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il Rimino - Riministoria

Documenti su Giuseppe Antonio Barbari
e la Nuova Scienza in Emilia-Romagna

4. Il «letterato» e la Scienza

4. Il «letterato» e la Scienza

4.a. «Il Giornale de Letterati di Bologna»
Nella pagina intitolata «Sapere e potere», abbiamo inserito un’annotazione finale relativa all’uscita nel 1668 a Bologna de «Il Giornale de Letterati di Bologna», con dedica al riminese Lodovico Tingoli
Il volume, come si è già scritto, contiene i primi otto numeri dell’omonimo «Giornale» romano. Quindi in sostanza non c’è alcuna differenza fra l’edizione apparsa a Bologna e quella presentata nella capitale dello Stato ecclesiastico.
In un prezioso volume, La Biblioteca periodica, apparso nel 1985 presso il Mulino, il saggio di Giorgio Panizza relativo al «Giornale» felsineo, sottolinea la «prontezza con cui Bologna segue la novità appena proposta da Roma all’Italia e all’Europa, nel confronto stretto in particolare con il Journal des Sçavants parigino, ma anche con le Philosophical transactions londinesi» (p. 23).
Panizza, soffermandosi sulla dedica a Tingoli (noto poeta allora, e ricordato ancor oggi nelle storie letterarie), osserva che essa sembra come in contraddizione con lo spirito presente nella redazione romana, la cui attenzione «era tutta tesa al versante scientifico, sia in senso proprio sia in quello di una nuova erudizione storica»: «Il fronte avanzato dell’impegno intellettuale era, insomma, dopo la metà del secolo, ben altro da quello della poesia» (p. 28).
La «casella» della poesia vuota a Roma, è stata «riempita nella Bologna dell’Accademia dei Gelati» (p. 28). In questa ristampa, aggiunge Panizza, si ritrova dunque «una fedeltà in proprio di Bologna al fare poesia, punto da allineare con altri ben noti e non importa ora se più elevati» (p. 29).
Anche se non si «possono tracciare» schemi netti, conclude Panizza, «pare ugualmente chiaro che, sia pure ristampando quello che a Roma è uno degli sforzi più complessi di dar voce alla continuità della scuola galileiana, qui si tratti più della cultura dell’Aldrovandi che di quella di Malpighi e Cassini, per parte loro ben legati direttamente al giornale» romano (p. 29).
In una nota a questa parte, Panizza riporta (per confermare la sua interpretazione), un’osservazione di Angelico Aprosio contenuta in una lettera del 1666, e riferita ad un’ode di Tingoli: lettera in cui si parla di «quelli che pensano veder macchie nel Sole». Tale osservazione, sottolinea Panizza, considera Galileo e seguaci come dei visionari.
Tralasciando la frase di Aprosio che non riguarda l’attività dei Gelati bolognesi nel suo complesso, ci permettiamo soltanto di osservare che nelle Prose di quest’accademia (1671) appaiono anche testi filosofici come quello di Anton Felice Marsili, intitolato Delle sette de’ filosofi e del Genio di Filosofare (pp. 299-318). All’interno della stessa accademia opera un poeta, Giovan Francesco Bonomi (amico di Lodovico Tingoli), che è pure autore del Patrocinio d’Epicuro (1681) il quale testimonia un’attenzione ai problemi non soltanto letterari.
Infine va sottolineato che Anton Felice Marsili nel 1687 tiene a battesimo nella propria abitazione due accademie, una «aperta per le materie ecclesiastiche», l’altra per «le filosofiche sperimentali». Siamo, è vero, a quasi un ventennio dal «Giornale de letterati», ma la scansione cronologica con l’orologio alla mano che s’adatta alle gare sportive e che condiziona il risultato delle stesse, non credo possa adattarsi alla comprensione e valutazione dei fatti culturali che andrebbero visti e spiegati in un arco di tempo ben più ampio della successione (… notarile) di qualche lustro.
