondo.
Saltiamo all'altra linea, quella riminese. Dal ricordato Pandolfo (1370-1427) nascono Sigismondo Pandolfo (1417-1468) signore di Rimini, e Domenico Malatesta Novello (1418-1465) signore di Cesena.
Sigismondo Pandolfo di Rimini ha, tra gli altri, tre figli che c'interessano al nostro discorso: Roberto (1442-1482), Sallustio (1450-1470) e Valerio (1453-?). Da Roberto nasce Pandolfo IV detto «Pandolfaccio» (1475-1534), ultimo signore di Rimini.
L'uccisione di Raimondo Malatesti il 6 marzo 1492 è considerata da Clementini all'origine di tutti i mali che affliggono successivamente Rimini, ovvero «il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori» Malatesti e della loro casa.
La versione offertaci dal Clementini è corretta. Non possiamo assumere la pregiudiziale che essendo egli discendente di uno dei congiurati della successiva congiura del 1498, e quindi parte in causa del giudizio storico, non gli vada accreditata alcuna credibilità nell'interpretazione politica di quegli eventi.
I Malatesti non riuscirono a stabilizzare la situazione riminese al proprio interno per cui la crisi della città è diretta conseguenza della loro incapacità di progettarvi un equilibrio, a cui si contrappongono violenze che non sono soltanto una risposta al loro dominio o predominio, ma pure il tentativo di creare un cammino nuovo per la vita della città.
Sempre a proposito del Clementini, altra cosa sono i silenzi che lui s'impone su certi episodi del 1512 (II, p. 642), e sui quali si ritornerà a luogo opportuno. (Circa l'importanza delle pagine di Clementini, si ricordi quanto scritto nel 1950 da Augusto Campana, ed ora anche in Masetti, Pandolfo IV, p. 22, nota 2.)
1492, crisi di una città
Ma questo delitto non è una novità nella vita politica cittadina. C'è il precedente di Sallustio figlio di Sigismondo, ucciso nel 1470 in diverse circostanze. Certamente l'episodio del 1492 fa precipitare immediatamente la crisi politica della città.
Il 31 luglio 1492 Pandolfo e Gaspare, gli uccisori dello zio Raimondo, sono utilizzati dal padre Galeotto Lodovico per una congiura contro Pandolfo IV e la sua famiglia.
A mandarla all'aria evitando una strage, ci pensa Violante Aldobrandini, seconda moglie dello stesso Galeotto Lodovico e sorella di Elisabetta, madre di Pandolfo IV.
In casa di Elisabetta era stato ucciso Raimondo Malatesti quasi cinque mesi prima. Nella stessa abitazione di Elisabetta è ammazzato Galeotto Lodovico, mentre suo figlio Pandolfo è tolto di mezzo in casa del signore di Rimini Pandolfo IV. Gaspare invece è arrestato, processato sommariamente e decapitato (Copioli, Agolanti, p. 105).
Due mesi e mezzo dopo la congiura fallita e la morte dei suoi ideatori, Violante convola a nuove nozze. Violante era la matrigna di Gaspare e Pandolfo, figli della prima moglie di Galeotto Lodovico. La prima moglie è Raffaella figlia di Antonia da Barbiano e vedova di Gilberto da Correggio. Da Violante Aldobrandini, Galeotto Lodovico ha Camilla.
Pandolfo di Galeotto Lodovico a sua volta ebbe quattro figli (Carlo, Malatesta, Raffaella, Laura) perdonati (Tonini, V, 1, p. 491) da Pandolfo IV a testimonianza della sua volontà di pacificazione all'interno della famiglia e della città.
Dal 1492 per circa un secolo, gli omicidi politici che abbiamo registrano continueranno «a far colare sangue», come scrive Rosita Copioli (cfr. in Agolanti, p. 108, dove al proposito è presentata una ricca documentazione).
Verso il disastro
Elisabetta Aldobrandini scompare nell'agosto 1497. Da quel momento suo figlio Pandolfo IV governa Rimini in preda ad uno spirito di vendetta (Tonini, V, 1, p. 430) che spinge i suoi avversari a tentare di cacciarlo il 20 gennaio 1498 con una sommossa nella chiesa di Sant'Agostino. I capi della cospirazione appartengono alle più note famiglie aristocratiche di Rimini: Adimari, Agolanti e Belmonti. Sparsasi la voce della congiura, si solleva la plebe che corre a salvare Pandolfaccio (Tonini, V, 1, p. 433).
La punizione che seguì fu esemplare, con l'esecuzione capitale per gli ideatori. I loro cadaveri furono appesi ai merli della rocca di Sigismondo. Avvennero la confisca dei beni e la distruzione delle loro case (Clementini, II, pp. 577-582).
La confisca dei beni provoca un «disastro» non soltanto in quelle famiglie che la subiscono, ma in tutta l'economia cittadina. (Di «disastro» parla a ragione Rosita Copioli in Agolanti, p. 101) riferendosi all'inchiesta sulla morte di Nicola Agolanti svolta «intorno al 1513».)
Il 10 ottobre 1500 Pandolfo IV se ne va da Rimini che passa in potere del duca Valentino. (Cesare Borgia raccomanda agli amministratori «alcuni Ebrei, artefici ricchi venuti di Spagna», cfr. Tonini, V, 1, p. 16.)
Le campagne riminesi sono inquiete, come testimoniano i servizi segreti ed esponenti politici della Serenissima. (Nell'autunno del 1502 e nell'estate del 1503 si registrano sollevazioni di villani a favore di Pandolfo con distruzioni di «libri e altro» come scrivo Sanudo nei suoi Diari, V, col. 73, 27 agosto, citt. da Masetti, Roberto, p. 132; e Clementini, II, p. 594.)
Nel 1503 dal 2 ottobre al 24 novembre Pandolfo fu di nuovo signore di Rimini, ma sotto il governo veneziano. «Di nuovo la misera città rimase alla discrezione dei furibondi vincitori» che saccheggiarono dovunque e se la presero anche con gli Ebrei ed i loro banchi (Tonini, V, 1, p. 20).
Ci fu uno spargimento di sangue in cui restarono uccisi pure molti popolani (Masetti, Pandolfo IV, p. 135). Il successivo 16 dicembre Pandolfaccio cedette la città alla Serenissima.
La congiura del 20 gennaio 1498 era stata capeggiata da Adimario Adimari (giustiziato il successivo 13 febbraio) che agì affiancato dal figlio Nicola (scompare nel 1526). La madre di Nicola è Elisabetta degli Atti, figlia di Antonio fratello di Isotta, la moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesti.
Elisabetta degli Atti aveva sposato Adimario in seconde nozze. Suo primo marito era stato Nicola Agolanti, morto in circostante misteriose il 9 novembre 1468. Quella mattina Nicola va in cerca della moglie per le strade della città, ed incotratala la saluta commosso con un enigmatico addio. La mattina dopo Elisabetta trova Nicola impiccato nella cappellina domestica dove è solita recarsi a pregare (Clementini, II, p. 495).
Questa la sua versione dei fatti. Elisabetta vuole allontanare da Roberto Malatesti, che era il proprio amante, ogni sospetto sulla responsabilità nella morte del marito, e smentire la tesi di un omicidio passionale.
Una sorella di Elisabetta degli Atti, Ludovica, è la prima moglie di Giovani Tingoli (detto Griffone), di professione mercante, a cui dette un figlio, Annibale. Tingoli e gli altri famigliari erano dediti ai rapporti commerciali con la Dalmazia: con naviglio proprio vi trasportavano legname, ferro, vino, grano e farina, traendone bestiame vivo e carni salate (Delucca, Scolca, Atti 6, p. 90).
Giovanni (del fu Benedetto) operava assieme ai fratelli Paolo e Gaspare e con gli eredi del fratello Giuliano.