Piuttosto è da esaminare la questione perché sia a Roma sia a Bologna, cioè in quell’Italia seicentesca che era soltanto un’espressione geografica non ben delineata oltretutto per ovvi motivi politico-militari, oltre che economici, perché in quell’Italia si preferisse definire le questioni «letterarie» anziché «filosofiche».

4.b. I «Letterati» d’Italia
Il «letterato» del Seicento può essere simboleggiato da Daniello Bartoli (1608-1685), autore dell’Uomodi lettere difeso ed emendato (1645), e vissuto in una solitudine che è l’opposto del senso della comunità (fatta di scambi e comunicazioni) che caratterizza l’«uomo di Scienza». Anzi, è proprio la diffusione delle idee tramite i giornali scientifici, a capovolgere l’immagine del «letterato» ‘solitario’ alla Daniello Bartoli.
Per ciò che riguarda la situazione italiana del Seicento, Carlo Dionisotti (Storia d’Italia, Documenti, V.2, Einaudi, Torino 1973, p. 1391) sottolineava la differenza di comportamento tra «uomini di lettere» da una parte, e scienziati, filosofi e storici dall’altra: soltanto questi ultimi ebbero la capacità «di guardare attentamente a quel che si veniva producendo fuori d’Italia».
E proprio mentre avviene questa divisione fra le due culture, ufficialmente (cioè attraverso i canali istituzionali dei «giornali»), si continua a celebrare la figura del «letterato» che diventa un termine dalla connotazione più vasta di quella originaria (ed ovvia) dell’«uomo di lettere».
Il «letterato» a cui quei giornali si rivolgono è uomo di cultura, di dottrina, di sapere. In lui si concentrano ragioni ed esperienze non limitate soltanto al campo della Letteratura sic et simpliciter. In lui si manifestano interessi e specializzazioni che riguardano oltre che le Arti anche le Scienze, per usare una formula fondamentale in Lodovico Antonio Muratori.
Quando nel 1703 Muratori teorizza pubblicamente la sua «Repubblica letteraria», puntualizza che essa doveva aver per oggetto di perfezionare appunto «le Arti e le Scienze». Quindi, ad un certo punto della nostra Storia culturale, proprio sul finire del sec. XVII, la sensibilità culturale più attenta ai processi innovativi diffusi in Europa (da Inghilterra e Francia), avverte le novità che circolano, ed interpreta in modo nuovo il termine «letterato».
Se nella prima metà del sec. XVII il «letterato» è soltanto il narratore ed il poeta, nella seconda matura lentamente la coscienza che lo stesso «letterato» può (deve?) spaziare nei vari campi del Sapere, come spiega Benedetto Bacchini nel suo «Giornale» parmense del 1686, dove propone un ideale enciclopedico attento a «diverse scienze» e ad «arti distinte».
Questo passo di Bacchini rappresenta idealmente la congiunzione fra quelle che Ezio Raimondi ha chiamato «le ragioni del Settecento» [1] e le esternazioni barocche che rinchiudono l’uomo di Lettere in un circolo (né virtuoso né vizioso, soltanto reale) in cui Marinismo e Classicismo si rincorono creando un vortice che rapisce le cose, le nasconde o le cancella facendo primeggiare l’arguzia sull’evidenza, mascherando nell’abilità tecnica l’esigenza di verità che dovrebbe essere il termine primo ed ultimo dell’«uomo di Lettere» (emendato o da emendare…).
Già in mezzo a queste estenuazioni barocche fiorisce la consapevolezza che la realtà non è soltanto il suo mascheramento poetico, ma è pure quella lucida descrizione matematica che Galileo sintetizza nell’immagine del «libro» dell’universo.
Lo spirito galileiano è stato esaminato da Raimondi [2] anche sotto la particolare angolazione della parola «curiosità».