Giovanni Tingoli discende da una famiglia di cui dovremo occuparci per la storia riminese del XVII secolo. Si legge su di lui una notizia non documentata secondo cui sarebbe stato marito di Alessandra Malatesti figlia di Sigismondo Pandolfo e di madre sine nomine. Di Alessandra sappiamo certamente soltanto che nel 1463 fu «messa in vendita» senza risultato dallo stesso Sigismondo ai nipoti di Pio II (Delvecchio, Donne, 439-440, 706).
La scomparsa di Nicola Agolanti (che ha avuto da Elisabetta una figlia, Violante), avviene a pochissima distanza da quella di Sigismondo (9 ottobre dello stesso 1468). Essa appare come frutto di un delitto politico. Attraverso l'uccisione del marito della amante di Roberto, forse si voleva colpire proprio quest'ultimo destabilizzando la situazione riminese. Come avviene anche con l'uccisione di Sallustio Malatesti nell'agosto di due anni dopo. E con la voce infondata sulla morte violenta di Valerio.
Attorno a Roberto Malatesti si crea una «leggenda negra» che si amplifica fino ad attribuirgli un terzo delitto, presunto come gli altri, che avrebbe avuto per vittima addirittura Isotta, la vedova di Sigismondo.
Ai suoi oppositori conveniva tramare sia con un omicidio politico come quello di Sallustio, sia con le insinuazioni per poter riversare su Roberto accuse che lo avessero reso facile bersaglio di violenze vendicative. Le quali sarebbero state giustificate grazie alla sua mala fama e non dalle sue vere azioni. La «leggenda negra» di Roberto non nasce per caso. Essa gli crea attorno una fama a cui lui stesso ha dato un contributo fondamentale.
Essa lo ripaga del tradimento compiuto nei confronti del papa, quando dopo la morte di Sigismondo si era impegnato a restituire Rimini alla Chiesa. Essa poi riassume il dramma politico di una città che vuole condannare un protagonista della sua vita pubblica mediante l'invenzione di un profilo delinquenziale non riuscendo a far altro per risolvere la crisi istituzionale che la stava travolgendo e che l'avrebbe piegata.
Elisabetta degli Atti (per volere dalla zia Isotta) sposa Adimario Adimari, ma non tronca il legame con Roberto a cui dà un figlio, Troilo, nato nel 1482 pochi mesi prima della scomparsa del padre. Troilo è fratellastro di Pandolfo IV (figlio di Elisabetta Aldobrandini) e fratello uterino del congiurato Nicola Adimari.
Adimario è allontanato da Roberto dalla propria casa e dalla propria moglie. Con il figlio Nicola (nato nel 1472) Adimario se ne va da Rimini, facendovi ritorno nel 1482, dopo la scomparsa del rivale e signore della città.
Roberto nel suo curriculum sentimentale conservò una ferrea fedeltà soltanto al nome di Elisabetta. Oltre alla Aldobrandini e alla degli Atti, ne ebbe una terza, Elisabetta d'Urbino madre di una fanciulla, Battista.
Un riepologo
A questo passaggio del nostro discorso, s'impone un breve riepilogo cronologico.
1468, il 9 novembre è trovato il corpo senza vita di Nicola Agolanti, ad un mese esatto dalla scomparsa di Sigismondo Pandolfo Malatesti (9 ottobre). La moglie di Nicola Agolanti, Elisabetta degli Atti, allontana ogni sospetto di delitto passionale e soprattutto scagiona Roberto Malatesti.
1470, omicidio di Sallustio Malatesti e linciaggio di Giovanni Marcheselli.
1498, esecuzione capitale per Adimario Adimari, cospiratore contro Pandolfo IV, figlio e successore di Roberto.
I puri dati oggettivi della successione temporale degli eventi, sono un arido riassunto rispetto alle lettura della complessa situazione genealogica che lega protagonisti e comprimari di queste vicende. Che ripercorriamo ora tenendo d'occhio appunto tutte le varianti del gioco delle parentele che in quei fatti si offrono alla nostra attenzione.