Cesare Ripa (1625) definisce la «curiosità» come «il desiderio sfrenato di coloro che cercano di sapere più di quello che devono». E Agostino Mascardi (1627, Discorsi morali…) la chiamava «stolta» ponendola in relazione alla vicenda di Adamo e d’Eva, e prefigurando nel peccato originale quello ordinario di chi vuol pascere l’ingegno «con l’esca lusinghiera di scienza disutile».
Sul finire del Seicento e per tutto il Settecento la «curiosità» invece è la molla utilizzata per raggiungere un sapere sul quale punta la sua attenzione sistematica Muratori quando (cfr. Raimondi, ib., p. 141) distingue due tipi di erudizione: quella «oratoria o all’antica» e quella «di gusto moderno, su tipo scientifico», come l’exemplum bacchiniano dimostra. (Sul tema, cfr. la nota 218 della mia Storia dei Lincei riminesi.)
Raimondi conclude la citazione da Muratori con la constatazione che il suo tono «non suona diverso da quello delle pagine del Malpighi, già care al Bacchini» (ib., p. 142).
Il nome di Malpighi ci riporta a quella seconda metà del Seicento in cui la sua lezione scientifica detta nuove regole non soltanto nel campo specialistico della sua ricerca, ma all’intera società culturale, ed al modo d’intendere la figura dell’intellettuale, del «letterato», del filosofo (ib., pp. 138-139).
Raimondi segnala il «baconismo originale e attivo» di Malpighi, quando questi esprime consapevolezza e necessità di una grande accademia moderna che vedesse gli scienziati collaborare tra loro.
Proprio grazie a questo «baconismo» malpighiano e ad altri fondamentali influssi che da Inghilterra e Francia derivano alla nostra cultura, in Italia può nascere e maturare la consapevolezza che il «letterato» è colui il quale non dimentica l’universalità enciclopedica di un sapere che non è più esprimibile nel far versi, scrivere storie, emanare sentenze più adatte a chi parla da un confessionale per perdonare le «colpe» (o presunte tali) di chi vi si accosta.
E questo avviene proprio mentre l’idea di «colpa», come per la «curiosità», trascolora in quella di un merito, di una dote positiva necessaria all’operazione culturale.
Si dovrebbe a questo punto considerare l’aspetto religioso per verificare quanto esso pesi e condizioni l’evoluzione culturale italiana, dalla Controriforma (Concilio di Trento, 1545-1563; Congregazione dell’Indice, 1559), alla condanna di Galileo del 1633…
Ma son cose troppo note per richiamarle, anche se en passant.
Piuttosto merita la segnalazione il fatto che, come sostengono illustri storici, il nostro dramma storico nazionale è quello di non aver avuto una Riforma ma soltanto una Controriforma, che oggi poi in àmbiti cattolici tradizionalistici si ribattezza (si mutano semplicemente i nomi, non la sostanza delle cose) tout-court una Riforma anch’essa.
Da quella Controriforma e dalla nostra divisione politica, nascono tutti i fatti conseguenti che portano alla subordinazione della cultura al potere sia laico sia religioso.
All’Italia è mancata poi una rivoluzione come quella inglese del 1649-1660 che ha permesso lo sviluppo di una Scienza libera con l’abolizione della censura e, soprattutto, dei roghi per eresia.

4.c. I «Letterati» di Roma (e Bologna)
Sul «Giornale» romano (e quindi bolognese di cui stiamo parlando limitatamente al volume dedicato a Tingoli con i nn. 1-8 di quello romano), appaiono recensioni su opere e scritti di Francesco Redi, Geminiano Montanari, Giovanni Alfonso Borelli, Domenico Cassini e Marcello Malpighi.
Sempre per Bologna, si consideri che Geminiano Montanari fa parte dei Gelati (cfr. Memorie imprese e ritratti de’ Signori Accademici Gelati di Bologna, Manolessi 1672, pp. 264-267), e che nelle Prose di quest’accademia (1671), egli pubblica un suo saggio (pp. 369-392).