Gioco delle parentele
Elisabetta degli Atti, vedova di Nicola Agolanti, sposa in seconde nozze il cospiratore Adimario Adimari. Ma Elisabetta è anche madre di Troilo avuto da Roberto Malatesti. Elisabetta è poi nipote ex fratre di Isotta moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesti e matrigna di Roberto, Sallustio e Valerio Malatesti.
Sallustio muore nel 1470 trafitto da una spada. Il colpevole è individuato in Giovanni Marcheselli che è linciato dalla folla. Giovanni Marcheselli è accusato dalla moglie Simona di Barignano il cui padre Giovanni è fratello di Antonia, la madre di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Una sorella di Giovanni Marcheselli, Lena, è la seconda moglie di Giovanni di Barignano, il padre di Simona.
C'è un continuo rincorrersi e rinchiudersi in una specie di cerchio che rappresenta la proiezione psicologica delle mura di una città o di un castello. Mura che non servono a nulla se non a delimitare (e ad esasperare) continue esplosioni di odio.
Questo giro ristretto aggrava situazioni che non hanno sbocchi, come dimostra la storia di Sallustio. Egli s'invaghisce di una giovane di casa Marcheselli. (Scrive Clementini, II, p. 479: che Sallustio «procurava di accasarsi in una sorella di Nicolò e di Giovanni, figliuoli di Lodovico Marcheselli».)
La sua pretesa di avere l'amore che desidera, è respinta nel più classico modo di quanti, abituati alla guerra, non sanno ragionare che con la spada. Giovanni Marcheselli uccide Sallustio. Ma la moglie di Giovanni, Simona di Barignano, gioca il suo ruolo di verità con una deposizione che lo accusa apertamente: «[…] ha confessato como fu morto [Sallustio] in caxa sua, et molte altre cose» (lettera di Malatesta da Fano a Ludovico II Gonzaga, 11.8.1470).
Resta il sospetto che non si sia trattato di un fatto politico tout-court, ma forse di un delitto d'onore, nel senso che non si voleva far entrare un Malatesti nella famiglia Marcheselli.
Simona di Barignano si comporta nel 1470 come farà Violante Aldobrandini nel 1492. A proposito di Violante e del suo “tradimento” (con il denunciare alla sorella quanto a danno del di lei figlio Pandolfo IV stavano tramando il proprio marito Galeotto ed i propri figli), Rosita Copioli ha scritto una pagina illuminante che riguarda un tacito patto politico coinvolgente l'universo delle donne malatestiane: «[…] l'atto sia pur terribile e doloroso della confidenza [di Violante] alla sorella, corrisponde all'alleanza di un sistema femminile che ha in mano le redini dello stato, e che cerca di salvarlo come può, dalle mire di qualunque provenienza» (Agolanti, p. 105).
Quell'atto di delazione corrisponde «a una strategia autodifensiva» che «avrebbe dovuto vincolare Atti, Agolanti, Adimari» sul corpo stesso dello stato malatestiano «incarnato da Roberto», a dieci anni dalla sua morte
Il quadro che abbiamo sinora delineato, è il nocciolo delle questioni politiche che riguardano Rimini tra 1500 e 1600. Ed il modo di governare la città. Le vicende malatestiane portano ad un continuo, progressivo logoramento di quel tessuto della vita pubblica che degenerando in faide personali (come si è detto), ne distruggono la struttura politica. La classe aristocratica ovviamente sopravvive, ma langue.
Una città ed i suoi «barbari»
Tutto ciò che viene da fuori, come gli Ebrei, non sarà ben visto come invece era stato ai tempi dei Malatesti, ma gettato nella categoria del «barbaro», dello straniero da evitare e scacciare. Quando la consapevolezza della crisi economica è razionalmente inserita in un discorso meno superficiale di quello esclusivamente religioso del rifiuto degli Ebrei, allora (1693) le cose cambieranno.
Nel 1693 gli Ebrei chiedono al Consiglio generale di Rimini di essere autorizzati a rivolgersi direttamente al pontefice per poter ottenere di rientrare in città. Da dove erano stati cacciati nel 1615.
Le vicende malatestiane costituiscono dunque gli antefatti di quelle che esamineremo per l'inizio del secolo XVI.

1. 5. NOTE E BIBLIOGRAFIA

Per rendere più semplice la consultazione del testo, abbiamo inserito sommari rinvii bibliografici al suo interno (cfr. infra). Aggiunte e precisazioni di maggior consistenza, le raccogliamo in calce in queste «Note».
Circa il dominio congiunto dei Malatesti dopo il 14 settembre 1429 sulle tre città di Cesena, Fano e Rimini, si vedano i docc. prodotti da Anna Falcioni in Galeotto, pp. 128-130. Il primo (28.09.1430) cita l'intervento al consiglio di Fano di Bartolomeo Tomasini «ex parte magnificorum dominorum nostrorum de Malatestis». Il secondo, sempre relativo a Fano e datato Rimini 17 ottobre 1430, ricorda i «magnifici e potentes domini Galeoctus Rubertus, Sigismundus Pandulfus et Dominicus de Malatestis Arimini».
Sui fatti del maggio 1431, cfr. Falcioni, Politica, p. 142. Cfr. pure Tonini, V, 1, pp. 84-88. Ramberto vive dal 1384 al 1391, suo figlio Giovanni nasce nel 1389 e muore nel 1431. Su Gianciotto, cfr. Tonini, V, 1, pp. 80-81; IV, 1, p. 294. Cfr. tavola II, p. 280 (IV, 1).
Per le notizie su Sallustio detto anche Malatesta, che non era figlio di Isotta (come sostiene Tonini, V, 1, p. 472), ma di Gentile de Ramexinis, cfr. Donne, 2, p. 593 e 701. Talora, come scrive A. Campana (Donne, 2, p. 476) si trova questo Sallustio detto Malatesta confuso con il Malatesta figlio di Isotta morto nel 1458 a nove anni circa.
Sulla questione ebraica in età medievale: «Il IV Concilio Lateranense (1215), convocato da papa Innocenzo III, ordina che gli Ebrei viventi nei paesi cristiani portino come contrassegno una rotella di stoffa gialla cucita sulla parte sinistra del petto. Già nel 600 il Califfo Omar aveva ordinato che tutti i non mussulmani (ossia ebrei ed anche cristiani) viventi nei paesi arabi portassero una pezza di stoffa gialla cucita sul petto o sulla schiena. Ed ora papa Innocenzo III, dopo aver tentato ripetutamente e sempre inutilmente di convertire gli Ebrei, pensò di isolarli imponendo questo contrassegno (che per le donne era un velo giallo, il contrassegno delle meretrici). Il primo paese cristiano che impose agli Ebrei il "segno giudaico", fu l'Inghilterra (1218). In Italia tale disposizione fu adottata in epoche diverse secondo gli Stati; prima ad adottarla fu Venezia: una rotella gialla sostituita in seguito da un cappello giallo».
(Cfr. http://www.morasha.it/ebrei_italia/ebrei_italia02.html.)
Sui rapporti fra i Malatesti ed il mondo dei finanzieri ebraici, cfr. i testi Falcioni in Sigismondo I, pp. 158-161, e in Galeotto Roberto, pp. 127-129. Qui a p. 129 è molto importante il doc. presentato sugli Ebrei che a Fano (1430) «non vogliono prestare» non fidandosi dei Malatesti.
Su Polissena Sforza, si veda il mio testo Il mito di Sigismondo ed Isotta nel 1700. Rivisitazioni letterarie e polemiche sui sepolcri «violati», «La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, La politica e le imprese militari», Ghigi, Rimini 2006, pp. 573-593. Qui è presente pure un altro mio lavoro da cui derivo le notizie circa i rapporti fra papato e Sigismondo Pandolfo Malatesti, Sigismondo, filosofo umanista, pp. 319-339.