Infine due citazioni. Riproponiamo la lettera di Malpighi al segretario della Royal Society, Robert Hooke dove si descrive la situazione culturale italiana: «Presso di noi gli studi languiscono tanto che possono trovare conforto con le sole scoperte degli stranieri. Scoperte che ora sia sono rare sia pervengono tanto tardi alle nostre mani che qui gli studi non progrediscono ma sopravvivono a stento» [«Caeterum apud nos ita languent studia ut solis exterorum inventis solamen inveniant haec modo vel rara sunt, vel tam sero ad manus nostras deveniunt ita ut hic literae nullum incrementum capessant, sed vix subistant»: cfr. Correspondence of Marcello Malpighi, London 1975, pp. 850-851, lettera 395]. La denuncia di Malpighi rimanda proprio alla questione che qui abbiamo cercato d’affrontare, cioè il prevalere dei «letterati» sui «filosofi».
La seconda citazione è dal volume Alma Mater Librorum. Nove secoli di editoria bolognese per l’Università (Padova 1988, p. 156), dove si ricorda che, nella seconda metà del Seicento, assistiamo all’«infittirsi degli interessi antiquari, scientifici e letterari», con «sempre più frequenti contatti fra intellettuali, che si riconoscevano come cittadini di una ideale “repubblica delle lettere” sovrannazionale».
Le due citazioni si collegano fra loro. Malpighi stesso avverte la necessità della «ideale “repubblica delle lettere” sovrannazionale». Nel medesimo tempo egli denuncia le difficoltà che l’ambiente italiano presenta perché possa esservi una diffusa adesione ad essa. In questo contesto va inteso l’esperimento bolognese del «Giornale» dedicato a Tingoli: non un rifugiarsi nella «poesia» ma il tentativo di aiutare a mutare il concetto di «letterato» come uomo che vuol sapere di Scienza e di Filosofia anche se non ne è un abituale frequentatore professionale.
Circa i «letterati» bolognesi come Lodovico Tingoli e Giovan Francesco Bonomi e le loro composizioni tutte ispirate alla mitologia (vedi Del parto dell’Orca idee in embrione nella scheda 3. Il patrocinio d’Epicuro), esse meriterebbero un esame critico per verificare se tutto l’armamentario che espongono sia anche una specie di dichiarazione d’impotenza nel contesto politico-culturale in cui operano, oltre che la convinta adesione ad un indirizzo culturale.
Ci soffermiamo soltanto su qualche aspetto del problema. Il classicismo, con il suo carattere esemplare (proposto dagli Umanisti), ha scritto Paolo Rossi, è rifiutato dagli scienziati del Seicento con «toni fortemente polemici» perché esso rappresenta quella cultura libresca contro la quale ci si scaglia arrivando al rifiuto di «ogni e qualunque tradizione» [3].
Nasce così la querelle della supremazia dei moderni rispetto agli antichi. Se il passato è oscuro, si guarda soltanto al futuro [4].
Alessandro Tassoni, in àmbito letterario, nel 1620 con Ingegni antichi e moderni, sostiene (anche in base alle scoperte scientifiche della sua età), la superiorità della cultura moderna su quella dei greci e dei romani. Offre così uno spunto all’Académie française, dove la querelle «si spostò su temi prettamente letterari e si trasformò in un confronto sulla qualità dei poeti classici con quella dei moderni» [5].
Alle liriche di Bonomi e Tingoli s’addice la definizione di quel «barocco estremo» che finisce «con una cattedrale di parole che soltanto palesavano dubbi e mai certezze» [6].
«Cattedrale di parole»: nel contempo s’avanzano le nuove istanze di quanti vogliono costruire i nuovi edifici (oltretutto laici, né politicamente subordinati né teologicamente vincolati) dalla fondamenta, dopo aver fatto tabula rasa (come si è letto nell’esemplare sintesi di Paolo Rossi).
In questo contrasto non risiede una contraddizione insanabile ma il senso dialettico della realtà in divenire che scopre il presente come interrogazione, e non quale certezza sicura su cui fondare il continuo processo di passaggio dall’oggi al domani.