Sulla figura e la vicenda di Cleofe, rimando al mio testo Cleofe Malatesti, 1421. Tragiche nozze bizantine, «Civiltà del Mediterraneo», VIII (XIII), 15, Giugno 2009, Roma, pp. 19-45.
Per le notizie dal versante cesenate sulla morte di Novello cfr P. G. Fabbri, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello, ne «La signoria di Malatesta Novello Malatesti (1433-1465)», Rimini 2003 (pp. 29-197), pp. 82-108, 153-154, e docc. pp. 445-446.
Fiera di san Gaudenzio. Sino al 1538 si tiene fuori dalla porta di San Bartolo (cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 251). Tale porta sorgeva verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, il quale apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto «l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo»: cfr. L. TONINI, Rimini dopo il mille, Rimini, 1975, pp. 128-130. Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, ossia nell'antico foro romano, «propter ruinam» dello stesso borgo di San Gaudenzio, provocata dalle ultime guerre con i Malatesti (C. TONINI, ivi). Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 865.
Sulle tre fiere, va detto che in C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 455, talora date e nomi sono riportati erroneamente, rispetto a quanto si trova in due documenti di AP 626, Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera, e del Capitano del Porto della Città di Rimino (post 1625 ed ante 1668), ASRn: il primo è Fiere, e Mercati (1768); il secondo, le già citt. Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera.
Sulla riscoperta della fiera di sant'Antonio sul porto, cfr. M. Moroni, Il porto e la fiera di Rimini in età moderna, «Tra San Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino, Centro Sammarinese di Studi Storici, Università degli Studi, 2001, pp- 43-93, p. 75; A. SERPIERI, Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca, Rimini, Luisè, 2004, p. 71
Circa il documento del 19 giugno 1492, cfr. in Masetti, Pandolfo IV, n. 9, p. 232. L'autore del saggio non ne ricava però nessuna conseguenza per valutare la causa dell'omicidio che Luigi Tonini, V, 1, pp. 413, 494, fa consistere nel disgusto di Raimondo con uno dei nipoti. La tesi di Tonini era accettabile in base agli atti che produce. Ma essa è oggi superata dal testo del 19 giugno 1492, nel quale appunto si vede Galeotto ritornato al prisco incarico di «gubernator».

BIBLIOGRAFIA
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Campana, Isotta, Donne = A. Campana, Isotta degli Atti, ne Le donne di Casa Malatesti, 2, Rimini 2005, pp. 585-604.
Clementini = C. Clementini, Raccolto istorico, I, Simbeni, Rimini 1617; Raccolto istorico II, Rimini 1627.
Copioli, Agolanti = Gli Agolanti e il Castello di Riccione a cura di R. Copioli, Rimini 2003.
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Fabbri, Novello = Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello, ne «La signoria di Malatesta Novello Malatesti (1433-1465)», Rimini 2003.
Falcioni, Galeotto = A. Falcioni, Galeotto I Malatesti, a cura di C. Cardinali e A. Falcioni, Rimini 2002.
Falcioni, Politica = A. Falcioni, La politica militare e diplomatica di Sigismondo…, ne I Malatesti, a cura di A. Falcioni e R. Iotti, Rimini, 2002.
Masetti, Pandolfo IV = La Signoria di Pandolfo IV Malatesti (1482-1528), a cura di G. L. Masetti Zannini e A. Falcioni, Rimini, 2003.
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Tonini = L. Tonini, Storia di Rimini di cui si citano i singoli volumi e relativi tomi dopo il nome dell'autore:Rimini nel secolo XIII, III vol. della Storia civile e sacra riminese, Malvolti ed Ercolani, Rimini 1862; Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1880, IV, 1; Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1880, IV, 2; Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1880, V, 1; Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1882, V, 2.
Tonini, Mille = L. Tonini, Rimini dopo il Mille, Rimini 1975.



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