Tingoli e Bonomi esemplificano quelle istanze classicistiche che s’impongono nella fase declinante del barocco [7], e restano a testimoniare il senso del passaggio di cui s’è appena detto, dalla «vecchia» società culturale in crisi a quella nuova in costruzione, più che rappresentare la consapevolezza di un ruolo dominante della stessa «vecchia» società in cui però s’affacciano gli studiosi delle Scienze che parlano un linguaggio tutto diverso.
Possiamo prendere come esempio di convergenza fra le esperienze letterarie e quelle filosofiche, il sonetto che l’arcidiacono Anton Felice Marsili compone in lode di due scritti di Bonomi, il Democritus, seu morales Risus e l’Heraclitus, seu morales Fletus: «D’Eraclito, Signor, l’antico Pianto, / E del Vecchio d’Abdera il noto Riso / Mirai simile al vostro dotto Pianto, / E vidi eguale al vostro nobil Riso. // O quanto allor conobbi il saggio Pianto / Esser sovente unito a incauto Riso; / Che il Riso poi và a terminare in Pianto, / E che il Pianto del Mondo al fine è Riso. // Che son gli scettri, e gli Ostri, e i Regni un Pianto, / Benché apparenza ognor abbian di Riso, / Che Riso è sol d’animo giusto il Pianto. // Che la vita di noi non è, che un Riso, / E un Riso sì, che s’accompagna al Pianto, / Ma lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».
La riflessione teorica del pensatore Bonomi fornisce materia alla poesia (dilettantesca) di un altro pensatore, Marsili. Il giuoco letterario s’intesse di funambolismi per arrivare alla moralità conclusiva (neutra, rattristante ma pur sempre, o anzi ancor più pedagogica) sulla vita dove «lungo è Pianto, e molto brieve il Riso».
Quel sonetto illustra emblematicamente come un fermo-immagine, il lento transito dal «letterato» al «filosofo», con l’arcidiacono che verseggia con la grazia di un poeta qualsiasi, in apparenza lontano dalla gravità del pensatore che affronta altrove i «massimi sistemi».
Percorrendo queste due strade (la lirica ed il saggio filosofico), Marsili testimonia il convivere a Bologna, in quegli anni, di due parti diverse in un dibattito che s’avvia dalle più accese polemiche (Galileo docet), ed approda alle nuove «certezze»: il sapere è continuo interrogarsi, studio delle cose altrettanto nuove, non «certezze» acquisite per sempre, come dimostra Giuseppe Antonio Barbari.
In questo contesto i nuovi (ed innovativi) «Giornali» forniscono ai «letterati» uno specchio in cui potersi scoprire anche «filosofi». Ecco perché tutto l’armamentario poetico che riscontriamo in Bonomi può apparire, come dicevamo, una specie di dichiarazione d’impotenza nel contesto politico-culturale ufficiale, in cui egli opera, oltre che (o addirittura più che) l’adesione ad un preciso indirizzo culturale che volgeva al tramonto.


NOTE AL TESTO
[1] Si tratta di un titolo di sezione del secondo volume dei suoi I sentieri del lettore (il Mulino, Bologna 1994, p. 131).
[2]Ib., p. 66.
[3] Cfr. il saggio di Paolo Rossi, Lo scienziato, in «L’uomo barocco», a cura di Rosario Villari, Laterza, Bari 2001, p. 317.
[4]Ib., pp. 318-319.
[5] Cfr. G. Bellini-G. Mazzoni, Letteratura italiana. Storia, forme, testi. 2.2, Il Seicento e il Settecento, Laterza, Bari 1991, p. 31.
[6] Così osserva Francesco Erspamer nel suo saggio L’età del barocco, in «Manuale di Letteratura italiana. II. Dal Cinquecento alla metà del Settecento» di F. Brioschi e C. Di Girolamo, Bollati Boringhieri, Torino 1994, p.248.
[7] Cfr. nel cit. Bellini-Mazzoni, p. 221.

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